In un contesto “liquido” (Baumann, 2011) le dinamiche evolutive in ambito sociale, politico ed economico sono complesse e talvolta spiazzanti rispetto a modelli di azione consolidati. Si tratta di movimenti che interessano trasversalmente il settore pubblico e privato, che modificano i contesti territoriali (anche dal punto di vista demografico), che ampliano gli orizzonti di azione di imprese ed organizzazioni e che determinano una continua istanza innovativa di tipo proattivo.
Al di là delle corrette critiche in ordine alle generalizzazioni sulle caratteristiche e sul ruolo del non profit (Moro, 2014), spesso gli Enti del Terzo settore si palesano come veri e propri agenti di cambiamento economico-sociale nella misura in cui si dimostrano capaci di intraprendere percorsi di crescita sostenibile, nella continuità dei propri valori generativi. Ciò è particolarmente vero per organizzazioni longeve, che operano sulla scorta di carismi fondativi (laici o religiosi) con mission testimoniali attente all’impatto sociale. Le radici etiche di tali organizzazioni le hanno rese particolarmente sensibili, sin dalla loro origine, a sviluppare processi di interdipendenza con i contesti in cui operano, anche quando il concetto di “impatto” non era formulato.
Tale prospettiva è, tuttavia, messa costantemente in discussione entro scenari competitivi dove le organizzazioni del Terzo settore si confrontano con imprese profit, dovendo scontare la tensione continua tra istanze sociali ed esigenze di efficienza economico-finanziaria (Stubbs, 2018), come accade nei settori sanitari e socioassistenziali ove le risorse del welfare state si concentrano.
Le organizzazioni che erogano servizi sanitari, socio-assistenziali e di cura della fragilità sono sottoposte, dunque, a quattro tensioni: (1) il raggiungimento di una stabile sostenibilità economico-finanziaria che consenta loro di perdurare nel tempo; (2) la necessità di innovare per rispondere efficacemente ai bisogni emergenti di una società in rapido mutamento; (3) la spinta a difendere e promuovere la propria identità e la relativa reputazione; (4) il rispetto dei molteplici vincoli derivanti dalle relazioni con la pubblica amministrazione, intesa sia come regolatore di sistema che come committente dei servizi.
Appare evidente il crescente bisogno di strumenti manageriali professionali per affrontare sfide gestionali quali la complessità del servizio, la competitività dell’ambiente, la burocratizzazione del processo di erogazione dei servizi, l’aumento e l’eterogeneità dei possibili rischi di inefficienza o di eventi avversi, ecc. Queste tensioni convivono con la strutturale capacità di generare, oltre a beni pubblici e beni privati, anche beni relazionali (Gui, 2005), fondamentali per non regredire verso l’isomorfismo istituzionale e funzionale.
Di fronte a queste sfide, solo la consapevolezza di un’interdipendenza etica tra le organizzazioni non profit del medesimo sistema può consentire l’individuazione di soluzioni innovative mediante la valorizzazione ed il rafforzamento della loro propensione relazionale. Lo sviluppo di uno stile manageriale cooperativo – volto a sviluppare rapporti di reciprocità nell’esercizio delle virtù – crea i presupposti per l’ampliamento delle opportunità di collaborazione e la fidelizzazione del “cliente/utente” privilegiando comportamenti etici di sistema rispetto a soluzioni “mercatistiche” nell’approvvigionamento delle competenze necessarie al raggiungimento della sostenibilità.
Il presente contributo si propone di analizzare un case study, per alcuni aspetti, unico nel suo genere (o, quantomeno, pionieristico), focalizzando l’attenzione sulla forma organizzativa del network etico come strumento a supporto delle organizzazioni a movente ideale. L’obiettivo è porre in luce come nel caso analizzato la formula reticolare etica offra occasioni di sviluppo alla managerialità del singolo ente, nonché alla crescita del sistema economico e sociale in cui lo stesso è immerso e preserva dal rischio isomorfico. In particolare, l’articolo è teso a dare evidenza di come il fondamento etico/valoriale del network consenta di ottenere vantaggi di natura economica, gestionale e strategica in un contesto di relazioni fiduciarie che abbattono i rischi (ed i relativi costi) connessi alle asimmetrie informative ed alle dinamiche di transazione contrattuale.
La cura delle fragilità – sia essa fisica, psichica o socioeconomica – può essere considerata senza dubbio un bene pubblico, così come il singolo servizio reso agli utenti può costituire un bene privato passibile di acquisto sul mercato; tuttavia, non è possibile cogliere appieno la complessità dell’attività svolta dalle organizzazioni che si occupano di fragilità senza comprendere la loro ontologica attitudine a produrre beni relazionali, intesi quale oggetto di scambi complessi, dove la relazione interpersonale tra i soggetti è causale e non già causata da una transazione economica (Gui, 2005; Gui, Sudgen, 2005; Becchetti et al., 2010). A livello organizzativo, la dimensione relazionale dell’agire economico è fondativa e il capitale relazionale, ovverosia la sintesi quali-quantitativa delle interazioni poste in atto con una molteplicità di soggetti (Westlund, Nilsson, 2003), diviene risorsa fondamentale per la sostenibilità aziendale. La qualità della rete relazionale costituisce, dunque, elemento cruciale di sviluppo e tale patrimonio intangibile permette di generare durevolmente valore sociale ed economico (Coleman, 1988) e, per funzionare, deve esser e continuamente alimentato dalla fiducia.
