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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-3-2020-la-previsione-delle-crisi-aziendali-nelle-cooperative-sociali-italiane

Numero 3 / 2020

Saggi

La previsione delle crisi aziendali nelle cooperative sociali italiane

Alessandro Montrone, Simone Poledrini, Elizabeth Searing

Abstract

Ad oggi, il tema della previsione della possibile crisi economica e finanziaria delle cooperative sociali (CS) non è ancora stato affrontato in modo approfondito. Pertanto, l’obiettivo del presente lavoro è fornire un contributo presentando un modello di previsione delle crisi delle CS basato su indicatori di bilancio. La ricerca ha riguardato l’intera popolazione italiana delle CS con più di cinque dipendenti per l’arco temporale di cinque periodi amministrativi (2014-2018).

Le CS così estrapolate dal database AIDA, sono state suddivise in “active” (ossia in fase di continuazione dell’operatività aziendale) e “non active” (ossia quelle che nel 2018 non risultavano più attive) e valutate nei loro equilibri economici e finanziari impiegando un numero limitato, ma altamente significativo, di indici di bilancio. Considerate peraltro le specificità delle CS, alcuni di questi indicatori sono risultati più di altri predittivi rispetto a future situazioni di crisi, portando all’individuazione di un modello basato sugli score ottenuti in solo cinque indici di bilancio.

I dati analizzati mostrano, peraltro, che le condizioni economiche e finanziarie delle CS italiane sono in complessivo lieve progresso dal 2014 al 2017, ma segnano una inversione di tendenza nel 2018 che potrebbe rappresentare un primo segnale di una possibile evoluzione futura negativa.

L’articolo si rivolge agli studiosi del settore, ma anche agli operatori della cooperazione sociale e ai referenti delle politiche pubbliche in ambito sociale al fine di prevenire future crisi e sostenere le realtà più virtuose.

Keywords: cooperative sociali, crisi d’impresa, indici di bilancio, modelli di previsione delle crisi d’impresa

DOI: 10.7425/IS.2020.03.02

 

Introduzione

Negli ultimi vent’anni le cooperative sociali (CS) italiane sono state oggetto di studio da molti punti di vista: le motivazioni dei lavoratori (Borzaga, Tortia, 2006; Carpita, Manisera, 2007), il nesso con il sistema di welfare (Borzaga, Galera, 2016; Burgalassi, 2008), l’analisi dei bilanci (Andreaus, Tortia, 2007; Costa, Carini, 2016), i nuovi modelli (Poledrini, 2017; Poledrini, Tortia, 2018), l’innovazione sociale (Farina, Fazzi, 2009; Tortia et al., 2020) e i suoi aspetti teorici (Poledrini, 2015).

Tuttavia, molto meno spazio è stato dedicato all’analisi delle CS in termini di performance economico-finanziaria e ancora meno alla previsione delle possibili crisi aziendali. Infatti, brevemente, si ricorda che l'unicità delle CS, insieme alle imprese sociali, rispetto alle altre tipologie d’impresa, è data dall’avere una mission volta a «perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini», così come recita l'articolo 1 della L. 381/1991, e allo stesso tempo di raggiungere tale obiettivo attraverso un'attività economica d’impresa. Quest’ultima attività, inoltre, in molti casi, si trova a confrontarsi in modo competitivo con le imprese for profit. Da qui deriva la necessità per le CS di essere adeguatamente strutturate in termini economici e finanziari al fine di prevenire eventuali e possibili crisi aziendali.

Ovviamente tale approccio “aziendalista” all’analisi delle CS italiane non vuole, in nessun modo, trascurare la già richiamata vocazione sociale di queste imprese, ma proprio per la difesa di tale aspetto è importante che queste organizzazioni siano forse ancor più ancorate alla necessità di una stabilizzazione economica e finanziaria.

L'articolo è strutturato nel modo seguente. Il primo paragrafo richiama brevemente gli aspetti principali della struttura economica e finanziaria posseduta dalle CS, così come emerge dai prevalenti studi pubblicati fino ad oggi. Il paragrafo successivo richiama la dottrina e i concetti fondamentali in materia di riconoscimento della crisi aziendale nei suoi segni premonitori, ragionando sulle possibili cause esistenti alla sua base. Proprio allo scopo di prevedere per tempo l’insorgenza di situazioni di crisi, nel terzo paragrafo si richiamano gli strumenti elaborati a tale scopo dalla dottrina aziendalistica. A questo punto, fornite alcune precisazioni sulla metodologia seguita, si cerca, nel paragrafo successivo, di definire un modello di previsione delle crisi che tenga conto delle peculiarità delle CS avvalendosi di alcuni indicatori di bilancio e dell’assegnazione di score ai valori volta per volta assunti dagli stessi. Ciò è effettuato allo scopo di calcolare un punteggio sintetico che possa esprimere in termini quantitativi le situazioni destinate, senza adeguate azioni di contrasto, a far scivolare la CS in una situazione di crisi anche irreversibile. Infine, giovandosi della copiosa entità di dati analizzati sui bilanci di oltre duemila CS, viene offerta una panoramica della situazione finanziaria e della performance economica della categoria sul quinquennio compreso tra il 2014 e il 2018 all’interno del paragrafo sei. Per ultimo delle brevi conclusioni terminano il lavoro.

La struttura economica e finanziaria delle cooperative sociali: elementi di forza e di debolezza

L’analisi della performance economica e finanziaria nelle imprese for profit ha, fra l’altro, lo scopo di valutare come tali organizzazioni siano in grado di remunerare il capitale investito da parte degli investitori. Diversamente, le CS non hanno la necessità di realizzare un avanzo di gestione elevato, perché il loro compito è quello di soddisfare dei bisogni di tipo collettivo e sociale. Tuttavia, il raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario è la conditio sine qua non perché tale attività d'impresa sociale possa perdurare nel tempo.

Dal punto di vista della patrimonializzazione, la gran parte degli studi (Costa et al., 2012; Costa, Carini, 2016) fin qui svolti mostrano che solitamente le CS italiane godono di un elevato grado di patrimonializzazione medio che è dato soprattutto dal perseguimento di politiche di accumulazione degli utili derivanti dalla gestione e attraverso la loro destinazione a riserve indivisibili. In particolare, Andreaus e Tortia (2007) hanno mostrato che circa il 60% delle CS intervistate durante la loro ricerca aveva un grado di patrimonializzazione intermedia o elevata e solo circa il 40% di queste molto bassa o bassa.

