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ISSN 2282-1694
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Saggi

Innovazione sociale e generatività sociale

Davide Lampugnani, Patrizia Cappelletti

Il caffè sospeso della tradizione napoletana

Federica D'Isanto, Salvatore Di Martino

Saggi brevi

I luoghi di innovazione

Fabrizio Montanari, Lorenzo Mizzau

Misurare la coesione sociale

Giulia Venturini, Paolo Roberto Graziano

Casi studio

Sistemi locali di economie collaborative

Maria Antonietta Sbordone

Numero 8 / 2016

Saggi brevi

I luoghi di innovazione: un primo modello organizzativo per fenomeni emergenti

Fabrizio Montanari, Lorenzo Mizzau

Abstract

Le recenti evoluzioni dei sistemi economici hanno segnato importanti cambiamenti nelle dinamiche di consumo e in quelle produttive, facendo emergere con forza l’importanza dell’innovazione. Tra i fattori che, a diversi livelli, possono sostenere l’innovazione vi sono anche i cosiddetti “luoghi di innovazione”, cioè quegli spazi fisici, come ad esempio gli incubatori, i co-working, ma anche gli spazi collaborativi informali (es. biblioteche, bar e librerie), nei quali le persone possono incontrarsi per scambiarsi idee, apprendere reciprocamente e collaborare. Questi spazi possono essere un importante moltiplicatore del patrimonio cognitivo, umano e sociale presente in un territorio, in quanto offrono occasioni per sperimentare e sviluppare tecnologie, servizi e modelli d’impresa che al tempo stesso beneficiano della partecipazione diretta dei cittadini entro un framework collaborativo e generano nuove soluzioni ai problemi della comunità. In altri termini, possono contribuire a sviluppare in un territorio una particolare “atmosfera creativa” della quale possono beneficiare tutti gli attori (individui, gruppi più o meno formali, organizzazioni, ecc.) che vi operano. Recentemente si è assistito a una vera e propria proliferazione di spazi di questo tipo, che sono ritenuti cruciali per sostenere l’innovazione locale e la capacità di connessione con altri nodi esterni al territorio. Se queste premesse sono ormai condivise, manca tuttora un’analisi sistematica delle variabili organizzative che possono influenzarne l’efficacia. In questo senso, il presente articolo si propone di offrire una riflessione sulle caratteristiche organizzative dei luoghi di innovazione, con l’obiettivo di comprendere le leve a disposizione sia dei policy maker che dei soggetti gestori per aumentarne efficacia, impatto e sostenibilità.


Recent evolutions of economic systems marked important changes in the consumption and production  dynamics, by making innovation strongly emerge. Among the factors which may support innovation at different levels, there are also the so called “innovation places”, i.e. locations such as hubs, co-working, but also informal collaborative places (e.g. libraries, cafés, bookshops), where people can meet to exchange ideas, learn from one another, cooperate. These spaces can represent an important multiplicator of the cognitive, human and social patrimony existing in a certain territory, because they offer the opportunity to experiment and develop technologies, services and enterprise models which, at the same time, benefit from the direct participation of citizens within a collaborative framework and generate new solutions to community problems. In other words, they contribute to develop a particular “creative atmosphere” in a certain territory, which benefits all the actors (individuals, more or less formal groups, organisations etc.) working there. Recently we noticed a proliferation of this type of spaces, since they are considered crucial to support local innovation and the capacity to connect with external stakeholders. While these premises are  shared, what is missing is a systemic analysis of organisational variables which may influence its efficacy. In this sense, the paper aims at considering the organisational features of innovation places, with the objective of identifying the leviers available to both policy makers and managing actors in order to increase their efficacy, impact and sustainability.

Introduzione

Nell’attuale contesto economico, la capacità di innovare i prodotti/servizi offerti, i processi produttivi e l’organizzazione stessa delle attività rappresenta, sempre di più, il fattore critico non solo per competere con successo, ma anche per supportare lo sviluppo delle economie regionali e nazionali (Acs et al., 2016; Piergiovanni et al., 2012). La stessa Commissione Europea ha inserito gli investimenti in ricerca e sviluppo nella lista degli obiettivi strategici da perseguire nei prossimi anni attraverso il programma “Europe 2020” (Commissione Europea, 2014). Tuttavia, se è vero che l’innovazione costituisce uno dei principali driver per la crescita sostenibile e profittevole, essa si caratterizza anche per un’elevata incertezza in quanto implica un allontanamento dalle pratiche consolidate con cui realizzare prodotti e servizi (Criscuolo et al., 2014; David, Rullani, 2008). In particolare, sono proprio le innovazioni con i maggiori potenziali ritorni ad essere quelle più rischiose a causa della maggior probabilità di non essere comprese dal mercato e dei notevoli cambiamenti organizzativi che esse implicano (Volberda et al., 2014).