Come si avrà modo di approfondire nel prosieguo di questo scritto in relazione al caso in esame, tale rete relazionale si palesa a diversi livelli: anzitutto nell’organizzazione interna tra soci, associati o partecipanti nella definizione degli obiettivi di gestione che devono essere coerenti con il carisma che le anima, per poi estendersi ai rapporti commerciali e/o fiduciari con i diversi portatori di interesse, fino a determinare la morfologia dell’organizzazione stessa.
A livello individuale, la componente fiduciaria delle relazioni impatta sulle motivazioni intrinseche che determinano in modo cruciale la qualità dei servizi alla persona, il clima organizzativo e, indirettamente, anche la capacità di creare valore economico. Tra le motivazioni intrinseche che implementano l’agire individuale ed aziendale, nelle organizzazioni a movente ideale, la gratuità assume un ruolo chiave (Mion, Loza Adaui, 2011; Faldetta, 2011; Grassl, 2012), sopravanzando le finalità auto-interessate (fine di profitto) e gli obiettivi di civil service e spingendo i singoli ad una partecipazione spontanea ai processi aziendali che eccede la misura contrattuale dei loro contributi. Pur non negando che le motivazioni individuali all’azione possano essere connotate dalla gratuità nell’ambito di qualunque impresa, esse divengono fondamentali quando socialità ed economicità si legano nella mission aziendale.
La dimensione individuale delle motivazioni meta-economiche impatta dunque sull’organizzazione e sulla sua performance, ma anche la qualità relazionale consentita o favorita dall’organizzazione impatta sulla performance individuale. In altri termini, i singoli possono essere stimolati – e, in un certo senso, educati – ad una postura virtuosa vivendo un’organizzazione essa stessa virtuosa (Vriens et al., 2018), ovverosia in grado di coltivare “buone” relazioni entro vere e proprie comunità di pratica (MacIntyre, 2007). Nel coltivare la reciprocità relazionale entro comunità coese – ma non per questo chiuse o settarie, in una logica, dunque, prevalentemente di tipo bridging (Putnam, 2000; Coffè, Geys, 2007) – si pongono le condizioni affinché i singoli contribuiscano fattivamente al buon andamento dell’organizzazione, anche quando essa assuma forma propriamente aziendale.
La centralità delle relazioni nell’ambito del fare impresa e, soprattutto, nelle organizzazioni con un forte movente ideale fa sì che anche gli stessi confini tradizionalmente assegnati alla singola azienda possano apparire angusti, in favore di una visione reticolare (Santana et al., 2009). Il concetto di rete diviene esplicativo al di là della sua possibile interpretazione utilitaristica che vede nella stessa semplicemente uno strumento per un migliore perseguimento di interessi particolari. La rete diventa, invece, il paradigma per comprendere le relazioni entro le organizzazioni, tra organizzazioni e con il contesto nel quale operano, sostituendo progressivamente il concetto di scambio (che pure rimane una forma espressiva) con quello di relazione, ampliando la prospettiva di analisi. In tal senso, il capitale sociale è l’alimento della rete e ne promuove le potenzialità (Ceci et al., 2019), soprattutto laddove le dinamiche cooperative – tipiche del network – si esplicano tra organizzazioni a movente ideale come le imprese sociali (Campbell, Sacchetti, 2014).
Il concetto di rete/network – così come quello che ne è fondante, cioè quello di relazione – si presta a molteplici interpretazioni e può fondarsi, nella prassi, su diversi catalizzatori: mutuo interesse, appartenenza geografica o ideologica, portato storico, ecc. Tra i diversi modelli di rete, va rimarcata la nozione di rete etica (ethical network), definibile come un’alleanza sociale in cui l’affiliazione dei membri è basata su un comune framework etico e su un comune movente etico (Vaccaro, 2012). In una rete etica – che deriva dunque da relazioni virtuose e non dal mercato o da rapporti gerarchici – rientrano normalmente tra gli oggetti tipici dello scambio doni o favori e i termini dello scambio non sono puntualmente fondati sulla reciprocità condizionale, come nei contratti commerciali (Adler, Kwon, 2002).
Ciò non significa che l’adesione ad una rete etica non conduca anche all’ottenimento di vantaggi di ordine economico per i soggetti e le organizzazioni che vi partecipano, ma tali benefici non rientrano direttamente nella funzione obiettivo della rete, ma ne sono una sorta di esternalità positiva. Diversamente, il movente primo per la costituzione e per l’adesione alla rete è di ordine etico e tale origine contribuisce positivamente alla realizzazione di organizzazioni che consentono la coltivazione delle virtù individuali e collettive o, se si preferisce, la capacità di porre in atto relazioni virtuose.
