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Numero 3 / 2020

Saggi

Innovazione, sfide sociali e protagonismo dell’imprenditoria ad impatto: un ripensamento degli ecosistemi d’innovazione per una nuova generazione di politiche

Mario Calderini, Francesco Gerli

Introduzione: l’innovazione alla prova delle 'grand-challenges' e l’impresa a impatto

La pandemia globale del virus Covid-19 e la crisi, dalla forte caratterizzazione sistemica, che essa ha generato costituiscono una delle grandi sfide sociali ed ambientali con cui anche le politiche dell’innovazione e della tecnologia sono chiamate a confrontarsi. L’orientamento dei processi e delle policy innovative alla soluzione di quelle che sono state comunemente definite in letteratura (Coenen et al., 2015; Kuhlmann, Rip, 2018) come grand-challenges (grandi sfide) appare ancor di più un imperativo urgente nel contesto contemporaneo post-pandemico.

Le politiche d’innovazione grand-challenges-oriented costituiscono infatti un’evoluzione su vasta scala di quelle definite da Mariana Mazzucato come mission-oriented (Mazzucato, 2015). All’interno di tali policy – che hanno influenzato il dibattito sulle politiche d’innovazione a livello europeo degli ultimi anni – l’attore pubblico assume un ruolo attivo e strategico nell’orientare i processi che sono alla base della crescita economica dei Paesi. Non da ultimo, è possibile rintracciare tale prospettiva come humus sottostante al pacchetto di misure proposte come European Recovery Fund, lanciato dalla Commissione Europea nel 2020 a seguito dell’emergenza Coronavirus. Il Recovery Plan CE prevede infatti una serie di vincoli ecologici sull’investimento pubblico, con il 25% di tutti i finanziamenti destinati all’azione per il clima. L’intero piano di risanamento appare infatti esplicitamente “orientato” verso lo stimolo a una transizione verde, oltre che digitale, in una prospettiva definita dalla stessa Commissione come “transizione giusta”[1].

L’approccio mission-oriented vede inoltre l’innovazione come un processo ontologicamente politico e sociale; così la direzionalità delle politiche dell’innovazione si fa strumento più generale di orientamento e di gestione della politica industriale tutta e della crescita economica, in mano all’attore pubblico.

In questa prospettiva, l’orizzonte delle politiche grand-challenges-oriented appare ancora più vasto del mero orientamento ad uno specifico obiettivo direzionale tecnologico, tipico delle missioni tecno-scientifiche.

Come ben sottolineato da Coenen et. al (2015) i paradigmi di innovazione grand-challenges-oriented richiedono un cambiamento ed un orientamento sistemico verso la risoluzione delle sfide socio-ambientali, collocandosi appieno in un orizzonte di politiche d’innovazione trasformative, che coinvolgono, unitamente ad innovazione tecnologiche e scientifiche, anche nuove pratiche, nuove regole, istituzioni, strutture organizzative ed altri componenti di sistema che siano in grado di supportare cambiamenti di vasta scala.

Se infatti le tipiche missioni, caratterizzanti le politiche d’innovazione come furono lo storico sviluppo dell’Apollo o del Manhattan Project nel campo aerospaziale statunitense, poggiano su terminologia ed obiettivi prettamente tecnologici, gli approcci challenges-oriented sono meno strumentali e si riferiscono a obiettivi più aperti ed open-ended. Non basta trovare soluzioni tecnologiche per rimuovere la plastica dagli oceani, quanto piuttosto occorre adottare approcci, vasti, tipici anche di paradigmi come quelli open innovation, per giungere ad avere vere e proprie modalità nuove per produrre meno rifiuti.

Nelle politiche d’innovazione orientate alle grand-challenges il determinismo tecnologico (Weber, Rohracher, 2012; Ghazinoory et al., 2020) tipico delle missioni scientifiche, seppur orientate a uno specifico obiettivo, non è sufficiente. È necessaria infatti un’integrazione al determinismo scientifico e tecnologico di elementi tipici di quel costruttivismo sociale che fonda invece i modelli e la tradizione delle configurazioni sociotecniche (Geels, 2005).

È in questa prospettiva di cambiamento sistemico, dettato dall’orientamento alle sfide socio-ambientali e imposto altresì dalla crisi pandemica, che è auspicabile un adeguamento delle forme organizzative ed imprenditoriali che costituiscono il substrato necessario all’innovazione.

Se, come già sottolineava nella sua visione di capitalismo dinamico Joseph Schumpeter (Steyaert, Hjorth, 2008), non può esserci vero imprenditore che non sia anche un vero innovatore, non può esserci nemmeno cambiamento paradigmatico all’interno del sistema capitalistico senza una distruzione creatrice di forme istituzionali preesistenti. Per avere innovazione e progresso scientifico orientati alla risoluzione delle grandi sfide socio-ambientali non è superfluo né fuori luogo un richiamo alla necessità di uno sviluppo di forme imprenditoriali che siano ontologicamente anch’esse orientate a tali grandi sfide, alla generazione intenzionale di un impatto sociale ed ambientale: l’impresa e solo l’impresa permane infatti come il locus principe dell’applicazione e dell’operatività stessa delle politiche di innovazione.

Non è un caso che Ghazinoory et al. (2020) in un recente studio sulla problem-oriented innovation sottolineino quanto lo sviluppo di forme di imprenditorialità sociale, tecnologicamente avanzata, costituisca uno degli outcome veri e propri dei sistemi di innovazione orientati alla risoluzione delle grandi sfide e degli impatti. Le politiche stesse dell’innovazione non possono prescindere dall’obiettivo di creare forme imprenditoriali di questo genere.