Altro dato interessante è la capacità delle CS italiane di reagire in modo positivo alla crisi economica del 2007 e 2008 innescata dai mutui subprime. In particolare, Costa e Carini (2016) hanno messo in luce che le CS analizzate hanno aumentato il loro fatturato complessivo e il totale dell’attivo tra il 2008 e il 2011, dimostrando di avere delle performance migliori delle imprese for profit nel medesimo periodo. Tale risultato è stato possibile grazie alla capacità delle CS di affrontare il mercato attraverso strumenti innovativi (Borzaga, 2013) e la loro indipendenza dai contributi pubblici e privati. Infatti, sempre Andreaus e Tortia (2007) hanno messo in evidenza che i ricavi delle CS italiane provenienti da attività commerciale erano pari a circa il 93% del totale delle entrate e solo il resto proveniva da: contributi del settore pubblico per il 3,8%, contributi del settore privato per l’1,2%, contributi in conto capitale per lo 0,3% e altri ricavi per il 2,3%.

Dal punto di vista degli aspetti finanziari occorre dire che ad oggi sono stati pubblicati pochissimi lavori che affrontano questo tema. Tuttavia, sebbene vi siano poche ricerche empiriche che abbiano studiato tale tema, vi sono delle “credenze” sulla situazione finanziaria delle CS italiane che tendono a mettere in cattiva luce questo tipo di organizzazioni. Tra queste, la più diffusa è che solitamente le CS non dispongano di sufficienti mezzi finanziari (Borzaga, Fontanari, 2017). Infatti, molti sostengono che la presenza del vincolo della distribuzione degli utili, una governance democratica e le possibili limitate capacità manageriali che le CS potrebbero avere, rendano le CS più deboli rispetto alle imprese for profit nell’accesso alla finanza. In sintesi, secondo tale filone di pensiero le CS non sarebbero di fatto sostenibili. Sicuramente, le CS non sono in genere dotate di elevati capitali ma, come hanno osservato Borzaga e Fontanari (2017), occorre dire che in molti casi tali capitali finanziari non sono neanche necessari, perché il vero capitale delle CS è quello umano che è al centro del processo di erogazione dei servizi alla persona. Piuttosto si può dire che le difficoltà che hanno molte CS siano date dalla loro piccola dimensione e che quindi siano di fatto assimilabili alle medesime difficolta incontrate dalle PMI. A tale riguardo, Casanova (2006) ha messo in luce la presenza di una problematicità nel rapporto banca-CS per il fatto che questi due soggetti spesso “parlano” lingue differenti, per cui non si comprendono a svantaggio di entrambi: «appare allora, evidente, la necessità di transitare verso un modello di intermediazione orientato alla finanza di progetto. Tale nuovo orientamento sottende l’attuazione di legami duraturi e, in una certa misura, organici, che consentano di ridurre le asimmetrie informative e di impostare su basi cooperative e non antagoniste il rapporto» tra istituti di credito e mondo della cooperazione sociale (Casanova, 2006 - p. 268).

Seguendo i risultati delle ricerche fino ad ora condotte su questo tema, si può affermare che le CS, in generale, non abbiano problemi particolari di accesso alle risorse finanziarie e mostrino di avere sia una elevata capacità di generare valore rispetto al capitale investito, sia un equilibrio della struttura finanziaria. Per ultimo, la bassa patrimonializzazione di alcune CS trova spiegazione nel fatto che queste hanno un minore fabbisogno di risorse finanziarie rispetto alle società di capitali in quanto le attività che abitualmente svolgono sono di tipo labour-intensive.

La crisi aziendale e le sue possibili cause

Alla luce delle considerazioni effettuate e nella convinzione che sia di fondamentale importanza, pur in assenza di esigenze di remunerazione del capitale, verificare nelle CS l’esistenza nel tempo di condizioni di equilibrio economico-finanziario, si pone anche per questa categoria di aziende l’esigenza di riconoscere per tempo (e quindi, nei limiti del possibile, prevenire) l’insorgenza di situazioni di crisi. Tutto ciò a doverosa tutela non solo dei principali stakeholder, come i soci, i dipendenti e terzi finanziatori, ma anche e soprattutto in considerazione dell’interesse a non far venire meno l’apporto della CS al tessuto socioeconomico di riferimento, in un’ottica più ampia di interesse collettivo.

In materia di crisi d’impresa e di cause della stessa, la dottrina aziendalistica offre numerosi e qualificati contributi, anche se rivolti alla generalità del variegato mondo aziendale (Argenti, 1976; Bertoli, 2000; Brugger, 1984; Coda, 1977; Confalonieri, 1993; Falini, 2008; Guatri, 1986; Moliterni, 1999; Piciocchi, 2003).

Da un punto di vista esclusivamente finanziario, lo stato di crisi coincide con quello di insolvenza, ossia con l’incapacità dell’azienda di far fronte alle proprie obbligazioni per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie a tal fine (Zito, 1999); tuttavia, l’insolvenza è solo la manifestazione e conclamazione ultima di uno stato di crisi che ha cause non solo finanziarie ma anche, e più precocemente, economiche. Infatti, nella teoria del valore (Fruhan, 1979; Guatri, 1991, 1992; James, 2010; Pellicelli, 2007) la crisi si sostanzia in un circolo vizioso che parte da problemi di redditività che determinano perdite economiche e, quindi, erosioni del valore del capitale, con conseguenti squilibri nei flussi finanziari che portano al venir meno della fiducia da parte dei finanziatori (Guatri, 1995); in aggiunta, si possono anche innescare situazioni di crisi per cause specifiche, connesse a motivazioni di tipo finanziario, come ritardi nei pagamenti da parte di pubbliche amministrazioni, che possono generare insolvenza persino in imprese economicamente sane.

Dunque, la crisi costituisce solo la seconda e finale fase del processo di deterioramento delle condizioni economiche e finanziarie. Infatti, nell’ambito del percorso che porta alla fine dell’impresa, vanno distinte due fasi (declino e crisi) a ciascuna delle quali corrispondono due stadi (Guatri, 1986). In particolare, la fase del declino comprende:

  • uno stadio di incubazione, durante il quale si manifestano i primi segnali di decadenza e di disequilibrio economico-finanziario;
  • uno stadio di maturazione durante il quale si hanno perdite reddituali e diminuzione del valore del capitale economico.

Nella fase della crisi si distingue invece tra:

  • uno stadio in cui le perdite reddituali causano una riduzione dei flussi di cassa, che ad un certo punto diventano negativi determinando il deterioramento dell’affidabilità dell’impresa;
  • uno stadio di crisi conclamata in cui l’impresa diviene insolvente.

