Il welfare è l’ambito in cui si è espressa la parte più rilevante dell’operatività delle cooperative sociali. A distanza di trent’anni dalla legge 381/91, una riflessione per analizzare e problematizzare le diverse esperienze di sviluppo delle cooperative sociali attive nel socio-assistenziali.
Le origini delle cooperative sociali sono diverse e la legge 381 ha abilitato, ma non prescritto – a differenza di quanto avvenuto dieci anni dopo in Francia con le SCIC (Sociétés Coopératives d’Intérêt Collectif) – un modello cooperativo multistakeholder a forte legame territoriale. Nel corso dei decenni ne è derivata una crescita tumultuosa e caratterizzata – soprattutto per le cooperative di “tipo A" – dall’adozione di diversi modelli di sviluppo; alcune sono rimaste legate ai territori e alle comunità in cui sono nate e si sono sviluppate, mentre altre hanno operato anche in luoghi diversi. Alcune si sono specializzate in alcuni ambiti di intervento – ad esempio l’infanzia o i servizi per gli anziani – mentre altre non si sono specializzate, intervenendo in una pluralità di settori. Alcune si sono impegnate nella partecipazione al maggior numero di gare possibili per ottenere l’affidamento dei servizi, altre hanno cercato di sottostare poco al meccanismo delle gare. A distanza di trent’anni, una riflessione per analizzare e problematizzare le diverse esperienze di sviluppo delle cooperative sociali attive nel welfare, individuando possibili future traiettorie di crescita.
Questo tema è stato sviluppato durante la sessione "Lo sviluppo della cooperazione sociale nei servizi di welfare" durante la XIX edizione del Workshop sull'impresa sociale, tenutosi a Trento il 17 e 18 novembre 2021, sul tema "Il futuro a trent'anni dalla 381/1991".
Felice Scalvini (Impresa Sociale) modera
* Angelo Tosana (Cooperativa sociale Co.Ge.S.S., Barghe BS) [slide presentazione]
* Franca Guglielmetti (Cooperativa sociale Cadiai, Bologna) [slide presentazione]
* Costanza Lanzanova (La Nuvola Impresa Sociale, Orzinuovi BS) [slide presentazione]
Il welfare è l’ambito in cui si è espressa la parte più rilevante dell’operatività delle cooperative sociali, con esiti in termini occupazionali e di fatturato assai rilevanti; a trent’anni dalla 381/1991 è utile interrogarsi sulla capacità trasformativa della cooperazione sociale in relazione alle scelte strategie e organizzative che ciascuna cooperativa ha fatto. Alcune cooperative hanno mantenuto e sviluppato un legame con specifiche aree territoriali, spesso quelle in cui la cooperativa è nata, mentre altre hanno scelto, sin dall’inizio o ad un certo punto della loro storia di spaziare in territori diversi sulla base delle opportunità imprenditoriali; alcune hanno scelto di specializzarsi in taluni ambiti di intervento – ad esempio l’infanzia o i servizi per gli anziani – mentre altre intervengono in una pluralità di settori; per alcune il fatturato è composto in grande prevalenza da appalti pubblici, per altre emerge un bilanciamento tra appalti pubblici, servizi in accreditamento, vendita a famiglie e a imprese, progettazioni specifiche, ecc.; alcune cooperative hanno investito fortemente sulla creazione di reti territoriali e settoriali, altre si vivono principalmente come parte di un contesto concorrenziale in cui gli altri soggetti sono competitor da contrastare; alcune cooperative si sono sviluppate in relazione alle istanze di uno stakeholder definito (generalmente i lavoratori), altre sono nate dalla sintesi delle istanze di più stakeholder diversi, ad esempio lavoratori e famiglie di utenti.
In altre parole, ciò che noi chiamiamo “cooperativa sociale di tipo A” può essere nei fatti un soggetto molto diverso, anche per la scelta della 381/1991 di rendere agibili i diversi modelli sopra richiamati, senza prescrivere o orientare verso uno specifico approdo.
Anche per effetto di questa libertà, oltre che dell’evoluzione del contesto, va inoltre tenuto presente che tutte le opzioni strategiche e organizzative sopra richiamate vanno viste in modo dinamico, destinate ad evolvere nel tempo in ciascuna cooperativa: la storia di ciascuna impresa, spesso, porta a ripensamenti, modifiche della cultura organizzativa, progressiva sostituzione del gruppo dirigente, momenti di riorganizzazione non esenti, talvolta, da fratture da cui la cooperativa esce cambiata e con nuovi equilibri tra gruppi di soci, e così via.
In questa sede tutto, ciò ci interessa a fronte di uno specifico quesito: in che misura tali scelte ed evoluzioni portano (o meno) l’impresa ad essere protagonista di dinamiche trasformative?
