L'inclusione del Terzo settore associativo e delle società benefit nel convenzionamento ai sensi degli art. 12bis e 14, pur comprensibile nella logica generale, rappresenta una soluzione discutibile e conferma la poca attenzione della politica nei confronti delle cooperative sociali di inserimento lavorativo.
In questi giorni stanno apparendo, su Impresa Sociale (vedi l’articolo dei Alceste Santuari) e sua altri media (Alberto Fontana su Vita.it), alcuni commenti relativamente alla previsione, nell’ambito della legge di conversione del D.L. 159/2025 (c.d. dl. sicurezza sul lavoro), di una norma che amplia alle società benefit e alle associazioni la possibilità di stipulare convenzione ai sensi dell’art. 12 bis della legge 68/1999 e dell’art. 14 del d.lgs. 276/2003 (vedi qui gli interventi operati sui testi di legge preesistenti). Si tratta, come è noto, di norme che – con alcune specificità e differenze che per brevità in questa sede si tralasciano, consentono ad un’impresa tenuta all’obbligo di assunzione di una quota di persona con disabilità, di assolvere a parte dell’obbligo destinando commesse a cooperative sociali che, grazie a ciò possono assumere lavoratori con disabilità.
La norma ora introdotta, oltre ad alzare in modo significativo, dal 10% al 60%, la quota di assunzioni assolvibili ai sensi dell’art. 12 bis attraverso tale modalità, prevede che i soggetti cui destinare le commesse che consentano l’assolvimento dell’obbligo possano essere anche “gli enti del Terzo settore non commerciali di cui all'articolo 79, comma 5, del codice del Terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n.117 e le società benefit di cui all'articolo 1, comma 376 della legge 28 dicembre 2015, n. 20”.
Si intende esaminare questa previsione da tre punti di vista: 1) la logica generale che la ispira 2) gli aspetti specifici della norma 3) il contesto politico in cui essa viene proposta e approvata.
Se esaminata in termini generali la norma non pare estranea a ragionamenti comunemente proposti tanto nel nostro paese, quanto negli altri paesi europei. Il fatto – richiamato anche dal precedente articolo di Santuari – che gli strumenti che promuovono l’integrazione lavorativa attraverso il public procurement (l’art. 61 del d.lgs. 36/2023, ma anche, a ben vedere, il comma 4 dell’art.5 della legge 381/1991), siano aperti alla non solo alle cooperative sociali di tipo B, ma alla generalità imprese che siano disponibili a inserire lavoratori svantaggiati già di per sé testimonia un orientamento a ritenere che la finalità dell’integrazione lavorativa, pur assegnando un ruolo specifico alle cooperative B, sia meglio conseguibile coinvolgendo quanto più possibile il tessuto economico. Anzi, sono storicamente presenti, nel mondo cooperativo, auspici che ciò avvenga, dal momento che sancirebbe la diffusione di una sensibilità verso l’integrazione lavorativa diffusa all’intero sistema produttivo, contrastando quindi alla radice le cause dell’esclusione.
Allargando lo sguardo al dibattito europeo (Galera 2023), va evidenziato come vi siano paesi europei (ad esempio l’Olanda o l’Austria) che, pur non prevedendo forme di specifico riconoscimento per le imprese sociali di inserimento, hanno introdotto forme di incentivo anche significative per qualsiasi impresa operi l’integrazione lavorativa; in questi paesi le “imprese sociali di inserimento lavorativo” sono di fatto imprese ordinarie che hanno scelto di operare assumendo un certo numero di lavoratori svantaggiati.
In generale, il tema del confronto tra politiche orientate ai soggetti con una vocazione specifica per l’integrazione lavorativa e politiche orientate alla generalità dei soggetti che – anche con vincoli alla non distribuzione degli utili allentati o inesistenti – sono in talune occasioni disponibili ad assumere lavoratori svantaggiati è discussa anche in altri paesi, come ad esempio la Spagna, dove è in corso un dibattito tra CEEIS (nonprofit) e CEEIE (profit), entrambi soggetti che inseriscono al lavoro persone con disabilità, ma con natura diversa, relativamente al tipo di sostegno che è corretto avere da parte delle politiche pubbliche. Si tratta pertanto di questioni ben presenti nell’attuale dibattito.
Da questo punto di vista, pertanto, pur nella legittimità delle diverse opinioni, la scelta di allargare gli strumenti dell’art. 12 bis e dell’art. 14 anche a soggetti diversi dalle cooperative sociali di tipo B non appare estranea ad indirizzi consolidati nel nostro paese e al confronto in atto in altri paesi europei.