In questa prospettiva, l’insolvenza è una manifestazione e una conseguenza del disequilibrio economico e la crisi non può essere risolta solo ripristinando l’equilibrio finanziario, ma occorre anche eliminare le cause alla radice delle perdite economiche o altri fattori che incidono negativamente sulla sopravvivenza del sistema aziendale.

In altri termini, si può asserire che la crisi aziendale trova due possibili cause di fondo che sono strettamente connesse tra loro, ossia:

  • fattori che generano uno squilibrio economico che, a sua volta, determina uno squilibrio di tipo finanziario, ulteriormente aggravato dalla presenza di uno squilibrio patrimoniale (che si ha in presenza di insufficienza di mezzi propri). Questo è causa di un ulteriore peggioramento anche della situazione economica a causa degli elevati oneri finanziari associati all’eccessivo indebitamento;
  • fattori che generano un disequilibrio finanziario, determinati non tanto dall’incapacità dell’azienda nel gestire la propria attività economica, quanto piuttosto da situazioni di difficoltà che coinvolgono soggetti terzi (come nel caso di clienti insolventi che non adempiono ai loro impegni di pagamento) o dalla inadeguata capacità di impostare correttamente la struttura finanziaria. Simili situazioni, oltre a generare condizioni di tensione e stress finanziario, si ripercuotono a loro volta negativamente anche sugli equilibri economici per tramite, anche in questo caso, degli elevati oneri finanziari.

Gli studi che hanno indagato le cause delle crisi aziendali si possono ricondurre a differenti e significativi filoni di ricerca. Secondo la prospettiva deterministica degli economisti industriali, le crisi sono causate dai mutamenti ambientali non prevedibili (evoluzione tecnologica, dinamica della domanda, evoluzione socio-demografica, cambiamenti normativi) che non consentono alle imprese di adattarsi, in tempi rapidi, alle nuove strategie competitive (Sheppard, 1995).

Un altro di questi filoni ha indagato il possibile ruolo negativo giocato dal management nel processo di generazione della crisi; nello specifico, una parte della dottrina ritiene che i vertici aziendali causano la crisi nella misura in cui non riescono a monitorare adeguatamente i fattori ambientali (Burns, Stalker, 1961; Nelson, 1995; Scott, 1992). Un’altra parte sostiene che le azioni poste in essere dal management siano le uniche cause delle difficoltà aziendali (Starbuck et al., 1978; Hambrick e Mason, 1984). Anche secondo Coda (1987), l’innesco di un processo di crisi aziendale è dovuto all’inadeguatezza delle competenze imprenditoriali e manageriali rispetto alla complessità dei problemi da gestire o alle difficoltà della situazione.

Tuttavia, considerare il management quale unico responsabile delle vicende dell’impresa appare un approccio alquanto semplicistico che non tiene conto di tutte le altre circostanze (interne ed esterne all’azienda) che possono intervenire nel causare il deterioramento delle condizioni economiche, finanziarie e patrimoniali (Slatter, Lovett, 1999). Nella stessa direzione va il pensiero del Guatri (1986) quando scrive che accusare il management è un approccio non molto adatto a descrivere la complessa realtà della crisi, che può dipendere anche da altri fattori fuori dal controllo di chi gestisce l’azienda.

Nella realtà, è ragionevole asserire che le crisi sono riconducibili sia a fattori endogeni che a fattori esogeni all’azienda. Rispetto ad essi, è opportuno citare lo studio di Slatter e Lovett (1999) che individuano dieci fattori endogeni e tre fattori esogeni alle radici della crisi. I primi sono:

  • management inadeguato
  • carente controllo della gestione finanziaria
  • incapacità a gestire le risorse aziendali
  • costi di funzionamento troppo elevati
  • politiche commerciali inefficaci
  • eccessivi carichi di attività
  • commesse di grandi dimensioni inesitate
  • politiche di acquisizioni inadeguate
  • errata politica degli investimenti
  • inerzia e confusione organizzativa.

Mentre i fattori esogeni riguardano:

  • cambiamenti nella domanda
  • dinamiche concorrenziali
  • andamento sfavorevole dei prezzi di beni/servizi.

A questi ultimi, ad avviso di chi scrive e come evidenziato nelle precedenti considerazioni, vanno aggiunti fattori connessi con difficoltà finanziarie generate dalla insolvenza o dal ritardato pagamento di somme dovute da parte di soggetti terzi, pubblici o privati che siano.

Nel complesso, si può concludere che il peso che ciascun fattore può esercitare nel provocare la crisi aziendale va valutato tenendo conto della sua capacità di causare un sostanziale e duraturo indebolimento dei fattori critici di successo; inoltre, la complessità dei processi di crisi trova motivo nella contestuale presenza di più fattori scatenanti (Falini, 2011).

La previsione delle crisi aziendali mediante l’analisi del bilancio

Nella consapevolezza della varietà e complessità dei fattori determinanti le crisi aziendali, risulta essenziale la possibilità di individuare per tempo l’insorgere di criticità potenzialmente generatrici di una situazione di crisi, così da poter intervenire efficacemente scongiurandola o, quanto meno, limitandone i danni.

A tale scopo, il punto di partenza è nell’analisi del bilancio con l’elaborazione di indicatori capaci di segnalare i primi sintomi di stati di difficoltà che possono in seguito sfociare in una situazione di crisi conclamata e, in ultimo, di insolvenza.

Nonostante i modelli di previsione delle insolvenze basati su indicatori di performance che traggono origine dai documenti di bilancio provengano in prima istanza dal contributo di studiosi nordamericani e prendano essenzialmente avvio dai lavori di Altman, l’importanza dello studio dei bilanci a fini prospettici è riconosciuta dagli aziendalisti italiani fin dai primi decenni del XX secolo (Besta, 1922; Ceccherelli, 1930).

Nel panorama internazionale, i primi studi sulla previsione dell’insolvenza sono degli anni successivi alla crisi del ’29 e sono stati realizzati allo scopo di fornire alle banche strumenti per valutare il merito creditizio delle imprese e, quindi, coadiuvarle nelle decisioni di finanziamento (FitzPatrick, 1931; Ramser, Foster, 1931; Smith, 1930; Smith, Winakor, 1935; Tamari, 1966; Wall, 1936). È soprattutto, però, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso che tali studi si sviluppano tramite il ricorso a metodologie statistiche fondate sull’utilizzo di indicatori economico-finanziari (Alberici, 1975; Altman, 1968; Altman, 1995; Altman, 2002; Altman et al., 1977; Altman et al., 2013; Appetiti, 1984; Argenti, 1976; Aziz et al., 1988; Balwind, Glezen, 1992; Beaver, 1966; Blum, 1974; Deakin, 1972; Deakin, 1977; Edmister, 1972; Elam, 1975; Flagg et al., 1991; Forestieri, 1986; Jones et al., 2017; Lawrence, Bear, 1986; Libby, 1975; Pompe, Bilderbeek, 2005; Sung et al., 1999; Taffler, 1982; Tanaka et al., 2017; Traczynski, 2017).