Volendo contestualizzare il ragionamento nell’ambito dei servizi sociali e sociosanitari, il modello delle reti etiche si pone, in un certo qual modo, nell’ottica della sussidiarietà circolare (Cotturi, 2003; Moro, 2009; Zamagni, 2016), aiutando le singole organizzazioni nel contestuale raggiungimento di tre obiettivi: la rottura dell’isolamento tipico degli ambienti fortemente competitivi (creati, anche, da una certa modalità di applicazione della sussidiarietà orizzontale da parte dell’Amministrazione Pubblica), la soluzione condivisa delle questioni manageriali più pressanti – e, dunque, anche la capacità di essere generativi nel rispondere alle istanze sociali (Lampugnani, Cappelletti, 2016) – e, non ultimo, il costante rafforzamento dell’idealità che ne ha promosso la nascita e la crescita, che per certi versi è anche il principale motore della relazione stessa (Daniele et al., 2009). La relazionalità sovra-organizzativa, dunque, ha impatti sociali, economici ed etici sulla singola organizzazione e, se ben condotta, anche sulle persone che operano per l’organizzazione stessa.
Per mettere a fuoco le caratteristiche e le potenzialità della formula del network etico, di cui poche evidenze sono riscontrabili in letteratura, si è scelto di percorrere un disegno di ricerca qualitativo mediante uno studio di caso che vuole contribuire alla maturazione della stessa idea di network etico (Eisenhardt, 1989). Il metodo viene applicato nella forma del single case study (Yin, 1981) ad una peculiare esperienza di rete ed è, dunque, teso a rafforzare il modello teorico del network etico, mettendo in luce come alcuni elementi valoriali possano stimolare processi di condivisione e sinergie tali da agevolare il raggiungimento di condizioni di sostenibilità in organizzazioni del Terzo settore. A tal fine, si è scelto un approccio interno nella raccolta dei dati necessari per lo studio del caso, potendo così assumere uno sguardo informato e partecipe al governo dell’organizzazione analizzata. La raccolta delle evidenze è stata effettuata anzitutto con analisi documentale (statuto, atto costitutivo, direttive interne, verbali delle assemblee, ecc.), con osservazioni durante alcuni meeting formali (consigli direttivi ed assemblee) ed informali (riunioni d’equipe, tavoli tecnici, incontri tra manager), con l’interazione con gli organi di governo ed interviste destrutturate.
Inoltre, l’analisi è stata approfondita mediante due livelli di survey (Lee Abbott, McKinney, 2013): è stato somministrato – mediante piattaforma online – un questionario rivolto a 105 manager e quadri intermedi degli enti aderenti, ottenendo un tasso di risposta del 63%. Dopo aver raccolto ed elaborato gli esiti del questionario online, sono state effettuate alcune interviste di approfondimento con alcuni dei rispondenti; nel dettaglio, sono state effettuate 9 interviste semistrutturate. Le evidenze raccolte riguardano sia il giudizio complessivo dei rispondenti sull’adesione al network sia gli elementi caratterizzanti quest’ultimo.
L’associazione ADOA (Associazione Diocesana Opere Assistenziali) di Verona rappresenta un caso esemplare di network etico, sia per le origini che la caratterizzano, sia per le finalità che essa esprime nei documenti istituzionali. L’organizzazione nasce nel 2000, su istanza del Vescovo di Verona, con il fine di far incontrare e promuovere percorsi di collaborazione tra le quattro principali realtà del territorio impegnate nella cura degli anziani non autosufficienti ed ispirate a valori cristiani. Nello Statuto dell’associazione, questa intenzione viene tradotta nell’obiettivo di custodire il patrimonio (economico e meta-economico) degli aderenti, attraverso l’alimentazione di uno spirito cooperativo, nel rispetto dei relativi carismi e delle specifiche linee strategiche.
Attualmente i componenti di questo network sono 37, svolgono attività diversificate nel settore educativo, sanitario, sociale e sociosanitario per la cura della fragilità: cura della diversa abilità fisica o psichica, servizi per anziani non autosufficienti, attività caritative o di utilità sociale (distribuzione alimenti, cura dei senzatetto, prevenzione e contrasto al fenomeno dell’usura, trasporto sociale ecc.). In termini dimensionali e di organizzazione giuridico-formale, la rete si presenta giuridicamente eterogenea, comprendendo 14 associazioni, 11 fondazioni, 3 cooperative sociali, 3 enti ecclesiastici e 6 istituti religiosi.
Aggregando i dati – aggiornati ad aprile 2020 – delle diverse realtà aderenti ad ADOA, emergono dimensioni rilevanti, operando su un territorio diocesano con meno di un milione di abitanti: 25.600 assistiti in varia forma (servizi ambulatoriali, residenziali e semiresidenziali, domiciliari, ecc.), 4.540 dipendenti e circa 1.500 volontari. La somma complessiva di ricavi, entrate e proventi degli enti raggiunge un ammontare complessivo di poco inferiore ai 100 milioni di euro.