Non sorprende, dunque, che un’ampia letteratura abbia cercato di comprendere quali fattori possono facilitare l’innovazione. In particolare, negli ultimi decenni un numero sempre maggiore di studiosi ha preso le distanze dalla visione classica (e anche un po’ romantica) dell’innovatore geniale e solitario a favore di una più “sociale”, nella quale svolge un ruolo importante il contesto in cui operano gli attori economici (singoli, gruppi, organizzazioni). Coerentemente, il focus dell’analisi si è progressivamente spostato dagli attributi individuali (tratti personali, stili cognitivi, ecc.) alle condizioni di contesto che possono facilitare o ostacolare lo sviluppo e l’applicazione di idee nuove, ponendo particolare attenzione alle determinanti relazionali (Anderson et al., 2014; Crossan, Apaydin, 2010; Perry-Smith, 2006). In questo scenario, il numero e il tipo di relazioni in cui i diversi attori sono inseriti (embedded) influenza considerevolmente le performance innovative (Granovetter, 1985; Meeus, Faber, 2006). Le relazioni, infatti, costituiscono importanti veicoli per ottenere risorse di vario genere come, ad esempio, informazioni, status, legittimazione e fiducia, le quali a loro volta possono sostenere i processi innovativi (Brass et al., 2004; Gulati, Gargiulo, 1999; Perry-Smith, Mannucci, 2017).

In questa prospettiva relazionale viene enfatizzato anche l’elemento territoriale, il quale continua a svolgere un ruolo importante nel sostenere l’innovazione, pure in uno scenario economico altamente immateriale e globalizzato come quello attuale. Un territorio, ad esempio, può supportare i processi innovativi degli attori che vi operano attraverso il suo patrimonio cognitivo, cioè i saperi, le conoscenze e le pratiche che si sono accumulati nel corso del tempo e che contribuiscono in modo originale sia alla realizzazione dei prodotti e servizi da parte degli operatori locali, sia alla loro innovazione (Becattini, 1990; Feldman, 2014; Saxenian, 1994). Un territorio, inoltre, può sostenere l’innovazione attraverso la sua dimensione sociale, cioè le dinamiche relazionali (spesso di natura informale) che si creano tra i diversi attori e che permettono, ad esempio, di mettere “in circolo” i saperi oppure di scambiare informazioni e idee attivando anche processi di contaminazione (Amin, Cohendet 2004; Benner, 2003; Montanari, 2011). La presenza in un territorio dei cosiddetti luoghi di innovazione, cioè di spazi fisici dedicati all’incontro, all’aggregazione e all’interazione di attori differenti (individui, aziende, associazioni, agenzie pubbliche, ecc.) con il fine ultimo di favorire lo scambio di idee, la contaminazione reciproca e la co-progettazione di attività e servizi (Montanari, Mizzau, 2016), può costituire un importante fattore moltiplicatore del patrimonio cognitivo, umano e sociale presente in loco. I luoghi di innovazione, infatti, possono favorire le interazioni sociali contribuendo a creare la giusta “atmosfera creativa” (Bertacchini, Santagata, 2012) della quale possono beneficiare diversi soggetti solo per il fatto di trovarsi in quel particolare luogo in quel particolare momento. I luoghi di innovazione possono anche svolgere una funzione di “magnete”, aumentando cioè la capacità di attrazione di un territorio nei confronti di talenti provenienti da altre aree geografiche, e svolgere una funzione di rigenerazione offrendo nuove destinazioni d’uso per i luoghi abbandonati (Cottino, Zandonai, 2012; Montanari, Mizzau, 2015). In questi luoghi, inoltre, si possono sperimentare nuovi modelli di risposta alle istanze della popolazione in tema di servizi alla persona, occupazione e inclusione, sostenendo (e al tempo stesso beneficiando) della partecipazione diretta dei cittadini entro un framework collaborativo. Per riuscire in ciò, può essere utile applicare i principi dell’open innovation (Chesbrough, 2006), adottando cioè “un approccio centrato sulla creazione e la gestione di collaborazioni ad ampio raggio tra soggetti diversi, superando i tradizionali confini dell’organizzazione economica e sociale: tra settore pubblico e privato, tra imprese for profit e soggetti non lucrativi, tra istituzioni e società civile” (Cottino, Zandonai, 2012 - p. 4).

