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ISSN 2282-1694
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Editoriale

L’inserimento lavorativo, malgrado le politiche

Carlo Borzaga, Gianfranco Marocchi

Saggi

Quello strano istituto dell’art. 112

Luigi Gili

L’economia sociale in Italia: dimensioni ed evoluzione

Carlo Borzaga, Manlio Calzaroni, Eddi Fontanari, Massimo Lori

Il terzo settore dei servizi sociali nella crisi sanitaria

Annalisa Turchini

Coproduzione nei servizi per l'infanzia

Agostino Cortesi, Maria Sangiuliano, Nicole Traini, Massimo Zancanaro

Il contributo del terzo settore contro la dispersione scolastica

Grazia Falzarano, Melania Verde

Il ruolo delle imprese sociali nell'agricoltura sociale

Francesco Amati, Italo Santangelo

Una buona valutazione nella cooperazione allo sviluppo

Maura Viezzoli

Saggi brevi

Comunità energetiche rinnovabili

Andrea Bernardoni, Carlo Borzaga, Jacopo Sforzi

Casi studio

Rigenerazione urbana e approccio alle capacitazioni

Gaetano Giunta, Liliana Leone

Numero 2 / 2022

Editoriale

L’inserimento lavorativo, malgrado le politiche

Carlo Borzaga, Gianfranco Marocchi

Nel numero 1/2022 Impresa Sociale ha digitalizzato e ripubblicato L’impresa sociale, una chance per l’Europa, piccolo gioiello del 1995, altrimenti ormai introvabile se non in poche copie cartacee nelle mani di appassionati del tema. Si tratta della prima ricerca in cui l’allora nascente fenomeno dell’impresa sociale veniva comparato tra i diversi Paesi europei, preludio agli sforzi più sistematici che hanno portato pochi anni più tardi ai lavori della rete EMES. Bene, se si guarda a quel periodo, emerge una consapevolezza: l’Italia era guardata come punto di riferimento per l’impresa sociale in generale e, in specifico, per l’avere inventato e diffuso, già nei dieci anni precedenti, le imprese sociali di inserimento lavorativo – oggi comunemente denominate WISEs, Work Integration Social Enterprises – mentre negli altri Paesi si assisteva al massimo alle prime sperimentazioni volte a rendere produttivi i laboratori protetti. Rispetto a questi ultimi, in cui almeno il 50% dei lavoratori era costituito da persone con disabilità, le cooperative sociali italiane inserivano il 30% di lavoratori svantaggiati (non solo disabili) segno che ricercavano maggiormente la sostenibilità sul mercato, anticipando una tendenza che oggi caratterizza la maggior parte delle esperienze europee. Anche sul fronte normativo l’Italia era all’avanguardia: si pensi all’art. 5 della 381/1991 – che già trent’anni fa prevedeva che gli enti pubblici potessero riservare l’affidamento di forniture di beni e servizi a cooperative sociali affinché così si realizzasse l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate – anticipando il meccanismo degli “appalti riservati” e delle “concessioni riservate”. L’Europa, a lungo scettica su questo tipo di misure considerate lesive della concorrenza – da qui ad esempio la richiesta nel 1996 di limitare gli affidamenti a cooperative sociali di inserimento lavorativo sotto le soglie comunitarie – al di fuori del caso dei laboratori protetti, ha poi riconosciuto ed esteso, con le direttive del 2014, l’impostazione della 381, consentendo appunto appalti e concessioni riservate verso imprese che inseriscano il 30% di lavoratori svantaggiati; tale previsione è stata immediatamente adottata da tutti i Paesi dell’Unione e recepita in Italia dal Codice dei contratti pubblici del 2016.

Dunque, in quella fase e per diversi anni, l’Italia è stata un paese all’avanguardia nell’ambito dell’inserimento lavorativo, adottando soluzioni che si sono poi affermate a livello europeo. A questo punto diventa naturale chiedersi quale cosa sia accaduto in questo quarto di secolo e quale sia la situazione attuale. L’Italia è ancora il punto di riferimento in Europa per l’inserimento lavorativo?