Quindi, il primo studio preso dalla letteratura come riferimento per la previsione delle crisi aziendali è quello di Altman (Cestari, 2006) che, utilizzando la tecnica dell’analisi di bilancio per indici, propone un modello di previsione degli stati di insolvenza. Il suo modello, il cosiddetto Z Score, risale nella sua prima versione al 1968. Tuttavia, nel tempo, questo modello (inizialmente pensato per imprese industriali quotate) è stato oggetto di revisioni e modifiche per adattarlo ad altre tipologie d’impresa, tra le quali quelle non quotate nei mercati finanziari con lo Z’ Score (Altman, 1993) e quelle non appartenenti al settore manifatturiero o operanti nei paesi emergenti con lo Z” Score (Altman, Hartzell, Peck, 1995).

Volendo individuare i limiti del modello, esso cerca di rappresentare con poche variabili una realtà multidimensionale e in continuo movimento, facendo riferimento a valori storici e contabili. Al riguardo, alcuni studiosi fanno rilevare come:

  • i dati contabili possano essere non attendibili nella misura in cui sono influenzati da politiche di bilancio e, più in generale, dai giudizi soggettivi di chi è preposto alla elaborazione dei bilanci (Luerti, 1992);
  • i dati di bilancio riguardano periodi amministrativi passati e, quindi, non necessariamente danno sufficienti indicazioni circa le prospettive future (Grice, Dugan, 2001; Johnson, 1970).

Tuttavia, i modelli elaborati da Altman e da altri autori che hanno applicato una logica analoga a differenti settori economico-produttivi e a diverse aree geografiche (Antonowics, 2014; Berzkalne, Zelgalve, 2013; Boritz et al., 2007; Chen, 2014; Dakovic et al., 2010; Fito et al., 2017; Nam, Jinn, 2000) non hanno ancora investito le imprese sociali e, tanto meno, quelle in forma di CS, per le quali molti degli indicatori di bilancio, e soprattutto quelli di performance economica, assumono valenza differente.

Inoltre, va ricordato il recente intervento del legislatore con l’emanazione del “Codice della Crisi” (d.lgs. n. 14/2019) il quale, tra l’altro, disciplina gli strumenti di allerta per la tempestiva individuazione della crisi dell’impresa. Infatti, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC), sulla base dell’incarico previsto dall’art. 13, comma 2, del citato decreto, ha elaborato gli indici del sistema dell’allerta che farebbero presumere la sussistenza di uno stato di crisi.

Questi indici sono collocati gerarchicamente su due livelli, dove il primo comprende l’esistenza di un patrimonio netto negativo (deficit patrimoniale) e il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) a sei mesi inferiore ad uno, mentre si fa ricorso al secondo se il patrimonio netto è positivo (e il capitale sociale è sopra il limite legale) e il DSCR non è disponibile (o non è sufficientemente affidabile nel suo calcolo).

Tale secondo livello include cinque indici (indice di sostenibilità degli oneri finanziari, indice di adeguatezza patrimoniale, indice di ritorno liquido dell’attivo, indice di liquidità e indice di indebitamento previdenziale e tributario), i cui valori soglia devono essere congiuntamente superati per configurare la sussistenza dello stato di crisi.

Rinviando per approfondimenti al documento “Crisi d’impresa. Gli indici dell’allerta” (CNDCEC, 2019), nel presente contributo non si è ritenuto consono il ricorso per le CS ai sopra richiamati indicatori per i seguenti motivi:

  • il loro orizzonte temporale è concentrato sul presente e sul prossimo futuro (sei mesi), per cui servono a rilevare uno stato di crisi conclamato (non a caso il legislatore parla di “sussistenza” dello stesso), ma non a prevederne l’insorgenza in un futuro meno ravvicinato; nello specifico, dei sette indicatori di allerta solo l’indice di sostenibilità degli oneri finanziari e quello di adeguatezza patrimoniale possono prestarsi ad una previsione di situazioni di crisi oltre il breve termine, mentre gli altri “fotografano” una situazione di insolvenza già evidente;
  • non si tratta di indicatori “pensati” per le CS, non essendo in grado di coglierne appieno le peculiarità, anche se delle modifiche nel calcolo del DSCR e dell’indice di liquidità sono indicate dal CNCDEC per le cooperative e i consorzi;
  • sono indici quasi esclusivamente basati su grandezze finanziarie e patrimoniali (fatta eccezione per l’indice di sostenibilità degli oneri finanziari, unico basato su valori di natura economica) e trascurano valori economici di primario rilievo (oltre che più predittivi) quali, ad esempio, l’EBITDA.

Quindi, fermo restando che l’analisi di bilancio per indici rimane uno strumento fondamentale per comprendere la situazione economica, patrimoniale e finanziaria aziendale e individuare eventuali squilibri, anomalie e rischi cui l’impresa è esposta, tali indici non possono essere impiegati meccanicamente sia nelle diverse versioni del modello di Altman, sia in quelli utilizzati da altri Autori (Beaver, 1966; Springate, 1978; Fulmer, 1984; Zmijewski, 1984; Sorins, Voronova, 1998); peraltro, nemmeno gli indicatori individuati dal CNDCEC a seguito della emanazione del Codice della Crisi (d.lgs. n. 14/2019) possono essere considerati idonei per la previsione precoce dell’insorgenza degli stati di crisi delle CS per le motivazioni sopra esposte.

La metodologia applicata

Nel presente contributo si è cercato di costruire un modello applicabile alla peculiare realtà delle CS italiane con un approccio induttivo-deduttivo, tipico degli studi aziendalistici.

Deduttivo, in quanto esiste ampia ed autorevole letteratura circa gli indicatori di bilancio da considerare più significativi al fine dell’apprezzamento dell’esistenza, o meno, nell’azienda di condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale, per cui da questi indicatori e dalle loro caratteristiche e capacità informative occorre prendere le mosse in un ragionamento che voglia individuare i segnali premonitori di possibili stati di crisi futuri.