Veniamo ora ad un esame più specifico delle modifiche introdotte. In premessa, va evidenziato come già le norme di partenza siano scritte in modo un po’ incerto, e citino in modo un po’ disordinato le cooperative e le imprese sociali (in generale) e le cooperative sociali di tipo B e le imprese sociali di inserimento lavorativo relativamente alle funzioni di definizione delle convenzioni quadro e poi dell’attuazione come assegnatari delle commesse da parte delle imprese tenute all’obbligo. Assumiamo comunque, anche sulla base dell’effettiva prassi, che entrambe le norme oggetto di modifica oggi intendano riferirsi ad assegnatari delle commesse in forma di cooperativa sociale di tipo B (o plurimo, per la parte di tipo B) o di imprese sociali di inserimento lavorativo (d.lgs. 112/2017, art. 2, comma 4). In sostanza, a soggetti con finalità (e conseguente esperienza) specifica relativa all’integrazione lavorativa di persone svantaggiate. La ratio della norma non pare essere una mera “vendita” di quote di obbligo, ma il coinvolgimento – temporaneo e definitivo – di un soggetto con una specifica esperienza nell’integrazione lavorativa.
Ora, in che modo un legislatore orientato ad intervenire in senso “espansivo”, interessando quindi non solo cooperative e altre imprese sociali con specifica finalità all’inserimento lavorativo, avrebbe potuto rielaborare la norma?
Diverse risposte sono possibili, ma tutte avrebbero, in coerenza con quanto sopra, dovuto ricercare una garanzia a tutela della qualità dell’inserimento tale da bilanciare l’apertura a soggetti potenzialmente estranei a questo tipo di attività. Procedendo per analogia, non a caso il comma 4 dell’art. 5 della legge 381/1991, nell’aprire alla generalità delle imprese la possibilità di convenzionarsi con pubbliche amministrazioni per l’inserimento di lavoratori svantaggiati, prescrive che esse comunque adottino “specifici programmi di inserimento lavorativo” o l’art. 61 del d.lgs. 36/2023 prescrive che gli operatori economici (anche diversi dalle cooperative sociali di tipo B) che intendano competere per l’assegnazione di appalti riservati debbano avere come “scopo principale l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate”. In altre parole, anche laddove la normativa ha ritenuto utile estendere la possibilità di impegnarsi nell’integrazione lavorativa a soggetti diversi da cooperative sociali, lo ha fatto prevedendo (a tutela delle persone inserite) elementi di qualità che in sostanza spingono il soggetto potenzialmente estraneo alla logica dell’integrazione lavorativa ad agire, di fatto, in modo analogo ad una cooperativa sociale di tipo B.
Il dispositivo contenuto nella conversione in legge del D.L. 159/2025 pare invece ignorare questo aspetto. Coinvolge per giunta soggetti, come organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e altri ETS in forma associativa che, per loro stessa natura, mal si adattano ad un ruolo di impresa. E anche il coinvolgimento delle società benefit appare estemporaneo, nel momento in cui si slega dalla specializzazione relativa all’integrazione lavorativa: nel momento in cui ci si vuole sottrarre dalla possibile censura legata ad orientare la normativa sulla forma giuridica - ad evitare cioè l’accusa di voler “privilegiare” le cooperative sociali – si passa in realtà da una normativa che rimane ispirata alle caratteristiche soggettive, ma semplicemente le rende meno specifiche rispetto alla finalità dichiarata.
Per inciso, su questi temi non si può fare a meno di notare un certo disordine, che ha accompagnato questa fase di prima applicazione della riforma del terzo settore (Marocchi Gori 2021). Ancora non si era finito di dare applicazione ad una riforma che ambiva a riunificare sotto un cappello unitario la pluralità di soggetti della società civile operanti per l’interesse generale che si affollava una pletora di soggetti – associazioni sportive dilettantistiche, imprese culturali, cooperative di comunità, soggetti non profit non ETS, società benefit, ecc. - che rivendicava il buon diritto di rimanere al contempo fuori dal Terzo settore, vedendo però accomunata la propria posizione con gli ETS. In sostanza, invece di agire per allargare, se del caso, le maglie della riforma, si è scelto di mortificare l’ambizione all’unificazione facendo rispuntare, un po’ alla spicciolata, normative – nazionali o regionali – rivolte a peculiari soggetti cui si riconoscono prerogative affini a quelle degli ETS.