La risposta è complessa e si proverà a svilupparla in queste pagine, ma, anticipando l’esito della nostra riflessione, può essere così sintetizzata: l’inserimento lavorativo è tutt’ora un’esperienza di grande rilievo nel nostro Paese, grazie alle non comuni energie che le cooperative sociali hanno saputo e sanno mettere in campo; ma è oggi meno sviluppata sia rispetto ad altri Paesi europei, sia rispetto a quello che sarebbe potuta essere, per la colpevole incapacità del nostro sistema politico di creare nell’ultimo ventennio condizioni adeguate al suo sviluppo.

Proviamo quindi ad analizzare punti di forza e criticità che le WISEs italiane hanno vissuto e stanno vivendo.

I punti di forza

Innanzitutto (e, si vedrà, malgrado tutto!), Le WISEs italiane sono tutt’ora un fenomeno solido e significativo nel panorama nazionale: sono presenti oltre 5.000 mila cooperative sociali di inserimento lavorativo con più di tre miliardi di valore della produzione, derivanti per quasi il 70% da vendite a privati (imprese o famiglie) e con quasi 100.000 occupati di cui almeno 35 mila sono posizioni lavorative coperte da persone formalmente riconosciute come svantaggiate (per 16.000 lavoratori full time equivalent). Circa la metà è costituita da persone con disabilità, circa 8 mila sono persone con problemi di tossicodipendenza o alcolismo, circa 7 mila i pazienti in carico ai servizi di salute mentale, circa 3 mila i detenuti o semiliberi.

Cifre che a grandi linee ci danno le dimensioni dell’azione dell’inserimento lavorativo nel nostro Paese. A questi numeri va aggiunta una quota non verificabile, ma presumibilmente intorno alle 15 mila unità, di persone con forme di svantaggio non riconosciute dalla legge 381 e successive modifiche, ma incluse nelle definizioni europee – disoccupati anziani di lungo periodo, neet, donne sole con carichi familiari, persone in condizioni di povertà estrema, richiedenti protezione internazionale, ecc. – che le cooperative sociali assumono pur non avendo riconoscimenti dalle politiche pubbliche. È un risultato importante. Documenta come stare sul mercato e integrare nel ciclo produttivo persone svantaggiate, quelle che le altre imprese generalmente schivano fin che possono e che l’assistenza rischia di cronicizzare, è invece possibile. Una politica avveduta avrebbe fatto tesoro di questo risultato, lo avrebbe sostenuto e lo sosterrebbe in ogni modo e ne avrebbe estratto gli elementi fondamentali per riprodurli, per quanto possibile, nel resto del sistema produttivo. Se fosse avveduta, appunto.

In secondo luogo, emergono segnali di dinamicità imprenditoriale non scontati. Si tratta di imprese che, con sostegni minimi, stanno sul mercato sia pubblico che, come abbiamo, visto soprattutto privato; dai dati delle ricerche realizzate da Euricse su un gruppo di circa 3.000 imprese di cui erano disponibili i bilanci a cavallo della precedente crisi, dal 2008 in poi, nonostante le due crisi che hanno colpito l’economia italiana e non solo, le cooperative sociali di inserimento lavorativo, pur diminuite negli ultimi anni di qualche centinaio, hanno aumentato sia gli occupati complessivi che i lavoratori svantaggiati, hanno mantenuto margini di sostenibilità accettabili, indicatori di equilibrio finanziario, hanno investito in modo consistente mentre altre imprese chiudevano o delocalizzavano.

Ancora, sono presenti tra le oltre 5.000 WISE italiane, almeno un certo numero – difficile da stimare, comunque diverse decine – di casi di imprese eccellenti, talvolta fortunatamente in grado di ottenere anche un certo rilievo nella narrazione mediatica, capaci di sviluppare performance aziendali di primordine che le rendono imprese di riferimento per il proprio territorio, di investire su frontiere innovative con tecnologie avanzate assicurando allo stesso tempo un’alta qualità dell’inserimento lavorativo grazie a responsabili e operatori dedicati, un apprezzabile lavoro di rete con i servizi sociali e il terzo settore del territorio, progetti personalizzati accurati e così via.

