Talvolta alcuni concetti diventano trendy e sono assunti in modo acritico da chi definisce le politiche e anche dalle imprese sociali stesse. Ad esempio, spesso si parla di investment readiness come criterio per valutare le imprese sociali e i loro programmi di sviluippo. Su quali presupposti e con quali conseguenze?
“Le parole sono importanti, chi parla male, pensa male” ripeteva il Michele - Nanni Moretti in Palombella rossa. Sono importanti per quanto dicono e per quanto presuppongono, spesso più per questo secondo motivo che per il primo. Se poi le parole sono non solo dette, ma ripetute, riutilizzate, prese a prestito senza nemmeno pensarci, ciò che presuppongono si dissolve completamente dalla consapevolezza di chi le utilizza; ma non per questo il sistema di riferimento di tali parole cessa di esistere, anzi, si propaga ancor più proprio grazie all’essere diventato parte di ciò che è scontato, implicito e per questo indiscutibile, non obiettabile.
Quanto, nei sistemi di riferimento – opinion makers, leaders, intellettuali, progettisti, ecc. - in cui operano le imprese sociali, si è utilizzato, in questi anni il concetto di investment readiness? Assai, non v’è dubbio. Ne hanno parlato le riviste di settore, compresa Impresa sociale (si trova un riferimento al tema anche nell’ultimo numero), l’Europa l’ha inserito tra gli oggetti delle proprie iniziative di finanziamento, diverse fondazioni lo hanno posto al centro dei propri bandi, numerosi soggetti hanno sviluppato sul tema riflessioni, modellizzazioni, standard, ecc. In sostanza, il concetto riguarda il grado in cui una certa impresa appare appetibile per gli investitori e, specificamente, laddove utilizzato con riferimento alle imprese sociali, investitori attenti almeno in qualche misura all’impatto sociale generabile grazie all’investimento e non solo al ritorno economico. Di fatto, nelle formalizzazioni più note (ad esempio il modello ipotizzato da Tiresia), viene ipotizzato che l’investitore sia sensibile ad un insieme di dimensioni quali le competenze, l’orientamento al mercato, le tecnologie, ecc.
Di per sé è un concetto come molti altri e non vi è nulla di strano che studiosi, policy maker e vari soggetti dell’ecosistema dell’impresa sociale lo utilizzino per sviluppare le loro riflessioni.
Il problema si presenta quando il concetto è utilizzato dando per impliciti alcuni presupposti, che invece richiederebbero consapevolezza e riflessione. Anzi, per dirla con meno diplomazia: che sono errati in quanto ideologici.
Tale corto circuito si sviluppa quando il concetto di investment readiness è utilizzato come sostanziale sinonimo di tutto quanto di positivo si può dire di un’impresa sociale. In altre parole: se è investment ready è una buona impresa sociale, se non è investment ready non lo è. Motivo per cui è importante che le imprese diventino maggiormente investment ready, bisogna guidarle ad esserlo o bisogna condizionare la concessione di finanziamenti al fatto che lo siano o che si dispongano a diventarlo e via dicendo.
Tralasciamo un particolare: se veramente chi scrive e modellizza sull’argomento possa ragionevolmente essere in grado di approssimare la scelta dell’investitore. Sarebbe a questo proposito interessante verificare se le imprese sociali che, dato un certo modello di investment readiness, conseguono indicatori più confortanti, ricevano effettivamente, rispetto ad altre imprese sociali, maggiori investimenti da soggetti della finanza ad impatto (e, aspetto secondario, se gliene importi qualcosa di riceverli). Poniamo che, ancorché si tratti di concetti abbastanza aleatori, si sia davvero in grado di trovare indicatori capaci di prevedere su larga scala il comportamento degli investitori e quindi si orienti a ragion veduta la propria azione nei confronti delle imprese sociali sulla base di un qualcosa di effettivamente consistente.
Qual è allora l’aspetto ideologico della questione?
Molto semplice: l’impresa sociale ha, senza dubbio, una pluralità di stakeholder: lavoratori, soci, volontari, clienti pubblici, clienti privati, istituzioni, investitori, finanziatori, terzo settore del territorio, altre imprese sociali, imprese for profit, comunità nel suo complesso, ecc.
