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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2014

Policy

Riformare l'impresa sociale per riformare il terzo settore

Redazione

Il contributo di Iris Network alla consultazione del Governo per la riforma del terzo settore 

Questo documento è il contributo di Iris Network alla consultazione del Governo nazionale sul progetto di riforma del terzo settore. E’ stato elaborato attingendo a contenuti provenienti da molteplici analisi e studi sul campo realizzati negli ultimi anni dalla propria rete di ricerca e, in particolare, valorizzando la produzione scientifica più recente che è stata presentata nel corso della VIII edizione del Colloquio Scientifico sull’impresa sociale organizzato in collaborazione con il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia. L’intento del documento è di contribuire al progetto di riforma guardando al carattere imprenditoriale del terzo settore, nella convinzione che proprio l’impresa sociale possa rappresentare un aspetto rilevante che qualifica la proposta riformatrice non per alcuni aspetti specifici, ma nel suo complesso. Vi è inoltre l’ulteriore obiettivo di alimentare e qualificare il dibattito sull’impresa sociale anche in altre non meno rilevanti sedi di policy making, in particolare a livello europeo, migliorando la comprensione del fenomeno anche per quanto riguarda le connessioni con altre modalità di organizzare in senso innovativo la produzione di valore sociale.

 


“Separare il grano dal loglio”. Facciamo nostro il titolo di una delle linee guida del progetto di riforma del terzo settore recentemente presentato dal Governo per applicarlo al campo dell’impresa sociale. Un ambito che si sta ampliando e differenziando anche per quanto riguarda la produzione scientifica: cresce il numero di ricercatori e di contributi che vengono pubblicati sia su libri e riviste specializzate, che su pubblicazioni generaliste afferenti a diversi ambiti disciplinari: dalle scienze aziendali e organizzative a quelle giuridiche, dagli studi economici a quelli socio-psicologici, urbanistici, ecc. Una ricchezza che testimonia la vivacità di un settore che moltiplica e differenzia le sue espressioni. La ricchezza di questa crescita genera, come sottoprodotto, anche una certa confusione nelle definizioni e negli approcci. Si tratta di un effetto inevitabile e, per certi versi, auspicabile perché denota la volontà di contribuire a un dibattito che vede confrontarsi vecchi e nuovi interlocutori. D’altro canto, l’assenza di una cornice teorico-concettuale ben definita può rappresentare un problema nella misura in cui rende difficile il confronto. Non solo all’interno della comunità scientifica, ma anche presso gli addetti ai lavori, in particolare coloro che definiscono i sistemi di regolazione, di promozione e di finanziamento dell’impresa sociale.

1. L’impresa sociale come istituzione. Il concetto di impresa sociale definisce una forma istituzionale con precise caratteristiche non solo assunte volontariamente dai promotori, ma definite da specifici atti legislativi. Queste caratteristiche sono almeno tre e sono tra loro complementari: (i) devono essere imprese a tutti gli effetti e quindi non solo basarsi su transazioni di tipo commerciale, ma anche rispettare tutte le regole che l’ordinamento di riferimento prevede per qualsiasi impresa; (ii) devono sia avere un’esplicita finalità sociale (perseguimento di un obiettivo di utilità di interesse generale) che, a garanzia della stessa, produca beni e servizi di utilità sociale (o riconosciuti come meritori); (iii) devono adottare una governance caratterizzata da almeno due elementi che si rafforzano a vicenda: l’inclusione degli stakeholder rilevanti nel processo decisionale e avere precisi vincoli alla distribuzione degli utili (non necessariamente totale) e del patrimonio (in questo caso più stringente, destinato cioè ad altre iniziative d’impresa e a fondi chiaramente orientati in senso sociale). Queste caratteristiche – peraltro recepite anche in sede normativa e di policy – contribuiscono a differenziare l’impresa sociale da altri concetti contigui ma non pienamente sovrapponibili, come quello di social entrepreneurship che è invece più ampio perché mette in luce una tendenza generale (anche se non universale) delle imprese a farsi carico in vario modo anche della soluzione di problematiche di carattere sociale. Rientrano in questa ultima tendenza sia le imprese con programmi credibili di CSR, sia imprese che sviluppano soluzioni innovative a problemi sociali facendone una condizione della loro esistenza in quanto produttori. Tuttavia, a differenza delle imprese sociali, queste imprese sono e restano libere di modificare i propri obiettivi in quanto non adottano elementi strutturali permanenti. In sintesi l’impresa sociale è una forma istituzionale che rappresenta una componente specifica di una tendenza più generale delle imprese private a farsi carico più che in passato di problemi di carattere sociale. Si ritiene pertanto di insistere sulla necessità che nella riforma normativa e di definizione di politiche di sviluppo i due concetti vengano tenuti distinti, in modo da valorizzarne, e incentivarne, le peculiarità.