Sebbene negli ultimi anni vi sia stata una vera e propria proliferazione di questo tipo di spazi, sono tuttora poche le riflessioni sistematiche sulle variabili organizzative in grado di aumentarne l’efficacia e di renderli effettivamente uno dei pilastri fondanti di un ecosistema d’innovazione. Obiettivo principale del presente articolo è quello di offrire una proposta di modello organizzativo che possa aumentare l’efficacia, il potenziale impatto e la sostenibilità di questi luoghi. Senza voler cedere in facili entusiasmi o semplificazioni, si vuole dunque offrire una sorta di “mappa” che aiuti i policy maker e gli attori economici e della società civile ad orientarsi tra le diverse scelte organizzative e strategiche che vanno a definire l’identità e i risultati conseguibili da questo tipo di luoghi.

Verso gli ecosistemi di open innovation

L’idea relazionale di innovazione è coerente con il recente cambio di paradigma che ha visto il passaggio da modelli di innovazione “chiusi” a quelli “aperti”. Nello specifico, partendo dal presupposto che, a causa della maggiore complessità del contesto economico, le conoscenze necessarie per innovare con successo non possano risiedere solo all’interno di un’organizzazione, il modello dell’open innovation propone l’idea dell’uso volontario di flussi di conoscenza in entrata e in uscita da un’organizzazione per accelerare i processi innovativi (Chesbrough, 2006). In altri termini, questo modello enfatizza gli aspetti collaborativi di varia natura e l’apertura dei confini organizzativi attraverso lo sviluppo di relazioni (formali e informali) con fornitori, clienti, strutture di formazione e ricerca, e anche con gli stessi competitors.

Coerentemente con questo spostamento di focus dalla singola organizzazione all’insieme degli attori che si interfacciano con essa, svolgono un ruolo critico le caratteristiche dell’ecosistema di innovazione in cui un’organizzazione opera. Originariamente sviluppato nel campo della biologia, il concetto di ecosistema viene utilizzato negli studi di matrice manageriale per indicare una complessa e ibrida forma inter-organizzativa composta dall’insieme dei meccanismi collaborativi attraverso i quali le organizzazioni interagiscono per realizzare e commercializzare le innovazioni (Jacobides et al., 2016; Lichtenthaler, 2011). Da una prospettiva più ampia, un ecosistema di innovazione può essere inteso come l’insieme di tutte le risorse di sistema (infrastrutture hard e soft, meccanismi di coordinamento tra gli attori, keystone organizations, ovvero organizzazioni rilevanti in un dato campo di attività, ecc.) che possono favorire la circolazione di conoscenze e competenze in un dato contesto, e dunque la nascita e l’implementazione di nuove idee (Chesbrough, Appleyard, 2007; von Krogh, Geilinger, 2014). In questo senso, l’idea di ecosistema comprende non solo gli aspetti più strettamente economico-imprenditoriali, ma anche quelli di innovazione sociale dove, coerentemente con i principi dell’open innovation, i cittadini sono un tassello fondamentale nei processi di generazione di nuovi servizi pubblici e sociali (Sgaragli, Montanari, 2016; Venturi, Zandonai, 2016).