Ragionevolmente, ciascuno di questi stakeholder apprezza determinati aspetti dell’impresa sociale. Potremmo ipotizzare che un lavoratore ritenga attrattiva un’impresa sociale che paga il giusto (e magari qualcosa in più), puntualmente, che consente la conciliazione con i tempi di vita, valorizza la creatività, rende il lavoro stimolante, prevede la presenza di responsabili accessibili e attenti, ecc. Potremmo immaginare che un volontario ritenga attrattiva un’impresa sociale di cui riconosce vivo e vigoroso l’afflato ad agire a favore dei destinatari, che sappia valorizzare e integrare i contributi professionali e quelli gratuiti, che dia spazio e rappresentanza a stakeholder diversi dai lavoratori negli organi, che si spenda sul fronte dell’advocacy, ecc. Senza dilungarsi: ciascuno degli stakeholder nominati (e di quelli che abbiamo tralasciato) si sente attratto da specifici elementi dell’impresa sociale che riflettono il suo punto di vista e la sua sensibilità. Certo, possono esservi taluni elementi sovrapponibili – tutti preferiscono avere a che fare con un’impresa ben gestita, ben organizzata, che interloquisce prontamente, ecc. – ma al tempo stesso ciascuno stakeholder, come ben emerge dai minimi esempi sopra proposti, legittimamente enfatizza l’uno o l’altro aspetto a fronte del suo specifico rapporto con l’impresa sociale. E, tra l’altro, come Carlo Borzaga ha insegnato sin dagli anni Novanta, vi è tra le specificità dell’impresa sociale il comporre tali diverse sensibilità grazie ad una governance multistakehoder.
Ebbene, per quale motivo dovremmo, come nei fatti fa spesso chi cita la dimensione dell’investment readiness, identificare una impresa sociale “buona” con quella che meglio compiace le attese degli investitori (ad impatto) anziché di uno qualsiasi degli altri stakeholder? Per quale motivo non ci sentiamo nemmeno di dover giustificare perché lo stakeholder investitore è più importante di tutti gli altri?
Per una scelta “valoriale”, per cui riteniamo che chi (eventualmente) investe dei soldi è di per sé più importante di chi ci lavora, di chi fa il volontario, del comune in cui l’impresa opera, delle associazioni di utenza dei destinatari, ecc.? Che quindi le sue aspettative – certamente relative all’impatto, ma presumibilmente non del tutto disinteressate – meritino una golden share rispetto a quelle di altri? Con buona pace, si intende, di ogni discorso sul primato del lavoro sul capitale che caratterizza la forma cooperativa assunta da molte delle imprese sociali e mettendo in soffitta senza nemmeno discuterli taluni dei presupposti fondanti di quarant’anni di storia delle imprese sociali.
Oppure, riteniamo che la scontata preminenza dell’ipotetico investitore sia più pragmaticamente legata al fatto che è dei suoi soldi, proprio dei suoi soldi che le imprese sociali hanno disperatamente bisogno per il loro sviluppo? E da dove viene questa sicurezza, dal momento che, come ha ben documentato ancora Carlo Borzaga in Cooperative da riscoprire, le imprese sociali non appaiono sottodotate né da un punto di vista finanziario, né da quello della capitalizzazione? E che, come più modestamente argomentavo qualche tempo fa su queste stesse pagine in Il più grande crowdfunding d’Italia, le risorse per cui l’impresa sociale dovrebbe secondo i fautori dell’investment readiness orientare la propria conformazione rappresentano un 1.5% rispetto al 98.5% conseguibile grazie al fatto di essere benvoluta da stakeholder diversi dagli investitori?
Potremmo continuare, ma il tema è lo stesso. Per quale motivo si ritiene incautamente di assolutizzare il punto di vista, legittimo ma francamente secondario, di uno specifico interlocutore rispetto a quello di tutti gli altri? Ed è normale innamorarsi di un punto di vista che, casualmente, è proprio quello culturalmente più imparentato con concezioni che spingono verso l’omologazione dell’impresa sociale con le imprese for profit? Domanda tanto più pregnante se si considera che, al di là di una visione un po’ visualizzata dell’investitore sociale, il fatto che siano messe al centro le aspettative dell’investitore difficilmente evita il rischio che gli elementi relativi al ritorno economico non prevalgano infine su istanze di urgenza sociale, penalizzando ad esempio interventi con minori marginalità ma maggiore potenzialità di cambiamento.
Al di là delle risposte scontate, da questa vicenda, non certo unica nel frasario assorbito dagli imprenditori sociali, si ricava la necessità di una maggiore attenzione ai concetti che vengono utilizzati, ancor più quando essi vengono presentati come innovativi, magari ponendo chi è refrattario a farsene permeare in una spiacevole situazione di soggezione, come se fosse l’ultimo al mondo rimasto a non riuscire ad apprezzare concetti avanzati, l’ultimo rimasto di una vecchia generazione che ormai a fatto il suo tempo.
Curiosi delle novità, quindi, ma senza dare nulla per scontato. E senza lasciare che il proprio senso critico si atrofizzi.
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