In letteratura non mancano richiami in questa direzione da parte di chi (Markman et al., 2019) sottolinea che lo sviluppo, anche da un punto di vista delle policy, di una generazione di impact entrepreneurship – un nuovo genere imprenditoriale che oltrepassi i confini tra profit e non profit, unendo imprenditorialità sociale, ambientale e sostenibile – possa costituire la via maestra per la risoluzione in un’economia di mercato delle grand-challenges socio-ambientali attraverso lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi .

Più in concreto, il concetto di imprenditoria a impatto espresso da Markman et al. (2019) sintetizza una vasta gamma di forme istituzionali d’impresa eterogenee, ma accomunate dall’intenzionale genere un impatto sociale ed ambientale. Tali forme di purposeful entrepreneurship possono identificarsi nel Terzo settore imprenditoriale, nelle forme di impresa sociale ex lege, ma anche in ibridi come le società benefit (benefit corporations) e B corp, per giungere a quelle forme pienamente for profit che mostrino strategie di responsabilità sociale d’impresa particolarmente avanzate.

In questo senso, l’approccio di impact entrepreneurship appare storicamente coerente – in linea con alcune tra le prospettive anglosassoni – al concetto di imprenditoria sociale. Secondo Anderson e Dees (2006), Dees (2012), Doherty et al. (2014) il carattere di imprenditorialità sociale non si fonda tanto sull’assunzione da parte delle imprese di specifiche forme organizzative (ad esempio con limiti di “profit lock”), quanto piuttosto sull’esplicito e intenzionale orientamento alla realizzazione di risultati sociali e ambientali.

Così secondo Markman et al. (2019) l’impact entrepreneurship si identifica nella realizzazione non occasionale, ma intenzionale di "applicazioni e soluzioni che affrontino collettivamente grandi sfide per rendere il mondo migliore" (Markman et al., 2019 - p. 3).

L'elemento intenzionalmente ad impatto dell’impact entrepreneurship può essere anche esplicitato negli statuti e nelle mission delle imprese stesse (Mair, Nobba, 2006; Germak, Robinson, 2014).

Inoltre, un ulteriore elemento caratterizzante l’impact entrepreneurship può essere letto nella caratteristica misurabilità degli impatti sociali e ambientali generati come ben dimostrato, tra gli altri, da Nicholls (2005) e Robinson (2006), riferendosi all’impresa sociale.

Questo saggio discute sinteticamente il potenziale di una nuova generazione di politiche d’innovazione trasformative e orientate che puntino sullo sviluppo tecnologico e innovativo di forme imprenditoriali rientranti appieno nella categoria di imprenditoria ad impatto (impact entrepreneurship), a partire dalla rete delle imprese sociali presente nei territori, concentrandosi in particolare sulla validità della costruzione di ecosistemi d’innovazione territoriali tesi alla generazione d’impatto sociale come unità d’analisi e strumento d’azione per sostanziare tale approccio.

Tale contribuito può quindi essere utile a policymaker, imprenditori sociali e non, per meglio comprendere i processi di governance e di guidance necessari allo sviluppo di tale nuova generazione di politiche.

Fallimenti, ‘grand-challenges’ e una sfida aggiuntiva: la direzione territoriale per l’innovazione

Nel contesto delle economie occidentali basate in misura crescente sulla conoscenza, la creatività e l’innovazione come asset chiave per la crescita economica, i sistemi di innovazione territoriali, nazionali e regionali – definiti da Lundvall (1988) come “i flussi organizzati di tecnologia, conoscenza e informazione tra imprese, persone e cittadini” (p. 225), che sono stati alla base di paradigmi di policy di innovazione nel contesto europeo – hanno non di rado mostrato una serie di fallimenti che non si limitano soltanto alle variabili più tradizionali, riferibili all’incapacità dei sistemi di innovazione di migliorare le performance innovative dei territori in termini di brevetti o di produttività scientifica. Al contrario, le politiche di innovazione che esclusivamente poggiano sui sistemi di innovazione territoriali hanno sovente fallito nella loro identità e capacità trasformativa nei e dei contesti sociali, ambientali e territoriali in cui erano collocate.

In un’ottica di definire nuovi paradigmi e policy trasformative, Weber e Rohracher (2012) in un celebre studio propongono un framework teorico complessivo che individua i fallimenti dei sistemi d’innovazione, identificando in questa prospettiva due possibili macro-cluster di fallimenti: tradizionali e trasformativi.

I fallimenti tradizionali dei sistemi di innovazione sono riconducibili a fallimenti di tipo infrastrutturale: mancanza di infrastrutture fisiche e intensive di conoscenza; fallimenti “di capacità” che si esplicitano nell’assenza e nell’incapacità di fornire competenze e risorse appropriate agli attori territoriali e alle imprese, spesso indebolendo o complicando i processi di trasferimento della conoscenza e della tecnologia. Vi sono poi fallimenti legati alle reti e ai network tra gli attori che impediscono la diffusione di nuove idee e della creatività. Infine, è possibile identificare anche i fallimenti istituzionali, legati a carenze nel contesto istituzionale hard e soft, a partire dagli incentivi per giungere ai brevetti.