Le criticità delle WISEs. E quelle della politica

Ciascuno dei punti di forza sopra richiamati porta con sé elementi di debolezza che non vanno taciuti.

Rispetto al numero di persone svantaggiate, vi sono diverse osservazioni da fare. Le cifre attuali, con alcune oscillazioni e nella scarsità di dati certi, pur assai rilevanti, appaiono solo di poco superiori a quelle dell’inizio degli anni Duemila, a fronte degli incrementi esponenziali registrati negli anni ’90 e mentre in altri paesi (si pensi ad esempio alla Spagna, dove le sole persone con disabilità assunte dai Centro Especial de Empleo (CEE) assommano a circa 100 mila unità, o al Belgio) si sono nel corso degli anni raggiunti numeri assai più significativi.

E, presumibilmente, in molti casi le persone svantaggiate inserite sono le stesse di dieci anni fa. In Italia, infatti, uno storico dibattito tra WISE più orientate all’inclusione permanente e altre più orientate al successivo collocamento in imprese esterne, si sta risolvendo de facto in favore delle prime, non tanto per motivi culturali, quanto per difficoltà oggettive che rendono difficile la collocazione esterna dopo un periodo di abilitazione in cooperativa. Da una parte, infatti, i persistenti cicli di crisi economica hanno reso il mercato del lavoro meno ricettivo, dall’altra sono mancati i supporti adeguati a sostenere adeguatamente la funzione di transizione, che richiede la disponibilità delle risorse necessarie a remunerare le funzioni di ricerca e mediazione verso il successivo posto di lavoro. Inoltre, in un contesto sempre più competitivo, non sempre l’impresa può privarsi in modo sistematico delle risorse umane migliori – coloro che dopo alcuni anni in cooperativa hanno aumentato in modo significativo le proprie capacità – per ricominciare ogni volta il ciclo con persone in ingresso più problematiche e meno produttive. La diminuzione dei casi di transizione, a livello di sistema, significa che a parità di numero di occupati totali, le persone che nel corso del tempo sono fuoriuscite dalla condizione di esclusione sono di meno.

Rispetto alla qualità dell’inserimento, la situazione è molto variegata e anche in questo caso non esistono dati certi, anche se generalmente è abbastanza evidente il tentativo delle cooperative di operare al meglio su questo fronte. Sicuramente vi sono i casi prima citati di imprese che, grazie ad una ammirabile qualità di impresa e ad un commitment molto forte della dirigenza e dei soci, riescono a produrre margini consistenti dall’attività produttiva per indirizzarli a funzioni connesse alla qualità dell’inserimento, in primo luogo a personale dedicato alla presa in carico dei percorsi delle persone svantaggiate; ma è al tempo stesso frequente raccogliere invece testimonianze di altre imprese che, in un contesto di mercato fattosi nell’ultimo ventennio sempre più difficile e nell’assenza – ne discuteremo più avanti – di politiche strutturate di public procurement socialmente orientato – incontrano difficoltà crescenti a dotarsi strutturalmente – al di là dell’impegno volontario dei soci - delle diverse funzioni connesse alla cura dei percorsi di inserimento e dichiarano di trovarsi spesso nella necessità di assumere gli “svantaggiati meno svantaggiati” per restare sul mercato.

Da un punto di vista meramente imprenditoriale, anche in questo caso il panorama è complesso e, accanto alle situazioni di eccellenza sopra citate, vi è una quota, comunque molto alta, di imprese, soprattutto nel Mezzogiorno, con fatturati minimi (sotto i 100 mila euro) e livelli di sostenibilità sempre precari.

Una lettura di queste criticità non può però essere fatta prescindendo dalla sordità e dalla poca lungimiranza della politica. Si esaminano di seguito alcune delle più significative “occasioni perdute” di questo ventennio, nella speranza che ciò possa contribuire ad una maggiore consapevolezza dei decisori negli anni a venire.

