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ISSN 2282-1694
Tempo di lettura:  4 minuti
Argomento:  Policy
data:  30 gennaio 2023

La voce E23 del bilancio e le coprogettazioni: una repulsione ineliminabile?

Gianfranco Marocchi

Se nelle coprogettazioni non si possono fare utili, come può l'amministrazione condivisa diventare un'esperienza ordinaria per le imprese sociali? Come possono sopravvivere e rafforzarsi? Tema complesso, che richiede alla base di ripensare i concetti in coerenza con una economia cooperativa.


In diverse occasioni in queste settimane mi sono confrontato con imprenditori sociali che evidenziano un aspetto potenzialmente critico dell’amministrazione condivisa, relativo alla natura delle relazioni economiche che si instaurano con i soggetti pubblici. Poniamo anche che non si verifichino situazioni censurabili di richiesta inappropriata di cofinanziamento (il tema è trattato qui) e che siano correttamente riconosciuti non solo i costi diretti, ma anche quelli indiretti e anche quote di beni durevoli connesse alle azioni svolte. In questo senso il d.lgs. 201/2022 (il cui art. 18 parla del “rimborso dei costi variabili, fissi e durevoli previsti ai fini dell'esecuzione del rapporto di partenariato”) contribuisce sicuramente a superare interpretazioni restrittive, sviluppate a partire da una considerazione non equilibrata del tema della gratuità.

Anche quando ci si trovi in queste situazioni favorevoli e non ancora ovunque diffuse, chi fa impresa sociale obietta che continua a porsi la questione relativa all’assenza di margini economici, cioè di importi che superino tali costi e che, nella logica della coprogettazione, secondo un indirizzo largamente condiviso, non possono invece essere riconosciuti nella rendicontazione. Su questo le imprese sociali evidenziano un nodo problematico, evidenziando come tali margini siano una componente non accessoria della loro sopravvivenza: un’impresa sociale, che spesso parte con capitali di partenza molto basso, non può rafforzarsi e investire senza ciò che accumula come margine della gestione; e nella misura in cui si generalizzano rapporti basati su coprogettazioni – anche su esperienze di welfare consolidato - come potranno le imprese sociali continuare a rafforzarsi? Sovraccaricando i prezzi laddove gli enti appaltano per poter poi coprogettare altrove a costi reali? Con rendicontazioni astute che riescano a occultare un po’ di margini?

Certo, si potrebbe obiettare, la questione non è nuova: un regime analogo è diffuso in una varietà di interventi basati su rendicontazioni quali progetti europei, bandi di fondazioni, ecc., dove le somme corrisposte sono basate appunto sulla rendicontazione di costi vivi e non possono quindi, almeno ufficialmente, generare margini; ma mentre tali circostanze rappresentano in modo evidente eventi straordinari per l’impresa sociale, mentre sull’amministrazione condivisa la questione è più complessa. Nel momento in cui si sostiene infatti l’opportunità che essa non rappresenti una circostanza marginale, ma un modo “ordinario” di rapportarsi con la pubblica amministrazione, la questione si pone. Può un’impresa operare “ordinariamente” in ambiti ove non può ricavare altre risorse che (dove va bene) i costi vivi? Inutile dire che tale questione sia – ancorché si sia oggi lontani da una situazione in cui l’amministrazione condivisa rappresenti effettivamente una forma di relazione ordinaria tra enti pubblici e Terzo settore – un argomento su cui insistono coloro che auspicano di confinare la coprogettazione nel dominio degli interventi “sperimentali e innovativi” cui facevano cenno gli atti applicativi della 328/2000, come strumento quindi residuale e minoritario: nei progetti creativi e appassionanti, ma con un budget di qualche decina di migliaia di euro, buoni per un articolo su un giornale di settore, ma assolutamente irrilevanti nel complesso delle attività di una impresa sociale: perché quando il gioco si fa serio, si ricomincia ad appaltare. La questione è rilevante e probabilmente non esistono risposte semplici; ma ciò non esclude che si possa ragionare sulle direzioni verso cui orientarsi.

Il punto di partenza è ragionare sulla voce E.23 che chiude il conto economico: “Utile (o perdita) dell'esercizio”, secondo la definizione del bilancio civilistico.

Partiamo dalla denominazione, perché nel nome c’è già tutto il problema. Le diverse poste di bilancio, riferite all’economia cooperativa – e, a maggior ragione, gli indici derivati da tali grandezze, come evidenzia Eddi Fontanari nei suoi lavori – hanno un significato sostanziale diverso rispetto all’economia non cooperativa. Magari vengono chiamate allo stesso modo, ma rappresentano una funzione significativamente diversa.