Tra i fallimenti tradizionali delle politiche di innovazione è possibile citare diverse esperienze italiane, come quella di “Industria 2015”, lanciata dall’allora Ministro Bersani con 800 milioni per l’innovazione, 303 progetti presentati e solo 3 che sono arrivati in fondo: un’esperienza fallita istituzionalmente e principalmente per l’assenza di un contesto e di attori istituzionali adeguati, a partire dalla mai nata Agenzia per la diffusione delle tecnologie, che ha reso la stessa erogazione dei fondi farraginosa e complessa.

Accanto a questo cluster si possono individuare fallimenti riconducibili all’identità sociale e trasformativa dei sistemi e delle politiche di innovazione. In questo senso, si può assistere a fallimenti direzionali, ovvero all’incapacità dei sistemi di innovazione di promuovere attività innovative che stimolino un cambiamento trasformativo ben direzionato, atto appunto alla risoluzione delle sfide socio-ambientali. Tali fallimenti si estrinsecano anche nell’inabilità di identificare i principali problemi della società o le sfide stesse, quei wicked problems cui devono essere apportate soluzioni innovative.

Si aggiungono poi i fallimenti legati all’articolazione della domanda, che si concretizzano in un deficit dei sistemi di innovazione nella loro capacità di anticipare e conoscere le esigenze e i bisogni degli utenti e delle cittadinanze, indebolendo così la capacità di risposta delle policy alle sfide socio-ambientali.

I sistemi di innovazione possono fallire poi nel coordinamento e nell’integrazione tra aree e azioni di policy differenti, rendendo i processi di innovazione e scientifici isolati rispetto ad altre azioni politiche fondamentali. Infine, un sistema di innovazione può fallire nella sua “riflessività” ovvero nella sua capacità di monitoraggio rispetto ai propri progressi verso gli obiettivi “trasformativi”, di risposta a quelle grandi sfide socio-ambientali e allo sviluppo di conseguenti strategie di adattamento e miglioramento.

Così, tra i le esperienze tristemente esemplari di fallimenti trasformativi e direzionali di politiche dell’innovazione è possibile ripensare ai cluster per le biotecnologie nel contesto lombardo (Breschi et al., 2003; Gilding et al., 2020), falliti per il gap di competenze esistente tra le poche imprese bio-tech presenti nei nuovi cluster e il resto della rete industriale, economica ma anche sanitaria ed istituzionale, rendendo i cluster incapaci di identificare le domande espresse dal sistema economico e sociale presente nei territori. Se da un lato si evidenzia un fallimento sul lato della domanda, d’altro canto i cluster sono falliti per l’assenza di strutture capaci di canalizzare e valorizzare la conoscenza prodotta all’interno dei cluster stessi e renderla disponibile per il territorio e la società lombarde, per un deficit di inclusività.

È in questo senso infatti che, da una lettura delle geografie socioeconomiche contemporanee, è possibile individuare un ulteriore limite legato alle capacità e all’identità trasformativa dei sistemi d’innovazione; tale limite risiede nell’incapacità di questi sistemi di essere sufficientemente flessibili per adattarsi alle risorse ed alle capacità specifiche dei diversi territori. La capacità dei sistemi di innovazione di fare leva su risorse di luogo, univoche e per questo non tradizionali, ma presenti nei diversi territori costituisce sovente l’unica strada per garantire opportunità di sviluppo imprenditoriale e di innovazione anche a territori caratterizzati da processi di de-industrializzazione e da un debole sviluppo economico, come mostrato recentemente dalla stessa Commissione Europea (European Commission, 2020, capitolo 12).

La scarsa place-basedness e la neutralità alle specifiche dei luoghi, come definita da Barca et al. (2012), Iammarino et al. (2019), dei sistemi e delle politiche di innovazione, rappresenta così al contempo un fallimento e una sfida aggiuntiva agli approcci tradizionali rispetto a quelli già enumerate da Weber e Rohracher (2012).

A questo proposito, come ben sottolineato da Prodi (2017) tutta l’esperienza dei parchi scientifici italiani rivela una scarsa integrazione nel tessuto sociale ed economico dei territori. I parchi scientifici si sono infatti sovente presentati come macro-operazioni immobiliari di rigenerazione di aree post-industriali dimesse, di conseguenza altamente localizzate. Se tali esperienze si sono spesso rivelate utili per l’insediamento di imprese e start up nelle stesse aree, la capacità di impatto nei territori e nella performance d’innovazione di questi ultimi è rimasta scarsa e sterile, incapace di generare strategie durature di sviluppo territoriale per i luoghi interessati. Per questo Prodi (2017) auspica la creazione di reticoli intensivi di conoscenza e tecnologia nei diversi territori rispetto ad esperienze localizzate e standardizzate indipendenti dai contesti locali in cui esse si trovano, e suggerisce di partire da policy che guardino in primis al tessuto imprenditoriale pre-insediato e già diffuso nelle aree.

Persino le stesse politiche di coesione europee, come ben mostrato da Pellegrini e Tortorella (2018) in uno studio per il Senato della Repubblica, non hanno tenuto sufficientemente conto della complessità del capitale territoriale che è presente nei territori e che è in grado di cambiare l’efficacia delle stesse politiche coesive. Il capitale territoriale si presenta così come un fattore di eterogeneità riguardante le caratteristiche strutturali, di natura economica, ma anche culturale, sociale e ambientale di ogni regione, e in particolare la dotazione di fattori, fisici e umani, e la loro interazione.