Il primo tema riguarda il riconoscimento, economico e non, del lavoro sociale e formativo svolto dentro le cooperative sociali di inserimento lavorativo. Che di fatto esiste: in primo luogo, l’azione di operatori che per un tempo lavoro più o meno ampio fanno da riferimento alle persone svantaggiate inserite, intrattenendo inoltre i rapporti con i servizi invianti; e poi i casi di attività specifiche quali la ricerca o l’offerta di soluzioni abitative, gruppi di acquisto, forme di sostegno psicologico e altro; o, sul fronte formativo, la significativa azione per rafforzare le soft skills e le forme di apprendimento, principalmente, on the job necessarie per rafforzare i percorsi di crescita professionale. Tutto ciò, come si diceva, traendo le risorse, oltre che dal volontariato dei soci, dai margini economici derivanti dalle attività produttive. È un meccanismo fragile, che funzionava fluidamente negli anni Novanta, in cui i risultati di esercizio documentati dalle ricerche di allora evidenziavano margini di oltre il 5%, ma che oggi stenta in assenza di uno specifico riconoscimento economico del lavoro dei tutor e dei responsabili sociali. E dire che esperienze locali ci sono state: a partire dagli anni Novanta l’Agenzia del Lavoro di Trento prevede, tra le altre cose, un contributo al costo del lavoro degli operatori dedicati all’inserimento lavorativo; e, forse anche grazie a ciò, la maggioranza delle persone svantaggiate ha potuto fare percorsi che hanno permesso nel giro di due o tre anni di transitare nel mercato del lavoro ordinario, consentendo alla cooperativa di intraprendere dall’inizio l’inserimento di nuove persone. E dire che altrove in Europa si fa: il già citato caso della Spagna, in cui il lavoro dei supporters è finanziato in proporzione al numero e all’intensità di svantaggio delle persone inserite. In Italia tutto ciò non è mai seriamente nemmeno approdato al dibattito politico nazionale e le sopra citate sperimentazioni locali sono state o modificate in peggio o abbandonate. Non è solo un problema di soldi, ma anche di riconoscimento: fosse anche solo con riferimento alle soft skills, perché non è mai stato riconosciuto a livello di crediti formativi l’apprendimento che le persone svantaggiate fanno in cooperativa? Sarebbe così impossibile pensare ad un panorama diverso (e rispondente alla realtà delle cose), in cui la persona svantaggiata, che di fatto impara in cooperativa un mestiere, vedesse riconosciuto il proprio sforzo (e la cooperativa il lavoro fatto), facilitando così anche diverse collocazioni future? Anche in attesa di avviare un dibattito strutturato a livello nazionale, non sarebbe così difficile sperimentare, con una alleanza tra fondi interprofessionali, istituzioni filantropiche, enti locali e mondo della cooperazione un sistema che riconosca e qualifichi il lavoro svolto dalla cooperazione sociale di inserimento lavorativo su questo fronte2. Purtroppo per ora si tratta di discorsi rimasti al palo. Mentre invece in tutti questi anni sono dilagati costosissimi corsi di formazione finanziati dal Fondo sociale europeo che hanno ben poco inciso sulle abilità e le probabilità occupazionali dei partecipanti e avvantaggiato soprattutto le società di formazione.

Il secondo tema riguarda la definizione delle categorie di persone svantaggiate. Il tema non è certo nuovo, questa rivista lo pose sin dal 1992 con un articolo del compianto direttore Marco Maiello che affrontava con lucidità il tema della necessità di adottare una concezione di svantaggio nell’accesso al mercato del lavoro meno legata a logiche socioassistenziali. Da allora, ogni riunione di cooperatori sociali di inserimento lavorativo segnala la criticità delle tante forme di svantaggio non riconosciuto che le cooperative ospitano, che richiedono impegno pari se non superiore a quelle delle categorie incluse nella 381/1991, ma per le quali non è prevista alcuna forma di sostegno o anche solo di riconoscimento come soggetti da includere nel 30% previsto dalla legge e dalla normativa europea; anche se spesso sono le stesse amministrazioni locali a caldeggiarne l’assunzione e a sostenerla assegnando lavori di pubblica utilità. Ma non si tratta solo di un problema di sostenibilità economica: si tratta di mantenersi in dialogo con una società che evolve e i suoi problemi. Proviamo a chiedere in un mercato rionale se “il lavoro è un problema”: troveremo molte signore intente a fare la spesa che ci dicono che sì, è un grave problema, e hanno in mente il figlio quasi trentenne mai seriamente occupato e ormai scoraggiato o il marito licenziato che ha davanti alcuni anni prima della pensione e speranze ridottissime di ri-occuparsi. Il problema, in altre parole, è che se la cooperativa sociale viene percepita come il soggetto che si occupa del lavoro per tossicodipendenti e disabili, ma come soggetto estraneo ai problemi sopra richiamati, essa diventa un soggetto di nicchia, la sua legittimazione sociale scende, il suo valore viene compreso in misura minore. Perde la “sintonizzazione” con problemi sociali gravi riguardanti il lavoro, oggi sicuramente più sentiti rispetto al 1991, anno in cui sono state definite e non più modificate le categorie di svantaggio. Anche in questo caso, il tema non è mai approdato seriamente al dibattito politico.