Dal punto di vista istituzionale, le storie degli enti associati ad ADOA sono ricche e diversificate: alcuni enti sono nati nel XIX secolo, grazie all’azione sociale di religiosi che nutrivano il desiderio di migliorare la condizione di vita delle persone più fragili all’interno della loro comunità, altre sono state costituite in tempi relativamente più recenti, di pari passo con i bisogni sociali manifestati sui territori e con le novità normative che hanno interessato il settore dei servizi alla persona.
Questa biodiversità storico-morfologica rappresenta un importante stimolo al costante confronto e dialogo tra enti che, partendo da una comune ispirazione etica e condividendo interessi e temi critici, riconoscono nella reciproca diversità una fonte di autentica e virtuosa relazione.
A tal proposito, le fonti documentali e testimoniali sono concordi sul fatto che il comune patrimonio culturale attrae le une verso le altre le realtà aderenti sulla base di un’origine etica o, meglio, spirituale. La visione antropologica cristiana e la sua traduzione in opere sociali costituiscono la ragione ispiratrice di questo network, sia in termini finalistici che connettivi. Tutte le realtà associate, infatti, si riconoscono in questa visione fondativa e reputano tale origine un valore importante per la realizzazione e la continuità della loro attività.
Proprio alla luce delle sfide che il quadro attuale presenta, la prima preoccupazione espressa dai responsabili di ADOA è il mantenimento delle condizioni di sostenibilità dei propri associati, riaggiornando e rimotivando continuamente la connessione tra la mission e la gestione. In quanto organizzazioni eticamente orientate, infatti, gli aderenti ad ADOA non possono prescindere dal mantenimento delle premesse ontologiche su cui si fondano e, allo stesso tempo, sono continuamente stimolate a tradurle in soluzioni gestionali responsabili e sostenibili nel medio-lungo termine. In questo senso, il motto far vivere i valori che è presente in alcuni documenti istituzionali, rappresenta una definizione efficace dell’obiettivo che i singoli enti si sono prefissati di raggiungere assieme. Esso, infatti, si traduce in una costante tensione a rendere vivi i valori spirituali che i fondatori hanno posto come fondamento delle opere, facendo sì che essi impattino sulla capacità generativa delle comunità di riferimento.
Alla luce di questa tensione alla sostenibilità, gli enti aderenti ad ADOA presentano tre sfide gestionali principali: (1) rispondere efficacemente a bisogni in continua evoluzione; (2) rafforzare la managerialità puntando sulle competenze (anziché sui protocolli); (3) rigenerare continuamente la mission (tenendo fede al carisma).
In merito alla prima sfida, le evoluzioni tecnologiche, demografiche e sociali hanno inevitabilmente influito sui bisogni materiali ma, soprattutto, relazionali delle persone e, in particolare, delle persone più fragili ed emarginate. I bisogni emergenti riguardano sempre più aspetti immateriali della vita come ad esempio la solitudine, la mancanza di riferimenti educativi, la difficoltà relazionale e sono aspetti più difficili da rilevare e da trattare, anche quando apparentemente “inglobati” in bisogni tradizionali, come la cura della persona anziana e diversamente abile. D’altra parte, il distanziamento sociale legato all’emergenza da Covid-19 ha mostrato come anche i servizi più strutturati e performanti richiedano un costante aggiornamento nei modi e nei tempi di erogazione. Per fare ciò è necessario avvalersi di competenze ed esperienze plurispecialistiche che, spesso, la singola organizzazione non riesce ad acquisire o a sviluppare, soprattutto in un tempo particolarmente breve come quello delle emergenze sanitarie, con il rischio di non poter più rispettare la propria vocazione originaria sia nel breve che nel medio periodo.
In secondo luogo, l’evoluzione del contesto esterno spinge le organizzazioni ad avviare processi di miglioramento gestionale, capaci di affrontare la crescente dinamicità competitiva dei mercati del Terzo settore. Il continuo “infoltimento” delle prescrizioni normative e la progressiva complessità gestionale delle opere genera criticità e rischi rilevanti che necessitano di prevenzione e corretta gestione. A fronte di ciò, un responsabile processo di aziendalizzazione delle organizzazioni non può essere “importato” mediante adozione di sistemi organizzativi, procedure o protocolli derivanti da altri contesti, ma può essere efficace solo se accompagnato da un adeguato sviluppo di competenze manageriali originatesi nella conoscenza del contesto specifico nel quale operano. Molto spesso, infatti, le responsabilità strategiche ed organizzative degli enti del Terzo settore sono in carico a membri della comunità civile o religiosa di riferimento che non sempre possiedono le competenze necessarie ad affrontare questioni che trascendono la normale gestione e i confortanti confini della comunità locale o di appartenenza.