Data la complessità poliedrica del concetto stesso di capitale territoriale si spiega quanto il requisito place-based richiesto delle politiche d’innovazione si leghi quindi strettamente all’orientamento trasformativo delle policy grand-challenges-oriented e richieda un profondo mutamento degli approcci e degli attori da coinvolgere.

Come sottolineato da Coenen et al. (2015), vale la pena evidenziare che l’orientamento alle grand-challenges richiede quel mix aperto di innovazione tecnologica e sociale, capace di coinvolgere costellazioni di nuovi attori per generare cambiamento.

In questo senso la necessità di oltrepassare soluzioni meramente deterministico-tecnologiche quando si affrontano le grandi sfide pone anche in primo piano il valore delle prospettive geografiche e territoriali all’interno dei processi di policymaking: il ruolo svolto dagli attori sociali e politici place-based presenti e caratterizzanti i territori, all’interno del processo trasformativo di innovazione viene naturalmente riconosciuto come primario anche nei processi d’innovazione.

Approcci teorici per ecosistemi d’innovazione orientati all’impatto

È a partire da questo quadro d’insieme che lo sviluppo di politiche dell’innovazione, che vedano la centralità di forme imprenditoriali orientate all’impatto (impact entrepreneurship), appare, almeno a livello teorico, come in grado di offrire una risposta integrata e di sistema sia ai fallimenti dei sistemi di innovazione elencati da Weber e Rohracher (2012) che al contempo alla place-neutrality (Barca et al., 2012) di questi ultimi.

Le forme imprenditoriali ad impatto che in un’unica prospettiva trasversale raggruppano forme di imprenditorialità sociale, ambientale e sostenibile, uniscono ibridamente al loro interno una componente prettamente imprenditoriale ed una orientata all’impatto socio-ambientale.

Adottando una prospettiva neo-schumpeteriana, come già sottolineato da Tapsel e Woods (2010) in relazione alle imprese sociali, la componente prettamente imprenditoriale delle imprese a impatto rende queste ultime capaci di innovare, di fornire risposte creative e ricombinatorie in quegli empty spaces che sono da intendere anche come territori lasciati liberi da forme imprenditoriali meramente commerciali o profit-oriented, connotando la propria operatività da un addizionalità di rischio, anche geografico.

D’altro canto, l’intenzionalità dell’impatto e l’orientamento stesso all’impatto endogeno e caratterizzante queste forme imprenditoriali costituisce un fondamento per paradigmi d’innovazione già orientati anch’essi verso le sfide socio-ambientali, verso quello che potrebbe essere definito un vero e proprio approccio di impact innovation.

In questa prospettiva è possibile analizzare il ruolo della creazione di ecosistemi di innovazione centrati su tali forme imprenditoriali ad impatto come una delle possibili politiche di innovazione trasformative, in grado di rispondere alle sfide socio-ambientali (grand-challenges-oriented).

Lo sviluppo di una pluralità di ecosistemi di innovazione (Adner, Kapoor, 2010; Oh et al., 2016) territoriali è considerato come una policy dall’ampio respiro e consiste nella creazione di milieu innovativi che includano in un network di spillover e relazioni dinamiche imprenditori, investitori, ricercatori, università, organizzazioni della società civile e istituzioni. Lo sviluppo di ecosistemi appare così come un solido approccio micro e meso-fondato per forgiare e modellizzare sistemi di innovazione territoriali di dimensione più macro.

Diercks et al. (2019) analizzano infatti la creazione di ecosistemi di innovazioni tra le opzioni chiave per politiche di innovazione trasformativa unitamente ad altri tre macro-cluster di policy:

  • politiche e finanziamenti mirati per il supporto agli avanzamenti tecno-scientifici tramite finanziamenti R&D;
  • politiche mission-driven di supporto a vasti programmi scientifici e tecnologici pluri-iniziativa;
  • politiche open-ended, di vasta scala, fondate su paradigmi di open innovation che includono un’ampia varietà di attori e modalità di innovazione per risolvere una o più open-challenges.

Questi macro-cluster di policy, individuati da Diercks et al. (2019), differiscono tra di loro principalmente per due variabili: da un lato si differenziano in base all’orientamento dominante presente nella propria policy agenda, che può essere maggiormente “sociale” o maggiormente “economica”. D’altro canto, le policy si distinguono in base alla tipologia di concettualizzazione del processo di innovazione presente all’interno della policy stessa: il processo d’innovazione può essere infatti inteso come più o meno complesso e plurifase oltre che più o meno composito o arricchito da una pluralità più o meno vasta di attori.

Secondo Diercks et al. (2019) la creazione di ecosistemi di innovazione, seppur in una prospettiva di policy trasformativa, si colloca in un panorama di policy agenda di tipo primariamente economico, ma fondato su una concezione sufficientemente vasta del processo innovativo. La numerosità e l’eterogeneità degli attori all’interno degli ecosistemi di innovazione consente infatti di mantenere una prospettiva plurale e composita sul processo di innovazione.

Se quindi per Diercks et al. (2019), gli ecosistemi di innovazione hanno una vocazione primariamente economica, tesa ad esempio a migliorare la competitività industriale di un territorio, l’inclusione di forme imprenditoriali orientate all’impatto, a partire dalle imprese sociali, all’interno di ecosistemi d’innovazione appare tuttavia in grado di costituire un elemento capace di traslare l’orientamento dell’agenda di policy stessa verso una serie di obiettivi crescentemente ibridi, non più solo economici, ma anche maggiormente sociali.