2. I limiti alla distribuzione degli utili. La teorizzazione e l’applicazione di vincoli alla distribuzione degli utili rappresenta un argomento molto dibattuto sia in ambito scientifico che tra i practitioner, soprattutto perché diverse sono gli aggregati economici a cui tale vincolo può essere riferito. Nella letteratura e nella maggior parte della normativa, tra cui in particolare nella recente Social Business Initiative della Commissione Europea, è ormai condivisa la convinzione che alle imprese sociali debba essere imposto un vincolo non totale sugli utili correnti e un vincolo totale sul patrimonio, cioè in caso di trasformazione, di cessione o di liquidazione dell’impresa. In questo modo si salvaguarda la natura sociale dell’impresa, la sua capacità di rinforzare i rapporti fiduciari con tutti i portatori di interesse e, nel contempo, di facilitare la capacità di attrarre capitale di rischio, garantendo ai sottoscrittori una limitata retribuzione. Si ritiene quindi che l’introduzione di questa possibilità nella legge sull’impresa sociale sia del tutto condivisibile anche da un punto di vista strettamente scientifico. Esistono comunque importanti questioni da approfondire che riguardano non solo il carattere parziale o totale del vincolo alla non distribuzione degli utili, ma soprattutto le risorse economiche rispetto alle quali il vincolo viene calcolato, ad esempio sugli aggregati (utili correnti oppure patrimonio) e per gli apportatori di capitale (con o senza potere nella gestione delle organizzazioni). Le legislazioni nazionali hanno fatto scelte diverse ed è sempre più evidente il bisogno di una riflessione approfondita che superi differenze di interpretazione e ambiguità.

3. Il ruolo della finanza e degli strumenti di sostegno. In molte sedi di policy lo sviluppo dell’impresa sociale viene ricollegato alle strategie e ai prodotti di una finanza sempre più attenta all’impatto sociale dei suoi investimenti. Si tratta certamente di una risorsa, solo in parte nuova, che può svolgere un ruolo importante. Ma in questa fase del dibattito è necessario ricordare che essa non è certo l’unica. L’impresa sociale, infatti, ha già in molti casi risolto il problema del finanziamento delle proprie attività sia attraverso il consolidamento patrimoniale (grazie anche al vincolo di distribuzione di utili), sia ricorrendo al credito ordinario che peraltro si è via via specializzato nel rapporto con queste imprese. E’ quindi necessario accompagnare ulteriormente le imprese sociali e gli enti che intendono finanziarle verso un utilizzo mirato di queste risorse, ma evitando le derive di finanziarizzazione che hanno caratterizzato, anche in epoca recente, altri settori dell’economia e che in questi ultimi mesi sembrano aver trovato sostenitori anche con riferimento all’impresa sociale. Questo obiettivo può essere realizzato favorendo una maggiore diversificazione del mercato e degli attori finanziari, ad esempio attraverso la creazione di un fondo nazionale per il sostegno al capitale di rischio delle imprese sociali, coniugando finanza di rischio più orientata all’innovazione e finanza più orientata alla gestione, favorendo non solo lo startup di nuove imprese sociali ma anche il consolidamento delle molte esistenti e che presentano ancora significativi margini di crescita. Inoltre lo sviluppo dell’imprenditoria sociale va perseguito anche guardando ai rapporti con le istituzioni più prossime per finalità, ovvero quelle pubbliche, questione cruciale rispetto alla quale va meglio declinato il ruolo che l’impresa sociale deve assumere in un nuovo modello di partenariato tra pubblico e privato, centrato sulla co-gestione, co-progettazione, co-produzione di beni e servizi (come ad esempio nel campo del welfare).
Un’applicazione immediata delle nuove normative europee sulla concorrenza nel settore dei servizi pubblici di interesse generale e di quelle riguardanti i rapporti di collaborazione tra pubbliche amministrazioni e imprese sociali di inserimento lavorativo può rappresentare un importante strumento di azione per connotare positivamente il semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea. Queste disposizioni infatti riconoscono la possibilità di effettuare appalti riservati ed anche di concessioni riservate per imprese sociali impegnate nella organizzazione di percorsi di integrazione sociale e professionale di persone con disabilità e svantaggiate. Inoltre è prevista per la prima volta la possibilità di indire appalti riservati anche nei settori sociale, sanitario e culturale a patto che i destinatari della riserva siano organizzazioni che presentano le caratteristiche tipiche dell’impresa sociale ricordate in precedenza ovvero: a) perseguire una missione di servizio pubblico legata alla prestazione dei servizi; b) reinvestire i profitti in vista del conseguimento dell’obiettivo dell’organizzazione o distribuirli sulla base di condizioni partecipative; c) presentare una struttura di gestione (management) o di proprietà (ownership) fondata su principi partecipativi, forme di azionariato dei dipendenti o, comunque, meccanismi che consentano la partecipazione attiva di dipendenti, utenti o soggetti interessati.