Induttivo, in quanto, per tenere in debito conto le caratteristiche peculiari delle CS, è stata effettuata una analisi sull’intera popolazione delle stesse in Italia, estraendo i valori di bilancio ed altri parametri significativi dal data-base AIDA delle CS con più di 5 dipendenti per l’arco temporale di cinque periodi amministrativi, dal 2014 al 2018. Tale operazione è stata tesa ad individuare, appunto, in via induttiva quali tra i molteplici indici di bilancio fossero i più “predittivi” rispetto alle future crisi. L’estrazione è stata fatta distinguendo tra le aziende che nel 2018 erano ancora “active”, ossia in fase di continuazione dell’operatività aziendale, e quelle che, sempre nel 2018, per diversi motivi, ma comunque riconducibili alla conclamazione di una situazione di crisi aziendale, non risultavano più attive. L’esclusione delle CS fino a 5 addetti, assimilabili alla categoria delle micro-imprese è motivata sia dalla carenza nel data-base di informazioni di bilancio su grandezze di primaria importanza, sia per rendere in qualche misura più omogeneo dimensionalmente il gruppo di aziende analizzate.

Depurando i dati da quelle poche situazioni in cui la mancanza di significativi valori di bilancio nel data-base avrebbe in qualche misura falsato l’analisi, sono rispettivamente prese in considerazione 2.067 CS attive e 391 non attive nel 2018, ma comunque ancora esistenti ed attive nel 2014.

Questo consente due tipi di elaborazioni sui dati così estratti, e più precisamente:

  • l’individuazione, come si premetteva, in via induttiva-deduttiva, degli indicatori più predittivi di un futuro stato di crisi, confrontando sul 2014 i valori di alcuni significativi indici nel gruppo delle “attive” con quelli assunti dai medesimi sul gruppo delle “non attive”, ben sapendo cosa sarebbe accaduto in termini di manifestazione di una situazione di crisi a queste CS nei successivi anni. Questo consente di delineare un modello, semplificato, ma, a nostro avviso, efficace per l’individuazione precoce di situazioni aziendali destinate a degenerare verso uno stato di crisi. Inoltre, questo consente anche a chi amministra una CS di poter scegliere con ponderazione tra le seguenti due alternative: a) procedere verso una ordinata e tempestiva liquidazione dell’attività prima che questa produca ben più gravi perdite ed erosioni patrimoniali, sia nel capitale proprio che in quello di terzi; b) dove ancora possibile, ed avendo idee e risorse da mettere in campo, tentare una azione di turn-around in grado di invertire la tendenza negativa e prevenire la cessazione dell’attività aziendale;
  • una analisi di tipo descrittivo che prenda in esame l’evoluzione conosciuta nei principali indicatori di bilancio in questi anni dal panel di CS esistenti in tutto il quinquennio.

La definizione di un modello di previsione delle crisi aziendali per le cooperative sociali

Dall’estrazione dei dati di bilancio dal database AIDA sono stati calcolati gli indicatori che nella dottrina aziendalistica in materia di analisi di bilancio (Avi, 2007; Brunetti et al., 1984; Caramiello et al., 2003; Ferrero et al., 2003; Manzonetto, 2002; Montrone, 2016; Paganelli, 1987; Quagli et al., 1994; Sostero et al., 2016; Terzani, 1996) sono considerati maggiormente espressivi sia per:

  • delineare le condizioni di solvibilità dell’azienda nel breve termine (current ratio, dato dal rapporto l’attivo circolante e le passività a breve, ossia al numeratore le voci del gruppo C dell’attivo di stato patrimoniale esigibili entro l’esercizio successivo, oltre alle voci del gruppo D relative a ratei e risconti attivi, e al denominatore le voci del gruppo D del passivo di stato patrimoniale esigibili entro l’esercizio successivo, oltre alle voci del gruppo E relative a ratei e risconti passivi);
  • indicare l’esistenza di una adeguata solidità patrimoniale con un contributo significativo delle risorse proprie nel finanziamento delle immobilizzazioni (warranty ratio, dato dal rapporto tra capitale proprio e attivo fisso, ossia al numeratore le voci del gruppo A del passivo di stato patrimoniale e al denominatore le voci del gruppo B dell’attivo di stato patrimoniale);
  • esprimere sinteticamente la corretta impostazione della struttura finanziaria nella sua composizione tra risorse proprie e di terzi (equity multiplier, dato dal rapporto tra totale degli investimenti e capitale proprio, ossia al numeratore il totale dell’attivo di stato patrimoniale e al denominatore le voci del gruppo A del passivo di stato patrimoniale);
  • misurare la performance economica complessiva dell’azienda (ROA, dato dal rapporto tra reddito netto e totale degli investimenti, ossia al numeratore la voce 21 del conto economico e al denominatore il totale dell’attivo di stato patrimoniale);
  • focalizzare, nel quadro della sopra indicata performance economica complessiva, il contributo del segmento di gestione caratteristica (EBITDA sul totale degli investimenti, ossia al numeratore la differenza A-B tra valore e costi della produzione, nettata dell’incidenza della voce 10, e al denominatore il totale dell’attivo di stato patrimoniale);
  • esprimere il tasso di rendimento delle risorse proprie (ROE, dato dal rapporto tra reddito netto e capitale proprio, ossia al numeratore la voce 21 del conto economico e al denominatore le voci del gruppo A del passivo di stato patrimoniale);
  • infine, verificare la sostenibilità delle scelte di finanziamento in termini di ricaduta sulla gestione economica, condizione tipicamente possibile mettendo in rapporto gli oneri finanziari con i ricavi delle vendite, ossia al numeratore la voce 17 del conto economico e al denominatore la voce 1 del conto economico.

Basandosi sui valori medi delle diverse grandezze di bilancio si è quindi proceduto al calcolo del valore di questi indicatori con riferimento al 2014 sia per le CS “active” che per quelle “non active”; sui valori così ottenuti possono essere espressi dei giudizi che da qualitativi ottengono una espressione quantitativa assegnando uno score da 1 a 5, rispettivamente ad indicare:

  • score 1: situazione di grave disequilibrio
  • score 2: situazione di moderato disequilibrio
  • score 3: situazione di equilibrio minimo
  • score 4: situazione di equilibrio soddisfacente
  • score 5: situazione di equilibrio più che soddisfacente.

Tenendo poi conto delle indicazioni provenienti dalla dottrina e dalla prassi aziendalistica nella valutazione delle risultanze degli indicatori, unitamente alle caratteristiche di aziende non profit proprie delle CS, si riportano di seguito gli intervalli di valori per ciascun ratio che assegnano lo score nella classificazione sopra elencata.