In primo luogo, va esplicitata la non neutralità di questa domanda. La scelta di finalizzare un’analisi organizzativa (e dunque, presumibilmente, una conclusione che porta a ritenere che taluni modelli siano più adeguati di altri) alla capacità trasformativa non è un’opzione scontata: laddove il flusso di ragionamento fosse, ad esempio, portato ad individuare i modelli che hanno come esito una maggiore crescita dimensionale o la creazione di un maggior utile di impresa, presumibilmente ne deriverebbero indicazioni diverse sui modelli organizzativi ottimali da adottare. Cosa è più utile, a livello di scelte organizzative, per trasformare e migliorare i modelli di risposta ai bisogni dei cittadini può non essere la stessa cosa di ciò che più utile per aumentare la propria quota di mercato. La scelta quindi di un punto di vista, di un esito auspicabile cui si vuole tendere, è di per sé indicativa di una visione della cooperazione sociale e del suo ruolo sociale, trasformativo del contesto o invece omologabile a quello di qualsiasi altra impresa la cui eccellenza si valuta sulla base della redditività e della capacità di ampliare il proprio mercato.
Ciò detto, il punto di vista qui assunto è quello, appunto, delle capacità trasformative.
Questo tema affonda peraltro le proprie radici nella storia della cooperazione sociale, se è vero, come afferma spesso Carlo Borzaga, che “i servizi di welfare li ha inventati la cooperazione sociale”: li ha sperimentati, spesso sostenendone lo sviluppo con risorse autonome, mostrandone l’utilità, sino a che le pubbliche amministrazioni – generalmente gli enti locali – ne hanno constatato la necessità, inserendoli entro il sistema dei servizi del welfare locale; tale evoluzione sicuramente porta con sé alcune implicazioni positive – la certezza dei finanziamenti, la diffusione su larga scala – ma anche dei rischi: che i servizi perdano la loro capacità trasformativa dirompente, si burocratizzino e che, dal punto di vista delle cooperative sociali, l’espropriazione della titolarità del servizio porti con sé l’estraniamento dalla funzione di trasformazione e la cooperativa, da inventrice di risposte ai bisogni diventi una mera esecutrice di prestazioni.
Un esempio di questa deriva è raccontato molto efficacemente da Franca Guglielmetti della Cooperativa Cadiai di Bologna: la configurazione dell’assistenza domiciliare sotto forma prestazionale, con una corrispondenza tra prestazione erogata e minutaggio di assistenza riconosciuto, che obbliga le operatrici ad accessi generalmente di pochi minuti – quelli strettamente necessari a compiere una determinata prestazione sociosanitaria a casa dell’anziano – mortificando sicuramente l’aspetto della relazione, ma spesso anche le necessità più evidenti: se accedendo per erogare la propria prestazione ci si accorge che nell’appartamento è caduta e si è rotta una bottiglia di latte, all’operatore è impedito di fermarsi a pulire; semmai ha la possibilità di avviare una segnalazione a cui il comune potrà in un secondo tempo far seguire l’invio di persona incaricata della pulizia.
Certamente tali derive prestazionali appaiono lontanissime dallo spirito trasformativo con cui le cooperative sociali e altri soggetti del terzo settore hanno inventato – ben più che il servizio di assistenza domiciliare – il concetto di domiciliarità, come presa in carico complessiva della persona con la sua rete di relazioni affinché possa permanere il più a lungo possibile presso il proprio domicilio.
Quindi la domanda diventa appunto: come agire – o recuperare, ove perduto – un ruolo trasformativo?
Nella consapevolezza di quanto sia difficile definire ricette e modelli, vi sono alcuni elementi che sicuramente favoriscono tale esito e che emergono dalle storie di impresa raccolte nella sessione di lavoro Lo sviluppo della cooperazione sociale nei servizi di welfare condotta da Felice Scalvini e che ha visto la partecipazione delle cooperative Co.Ge.S.S. di Barghe (BS), La Nuvola di Orzinuovi (BS) e Cadiai di Bologna. I contenuti qui sintetizzati sono disponibili in forma più estesa nelle slide resi disponibili in apertura di articolo e negli interventi svolti nella sessione di lavoro di cui è qui resa disponibile la registrazione.
L’autonomia di impresa. Il primo è l’autonomia di impresa, tema che si può a sua volta articolare in più dimensioni, perché la possibilità di giocare un ruolo trasformativo richiede comunque di poter governare il proprio operato:
Dunque, in tutti e tre i casi si ha a che fare con imprese i cui indicatori economici denotano un buon grado di autonomia, prerequisito per l’indipendenza nel definire strategie di trasformazione.