La crescente ibridazione degli obiettivi di policy tra aspetti economici, sociali ed ambientali è coerente, non da ultimo, con la nuova generazione di politiche europee che ricade sotto il programma Horizon 2021-2027, che nel suo secondo pilastro unisce l’obiettivo di migliorare la competitività industriale europea alla risposta alle grandi sfide ambientali e sociali: dalla salute, al cibo, alla cultura, creatività e società inclusive per arrivare allo sviluppo delle politiche sociali e capaci di rafforzare la società civile.

L’ibridazione in direzione socio-ambientale del valore generato dagli ecosistemi d’innovazione, grazie a una nuova centralità di forme di impact entrepreneurship, può poi rendere gli ecosistemi stessi vettori di sviluppo socioeconomico inclusivo per i territori dove questi sono localizzati.

Inoltre l’inserimento di forme imprenditoriali ad impatto negli ecosistemi di innovazione, che vedano altresì la presenza al loro interno di attori tradizionalmente intensivi di conoscenza e tecnologia come università e centri di ricerca, potrebbe contribuire nel complesso al superamento di quei cluster di fallimenti dei sistemi di innovazione analizzati da Weber e Rohracher (2012) sia come parte dei fallimenti tradizionali che di quelli trasformativi.

L’attivazione all’interno degli ecosistemi di processi di trasferimento tecnologico e di conoscenza verso forme imprenditoriali ad impatto (impresa sociale, sostenibile, ambientale) può poi contribuire a rafforzare i sistemi di innovazione territoriali dal punto di vista dei fallimenti tradizionali, rendendo maggiormente intensive di tecnologia e conoscenza tali forme imprenditoriali, così diffuse ma spesso lontane dal mondo hi-tech e knowledge-intensive (si pensi al mondo del Terzo settore imprenditoriale), soprattutto se considerando approcci di policy tradizionali come quelli fondati sui parchi scientifici e modelli Silicon Valley.

Ecosistemi di innovazione realmente inclusivi possono costituire la strada per consentire così alle imprese ad impatto di affacciarsi a nuovi network scientifici e tecnologici.

Inoltre, la creazione di ecosistemi innovativi incentrati sull’imprenditorialità ad impatto potrebbe stimolare innovazioni nel campo istituzionale (hard e soft law) attraverso la creazione di meccanismi di tutela e valorizzazione dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico che siano adatti alle imprese ad impatto, alla loro mission e alla loro governance, portando così approcci potenzialmente più inclusivi e aperti anche nel campo dei brevetti e della proprietà intellettuale.

D’altro canto, la creazione di ecosistemi d’innovazione orientati e centrati sul ruolo di forme imprenditoriali ad impatto ha il potenziale di smussare quei fallimenti trasformativi di interi approcci stratificati e fondati sui sistemi di innovazione concentrati meramente sulla competitività economica, che hanno spesso perso di vista l’orientamento alle sfide sociali ed ambientali.

L’imprenditorialità ad impatto è infatti “naturalmente” orientata alla risoluzione di grandi sfide-socio ambientali ed è quindi in grado di ridurre i fallimenti “nella direzionalità” dei sistemi di innovazione.

Inoltre, la capacità dell’imprenditoria ad impatto, a partire dall’impresa sociale ed il Terzo settore, di essere inclusiva e di co-produrre con i beneficiari (Bryson et al., 2017; Steiner, Teasdale, 2019), i propri beni e servizi, di lavorare a stretto contatto con il bisogno sociale, rende questi attori capaci di ridurre quei fallimenti dei sistemi di innovazione legati alla capacità anticipare e comprendere la domanda dei cittadini.

Per quanto concerne i fallimenti dei sistemi di innovazione nella creazione e nello stimolo di policy coordinate, un ruolo più centrale dell’imprenditorialità ad impatto, a partire da quella sociale, potrebbe portare ad un’integrazione crescente tra politiche sociali, ambientali da un lato e politiche industriali e d’innovazione dall’altro, orientando e dando maggiore coerenza all’intera azione di policy-making su scala territoriale da parte delle istituzioni operanti su più livelli, valorizzando così quel capitale territoriale che ha spesso deciso le sorti del successo delle strategie di innovazione.

Infine, la crescente diffusione di pratiche di misurazione di impatto sociale-ambientale, di standard e metriche di certificazione del valore sociale ad ambientale (tra gli altri Rawhouser et al., 2019) caratterizzante l’imprenditoria ad impatto, potrebbe costituire una via per rispondere a quel “fallimento di riflessività” che secondo Weber e Rohracher (2012) si esplicita nell’incapacità dei sistemi di innovazione di monitorare la propria capacità di rispondere alle sfide socio-ambientali.

Investire su politiche di innovazione che scommettano sulla rete delle imprese sociali e ad impatto può significare così scegliere di investire su imprese che, già tradizionalmente, per rispondere ai propri finanziatori sono spinte a misurare la propria performance sociale, sovente con metodologie e approcci ben codificati (si pensi a metodologie sperimentali o quasi sperimentali, a quelle che poggiano sulle monetizzazioni per arrivare ai recenti Impact-Weighted Accounts sviluppati dall’Harvard University): tale investimento può costituire, a cascata, una via percorribile per migliorare più in generale l’accountability sociale di tutte le politiche di innovazione e industriali, per il tramite dei sistemi misuratori presenti nelle stesse imprese.