Infine, la terza questione riguarda la capacità di custodire e rigenerare la propria mission. In un contesto liquido e impoverito da un punto di vista valoriale, il patrimonio etico fondativo rappresenta un capitale imprescindibile, anche come fonte di vantaggio competitivo e come acceleratore di consolidamento relazionale. Tuttavia, l’azione di custodia non può essere passivamente intesa come semplice difesa, ma va continuamente reinterpretata in termini generativi. In effetti, le realtà analizzate sono nate in seno a comunità in cui vi erano stock di capitale spirituale rilevanti che hanno influito positivamente sui loro processi di crescita, condividendo i valori di riferimento e apportando risorse economiche, umane e morali. Il mutato scenario sociale richiede uno sforzo nuovo finalizzato a salvaguardare il carisma fondativo, ricercando nuove forme di condivisione interna e di contaminazione esterna, nella tensione alla risposta a bisogni emergenti. È quanto mai strategico, di conseguenza, comprendere come sia possibile innescare processi di sense-making centrati sulla mission e come si possa continuare a comunicare efficacemente i valori di riferimento in una società diversa dal periodo in cui essi sono stati originariamente condivisi. L’efficacia delle attività educative, sanitarie sociali e sociosanitarie, infatti, dipende in maniera rilevante dalla capacità di prendersi cura delle persone che manifestano i bisogni che si prefiggono di soddisfare. Tali abilità, a loro volta, sono influenzate da processi motivazionali personali su cui molto può influire la capacità generativa della mission condivisa, in misura particolare se essa risulta fondata su basi ontologiche d’ispirazione cristiana.
La qualità etica dell’azione, inoltre, può impattare anche nelle relazioni commerciali e di finanziamento, attraendo l’attenzione di operatori sensibili ai temi sociali e con i quali è più semplice sviluppare rapporti fiduciari di medio-lungo periodo. Esistono, infatti, sempre più operatori finanziari o creditizi che considerano gli aspetti meta-economici, se correttamente esplicitati ed attuati, un fattore di preferenza rilevante nelle loro scelte di investimento, anche per le caratteristiche di stabilità che possono generare nelle organizzazioni che li attuano. Inoltre, molte delle iniziative filantropiche locali e informali sono condizionate dall’effettiva capacità di generare impatti positivi nell’ambito territoriale di riferimento. Anche rispetto a questo tema, la collaborazione con realtà affini da un punto di vista valoriale può rappresentare un valido supporto, sia per la replicabilità diffusa di modelli o iniziative di ciascuno, sia per le opportunità di riflessione e discernimento che il confronto organizzato può stimolare.
Come anticipato, di fronte a queste sfide, la partecipazione al network etico ADOA può rappresentare un aiuto concreto. Esso facilita processi virtuosi come la condivisione di best practices, la collaborazione in alcune attività sperimentali, la coprogettazione di nuovi servizi e la capacità di fare lobbying. Tali relazioni richiedono un’uscita dal proprio auto-interesse, per condividere ambiti di criticità ed elementi di valore.
Il processo cooperativo innescato, essendo inevitabilmente fiduciario, è favorito dall’operare in un contesto contraddistinto da una profonda condivisione dell’approccio valoriale, che in ADOA pervade il metodo di lavoro della rete per diventare uno stile operativo diffuso. A monte delle caratteristiche operative – e per comprendere appieno le dinamiche delle relazioni intra-network –, va posta adeguata attenzione alla stessa natura etica del network ADOA, che si può rintracciare in 4 caratteristiche istituzionali:
In primo luogo, la struttura operativa di ADOA è orientata all’ascolto reciproco per garantire a tutti la possibilità di manifestare esigenze e contribuire al confronto interno con idee e soluzioni. Vi sono, infatti, all’interno dell’organizzazione associativa, diverse aree tematiche corrispondenti alle attività svolte: diversa abilità e psichiatria, anziani e opere di carità. Ognuna di queste aree ha un responsabile che organizza momenti di condivisione ed ascolto, coordina lo scambio di informazioni e buone pratiche e raccoglie i contributi di ciascuno. Per garantire una prossimità anche di natura geografica ed eliminare ogni possibile ostacolo alla partecipazione, il territorio di riferimento di ADOA, sovrapponibile a quello della Diocesi di San Zeno, è poi suddiviso in zone e per ciascuna di esse vi è un referente che – come riportato nella prima direttiva ADOA – svolge il ruolo di “garante dell’ascolto”. Questa struttura di tipo decentrato, sia a livello tematico che geografico, permette una presenza capillare e una buona capacità di recepimento degli stimoli e delle criticità su base territoriale.
Gli input provenienti da questa connessione diffusa vengono poi trattati e approfonditi da gruppi di condivisione e lavoro creati appositamente: i tavoli tecnici. Essi sono quattro e si concentrano sui temi più critici del settore:
A questi tavoli partecipano sia componenti della governance delle organizzazioni associate sia esperti esterni selezionati sulla base delle competenze specifiche e di requisiti fiduciari, che generano occasioni positive di confronto e contaminazione. Il compito assegnato a tali tavoli è duplice: da un lato, essi analizzano le questioni gestionali poste dagli associati al fine di elaborare soluzioni efficaci, mentre, dall’altro lato, propongono essi stessi temi o questioni su cui sviluppare riflessioni condivise.
La struttura decentrata garantisce, inoltre, un supporto diffuso nella gestione delle relazioni più complesse, rispetto alle quali esistono gap rilevanti tra singoli enti e stakeholder esterni. Ad esempio, molti rapporti con i fornitori vengono gestiti a livello centrale, attraverso forme di acquisto condiviso che garantiscono alle organizzazioni condizioni migliorative di prezzo ed elevata qualità dei fattori produttivi. Grazie all’aumento del potere contrattuale ed all’impiego centralizzato di competenze specifiche, infatti, si riescono a generare economie di scala, a costruire relazioni stabili e ad operare scelte più ponderate.
