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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  7 minuti
Argomento:  Diritto
data:  16 luglio 2020

Codice del Terzo Settore all’esame della Consulta, tra affermazione della primazia della sussidiarietà ed identificazione di un criterio comune nella disciplina

Raffaele Caroccia

La Decisione della Consulta ricostruisce le relazioni tra EEPP e TS secondo una matrice collaborativa, non contrattuale ed improntata al miglioramento dell’efficienza della Pubblica amministrazione, reinterpreta in modo non riduzionistico il diritto UE e valorizza la specificità del Terzo settore


La sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale offre diversi spunti di riflessione, anche ad una primissima lettura.

La decisione, infatti, sembra non solo costituire una pietra miliare in tema di disciplina del Terzo Settore, in quanto per la prima volta ne disegna - seppur in nuce - uno statuto a livello costituzionale, ma rappresenta anche, da un lato, un tassello importante nell’identificazione dei corretti rapporti tra disciplina nazionale in subiecta materia e diritto dell’UE e fornisce, dall’altro, un criterio di selezione dei soggetti del mondo not for profit e degli interessi, di cui i primi possono essere latori.

Tale ultima funzione è assai affascinante per una branca dell’ordinamento - quale il diritto amministrativo - che si caratterizza per il suo carattere multipolare ed è lo strumento con cui si effettuano, a livello giuridico ed operativo, per il tramite del confronto tra gli Enti pubblici ed i privati l’individuazione, la sintesi e la realizzazione delle esigenze della collettività.

Procediamo con ordine.

I Giudici della Consulta intervengono su un ricorso (respinto), proposto in via diretta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri contro una legge della Regione Umbria. La disposizione regionale censurata aveva abilitato il coinvolgimento delle cooperative di comunità nell’azione dei pubblici poteri con le modalità previste dall’art. 55 del Codice del Terzo Settore (di seguito CTS), benché tali società non fossero ivi contemplate.

Grazie al ragionamento effettuato nella sentenza, i Giudici delle leggi si inseriscono nel dibattito avviatosi dopo il parere n. 2052/18 della Commissione speciale del Consiglio di Stato - reso su richiesta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione - sulle modalità di affidamento di alcuni servizi pubblici agli enti c.d. not for profit. Nell’atto consultivo la disciplina nazionale dell’affidamento dei servizi sociali viene ricostruita alla luce dell’influenza e della primauté del diritto euro-unitario. Secondo il parere, infatti, non è possibile procedere all’affidamento di tali attività ai sensi di quanto previsto dagli artt. 55 e ss. del Codice del Terzo Settore, ma deve prevalere la disciplina dettata dalle direttive del 2014, recepite – come noto – dal d. lgs. 50/2016.

Il nuovo Codice dei contratti avrebbe, infatti, inteso superare il precedente regime di eccezione che sottraeva i servizi sociali alle regole dell’evidenza pubblica. Secondo questa interpretazione, gli spazi lasciati ad una dimensione non concorrenziale e non imprenditoriale sono assai risicati anche in questo ambito. In particolare – ed al di là della littera legis, estensione di cui la Commissione è consapevole - la procedura di cui al CTS sarebbe utilizzabile solo per casi di affidamenti o esclusi espressamente dal d. lgs. 50/16 (come il servizio di ambulanza) o non aventi il carattere dell’economicità o sprovvisti di carattere selettivo o a carattere integralmente gratuito, identificato in ipotesi in cui all’arricchimento della collettività deve corrispondere il depauperamento di un soggetto.

Siamo innanzi a fattispecie tutte non inquadrabili in una logica definita dal Consiglio di Stato (forse in modo alquanto manicheo) di mercato. In concreto, sarebbero legittimamente affidabili con le modalità del CTS solo gli accreditamenti liberi e le convenzioni relative a servizi generali non economici, mentre comunque soggetti al d. lgs. 50/16 - seppur con un regime alleggerito - sarebbero la co-progettazione, i partenariati e gli accreditamenti contingentati, purché non gratuiti. In coerenza con la propria impostazione, il Consiglio di Stato si rivela particolarmente critico con l’istituto della convenzione, di cui arriva addirittura a suggerire la disapplicazione.

Se questo è, in sintesi estrema, l’approccio interpretativo di Palazzo Spada, il Giudice delle Leggi assume un atteggiamento del tutto differente. La prospettiva, fatta propria dalla Consulta, si muove nel solco di precedenti sentenze (nn. 75/92, 300/03, 228/04 e 185/18), i cui obiter dicta per la prima volta assurgono a ruolo di ratio decidendi. La statuizione della Consulta è, infatti, imperniata in modo espresso non sul principio della concorrenzialità, ma su quello della sussidiarietà orizzontale quale criterio per l’inquadramento della questione controversa e dell’interpretazione della normativa del Terzo Settore. I rapporti tra gli enti di quest’ambito e le Pubbliche Amministrazioni sono ricostruiti in una matrice fortemente collaborativa, non contrattuale ed improntata al miglioramento dell’efficienza dell’azione della P.A.

Gli enti del Terzo Settore si muovono così in un campo del tutto differente dagli operatori economici di cui al d. lgs. 50/16, in quanto i primi sono espressione della solidarietà sociale e del libero esplicarsi della persona. Tali principi permettono anche ai privati di farsi carico – evidentemente al di fuori dell’impostazione dicotomica Stato/mercato – di attività di interesse generale. Ciò fa sorgere delle relazioni non contrassegnate dal carattere della patrimonialità, il cui alveo procedimentale si trova nella disciplina del CTS e non nel d. lgs. 50/16. Questi moduli sono alternativi alle logiche di profitto e di mercato, poiché tendono alla progettazione ed alla programmazione di interventi “secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico”. La Consulta non sfugge al confronto con il diritto euro-unitario, che aveva costituito la base della divergente conclusione del Consiglio di Stato: con un puntuale richiamo sia alle direttive appalti che ad alcune pronunzie della CGUE (C-50/14 e C-113/13), viene identificata come legittima la possibilità per gli Stati Membri di configurare per le attività a valenza sociale modelli ispirati non alla concorrenza, ma alla solidarietà.