Così un investimento di policy sulla costruzione di ecosistemi di innovazione fondati su imprese orientate all’impatto appare in grado, almeno da un punto di visto teorico, di ottimizzare la performance dei sistemi di innovazione, migliorando la competitività e le capacità di crescita di nuovi cluster imprenditoriali e inducendo altresì una direzionalità strategica nell’innovazione, verso la generazione di un cambiamento trasformativo della e nella società.

Infine, per quanto concerne la sfida aggiuntiva, quella legata alla capacità di far leva sulle specificità e le risorse presenti nei territori, lo sviluppo di policy fondate sulla costruzione di una pluralità di ecosistemi d’innovazione territoriali, più che di sistemi di innovazione unitari per ogni territorio, si pone in linea l’approccio place-based richiamato da Iammarino et. al. (2019).

Il protagonismo dell’imprenditoria ad impatto si inserisce a maggior ragione all’interno di approcci place-based vista la capacità tipica dell’imprenditoria ad impatto (vedasi tra gli altri Kibler et al., 2015; Bock, 2016; Barbera, Parisi, 2019) di costruire la propria legittimazione sociale attraverso processi di place-attachment e di rispondere a problemi e bisogni sociali che hanno caratteristiche locali e sono legati alle specificità di univoche dei contesti territoriali, anche marginalizzati come nel caso delle Aree Interne italiane.

Tale caratteristica può costituire quell’humus generativo spazi di innovazione anche nei territori più marginalizzati rispetto alle traiettorie tradizionali dell’economia della conoscenza, coinvolgendo così anche le comunità locali che vivono quei luoghi e valorizzando il capitale territoriale.

Possibili paradigmi per la costruzione degli ecosistemi orientati

Una volta esplorato da un punto di vista teorico il potenziale e la centralità di forme imprenditoriali ad impatto all’interno di una nuova generazione di ecosistemi di innovazione, è lecito domandarsi quali connotati debba possedere un ecosistema d’innovazione orientato, che sia realmente in grado di attribuire all’imprenditoria ad impatto un ruolo generativo di valore, oltre che centrale.

La mera inclusione di un attore o di una categoria di attori all’interno di un ecosistema è infatti condizione necessaria ma non sufficiente per attribuire al soggetto una reale capacità di produrre valore.

Seguendo la classificazione dei ruoli interni agli ecosistemi offerta da Dedehayir et al. (2018) è corretto domandarsi quali condizioni consentano alle forme imprenditoriali ad impatto di giocare ruoli di leadership e di “diretta generazione e creazione di valore” (direct value creation, Dedehavir et al., 2018) all’interno dell’ecosistema, permettendo così a queste ultime di esplicitare il proprio potenziale in ruoli che non siano marginali o di supporto laterale.

I modelli di ecosistemi di innovazione non sono infatti univoci, ma possono differire tra di loro in base a una serie di caratteristiche chiave, come ben sottolineato da Öberg e Alexander (2019): l’eterogeneità nelle competenze dell’ecosistema e dei ruoli, la profondità dei legami e delle competenze tra gli attori, il livello di formalizzazione e strutturazione dell’ecosistema, la tipologia di governance, il numero di attori coinvolti ed infine il numero e la tipologia delle fasi del processo di innovazione incluse nell’ecosistema (ampiezza).

Gli ecosistemi di innovazione che differiscono in base a tali caratteristiche possono così più o meno caratterizzarsi per la vicinanza o la lontananza rispetto a due macro-classi di approcci teorici che fanno da sfondo e da impianto culturale alle politiche di innovazione: il già citato modello dei sistemi di innovazione da un lato e quello della configurazione sociotecniche (STS) dall’altro (Geels, 2005).

In un approccio socio-tecnico, infatti, si sottolinea ad esempio quanto la presenza di un team di ingegneri nella Silicon Valley possa sì costruire un avanzato software, in linea con le più moderne frontiere tecnologiche. Ma se una vasta fetta della domanda potenziale di tecnologia fosse ad esempio anziana, o incapace di abituarsi ad una nuova interfaccia, allora l’intero sistema di innovazione rischia di essere debole.

Con questa consapevolezza una policy di innovazione deve prendere avvio da un’azione sulla società stessa, a partire dalle istituzioni della formazione e consentire una coevoluzione socio-tecnologica.

Ben diverso è l’approccio supply-side driven dei modelli più accostabili ai sistemi di innovazione più tradizionali, per cui il nuovo software del nostro esemplare team di ingegneri saprà esso stesso porsi sul mercato, influenzando e cambiando gli usi della popolazione anziana. Per questo la policy si concentrerà principalmente sul potenziare l’offerta della tecnologia, a partire dalle imprese tech-intensive.

Gli ecosistemi di innovazione che si ispirano ai modelli accostabili ai sistemi di innovazione vedono così il processo innovativo come caratterizzato e connotato dal determinismo scientifico e tecnologico.

Culturalmente, in tali cluster di modelli ecosistemici, sono la tecnologia e l’innovazione tecnologica a portare le innovazioni e i cambiamenti all’interno della società. I modelli ecosistemici replicanti paradigmi tipici dei sistemi di innovazione, anche quando orientati, hanno come obiettivo il raggiungimento di precise missioni tecnico scientifiche. L’orientamento di tali modelli ecosistemici è economico, prima che sociale. All’interno di tali modelli ecosistemi il numero di attori coinvolti è ridotto e l’eterogeneità tra di essi limitata.