Più complesso si presenta il terzo tema, quello degli affidamenti da parte di Enti pubblici. In questo caso di sviluppi normativi ce ne sono stati e la disciplina degli “appalti riservati” è senz’altro potente e ben costruita. Esistono anche (si veda l’esempio del protocollo di Brescia) elaborazioni che offrono la possibilità di implementare tali istituti con qualità. La sostanza è però che tali strumenti, per quanto disponibili e ben strutturati, sono stati di fatto usati sempre meno dalle pubbliche amministrazioni e in particolare dagli Enti locali, che invece negli anni Novanta avevano attinto a piene mani dai pur più limitati strumenti allora disponibili, sostanzialmente l’art. 5 della 381/1991 e talune sue elaborazioni. Convergono, in questo caso, l’ubriacatura mercatista di quest’ultimo ventennio, che ha diffuso la convinzione che l’unico modo per perseguire l’interesse pubblico risieda nella competizione più sfrenata e la ristrettezza dei bilanci degli enti locali, che ha spinto alla ricerca del massimo ribasso, disconoscendo il valore sociale (e il risparmio di spesa pubblica) che il public procurement socialmente orientato può generare. Un paradosso: benché esistano da trent’anni norme che riconoscono l’interesse generale dell’inserimento lavorativo, curiosamente esso sta rimanendo l’ambito meno frequentato nell’attuale fiorire delle esperienze di amministrazione condivisa: a fronte delle centinaia di casi di coprogettazione oggi in corso e che riguardano il welfare, la cultura, la rigenerazione urbana, ecc., sono molto poche quelle che riguardano l’inserimento lavorativo.

Per un rilancio, oltre la Sindrome di Stoccolma

Detto in una parola, la politica ha dimenticato l’inserimento lavorativo. E, vi è da dire, non sono stati molti i tentativi strutturati di rilanciare questo tema nel mondo delle imprese sociali. Risale al 2010-2011 un lavoro di Federsolidarietà che portò, a seguito di un ampio percorso di confronto con la base delle aderenti, alla realizzazione di un libro verde sull’inserimento lavorativo che però non originò esiti politici concreti; risale invece al 2018-2020 il “Manifesto per il rilancio dell’inserimento lavorativo” proposto e sostenuto da un gruppo autorganizzato di un centinaio di cooperative e che presenta contenuti in parte sovrapponibili a quelli qui esposti. Poi, certo, alcuni convegni o iniziative di comunicazione, ma nella sostanza i punti precedenti non sono mai entrati nel dibattito politico. Anzi, sembrano prevalere i timori che nell’attuale contesto una ridiscussione che investa aspetti disciplinati dalla 381/1991 rischi di portare al ridimensionamento anziché al potenziamento degli strumenti a disposizione.

In sostanza, da una parte l’inserimento lavorativo è stato marginalizzato da una politica che, con un certo grado di trasversalità tra schieramenti, ha disconosciuto la funzione di interesse generale dell’inserimento lavorativo in nome dell’ideologia mercatista, che porta a vedere con estrema diffidenza qualsiasi intervento, anche di evidente beneficio pubblico, laddove sia sospettato di turbare la concorrenza tra imprese. All’interno di questo schema di pensiero, vi è poco spazio per politiche che si ispirino al riconoscimento dell’inserimento lavorativo come “attività di interesse generale”, come peraltro il Codice del Terzo settore invece riafferma: dalla politica esso è al più visto come una declinazione ammirevole dell’azione di impresa da ricondurre nel campo delle sensibilità individuali e cui accordare, al massimo, blandi incentivi.