Tabella 1. Intervalli di valori per l’assegnazione degli score

Ratios

Score = 1

Score = 2

Score = 3

Score = 4

Score = 5

Current ratio

< 0,8

0,8 - 0,99

1 - 1,19

1,2 - 1,5

> 1,5

Warranty ratio

< 0,5

0,5 - 0,64

0,65 - 0,79

0,8 - 0,99

> 1

Equity multiplier

> 10

6 - 10

3 - 5,99

2,99 - 2

< 2

ROA

negative

0% - 0,99%

1% - 1,99%

2% - 4%

> 4%

EBITDA /
Total assets

negative

0% - 3,99%

4% - 7,99%

8% - 12%

> 12%

ROE

negative

0% - 1,99%

2% - 4,99%

5% - 8%

> 8%

Interest  / Revenues

> 6%

4% - 6%

2% - 3,99%

1% - 1,99%

< 1%


Applicando ai valori emersi per gli indicatori nei due gruppi, si possono osservare le differenze in termini di punteggio, oltre che gli spread tra “active” e “non active” (NA-A) assoluti e relativizzati.

Tabella 2. Valori ratios nel 2014 e assegnazione degli score

Ratios 2014 Italia

Active (A)

Non Active (NA)

Score A

Score NA

Spread
(NA-A)

Spread relativized (*)

Current ratio

1,44

1,13

4

3

-0,31

0,21

Warranty ratio

0,82

0,46

4

1

-0,36

0,44

Equity multiplier

3,84

11,24

3

1

7,40

1,93

ROA

1,45%

-2,73%

3

1

-4,18%

2,89

EBITDA /
Total assets

5,64%

2,41%

3

2

-3,23%

0,57

ROE

5,56%

-30,72%

4

1

-36,28%

6,52

Interest / Revenues

0,87%

16,20%

5

1

15,33%

17,60

Total rating

 

 

26

10

 

 

Average Rating

 

 

3,71

1,43

 

 

 

 

 

 

 

 

* ass ((NA-A)/A)


Il primo elemento sul quale richiamare l’attenzione è che lo score medio (average rating) diverge in misura netta tra i due gruppi, totalizzando le “active” un punteggio di 3,71, ossia in una situazione di equilibrio vicino al soddisfacente, contro il punteggio di 1,43 che posiziona le “non active” in condizioni appena più prossime al grave che al moderato disequilibrio.

Tuttavia, indicazioni più rilevanti in termini di predittività vengono dall’osservazione dei singoli indici nei valori assunti sui due gruppi; in particolare, si può osservare che:

  • il current ratio non differisce sensibilmente tra i due gruppi e, comunque, nelle “non active” denota una situazione di soglia, ma non di disequilibrio conclamato; peraltro, il current ratio è tipicamente un indicatore che tende a peggiorare nelle fasi più avanzate della crisi aziendale, quando ormai iniziano a manifestarsi problemi di solvibilità. Pertanto, questo indice non possiede una significativa capacità predittiva di future possibili situazioni di crisi e può, di conseguenza, essere espunto dal modello;
  • ben più significativo sembra essere il warranty ratio, considerato che lo score delle “active” è 4 contro 1 nelle “non active”; il valore di 0,46 di queste ultime significa che meno della metà delle immobilizzazioni trova copertura nelle risorse proprie e, quindi, il requisito della solidità patrimoniale è significativamente compromesso, il che pone una seria ipoteca sulla continuazione dell’attività dell’azienda, a meno che non intervengano adeguati apporti di capitale proprio a riequilibrare la situazione. Questo indice può quindi essere a pieno titolo incluso nel modello di previsione delle crisi aziendali per le CS;
  • l’equity multiplier mostra anch’esso una significativa divergenza tra i due gruppi; pur non essendo particolarmente brillante la situazione delle “active”, il valore assunto dall’indicatore (e il relativo score pari a 1) nelle “non active” è un inequivocabile segnale di allarme di una situazione di crisi generata da una errata e squilibrata struttura finanziaria (per inciso, il valore 11,24 significa che, a fronte di ogni euro di risorse proprie, ci sono 10,24 euro di debiti). Pertanto, anche questo indice può essere a pieno titolo incluso nel modello di previsione delle crisi aziendali per le CS;
  • il ROA, che nelle “active” presenta un livello fisiologicamente contenuto, ma positivo, si posiziona in campo negativo nelle “non active”, ottenendo anche in questo caso lo score peggiore; pur nella consapevolezza di avere a che fare con aziende non profit, non si può considerare nel medio-lungo termine sostenibile una redditività negativa, che indica una progressiva erosione del capitale proprio e, quindi, un indebolimento del sistema aziendale. Pertanto, anche il ROA può essere incluso nel modello di previsione delle crisi aziendali per le CS;
  • il rendimento del capitale investito in termini di EBITDA, pur risultando moderatamente positivo anche nelle “non active”, si colloca su un valore che è meno della metà di quello delle “active”; il divario in termini di score non è estremo, ma è comunque un segnale da non sottovalutare alla luce del ruolo della redditività operativa lorda nel delineare la capacità di raggiungere adeguati equilibri economici e di sostenere i costi della struttura dei finanziamenti. È dunque opportuno mantenere questo indice nel modello di previsione delle crisi; una inadeguata redditività operativa, in genere derivante da scadenti livelli di efficienza interna ed esterna del sistema aziendale, è per sua natura una delle cause più rilevanti dell’insorgere di situazioni di crisi aziendale;
  • il ROE evidenzia una netta divaricazione tra le performance dei due gruppi ed assume un valore gravemente negativo nelle “non active”; tuttavia, si tratta di un indicatore spesso condizionato dalla natura residuale e di bottom line nel conto economico del reddito netto, unitamente a valori spesso amplificati (sia in positivo che in negativo) da un ridotto ammontare di capitale proprio. Se a queste considerazioni, si aggiunge poi che il ROE, per la sua stessa natura di misura della remunerazione dei portatori di capitale proprio, assume il significato decisamente più limitato di mera espressione nelle realtà non profit delle potenzialità di autofinanziamento, ne deriva che può essere escluso dal modello di previsione delle crisi aziendali per le CS;
  • il rapporto tra oneri finanziari e ricavi delle vendite, che è considerato di grave disequilibrio per valori oltre il 5-6%, nel gruppo delle “non active” mostra una situazione a dir poco preoccupante, collocandosi sul valore medio del 16,2% contro un valore sotto il punto percentuale nelle “active” (rispettivamente score 1 contro 5); siamo dunque di fronte ad un indicatore altamente predittivo dell’insorgenza di future situazioni di crisi, segnalando una struttura finanziaria non solo sbilanciata, ma incompatibile con le stesse condizioni di equilibrio economico. Atteso quanto sopra, risulta ineludibile l’inclusione di questo indicatore nel modello.