Ecosistemi ispirati ai sistemi di innovazioni sono inoltre maggiormente formalizzati e standardizzati, anche nella loro governance che appare strutturata in approcci top-down.

Al contrario i modelli ecosistemici ispirati alle configurazioni e alle transizioni sociotecniche si fondano culturalmente sul costruttivismo sociale per cui l’innovazione e la sua nascita sono strettamente dipendenti dal contesto sociale in cui essi hanno origine. Nell’approccio costruttivista, che spesso ha caratterizzato l’innovazione sociale, l’evoluzione e il progresso tecnologico non sono lineari e sono caratterizzati da una flessibilità interpretativa derivante dal confluire di una pluralità di fattori. Così, nelle configurazioni socio-tecniche, l’interazione tra gli aspetti sociali e l’infrastruttura tecnologica dell’intera società è alla base del processo innovativo: solo transizioni co-evolutive tra società e tecnica consentono all’innovazione di progredire.

Gli approcci ecosistemici ispirati alle configurazioni socio-tecniche hanno poi spesso un orientamento sociale prima che economico e possono includere un elevato numero di attori, fortemente eterogenei. Questa classe di ecosistemi è caratterizzata da una scarsa formalizzazione e standardizzazione oltre che da modelli di governance prevalentemente di tipo bottom-up. I modelli ecosistemici mutuati da approcci delle configurazioni sociotecniche sono aperti e non hanno obiettivi tecno-scientifici mirati.

La necessità di sperimentare nuove contaminazioni e gli attori delle politiche di innovazione del futuro

In questo contesto e tra questi due estremi, sembrano collocarsi formalmente gli ecosistemi d’innovazione orientati all’impatto sociale. Come già sottolineato da Coenen et al. (2015) e Ghazinoory et al. (2020) ogni politica d’innovazione realmente trasformativa ed orientata alla risoluzione delle sfide socio-ambientali non può prescindere dalla contaminazione tra approcci tipici dei sistemi di innovazione, fondati sul determinismo scientifico tecnologico e le configurazioni socio-tecniche, che nascono e si sviluppano nell’alveo del costruttivismo sociale.

È infatti l’unione di innovazione tecnologica ed innovazione sociale a richiedere crescentemente tale interazione come base fondante per politiche e paradigmi trasformativi, in grado di costruire una crescita inclusiva oltre che sostenibile.

La costruzione o lo sviluppo di ecosistemi d’innovazione costituisce così un terreno fertile per testare tale contaminazione. In questa prospettiva, proprio il protagonismo di un nuovo genere imprenditoriale esso stesso orientato all’impatto sociale, che includa trasversalmente imprenditoria sociale, ambientale e sostenibile, all’interno di politiche di innovazione direzionali e direzionate appare la chiave di volta istituzionale e neo-schumpeteriana per costruire nuovi policy mix che si concentrino sul rapporto tra performance innovativa trasformativa e imprese “orientate”.

Le politiche volte alla costruzione di ecosistemi di innovazione locali in cui l’imprenditorialità ad impatto possa giocare un ruolo centrale rappresentano così un primo approccio sperimentale per costruire gradualmente politiche più vaste e sistemiche che riconoscano un ruolo di presidio industriale e innovativo anche alle forme di impresa sociale, ambientale o sostenibile.

È all’interno della cornice di ecosistemi territoriali di innovazione, orientati all’impatto, che si potranno realizzare e sperimentare meccanismi di trasferimento tecnologico e di conoscenza verso l’impact entrepreneurship, partendo dal vasto e fertile campo dell’economia sociale, spesso considerata lontana dal mondo dell’innovazione tecnologica. La territorialità non standardizzata di una pluralità di ecosistemi di innovazione si lega alla necessità di sviluppare condizioni abilitanti all’innovazione che superino il concetto stesso di cluster, definendo un sistema vasto di relazioni e di attori che influenzi l’azione imprenditoriale e innovativa al di là delle policy stesse, consentendo così di superare quelli fallimenti più sistemici e tradizionali delle policy.

Anche così una rinnovata dignità imprenditoriale per tali forme di impresa potrà contribuire alla direzionalità trasformativa dell’innovazione.

L’aspetto che possono assumere tali ecosistemi territoriali orientati all’impatto, in termini di livello di strutturazione, eterogeneità, formalizzazione dei legami, è ad oggi ancora incerto, non è univoco, ma non può prescindere dalla presenza di un’ibridità olistica.

Le formalizzazioni teoriche suggeriscono infatti la necessità di adottare un approccio contaminante tra ecosistemi ispirati ai tradizionali modelli tecnoscientifici, dei sistemi di innovazione (innovation systems) e alle configurazioni e transizioni sociotecniche.

È una tale contestualizzazione ibrida che, almeno dai modelli teorici, potrebbe consentire alle imprese ad impatto di esplicitare il proprio ruolo di diretta generazione di valore (Dedehayir et al., 2018) all’interno dell’ecosistema e di giocare così un ruolo più rilevante all’interno dell’intero scenario delle politiche di innovazione.

Esempi embrionali, nuovi campi di ricerca e di policy

Resta da scoprire quali attori, se un maggiore protagonismo e coordinamento pubblico, piuttosto che privato, o al contrario un’autorganizzazione più spontanea e bottom-up degli attori della società civile, a partire dal Terzo settore stesso o da altre forme di impresa orientata, possano concretamente abilitare tale approccio contaminante.