D’altra parte, si registra in generale un corrispondente imbarazzo da parte delle imprese sociali a porre con forza questioni come quelle sopra richiamate, quasi che invocare il riconoscimento di politiche pubbliche di sostegno rappresenti il segno di un’ancora imperfetta assunzione di caratteristiche di impresa, motivo per cui si è dato molto più spazio nella comunicazione pubblica e nelle priorità politiche a temi diversi. Vengono quindi enfatizzati gli strumenti (art. 12 e 12bis della legge 68/1999; art. 14 del d.lgs. 276/2003) che consentono alle imprese di assolvere una parte dell’obbligo di assunzione di persone con disabilità attraverso accordi con cooperative sociali cui l’impresa esternalizza talune commesse; si tratta di pratiche assolutamente apprezzabili e di grande significato, o gli accordi tra imprese profit e imprese sociali. Si tratta in entrambi i casi di azioni del tutto pregevoli, che testimoniano la capacità delle migliori imprese di intrattenere relazioni virtuose con il tessuto produttivo in cui operano e che spesso contribuiscono – risultato ulteriormente positivo – a far maturare atteggiamenti di responsabilità sociale anche nelle imprese for profit. Ma, al di là dell’apprezzamento apprezzamento per queste ed altre esperienze, la miopia nasce nel momento in cui esse vengono inquadrate in uno schema logico (e soprattutto ideologico) che le vede come frutti di una concezione di impresa sociale moderna, imprenditoriale, innovativa, dinamica, da contrapporre (qui sta, appunto, l’ideologia) ad un’idea arretrata e da superare, che si attarda a ragionare di politiche pubbliche, ambito sul quale si preferisce sorvolare.

E, a ben vedere, questa Sindrome di Stoccolma si manifesta anche quando l’azione politica e comunicativa si limita a glorificare le imprese eccellenti di cui si è parlato in apertura: i “gioelli di famiglia”, le imprese che ce l’hanno fatta ad affermarsi e crescere solo con le proprie forze coniugando successo imprenditoriale e qualità dell’inserimento lavorativo (salvo poi scoprire che una parte significativa delle entrate non deriva dal “mercato”, ma da sovvenzioni di fondazioni e simili). Anche in questo caso è questione di accenti: una cosa è studiare e narrare i migliori casi di imprese sociali di inserimento lavorativo (lo ha fatto più volte anche Impresa Sociale), un’altra è ritenere, più o meno implicitamente, che, visto che queste imprese sono riuscite ad affermarsi anche in un panorama normativo insensibile o ostile, tanto vale tralasciare il tema delle politiche pubbliche, visto che “i migliori” comunque ce la fanno anche in loro assenza: quasi con un inspiegabile compiacimento per il fatto che i non eccellenti arranchino o affondino.

La timidezza delle politiche

Una delle evidenze che lasciano più perplessi è che, in più di un caso, circostanze il nostro Paese ha scelto in questi anni di operare in modo significativo per il rafforzamento delle politiche attive del lavoro; dunque, su questo tema si è riflettuto e si è investito, ma senza che ciò abbia portato al riconoscimento del ruolo che le imprese sociali hanno dimostrato nei decenni di poter svolgere bene.

Dal 2014 in avanti sono state destinate risorse significative al programma Garanzia Giovani, teso a favorire l’ingresso dei giovani e in particolare dei neet nel mondo del lavoro. Tale programma, comprendente una pluralità di misure, dalla formazione, all’accompagnamento, dal tirocinio al servizio civile, dall’apprendistato al sostegno all’autoimpiego, ha in alcuni casi incrociato l’operatività delle imprese sociali (come di altri soggetti) in quanto di fatto attive in alcuni di questi ambiti, ma non è venuto in mente di pensare alle imprese sociali come il principale partner naturale delle istituzioni, anche soltanto su una parte di queste misure: ad esempio nel caso del servizio civile, dimenticando che sono proprio le imprese sociali ad aver creato, nel corso degli anni, un percorso virtuoso che in molti casi ha portato i giovani da un’esperienza di responsabilità verso la comunità in cui vivono alla successiva occupazione.