Il radicamento in una specifica comunità di riferimento è la seconda dimensione degna di attenzione. È difficile, infatti, pensare ad una capacità trasformativa coerente con le risposte ai bisogni disgiuntamente da una relazione stretta con gli stakeholder portatori dei bisogni stessi. I casi esaminati presentano, a questo proposito, alcune caratteristiche diverse, anche se, in ultima analisi, sembrano giungere tutti a tre ad un buon grado di relazione con una comunità di riferimento. Tutte e tre le cooperative hanno scelto di agire, con poche eccezioni, in un territorio ben definito e limitato in cui sono protagoniste della risposta ai bisogni da alcuni decenni e individuano in questo uno dei fattori qualificanti del rapporto con la comunità di riferimento, grazie appunto alla rete di relazioni che sono state in grado di instaurare nel corso del tempo. È diversa, invece, la scelta delle tre cooperative rispetto agli ambiti di attività: mentre Co.Ge.S.S. ha individuato come proprio elemento qualificante una specializzazione settoriale nell’ambito della disabilità (dando vita ad uno spin off nel momento in cui un gruppo di soci era interessato a lavorare con altri destinatari), La Nuvola e Cadiai hanno ritenuto prioritario sviluppare la propria presenza in più settori di attività per l’effetto di bilanciamento che questa scelta assicura, dal momento che a fronte della possibile crisi di un settore, altri possono essere in sviluppo. Sono diverse anche le origini delle tre cooperative: ad un estremo troviamo Co.Ge.S.S. nata per iniziativa di un gruppo di genitori di ragazzi con disabilità e sviluppatasi per molti anni con un ruolo significativo di questi stakeholder (oggi però meno presenti), all’altro vi è Cadiai la cui origine rispecchia le istanze di autogesione e miglioramento della condizione professionale di un gruppo di donne impegnate negli anni Settanta nel lavoro assistenziale a domicilio. Ma al di là delle diverse origini pare evidente che nel corso degli anni la presenza continuativa della cooperativa sul territorio ha originato legami solidi con una pluralità di stakeholder; per dare solo uno degli indicatori si consideri che La Nuvola ha nella propria base sociale 15 volontari a cui si aggiungono 122 volontari non soci mentre Co.Ge.S.S. ha 23 soci volontari oltre ad avere dato vita ad un’associazione che opera parallelamente alla cooperativa con 170 volontari.
E questo ci porta alla successiva e ultima dimensione da considerare per comprendere le capacità trasformative, quella della costruzione di reti e, a ciò connesso, con la capacità di queste reti di elaborare proposte compiute di trasformazione ponendosi come interlocutori delle istituzioni pubbliche nella programmazione sociale, grazie agli strumenti di coprogrammazione che l’art. 55 del Codice del Terzo settore ha reso agibili. A questo proposito va evidenziato come:
Questo impegno nelle reti, oltre ad essere uno strumento per il rafforzamento delle proprie iniziative di imprenditorialità sociale, rappresenta, per il tema ora trattato, una potenzialità assai rilevante per diventare in grado di formulare programmi di trasformazione del territorio, orizzonte sicuramente diverso dalla mera offerta di prestazioni sul mercato dei servizi.
Certo questo è un cammino accidentato, di cui si avvertono le potenzialità ma di cui sono evidenti anche le difficoltà, dalla sempre presente dialettica tra collaborazione e concorrenza che rappresenta il mondo cooperativo, alle relazioni insieme ricche e problematiche con l’ente pubblico, talvolta costruite con anni di lavoro e poi messe in discussione, come racconta Cadiai, dal cambio di interlocutori nella pubblica amministrazione. Insomma, da una parte appare chiara nella mente delle cooperative l’aspirazione a giocare un ruolo trasformativo entro reti territoriali, dall’altra si tratta di un cammino da costruire non senza difficoltà.
In tale sfida si colloca anche la ricerca di un diverso rapporto con la filantropia istituzionale. Troppo spesso la fondazione si vive (ed è considerata dalle cooperative) come un finanziatore di progetti, con il rischio che ciò, in un contesto di tensioni economiche e sostenibilità, inclini pericolosamente verso una sorta di “funzione bancomat” per far quadrare i conti penalizzati dalle pressioni al risparmio oltre ogni limite subite dalle pubbliche amministrazioni. In realtà il soggetto filantropico – esso stesso parte del territorio chiamato ad esprimere un progetto di trasformazione – può interpretare il proprio ruolo in termini molto diversi, sostenendo appunto queste funzioni di aggregazione e integrazione in rete tra soggetti che difficilmente risultano sostenibili in assenza di un supporto esterno e chiedendo al tempo stesso a tali reti di diventare appunto soggetti di programmazione e coprogrammazione del welfare locale.
In conclusione, a trent’anni dalla 381/1991 le cooperative sociali di servizi alla persona sono chiamate a rilanciare la propria sfida trasformativa originaria, con due punti di forza di grande rilievo rispetto a quando la storia è iniziata:
Accanto a ciò sarà d’altra parte necessario fare i conti con un ventennio in cui il mondo cooperativo è stato forzatamente spinto dai paradigmi competitivi a considerare i soggetti pubblici come controparti contrattuali e gli altri Enti di Terzo settore come competitor, enfatizzando la capacità aggredire i mercati sviluppando l’eccellenza prestazionale (o ribassando i costi) piuttosto che quella di generare cambiamenti e trasformazioni.
Tra potenzialità inedite e affaticamenti, qui si gioca il senso dei prossimi decenni di cooperazione sociale.
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