Un campo aperto e fecondo di ricerca è lo studio dei processi, delle policy e delle azioni di guidance e di governance che possono contribuire alla costruzione di tali esperienze ecosistemiche.

Questo saggio non vuole né può ancora offrire risposte o best-practice definitive, ma intende piuttosto aprire un dibattito ed offrire una chiave di lettura teorica per esperienze e politiche che vedano un nuovo protagonismo di forme d’impatto all’interno dei processi di innovazione.

Diverse sono le esperienze, spesso germinali, nel contesto italiano ed europeo che potranno costituire un fertile contesto di analisi e sperimentazione di tali approcci ecosistemici.

In Italia si può pensare in primis al nuovo ecosistema d’innovazione milanese MIND (Milano Innovation District). Il distretto, che sembra richiamare per molti connotati gli ecosistemi più orientati al determinismo tecno-scientifico e tradizionalmente tech-intensive, sorge geograficamente nell’area occupata dall’Esposizione Internazionale del 2015, è focalizzato sugli ambiti del bio-tech e della salute. Esso però vede tra i suoi protagonisti anche il mondo del Terzo settore attraverso il presidio rappresentato Fondazione Triulza e della sua Social Innovation Academy che costituisce e costituirà un vero e proprio hub di capacity building tecnologica per il Terzo settore e l’impresa sociale, in grado di contribuire anche all’integrazione del distretto col tessuto territoriale e sociale lombardo.

D’altro canto, l’esperienza bottom-up e altamente eterogenea, di Torino Social Impact, che vede Torino come prima città italiana a dotarsi di una strategia di sviluppo locale basata sulla costruzione di un ecosistema di imprenditorialità sociale tramite un’alleanza tra istituzioni pubbliche e private, rappresenta altresì un interessante piattaforma generativa di innovazione “orientata” (Falomi, De Giorgio, 2019) basata su imprese a impatto sociale, e sembra avvicinarsi parzialmente a modelli d’ecosistema più vicini alle configurazioni socio-tecniche.

Nel contesto europeo le esperienze francesi dei Pôles territoriaux de coopération économique, previsti dalla legislazione nazionale francese (art. 9, Loi 31 Juillet 2014) che raggruppano i principali attori territoriali dell’economia sociale, unitamente a centri di ricerca ed università con l’obiettivo di creare partenariati a servizio di progetti di innovazione sociale e tecnologica, costituiscono un’ulteriore pietra miliare nello sviluppo di ecosistemi di innovazione orientati all’impatto. I 160 Pôles sono infatti utilizzati dalle amministrazioni locali come veri e propri strumenti di sviluppo economico inclusivo per i territori (Fraisse, 2015; Delga, 2014).

Tali esperimenti, seppur ancora germinali o isolati, oltre che eterogenei, meritano l’attenzione di policymakers e accademici per il loro potenziale trasformativo, capace di influenzare le politiche di innovazione su una scala ben più vasta.

Lo sviluppo di ecosistemi d’innovazione orientati all’impatto presentato in questo saggio, appare infatti coerente con quel paradigma tech for good indicato dalla Commissione Europea (European Commission, 2020) come una delle dinamiche chiave in grado di portare un cambiamento strutturale al modello di crescita e alla qualità socio-ambientale della produttività, orientando così l’innovazione alla creazione di valore sociale, su scala continentale.

Proprio in tale prospettiva, la Commissione stessa (European Commission, 2020 - p. 192) nel documento che analizza la performance scientifica e innovativa dell’Unione, evidenzia quanto i cittadini e consumatori desiderino sempre più un’integrazione dell’impatto sociale all’interno della mission delle imprese stesse, in ottica di generazione di opportunità di business capaci di generare profitto e massimizzare il valore sociale.

Tale esplicito riconoscimento sembra aprire la strada a un nuovo ruolo dell’impact entrepreneurhsip in tutte le sue forme all’interno delle politiche europee dell’innovazione.

D’altro canto, il documento preparatorio all’European Action Plan for the Social Economy, a cura di European Social Economy – l’intergruppo di parlamentari europei per l’economia sociale – dal 2018 invita esplicitamente ad adottare politiche capaci di aumentare la competitività delle imprese dell'economia sociale, migliorando la loro creatività e innovazione, a promuovere l'uso di nuove competenze e tecnologie tra gli attori dell’economia sociale, anche incentivando la partecipazione delle piccole e medie imprese dell’economia sociale a progetti di ricerca e sviluppo e all’inclusione di queste ultime nei cluster di innovazione (Social Economy Europe, 2018 - p.25).

Queste azioni, tese a valorizzare l’orientamento socio-ambientale dell’imprenditorialità per riorientare radicalmente l’intero sistema economico, appaiono come lo scenario più auspicabile per rafforzare quella capacità di fornire soluzioni efficaci e sostenibili alle grandi sfide sociali, economiche e ambientali che caratterizza la mission stessa dell’impact entrepreneurship.

Forse solo aprendo il mondo delle politiche industriali e dell’innovazione a nuove forme imprenditoriali, d’impatto si potrà gradualmente risolvere quella dicotomia sistemica che Richard Nelson esplicitava già nel 1974 in quella domanda epocale che ancora oggi resta aperta: If we can land a man on the moon, why can’t we solve the problems of the ghetto?

DOI: 10.7425/IS.2020.03.03

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Note

  1. ^ https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_20_931
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