Lo stesso è avvenuto nel 2017-2019 quando, nel processo di implementazione del Reddito di Cittadinanza, si è individuato l’ambito delle politiche del lavoro come uno dei nodi centrali per aiutare i beneficiari a fuoriuscire della condizione assistita. La scelta è stata in questo caso quella di investire nell’assunzione di figure professionali specifiche, i cosiddetti navigator, cui è stato affidato il compito di aiutare a trovare un’occupazione gli oltre un milione di cittadini che hanno sottoscritto un patto per il lavoro contestualmente al percepimento del reddito di cittadinanza. Era impensabile che fosse considerata una strada diversa, fondata sul coinvolgimento delle imprese sociali per avvicinare al lavoro le persone fragili, cosa che in questi trent’anni hanno dimostrato di fare piuttosto bene? Sempre nell’ambito del Reddito di cittadinanza, è previsto di chiedere ai beneficiari di operare nei Progetti Utili alla Collettività (PUC) per 8 ore settimanali: in altre parole di impegnarsi in azioni utili al territorio, sia come forma di “restituzione”, sia per consolidare il legame con la comunità così da facilitare un successivo inserimento. Non sarebbe stato normale pensare che questo tipo di azione avesse come partner naturale le cooperative sociali, che incrociano il radicamento territoriale l’orientamento imprenditoriale? No, si sono invece individuati, come soggetti di questa azione, i comuni, lasciando eventualmente a questi l’opzione tra il coinvolgimento di imprese sociali entro un percorso di effettiva autonomia e un utilizzo tradizionale dei beneficiari per adempiere a piccole incombenze presso uffici pubblici. Anche in questo caso dimenticando che sono già migliaia le persone con problematiche sociali, anche non riconosciute, ad essere inserite nelle imprese sociali spesso in stretta connessione con i comuni su progetti analoghi e che i PUC potrebbero prendere a modello, in alternativa alle poche, avviate in ritardo e dubbie esperienze di lavoro socialmente utile realizzate direttamente dai comuni.

In entrambi i casi, ovviamente, le imprese sociali finiscono per essere coinvolte in specifiche azioni; ma, appunto, malgrado questo si assiste ad un’estrema difficoltà nel prendere atto di questa realtà, traendone conseguenze coerenti sul piano politico. E, a fronte di questo ruolo marginale delle imprese sociali, non è forse un caso che nei resoconti relativi a queste misure molto spesso non si considerino come indicatore di successo i casi di effettivo reperimento dell’occupazione, ma semplicemente il fatto che le persone siano avviate ad un qualche tipo di percorso di avvicinamento al lavoro, ad esempio ad un tirocinio o ad una opportunità formativa. D’altra parte, laddove i soggetti cui è affidata la realizzazione di queste azioni non hanno una caratterizzazione di impresa, sarebbe difficile puntare ad altro.

Venendo ai giorni nostri, nei mesi scorsi il nostro Paese ha scelto di destinare nell’ambito del PNRR circa 4,4 miliardi di euro per la Garanzia Occupabilità dei Lavoratori (Gol). Si tratta di risorse assai significative allocate per rafforzare le politiche attive del lavoro. Anche in questo caso i soggetti principali a cui chi programma gli interventi ha deciso di affidarsi sono i centri per l’impiego o le agenzie di somministrazione. Paradossalmente, in una strategia che punta ad inserire al lavoro donne (che costituiscono la grande maggioranza della forza lavoro assunta nelle imprese sociali che operano nel campo del welfare), persone con disabilità (che le imprese sociali inseriscono in misura assai maggiore rispetto al resto del sistema produttivo), disoccupati di lunga durata, lavoratori over 55 (le fasce appunto che, pur non riconosciute come svantaggiate, sono spesso assunte in imprese sociali), le imprese sociali sono totalmente dimenticate. A poco sembrano valere i contributi di ricerca, sviluppati negli ultimi 30 anni, che evidenziano il beneficio pubblico, anche in termini di spesa, derivate dall’inserimento al lavoro di persone svantaggiate, contabilizzato a seconda delle indagini e dei metodi di computo tra i 1200 e i 3000 euro annui per unità inserita: prevale, invece, un ragionamento solo in apparenza inattaccabile, che prende le distanze dai singoli soggetti per concentrarsi sulle azioni da svolgere. In sostanza, a fronte di tali osservazioni, viene risposto che le politiche individuano una certa priorità, quali siano i soggetti che la mettono in atto è indifferente, è lasciato al libero operare delle forze della società civile (salvo poi, spesso e volentieri, citare in questi provvedimenti soggetti come le agenzie di lavoro interinale che poco c’entrano con l’avviamento al lavoro delle fasce deboli).