4. Valutare l’impatto sociale. Metriche ed indicatori sul valore sociale creato dalle imprese sociali rappresentano un argomento di grande interesse soprattutto tra coloro che gestiscono queste imprese e presso tutti quei soggetti che, a vario titolo, ne sostengono operatività e sviluppo. L’enfasi è al momento molto focalizzata soprattutto su indicatori legati alla qualità della produzione, misurandola ex post presso le diverse platee di beneficiari. Un approccio certamente rilevante per favorire il confronto e l’apprendimento tra diversi modelli di servizio, in una fase in cui si moltiplicano i soggetti interessati a operare in questo campo (con la veste di impresa sociale o in altra forma). D’altro canto emergono anche significative difficoltà in sede di definizione di indicatori che misurano performance caratterizzate da notevoli margini di incertezza e ambivalenza, considerando le peculiarità dei beni e dei servizi prodotti, con il rischio che la definizione di standard troppo vincolanti rappresenti un limite all’innovazione e quella di standard troppo dettagliati impedisca, di fatto, una valutazione di sistema. Inoltre si corre il rischio di sottovalutare metriche legate ai sistemi organizzativi e agli assetti di governance (tra cui in particolare il vicolo alla distribuzione di utili e del patrimonio) che rappresentano una garanzia ex ante della qualità del valore sociale prodotto. Nonostante queste oggettive difficoltà una maggiore attenzione alle metriche d’impatto può rappresentare un importante effetto di cambiamento anche nell’ambito dell’imprenditoria sociale, a patto di individuare in modo chiaro le aree di misurazione. Dal dialogo, ormai consolidato, tra produzione scientifica e lavoro sul campo degli imprenditori sociali emergono alcune di queste aree che riguardano: i) le modalità di effettivo coinvolgimento degli stakeholder nel sistema di governance; ii) gli effetti generati a favore dei beneficiari diretti delle attività in termini di empowerment individuale e rafforzamento delle reti sociali; iii) la capacità di soddisfare il complesso delle motivazioni che caratterizzano lavoratori remunerati e volontari; iv) la funzione redistributiva svolta a favore sia dei beneficiari diretti che delle comunità locali in cui operano le imprese sociali; v) l’efficienza e l’efficacia dei modelli di servizio e di business rispetto a soluzioni alternative di altri soggetti pubblici e privati.

5. Riformare l’impresa sociale per riformare il terzo settore. Nell’ambito del più ampio ridisegno del quadro normativo del terzo settore, l’immediata riforma della norma sull’impresa sociale come proposta nelle linee guida che a nostro avviso tengono correttamente conto del dibattito di questi anni può rappresenta un’importante elemento di traino per almeno due ragioni. In primo luogo perché i progetti di riforma della legge 118/05 e successivi decreti sono in fase molto avanzata e hanno già registrato un ampio consenso da parte delle diverse espressioni e rappresentanze del fenomeno. In secondo luogo, e questo è l’aspetto forse di maggior rilievo, perché una normativa più efficace nell’intercettare sia le forme più mature che quelle emergenti d’impresa sociale può rappresentare, essa stessa, un cardine della riforma del terzo settore, in quando ne definisce una vocazione specifica e sempre più rilevante (quella produttiva), probabilmente anche senza dover intervenire sulla normativa primaria, ovvero il codice civile. La dimensione normativa dovrebbe poi accompagnarsi a politiche di carattere sia regolativo che promozionale. Sul primo fronte è necessario rafforzare ed estendere a tutti i modelli d’impresa sociale strumenti tipici di questo settore, come le revisioni periodiche e il deposito della documentazione richiesta presso le Camere di commercio, in particolare per quanto riguarda il bilancio economico e il bilancio sociale. Sul fronte delle politiche promozionali, l’utilizzo mirato dei fondi strutturali e diretti europei può rappresentare un’importante leva per sostenere una nuova stagione per l’impresa sociale. Le istituzioni comunitarie, infatti, indicano l’impresa sociale come priorità di investimento non solo per quanto riguarda le risorse più tipicamente “sociali” come il Fondo sociale europeo, ma anche in altri fondi strutturali che riguardano lo sviluppo locale (Fesr) e le politiche agricole, oltre ad importanti linee di finanziamento direttamente gestiste in sede europea in relazione all’innovazione delle politiche sociali dell’imprenditoria sociale e del microcredito (Easi) e alle attività di ricerca finalizzate a rispondere a “Societal Challanges” (Horizon 2020). Un importante banco di prova per l’investimento di queste e altre risorse è costituito dalla rigenerazione di asset immobiliari a scopo sociale rispetto ai quali l’impresa sociale vanta una particolare competenze, soprattutto per quanto riguarda i beni confiscati alle organizzazioni mafiose. Rafforzare il ruolo di queste imprese, facilitando l’accesso ai beni, accompagnandone l’acquisizione e strumentandole in termini finanziari, può rappresentare il fulcro di una politica nazionale che riqualifica il patrimonio immobiliare sia pubblico che privato non solo in termini infrastrutturali, ma guardando anche alla funzione d’uso per finalità di interesse collettivo.

 

 
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