Un’altra importante prerogativa che impatta sull’operatività di ADOA è il rispetto per l’autonomia responsabile di ciascun associato. I documenti istituzionali, infatti, affermano chiaramente che l’associazione ha come scopo principale la difesa dell’autonomia gestionale e patrimoniale di ciascuna organizzazione (art. 3 dello Statuto). Ciò rappresenta una caratteristica importante per un network etico, poiché esclude qualsiasi potenziale attività di controllo o esercizio del potere a livello centrale. La condivisione di valori e le conseguenti azioni di supporto rivolte a ciascun ente aderente non comportano la diminuzione della responsabilità dei singoli organi decisionali. A riprova di ciò, è importante rilevare la natura democratica che caratterizza l’associazione (art. 2 dello Statuto), l’elezione delle cariche di vertice e la totale libertà che ciascun ente ha di partecipare o meno alle singole attività proposte da ADOA.
Infine, le peculiarità istituzionali dell’associazione sono inevitabilmente influenzate dal patrimonio valoriale che ne ha ispirato la costituzione. Il principio di gratuità, in particolare, ha una presenza concreta molto forte all’interno delle modalità operative di ADOA: le cariche associative, ad esempio, sono completamente gratuite e, di fatto, il network non ha un proprio budget, al di fuori delle irrisorie quote versate dagli enti aderenti. Diversamente, il funzionamento del network è fondato sullo scambio gratuito – ed in rapporto di piena reciprocità relazionale – di risorse e professionalità tra realtà aderenti, nella forma della banca del tempo e delle competenze. Secondo tale meccanismo, ogni ente offre supporto agli altri enti nelle aree in cui ha sviluppato particolari competenze interne e la mediazione avviene su base relazionale e non contrattuale, senza, dunque, la necessità di esborso monetario da parte di alcuno degli associati.
Anche nel caso dell’ingresso di nuovi associati, in particolare con riferimento alla categoria dei soci sostenitori, il consiglio direttivo svolge un’attività di discernimento prima di autorizzare l’adesione che si basa su sette criteri di merito: dalla giusta retribuzione di dipendenti e collaboratori al completo versamento delle imposte previsto dalla legge, dalle relazione intessute con il contesto civile e religioso con il quale l’ente richiedente è entrato in contatto, alla positività delle relazioni istituzionali con gli enti già associati, fino alla visione antropologica della cura espressa negli atti sociali e nelle scelte istituzionali e aziendali.
L’analisi compiuta consente un primo apprezzamento degli effetti prodotti dall’azione del network sulla condizione dei singoli enti aderenti, ma anche dell’impatto generato sulle persone coinvolte e sulle comunità di riferimento.
Partendo dall’opinione generale che gli enti (ed i loro responsabili) hanno di ADOA, ciò che emerge in maniera significativa è l’apprezzamento rispetto al ruolo di facilitatrice di sinergie. Le attività di scambio e confronto promosse da ADOA vengono ampiamente apprezzate in termini di impatto generato sulla gestione dei singoli enti. In particolare, la possibilità di condividere buone pratiche e di lavorare assieme a progetti ed attività nuove rappresenta un valido supporto rispetto alle sfide precedentemente approfondite. Inoltre, tale evidenza comprova il fatto che all’interno del network si siano sviluppate delle relazioni capaci di avviare attività di reciproca contaminazione, fenomeno non scontato in altre esperienze di rete.
In secondo luogo, è riconosciuto l’aiuto che ADOA offre nel rapporto con i soggetti esterni; in particolare, i gruppi di acquisto ed il supporto nei rapporti con la pubblica amministrazione sono attività che generano un impatto significativo rispetto alle concrete esigenze gestionali degli associati. Dalle interviste è emerso il ruolo importante di ADOA nel reperire competenze e risorse umane capaci di facilitare la comprensione e l’interpretazione dei sempre più frequenti aggiornamenti normativi che riguardano il settore sociale in cui essi operano.
Ancora, la relazione fiduciaria instauratasi tra singoli enti ed ADOA porta i primi – caratterizzati da una forte identità valoriale – a non temere di comunicare la propria appartenenza al network e, anzi, a reputare che questa appartenenza sia un elemento di valore in quanto ausilio al custodire e far vivere tale identità. Tutto ciò viene interpretato come capacità di migliorare la reputazione esterna non tanto della rete, quanto del singolo ente.
Lo spirito fiduciario che pervade il network etico viene, poi, confermato dal fatto che il rispetto dell’autonomia dei singoli enti – principio costitutivo di ADOA – porta come conseguenza un senso di appartenenza responsabile e volontario. A riprova di ciò, praticamente nessun aderente avverte indebite forme di controllo da parte della Diocesi sulla propria attività, ma si sente tutelato nella propria identità dal fatto di partecipare alla rete.