In definitiva, alla luce delle sopra riportate considerazioni, il set di indicatori sui quali calcolare lo score complessivo si restringe ai seguenti cinque: warranty ratio, equity multiplier, ROA, EBITDA su capitale investito e oneri finanziari su ricavi delle vendite.

La Tabella 2 si riduce pertanto nella Tabella 3, in cui il valore medio dello score si modifica evidenziando un divario ancora più netto tra i due gruppi.

Tabella 3. Indicatori per la previsione degli stati di crisi

Ratios 2014 Italia

Active (A)

Non active (NA)

Score A

Score NA

Spread
(NA-A)

Spread relativized (*)

Warranty ratio

0,82

0,46

4

1

-0,36

0,44

Equity multiplier

3,84

11,24

3

1

7,40

1,93

ROA

1,45%

-2,73%

3

1

-4,18%

2,89

EBITDA /
Total assets

5,64%

2,41%

3

2

-3,23%

0,57

Interest / Revenues

0,87%

16,20%

5

1

15,33%

17,60

Total rating

 

 

18

6

 

 

Average Rating

 

 

3,60

1,20

 

 

 

 

 

 

 

 

* ass ((NA-A)/A)


Ne consegue che la rilevazione su una singola CS, sulla base dei dati emergenti dall’ultimo bilancio di esercizio disponibile e pur in presenza di score denotanti equilibrio negli esercizi precedenti, di uno score complessivo inferiore a 1,20 può essere considerata plausibilmente un segnale di una incipiente situazione di crisi che potrebbe portare alla chiusura, volontaria o coattiva, della CS entro i successivi quattro anni. Considerato inoltre che le CS inattive nel 2018 analizzate sul 2014 erano già chiuse in una percentuale del 19,2% nel 2015, del 18,2% nel 2016 e del 21,2% nel 2017, è evidente che la chiusura può intervenire anche più precocemente dell’orizzonte quadriennale ed è ragionevole ipotizzare che ciò avvenga quanto prima per quanto più prossimo al valore minimo di 1 risulta lo score complessivo.

L’evoluzione della situazione finanziaria e della performance economica delle cooperative sociali italiane nel quinquennio 2014-2018

Per analizzare l’evoluzione della situazione finanziaria e della performance economica delle CS italiane lungo il quinquennio oggetto di analisi sono stati presi in considerazione, con riferimento all’insieme delle aziende “active” (e come tali presenti su tutto l’arco temporale considerato), i medesimi indici utilizzati per delineare il modello di previsione delle crisi di cui al paragrafo precedente, sia quelli inclusi nello stesso che quelli esclusi. La motivazione di ciò è data dal fatto che cambia lo scopo, da quello di previsione della crisi a quello di fornire un quadro, completo in tutti i più salienti profili, dell’evoluzione nel tempo degli equilibri economici e finanziari delle CS.

Di seguito si riporta una tabella di sintesi relativa all’andamento di tali indicatori lungo il quinquennio 2014-2018, con l’attribuzione a ciascuno, sulla base degli intervalli riportati nella tabella n. 1 e già utilizzati nel precedente paragrafo, con il calcolo nell’ultima riga di un rating medio per ciascun anno.

Tabella 4. Evoluzione indicatori di bilancio e score 2014-2018 - Italia

Ratios Italia

2014

Score

2015

Score

2016

Score

2017

Score

2018

Score

Current ratio

1,44

4

1,45

4

1,48

4

1,50

4

1,47

4

Warranty ratio

0,82

4

0,84

4

0,88

4

0,90

4

0,86

4

Equity multiplier

3,84

3

3,80

3

3,69

3

3,60

3

3,64

3

ROA

1,45%

3

1,62%

3

1,75%

3

1,72%

3

1,20%

3

EBITDA /
Total assets

5,64%

3

5,76%

3

5,72%

3

5,69%

3

5,04%

3

ROE

5,56%

4

6,16%

4

6,46%

4

6,19%

4

4,36%

3

Interest / Revenues

0,87%

5

0,79%

5

0,72%

5

0,66%

5

0,64%

5

Total rating

 

26

 

26

 

26

 

26

 

25

Average rating

 

3,71

 

3,71

 

3,71

 

3,71

 

3,57


In termini di quadro d’insieme si può osservare quanto segue:

  • il rating medio (così come quello di ciascun indice) rimane invariato dal 2014 al 2017, ben rappresentativo di un andamento relativamente stabile seppure con generalizzati leggeri progressi;
  • questo trend, tuttavia, si interrompe nell’ultimo anno, con un peggioramento riscontrabile in tutti gli indicatori che, pur non drammatico, può rappresentare un segnale di allarme; potrebbe infatti trattarsi del primo di successivi ripiegamenti che è ragionevole ipotizzare alla luce del non favorevole quadro congiunturale del 2019 e, soprattutto, della inevitabile ricaduta negativa della pandemia da Covid-19 sui dati del 2020.

Gli andamenti di ciascun indicatore si possono poi rappresentare in forma grafica, dove viene anche riportata la “soglia critica”, ossia il livello superato il quale si configura una condizione di più o meno grave disequilibrio; ai fini di una corretta lettura dei grafici, si tenga conto che questa soglia corrisponde al valore peggiore dell’intervallo dello score 3 e la freccia nel grafico indica la zona di “allarme”.

Venendo all’esame di ciascun indicatore e partendo dal current ratio, questo si colloca comunque su livelli di soddisfacente equilibrio, soprattutto alla luce della prevalente presenza di CS che si occupano di prestazione di servizi, con conseguente assenza o quasi irrilevanza delle rimanenze di magazzino (Grafico 1). Gli equilibri finanziari di breve termine e la solvibilità sembrano quindi essere mediamente assicurate, anche se non va sottovalutato il segnale proveniente dal pur contenuto ripiegamento dell’indicatore nell’ultimo anno.

Grafico 1. Current ratio anni 2014-2018

Anche il warranty ratio si colloca su valori tutto considerato soddisfacenti, indicando una più che rilevante, seppure non completa, copertura delle immobilizzazioni per mezzo di risorse proprie (Grafico 2). Tale condizione rassicura sul livello medio di solidità patrimoniale di questa categoria di aziende. Non va, tuttavia, sottaciuto il leggero peggioramento riscontabile nel valore del 2018, anche in questo caso possibile primo segnale di una inversione di tendenza in senso negativo.

Grafico 2. Warranty ratio anni 2014-2018

Ricordando che situazioni di equilibrata struttura finanziaria in termini della sua composizione tra risorse proprie e di terzi sono segnalate da valori contenuti dell’equity multiplier, si evidenzia di nuovo una tendenza di progressivo lieve miglioramento nei primi quattro anni, con un 2018 che mostra però un piccolo peggioramento (Grafico 3). La situazione rimane comunque di accettabile equilibrio.