Utile” (ancorché non ripartito) rimanda appunto al concetto di margine, di guadagno dell’impresa che ha pagato tutti i suoi costi. “Quota di valore aggiunto destinato a costituire un capitale intergenerazionale a sostegno dell’investimento nella mission dell’impresa sociale” è un po’ più lunga come descrizione, ma sicuramente in grado di descrivere questa voce E.23 del conto economico in modo più coerente con la natura dell’economia cooperativa.

E a questo proposito va riconosciuto che troppe volte, anche nel mondo cooperativo, la voce E.23 viene citata per significare che le imprese sociali “economicamente stanno andando bene”, come un indicatore di stato di salute dell’impresa, indirettamente accreditando una cultura di omologazione con l’impresa for profit; in realtà la narrazione corretta sarebbe che (visto che le cose economicamente stanno andando bene e data la specificità dell’economia cooperativa) una quota di valore aggiunto è allocata nelle disponibilità di generazioni future ed orientata all’investimento sociale. I soci che hanno prodotto tale quota di valore aggiunto non se ne approprieranno – a differenza che nel mondo for profit – né oggi né mai in futuro, ma tali risorse rappresenteranno uno strumento indispensabile per la realizzazione (oggi, da parte dei soci stessi, o domani, da parte di chi verrà) della mission dell’impresa sociale.

In generale, vi è da dire, pare che vi sia poca consapevolezza della valenza dirompente e caratterizzante racchiuso nella voce E.23; se ne era scritto nell’articolo “Il più grande crowdfunding d’Italia”, evidenziando come, mentre pur meritorie pratiche di finanza sociale che mettono a disposizione qualche milione di Euro a condizioni abbastanza vantaggiose conquistano facilmente l’interesse dei media, il fatto che i soci di imprese sociali abbiano costruito un capitale intergenerazionale di circa 3 miliardi di euro - questo, approssimativamente, il valore aggregato del patrimonio netto delle cooperative sociali italiane - non si imprime più di tanto nella coscienza collettiva come un esempio straordinario di costruzione collettiva e democratica di valore sociale: anche questo un evidente segno di sudditanza psicologica con le logiche di mercato, che portano a sopravvalutare la rilevanza delle azioni svolte dai soggetti finanziari e a sottovalutare drasticamente ciò che viene prodotto entro il sistema cooperativo.

Ritornando alla questione iniziale, circa l’amministrazione condivisa: la risposta deriva in gran parte dalla domanda. Se si chiede “in una coprogettazione è possibile realizzare un utile di impresa?”, la risposta non può ovviamente che essere negativa; se si chiede “è ragionevole destinare una parte delle risorse alla costituzione, da parte dell’impresa sociale, di capitale intergenerazionale da reinvestire nella mission di impresa?”, probabilmente la risposta è “bisogna pensarci”.

Oggi si sta ancora metabolizzando il superamento di concezioni restrittive della gratuità e si deve ancora fare i conti con orientamenti punitivi circa il cofinanziamento, a casi in cui la scelta di coprogettare si accompagna a disinvestimenti pubblici, a enti che faticano a riconoscere spese diverse da quelle dirette; e sicuramente, quindi, non è facile trovare soggetti in grado di ragionare in modo aperto sulla questione qui posta.

È evidente che l’argomentazione che si intende condurre potrebbe non portare semplicemente a ritenere che “si può fare tutto”, ad affermare che senza ulteriore specificazione ogni margine è considerabile alla stregua di un “costo durevole” e omologando di fatto la gestione economica di una coprogettazione a quella di una gara d’appalto. Si tratta, probabilmente, di confrontarsi sul modo migliore per rendere compatibili le diverse istanze e per interrogarsi a che condizioni, con quali limiti e, soprattutto, con quali patti tra i partner possa essere ragionevole che una parte del budget di progetto sia destinata a creare per il partner di Terzo settore imprenditoriale, le condizioni per cui possa investire nel lungo periodo per il benessere del territorio; se ciò esclude che gli scambi economici all'interno del partenariato possano essere governati dai criteri di incontro tra domanda e offerta tipico delle transazioni di mercato, è invece possibile pensare a scelte condivise e trasparenti assunte dal partenariato, che includano, nell'ambito delle strategie di sviluppo del territorio, il rafforzamento di imprese sociali che investano sulla propria comunità. La questione è che, sino ad ora, il problema semplicemente non è mai stato posto in questi termini. Anzi, ancor prima, non si sono create, forse nemmeno tra le imprese sociali, le condizioni culturali perché la questione possa essere affrontata; e qui si vorrebbe iniziare a farlo, confidando sul fatto che altri proseguano.

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Gianfranco Marocchi

Impresa Sociale

Nel gruppo di direzione di Impresa sociale, è anche vicedirettore di Welforum.it. Cooperatore sociale e ricercatore, si occupa di welfare, impresa sociale, collaborazione tra enti pubblici e Terzo settore.

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Argomento:  Policy
data:  30 gennaio 2023
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