E veniamo al terzo punto, quello del contesto politico in cui tale norma si attua. Il contesto è quello della drammatica trascuratezza, negli ultimi vent’anni, delle cooperative sociali di inserimento lavorativo (Borzaga e Marocchi 2022; Marocchi 2023). Questi soggetti da decenni, pur con una normativa di sostegno trascurabile, occupano circa 30 mila lavoratori svantaggiati – circa la metà persone con disabilità – ma non hanno mai visto riconosciuto un ruolo nelle grandi politiche volte all’integrazione lavorativa delle fasce deboli degli ultimi quindici anni: da Garanzia Giovani, alle misure di contrasto alla povertà, al GOL nel PNRR. Le istanze minime e ragionevoli che esse portano con insistenza da tempo, dalla revisione delle categorie di svantaggio vecchie di oltre trent’anni nella 381/1991, da cui restano escluse molte persone svantaggiate di fatto assunte nelle cooperative B al riconoscimento del lavoro sociale e formativo svolto, non riescono ad entrare nell’agenda politica. In altri contributi (Marocchi 2023) si è provato a proporre un decalogo di possibili azioni di sostegno alla funzione di integrazione lavorativa, tutte praticabili, talvolta sperimentate a livello regionale o locale, nessuna considerata dalle politiche nazionali; e si evidenzia come la trascuratezza delle politiche abbia determinato una situazione in cui la cooperazione sociale di inserimento lavorativo, nel suo complesso, resiste a fatica sulle posizioni preesistenti, mentre in altri paesi europei, dove organizzazioni analoghe sono state adeguatamente sostenute, si siano sviluppate in modo molto significativo negli ultimi due decenni, offrendo così un contributo aggiuntivo rilevante a limitare i fenomeni di esclusione dal mercato del lavoro.
Anche recentemente, nella bozza di Piano Nazionale per l’Economia Sociale, sulle cooperative di inserimento lavorativo incredibilmente si glissa, dedicando al contrario, nel capitolo dedicato al ruolo dell’economia sociale nell’integrazione lavorativa, ampio spazio al workers buyout: intendiamoci, aspetto degnissimo, ma che per rilevanza oggettiva non può stare al pari dell’integrazione lavorativa realizzata dalle cooperative di inserimento lavorativo.
In altre parole: una sorta di “congiura del silenzio”, un pudore inspiegabile nei confronti della cooperazione B, oggetto di persistente trascuratezza da parte di governi dei più vari orientamenti politici, che quando si occupano di questo argomento di volta in volta scelgono di puntare sulle società di somministrazione, sulle società benefit, sul workers buyout, sulla responsabilità sociale delle imprese, senza trovare il modo di fare il punto sul soggetto più significativo dell’integrazione lavorativa nel nostro paese, che ha ispirato gli ultimi due decenni di politiche europee.
Ebbene, dopo molto tempo, ecco che il legislatore scegli di occuparsi di una norma che tratta del tema dell’inserimento lavorativo: interviene infatti sull’art. 12bis della legge 68/1999 e l’articolo 14 del d.lgs. 276/2003, grazie ai quali la cooperazione B, pur tra mille difficoltà – dalle diffidenze sindacali al tentativo di utilizzo strumentale da parte delle imprese tenute all’obbligo – alcune migliaia di posti di lavoro per persone con disabilità li ha creati. Ma ancora una volta la priorità nella mente del legislatore non è quello di supportare chi sta lavorando da tempo su questo fronte – ad esempio sostenendo le funzioni di ricollocazione nel mercato ordinario o la professionalizzazione dei lavoratori svantaggiati – ma di ipotizzare il coinvolgimento di altri possibili soggetti, peraltro in modo come si è visto un po’ a estemporaneo.
In sintesi, non è tanto il principio di allargamento ad essere in sé discutibile; ma lo è il fatto che, rispetto ad un tema che merita effettivamente una seria riflessione, si sia scelto di legiferare in modo disordinato e offrendo una conferma ulteriore rispetto alla trascuratezza della politica nei confronti delle cooperative di inserimento lavorativo e continuando a mortificarne le potenzialità. Inoltre, la scelta di includere nelle azioni di integrazione lavorativa soggetti in modo un po’ casuale e senza richiedere specifici requisiti trasmette l’idea che tali azioni non necessitino di nessuna particolare specializzazione e possano pertanto essere svolte da chiunque si presti con un po’ di buona volontà: il contrario rispetto alla necessità invece di valorizzare l’azione dei soggetti che operano con attenzione e competenza in questo settore.
Borzaga C., Marocchi G., (2022), L’inserimento lavorativo, malgrado le politiche, in Impresa Sociale 2/2022.
Fontana A., (2025), Ma l’inclusione lavorativa non è solo una variabile, in Vita, 22/12/2025
Galera G., Tallarini G., (2023), L’inserimento lavorativo in una prospettiva europea, in Impresa Sociale 1/2023.
Gori L., Marocchi G., (2021), La riforma del Terzo settore tra unità e differenziazione, in Impresa Sociale 2/2021.
Marocchi G., (2023), Molte delle cose che credevamo sull’inserimento lavorativo sono false, in Impresa Sociale 1/2023.
Santuari A., (2025), Società benefit e cooperazione sociale di inserimento lavorativo: opposizione o prospettive di sviluppo integrate? Forum di Impresa Sociale, 26/1/2025.
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