Grafico 3. Equity multiplier anni 2014-2018

Il ROA, primo dei tre indicatori di redditività presi in considerazione, si colloca nella sua media su livelli stabili lungo tutto il periodo anche se con valori non certo esaltanti (Grafico 4). Va tuttavia ricordato che siamo in un contesto di aziende non profit, nelle quali il risultato economico va visto unicamente in funzione del mantenimento e, se possibile, rafforzamento del sistema aziendale.

Grafico 4. ROA anni 2014-2018

L’EBITDA rapportato al totale degli investimenti riveste notevole interesse, essendo in grado di segnalare la performance economica dell’azienda in termini di marginalità operativa lorda. Come si può osservare dal confronto con il ROA, si ha una discreta forbice tra i due tassi, già di per sé indicativa della capacità di sostenere una struttura finanziaria in cui la presenza di capitali di debito è, come si è appena visto dell’esame dell’equity multiplier, significativa. Anche in questo caso, desta una qualche preoccupazione il ripiegamento del 2018 (Grafico 5).

Grafico 5. EBITDA su capitale investito anni 2014-2018

Il ROE, tasso di rendimento delle risorse proprie, di significato limitato nel contesto oggetto di analisi, ma comunque degno di considerazione, è per sua natura più variabile nel tempo, essendo maggiormente sensibile al mutare dei contesti congiunturali. La performance media delle CS italiane si può comunque considerare apprezzabile nei primi quattro anni, mentre nel 2018 scivola verso una situazione più “borderline”, tanto da peggiorare anche lo score da 4 a 3 (Grafico 6).

Grafico 6. ROE anni 2014-2018

Infine, il “peso” degli oneri finanziari sui ricavi, efficace indicatore della ricaduta economica delle scelte di finanziamento, si mantiene in tutto il quinquennio su valori contenuti e, come tali, più che soddisfacenti, segno dell’attenzione posta da queste aziende nel non cadere in un peso economico difficilmente sostenibile provocato da scelte finanziarie non oculate (Grafico 7).

Grafico 7. Oneri finanziari su ricavi anni 2014-2018

Conclusioni

Tutte le aziende, durante il loro ciclo di vita, si trovano a fronteggiare fasi positive e fasi negative e in questo non fanno certamente eccezione le CS. Per gestire i momenti di difficoltà è necessario che chi le amministra abbia gli strumenti per riconoscere precocemente gli stati di crisi.

Al riguardo, lo Z Score di Altman e i modelli successivi da esso derivati, costituiscono strumenti di facile costruzione e interpretazione che consentono di accertare precocemente i sintomi degli squilibri aziendali; discutibile ne è, tuttavia, la generalizzata affidabilità e, ancor più, l’applicabilità a settori e tipologie di aziende che, come le CS, denotano peculiarità tali da non poterle assimilare ad imprese for profit. Non può considerarsi nemmeno utilizzabile il modello recentemente elaborato dal CNDCEC sia per la limitatezza dell’orizzonte temporale che la inadeguata predittività oltre il breve termine degli indici adottati.

Siamo peraltro convinti che, anche senza ricorrere alla sopra richiamata modellistica, l’analisi di bilancio rappresenti comunque uno strumento predittivo in grado di rilevare la presenza di criticità nella gestione patrimoniale, finanziaria ed economica. Le difficoltà e l’affidabilità dei risultati, tuttavia, risiedono nella possibilità di individuare correttamente, tra i tanti esistenti ed utilizzabili, un numero circoscritto di indicatori attraverso i quali rilevare congiuntamente le condizioni di solidità, liquidità e redditività dell’azienda e prevederne con buona attendibilità le eventuali possibili evoluzioni negative.

Proprio per questo, nel presente lavoro sono stati considerati un numero limitato, ma altamente significativo, di indicatori utili a valutare lo stato di salute delle CS italiane. Considerate peraltro le specificità della categoria delle CS, alcuni indicatori sono risultati più di altri idonei e predittivi, portando alla individuazione di un modello basato sugli score ottenuti in cinque indici di bilancio che, nel loro insieme, forniscono un quadro sintetico ma adeguato, essendo prese in considerazione le esigenze di solidità patrimoniale (warranty ratio) e di equilibrio della struttura finanziaria (equity multiplier), unitamente alla performance economica globale netta (ROA) e operativa lorda (EBITDA su totale investimenti), per chiudere con un indicatore capace di segnalare la sostenibilità economica (o meno) delle scelte di finanziamento e, quindi, di rappresentare un ponte ideale tra gli indici finanziari e quelli di andamento economico.

Lo strumento dello score, semplificato rispetto a modelli di impostazione statistico-quantitativa, consente una fruibilità più immediata sia da parte degli amministratori che dei finanziatori delle CS, senza con questo perdere di interesse in termini di capacità segnaletica e predittiva.

Infine, i dati di bilancio delle CS analizzati su un orizzonte temporale quinquennale mostrano che le condizioni economiche e finanziarie sono in lieve progresso dal 2014 al 2017, segnando però una inversione di tendenza nel 2018, non tale da far degenerare la situazione nell’immediato, ma rappresentativa di un primo possibile segnale di una evoluzione futura capace di generare delle preoccupazioni o da richiedere, comunque, un innalzamento della soglia di attenzione, anche alla luce della non brillante congiuntura economica del 2019 e delle ricadute negative sul 2020 della pandemia in atto.

I limiti della presente ricerca derivano dalla variabilità nel tempo e nei diversi contesti degli intervalli di valori per gli indicatori utilizzati ai fini dell’attribuzione degli score, con la conseguente esigenza di adeguamento e revisione degli stessi.

Possibili future linee di ricerca potranno consistere nel testare l’efficacia e l’attualità del modello di previsione delle crisi aziendali per le CS che, pur essendo “active” nel 2018, presentano valori negli indicatori selezionati che segnalano condizioni di disequilibrio, il tutto per verificare negli anni successivi se e in quale percentuale effettivamente cessano la propria attività.

Sarà inoltre interessante monitorare la situazione dal 2019 in poi, anche per comprendere se quanto riscontrato nel 2018 sia frutto di un calo generalizzato medio degli indici o di una situazione segmentata, e complessa con la caduta da parte di alcuni (probabilmente sotto i livelli critici che predicono l’insolvenza) e la tenuta di altri; ciò potrebbe peraltro consentire di capire quali tipi di cooperative sono maggiormente esposti a rischi di insorgenza di crisi.

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