Passando, poi, all’analisi dei singoli aspetti costitutivi del network che vengono considerati come efficaci rispetto alla vita del singolo ente, emerge anzitutto come l’efficacia dell’azione sussidiaria di ADOA nasca primariamente dagli apporti volontari e gratuiti di ciascun ente aderente, in termini sia di scambio di competenze specifiche, sia di condivisione di esperienze e soluzioni tecniche, facilmente adattabili a contesti eticamente simili. Attraverso esperienze come la banca del tempo e delle professionalità, ciascun ente può donare al network le proprie competenze interne, risorse ed abilità e, quando serve, richiederne al network, senza l’assillo del peso finanziario di tale aiuto. Questo tipo di scambio reciproco avviene con un approccio prettamente operativo che offre soluzioni concrete e realizzabili, evitando inefficienze procedurali, ripetizione di errori già compiuti da altri o possibili incomprensioni.
In effetti, la mission fondativa di ADOA permette ai soci di scambiarsi reciprocamente risorse multiformi in un ambiente “protetto” da un punto di vista relazionale e di guadagnare credibilità agli occhi degli interlocutori esterni, sulla base di principi generativi di fiducia.
Ancora, le dimensioni raggiunte dalla rete influiscono positivamente sul potere contrattuale dei singoli, soprattutto quando gli Enti si presentano di ridotte dimensioni. Svolgendo attività di servizio alla persona, essi si trovano a dover affrontare ambiti relazionali complessi, che inevitabilmente impattano sulle loro condizioni di equilibrio economico sia per quanto riguarda il controllo dei costi che il mantenimento di adeguati centri di ricavo, anche in presenza di occasionali fluttuazioni della domanda.
Alla luce di quanto descritto, risulta evidente come il network etico analizzato dimostri concretamente l’apporto positivo e concreto per i propri aderenti. Tuttavia, la pervasività dell’approccio etico del network nelle relazioni esterne fa sì che l’impatto non si limiti a meri (eppure fondamentali) vantaggi gestionali per gli enti aderenti, ma abbia il potere di contaminare il contesto di riferimento in due sensi: un miglioramento delle relazioni di filiera e la capacità educativa del network. Da una parte, infatti, il network si muove attraverso relazioni fiduciarie che richiedono, anche da parte di altri contraenti esterni, una risposta altrettanto “etica”, che può contribuire – nel medio/lungo periodo – al miglioramento dei mercati di riferimento, anche in termini di capacità di cura delle fragilità (oltreché di correttezza dei rapporti commerciali). Dall’altro lato, il network etico assume un ruolo testimoniale ed una capacità di contaminazione più ampi, facendo sì che – rinvigorito il movente ideale, consolidate le relazioni interne e migliorate le condizioni di sostenibilità dei processi aziendali – gli enti aderenti ritrovino un ruolo generativo per le comunità nelle quali operano e nella società. Basti pensare, a tale riguardo, alla capacità dimostrata dagli enti di ADOA nel consolidare rapporti sociali, nel creare occasioni di lavoro in contesti economicamente deboli e nel prendersi cura di fragilità non prese in carico dal settore pubblico.
Le dinamiche di sistema che interessano le organizzazioni del Terzo settore spingono verso il cambiamento, mentre, dall’altro lato, il portato etico-valoriale delle stesse costituisce un patrimonio aziendale e sociale inalienabile che si può tradurre anche in vantaggio competitivo. Le sfide gestionali, reputazionali e di carisma che il difficile contesto attuale comporta hanno un potenziale duplice effetto: da un lato, possono essere dirompenti e mettere in crisi anche realtà consolidate; dall’altro lato, possono fungere da catalizzatori/acceleratori di innovazione. La sperimentazione di soluzioni innovative per la risposta al bisogno di rinnovamento non può prescindere dal rafforzamento della mission originaria, capace di intercettare e prendersi cura delle fragilità.
L’appartenenza ad un network etico può ragionevolmente rappresentare per le organizzazioni del Terzo settore un’alternativa apprezzabile alla crescita dimensionale tipica delle imprese, ma poco adatta ad enti aventi forma giuridica non profit e che operano in contesti dove la prossimità alla persona e ai suoi molteplici bisogni possono costituire un differenziale di apprezzamento particolarmente rilevante per l’utenza. Operando, infatti, in attività che rispondono a bisogni personali e relazionali, la prossimità rispetto al soggetto fragile è un fattore rilevante di efficacia rispetto alla mission ed al successo aziendale. Inevitabilmente, organizzazioni caratterizzate da grandi dimensioni rischiano di rendere meno fluidi i processi di condivisione della mission e di traduzione della stessa in linee strategiche e operative adeguate alle esigenze del singolo o della comunità. Il rischio legato ad una crescita rilevante è infatti quello di tradurre la qualità dell’outcome del servizio di cura in un’iper-produzione di protocolli e procedure che standardizzino ed irrigidiscano i processi di erogazione del servizio. Tale tendenza, sviluppatasi soprattutto negli ultimi anni con l’avvento delle certificazioni aziendali internazionali, se da una parte consente un maggiore controllo dei rischi aziendali e dell’impiego delle risorse, esigenza tipica del comparto di produzione di beni, dall’altra rischia – se non adattata e rimodulata – di rendere inefficaci ed antieconomiche realtà eticamente orientate all’erogazione di un servizio attento e premuroso alla persona.