Chi scrive ritiene la posizione della Corte Costituzionale più convincente per una pluralità di ragioni. L’interpretazione dei Giudici delle Leggi ha, per prima cosa, il pregio di essere maggiormente consentanea ad una lettura non riduzionistica del diritto dell’UE ed a superare l’approccio secondo cui la concorrenza rappresenta il valore principe perseguito dall’ordinamento sovranazionale, specie in materia di contratti pubblici. Al contrario, sembra più corretto prendere atto che - pure in questo ambito - emergono preoccupazioni di cura e sviluppo di una dimensione solidale, sancite d’altra parte con la riforma delle fonti primarie operata con il Trattato di Lisbona ed in conseguenza delle quali la concorrenza è finalmente divenuta un mezzo e non un fine in sé. Tale prospettiva interpretativa ha pure il vantaggio non da poco di sminare i rischi di conflitto tra l’ordinamento nazionale e quello UE, permettendo di evitare la disapplicazione auspicata dal Consiglio di Stato della disciplina delle convenzioni. La pluralità di interessi, di cui la regolamentazione della contrattualistica pubblica si fa carico, trova precisa eco in alcune disposizioni del d. lgs. 50/16, come gli interventi di sussidiarietà orizzontale ed il baratto amministrativo. In questi moduli giuridici (che ben potrebbero costituire tracce ulteriori per rinforzare l’interpretazione del Giudice delle Leggi), l’attività di interesse generale di cittadini singoli od associati realizzata in favore dei Comuni non riceve un corrispettivo, ma beneficia di esenzioni parziali o totali dal carico tributario: siamo al di là della logica dello scambio ed innanzi all’apertura ad una diversa, improntata alla collaborazione.

Si apprezzano altri due vantaggi della posizione ermeneutica della Consulta: la visuale dà un concreto senso all’art. 118 Cost. integrandolo con i principi dell’azione amministrativa di cui alla l. 241/90, e - secondo un approccio non positivistico - permette di far emergere la realtà concreta del Terzo Settore, quale fonte di apporti – ideali e materiali – all’attività delle P.A.

La strada indicata dalla Corte costituzionale pare essere stata già valorizzata dai Giudici Amministrativi, che ne hanno tratto conseguenze anche sul versante processuale: si segnala, a riguardo, la sent. n. 7584 del 02.07.2020 del TAR Roma, sez. III ter, con cui è stato ritenuto che non si applica il rito appalti alle controversie inerenti ad iniziative senza scopo di lucro affidate dall’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo, a ragione del fatto che i rapporti a valle non sono onerosi.

Ancora più interessante pare il corollario, che discende dall’impostazione della Consulta. Stavolta il dictum dei Quindici va valorizzato nella parte in cui instaura una relazione tra le modalità di coinvolgimento degli enti del Terzo Settore nelle attività di interesse generale ed il loro statuto. Per i Giudici delle Leggi le modalità fortemente innovative, con cui si esercita la partecipazione alla funzione pubblica del mondo not for profit, richiede che i privati che collaborano con la P.A. siano caratterizzati da una rigorosa garanzia della comunanza di interessi da perseguire ed effettivamente terzi rispetto alle finalità di profitto del mercato. Ciò fa sì che siano necessari per il legittimo esplicarsi delle modalità collaborative sia l’individuazione di requisiti speciali e stabiliti dalla legge per essere considerati enti del Terzo Settore che forme di controllo pubblicistico su questi ultimi.

Le conseguenze di quest’impostazione sono due ed entrambe apprezzabili: i. l’assenza di profitto serve ad evitare inquinamenti di questo ambito da parte di soggetti animati da spirito non solidaristico; ii. l’individuazione dei soggetti parte del Terzo Settore costituisce una materia di competenze legislativa esclusiva dello Stato, in quanto ricadente nell’“ordinamento civile”, anche al fine di garantire la corretta delle relazioni con i soggetti amministrativi.

Tale secondo elemento rappresenta un punto di continuità nell’elaborazione giurisprudenziale costituzionale in materia, dal momento che lo si trova anche in una precedente sentenza (n. 185/18). Inoltre ed in conclusione, esso appare come la sanzione al massimo livello giurisdizionale del fatto che il traguardo ideale alla base della promulgazione del CTS – cioè il superamento della marcata settorializzazione, che aveva in precedenza connotato l’approccio legislativo al mondo del not for profit, verso una disciplina tendenzialmente unitaria – sia stato effettivamente raggiunto con una definizione del Terzo Settore complessiva ed ancorata al dato obiettivo ed unificante dello svolgimento di attività con finalità di interesse generale. L’indagine sul punto – pare essere il suggerimento che arriva dalla Consulta – deve avvenire al di là del mero riscontro delle forme giuridiche, con cui esse vengono perseguite, ed in adesione ad una logica definitoria fondata sulla ricerca di relazioni di reciprocità o – secondo una suggestione che si deve a N. Lipari – sull’idea del dono. 

Rivista-impresa-sociale-Raffaele Caroccia Università degli Studi Federico II di Napoli

Raffaele Caroccia

Università degli Studi Federico II di Napoli

Docente a contratto di Diritto Amministrativo presso il Dipartimento di Scienze Politiche. Già componente del COGE Campania.

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