C’è poco da fare, l’ideologia della competizione di mercato rispunta fuori ogni volta che si aprirebbe invece la possibilità di valorizzare il senso profondo del Codice del Terzo settore, che ridisegna il campo non più dividendo soggetti pubblici e privati, ma guardando all’insieme dei soggetti di interesse generale (pubblici e di Terzo settore) come alleati per realizzare finalità comuni. Ciò è ancor più paradossale se si pensa che un’impostazione di questo genere – anche a prescindere dal terzo settore – non è affatto sconosciuta nell’assetto dei servizi di interesse generale del nostro paese. Si consideri, ad esempio, a come il sistema sanitario nazionale, sin dalla sua fondazione, abbia riconosciuto l’esistenza, oltre che di una pluralità di soggetti privati, di talune “istituzioni a carattere privato… considerate, ai fini dell'erogazione dell'assistenza sanitaria, presidi dell'unità sanitaria locale nel cui territorio sono ubicati” (Legge 833/1978, art. 43): in sostanza dei soggetti privati cui è riconosciuto il fatto di essere parte integrante, tanto nella programmazione quanto nell’erogazione dei servizi, del sistema che assicura la salute dei cittadini. Esattamente ciò che andrebbe riconosciuto alle imprese sociali sul fronte dell’avviamento al lavoro delle fasce deboli, e che viene invece ignorato, malgrado il distintivo status costituzionale riconosciuto agli enti di Terzo settore dalla Riforma e poi dalla Sentenza 131/2020 della Corte costituzionale.

Conclusioni

L’inserimento lavorativo è una grande risorsa di interesse generale che il nostro Paese ha iniziato a sviluppare prima di altri e che da decenni contribuisce in modo decisivo a costruire veri percorsi di autonomia per persone in grave difficoltà. Le cooperative sociali hanno dimostrato che è possibile fare impresa coinvolgendo le persone che il sistema produttivo generalmente scarta non solo in casi isolati, ma in migliaia di diverse situazioni e coinvolgendo decine di migliaia di lavoratori svantaggiati. È un sistema che è stato capace di resistere alle crisi che hanno scosso l’economia negli ultimi due decenni e di rilanciarsi investendo e innovando.

È, al tempo stesso, un sistema pericolosamente e pesantemente ignorato dalle politiche pubbliche che, nella forma e soprattutto nella sostanza, in questi trent’anni hanno dimenticato il tema dell’inserimento lavorativo e non hanno sviluppato strumenti ulteriori pur laddove esistevano sperimentazioni virtuose che sarebbero dovute diventare una base per politiche più ampie; le politiche effettive anzi mostrano pericolosi segni di regresso, ad esempio sul fronte del public procurement socialmente orientato e delle politiche attive del lavoro, pur in presenza di strumenti normativi che lo sostengono.

Tanto un confronto internazionale, quanto uno sguardo complessivo al fenomeno nel nostro paese ci avvertono ora del rischio che tale insensibilità delle politiche porti a non cogliere le potenzialità di sviluppo delle imprese sociali di inserimento lavorativo, anche con il rischio di ridimensionarne la portata in anni futuri. Per questi motivi va sostenuto con forza il carattere di interesse generale di questa attività, per ultimo riaffermato in ultimo dal Codice del Terzo settore e vanno previste politiche adeguate quali quelle qui richiamate.

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