Le contingenze pratiche che stimolano i processi di crescita – ossia la necessità di maggior potere contrattuale, le sfide competitive, la ricerca di competenze specifiche e adeguate, la formulazione di nuove soluzioni operative – fungono da catalizzatori di interesse e raggiungono la loro massima efficacia attraverso le funzionalità tipiche della rete. Proprio per questo, è interessante osservare come passare da un management gerarchico ad un management di “linea”, partendo da problemi concreti e sviluppando relazioni di prossimità tra gli enti per poi sviluppare un pensiero forte sul perché e sul per chi si agisce, abbia rappresentato, nel caso analizzato, la chiave di volta per rendere pienamente operativa una rete dopo tredici anni dalla sua costituzione formale. Altro elemento determinante per la nascita e lo sviluppo di un network etico efficace è stata l’intuizione di evolvere la struttura della rete ampliando l’orizzonte delle fragilità di cui prendersi cura, consentendo un crescente apporto valoriale da parte di enti diversi per dimensione, struttura, risorse e mission, ma non per identità.
D’altro canto, aprendosi ad esperienze di condivisione con realtà affini, come è emerso dall’analisi del caso studio, le aziende riescono a strutturare opportunità di impatto e a sviluppare attività innovative che difficilmente sarebbero potute nascere dal contributo di un singolo soggetto inserito in un contesto puramente competitivo. Ciò perché, in una logica di cooperazione, vengono messe in comune risorse e competenze che arricchiscono le proposte elaborate dagli interessati, garantendo impatti diffusi e rilevanti. Inoltre, la logica cooperativa, rispetto a quella puramente competitiva, applicata all’ambito delle attività tipiche del Terzo settore, risulta essere più adeguata rispetto ai tempi di evoluzione organizzativa e alle peculiarità multiformi che compongono la qualità di un servizio.
Risulta evidente come la nascita di un network etico necessiti di una pluralità di condizioni che non è facile riscontrare in tutti i contesti. L’esistenza di un patrimonio valoriale condiviso, la comunanza delle attività svolte (nel caso descritto, la cura delle fragilità), l’intenzione diffusa di avviare processi di collaborazione e l’insediamento in un ambito geografico relativamente uniforme sono caratteristiche che impattano sulla validità delle riflessioni fin qui elaborate. Il contesto diocesano si palesa, ovviamente, come terreno fertile – in termini anche di matrice ideale condivisa – per lo sviluppo di fenomeni reticolari come quelle descritto.
Detto ciò, risulterà interessante – anche nel prosieguo dei percorsi di ricerca – riflettere sulla replicabilità di un’esperienza come quella analizzata in contesti differenti o mancanti di una delle caratteristiche individuate, nonché sulle determinanti che ne possono promuovere lo sviluppo.
Ad esempio, può essere interessante domandarsi se una marcata disomogeneità di natura geografica o relativa al settore di attività dei membri coinvolti possa frenare la costituzione di network etici o modificarne le logiche operative. In presenza di tali disomogeneità, il ruolo assunto dal network – almeno in una fase iniziale della sua esistenza – potrebbe evolvere rispetto a quanto sopra descritto, sviluppando i medesimi processi per scopi ed obiettivi anche più specifici. La preoccupazione rispetto alla custodia della propria mission e alla capacità di rigenerarla continuamente nell’attività operativa rimane, in ogni caso, peculiare e condivisa all’interno della rete, vieppiù se si tratta di una rete di enti connessi dal punto di vista valoriale oltre che dal comune destino di vedere i propri consigli nominati da decisori aventi la medesima matrice ideale.
La riflessione sulle relazioni reticolari eticamente fondate, inoltre, costituisce un’occasione per esplorare nuove vie di rinnovamento del Terzo settore alla luce del percorso evolutivo in corso del welfare.
In tal senso, la rete appare uno strumento funzionale alla sussidiarietà circolare, capace di generare efficienza basando le relazioni prioritariamente sulla fiducia anziché su un’incessante contrattazione. Nondimeno, non va dimenticata la sfida relativa alla forma da attribuire ai network, che deve conciliare l’operatività autonoma del network e la sua riconoscibilità esterna, con la necessaria flessibilità di strutture non burocratiche.
Lo sviluppo di esperienze di network etico, dunque, possono avere ripercussioni tanto sul piano teorico quanto su quello manageriale e, non ultimo, sul piano sociale e politico. In questo senso, il valore – e l’impatto – del network etico va visto anche al di fuori dei confini della rete stessa, in termini di capacità di contaminazione valoriale come agente di cambiamento sociale e culturale. Il connubio tra sostenibilità ed impronta etica ha, infatti, le potenzialità per coltivare generatività sociale, rinvigorendo le relazioni di fraternità e mettendo in discussione modelli sociali ed economici spiccatamente mercatistici o statalisti.
DOI: 10.7425/IS.2020.03.05
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