I luoghi di innovazione, dunque, svolgono un importante ruolo di moltiplicatore del patrimonio cognitivo e relazionale di un ecosistema: se per produrre innovazione le organizzazioni devono aprirsi verso l’esterno, la presenza in un territorio di spazi che facilitano le dinamiche collaborative costituisce sicuramente un fattore abilitante. Per luoghi di innovazione si intende un insieme variegato di spazi con caratteristiche anche molto diverse tra loro, ma che condividono tutti uno stesso obiettivo di fondo: “permettere uno scambio neutrale di informazioni tra attori eterogenei, con obiettivi e finalità diversi tra loro” (Maiolini, 2015 - p. 35). Rifacendosi al concetto di “luogo terzo” (third place) di Oldenburg (1989), questi luoghi comprendono tutti gli spazi di collaborazione nell’accezione ampia del termine: da quelli maggiormente istituzionalizzati, come ad esempio gli incubatori di impresa, a quelli più informali come gli spazi culturali o gli stessi locali pubblici di una città (si veda la Tabella 1). La “diversità istituzionale” (ovvero la distanza rispetto alle attività normate, ritualizzate e accettate come le più appropriate in un dato campo) e la natura occasionale e informale di tali spazi facilitano un particolare tipo di interazione tra individui che permette loro sia di rompere gli schemi imposti dalle istituzioni consolidate, sia di sviluppare collettivamente nuove attività e idee in modo relativamente “libero” e sperimentale (Bertolotti et al., 2016; Currid, 2007; Furnari, 2014). Sebbene le significative innovazioni tecnologiche abbiano aumentato la rilevanza e l’interesse verso i luoghi virtuali di innovazione (piattaforme web, online community, ecc.), la presenza di spazi fisici di innovazione è considerata ancora un pilastro fondante di un ecosistema di innovazione. Per esempio, nelle università, l’eccellenza nella ricerca viene ricondotta non solo alla capacità di attrarre i migliori talenti individuali, ma anche al contesto di incontro faccia a faccia, spesso casuale e destrutturato, tra gli stessi ricercatori: come racconta Moretti (2013), mentre il lavoro “in solitaria” (a distanza e asincrono) è parte importante della produzione di output di ricerca, incontrarsi per i corridoi di un dipartimento, sviluppare dibattiti più o meno formalizzati ai seminari “brown bag”, o anche solo alla proverbiale macchina del caffè sono occasioni importanti di apprendimento e di sviluppo di nuove idee.

Tabella 1. Una tassonomia dei luoghi di innovazione. Fonte: elaborazione degli autori.

Questi spazi nascono spesso per impulso (o con un forte supporto) pubblico, proprio a causa delle notevoli potenziali ricadute positive che possono avere su un territorio: da quelle più strettamente economiche (nascita di nuove start-up, aumento dell’occupazione, ecc.) a quelle sociali come, ad esempio, lo sviluppo di servizi di assistenza alle fasce più deboli della popolazione, il sostegno alle dinamiche di inclusione e di partecipazione civica e il recupero di spazi in disuso (Auricchio et al., 2014; Ehn et al., 2014; Montanari, Mizzau, 2016). Proprio per queste ragioni, negli ultimi anni si è assistito a una grande diffusione di questi spazi e le amministrazioni pubbliche hanno cercato di utilizzarli come leva di policy per sostenere lo sviluppo economico e l’inclusione sociale attraverso l’attivazione e l’aggiornamento del capitale sociale e umano disponibile in un territorio. Tuttavia, se c’è ampia convergenza sull’utilità di questi spazi, come definirne le modalità di organizzazione, i sistemi di governance e di relazione con gli ecosistemi in cui sono inseriti rappresentano tutt’ora una sfida aperta.

Verso un modello organizzativo

Si è sottolineato come i processi che prevedono la progettazione e l’attivazione di uno spazio collaborativo coinvolgano l’intero ecosistema di innovazione. In questo senso, la possibilità di attivare con una logica multi-stakeholder un numero rilevante di attori, territoriali e non, genera una molteplicità di interazioni che possono sicuramente innalzare il livello di creatività e innovazione dell’ecosistema. Tuttavia, ciò va anche ad incrementarne la complessità, richiedendo un importante sforzo di integrazione, di gestione delle relazioni e di coordinamento. Ecco perché è importante provare a definire un modello organizzativo efficace che trasformi le potenzialità “sulla carta” della creazione di un luogo di innovazione in flussi di attività e progetti implementabili ed efficaci. In particolare, può essere utile ragionare su un modello che fornisca una prima declinazione degli aspetti organizzativi di un luogo di innovazione, che possa tenere traccia delle azioni che vengono sviluppate, e che definisca i sistemi di verifica in corso d’opera dei risultati raggiunti.

Il modello che sarà qui discusso emerge principalmente da un progetto di ricerca[1] condotto in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia, in attuazione delle politiche di rigenerazione di alcuni spazi comunali (in particolare dei Chiostri di S. Pietro, uno spazio di dimensioni relativamente grandi e di importante valore storico-architettonico, collocato in un’area centrale della città)[2]. Dal punto di vista metodologico, la ricerca ha previsto due step principali: l’analisi dello stato dell’arte e una ricognizione-confronto sul campo tramite interviste ai principali stakeholder coinvolti. Per il primo passo, è stata condotta un’analisi desk volta a mappare le principali esperienze a livello nazionale e internazionale nell’ambito dell’innovazione aperta e degli spazi collaborativi, individuando circa 60 casi. Sulla base di questa prima mappatura, è stato selezionato, grazie anche alla consultazione di alcuni esperti italiani e internazionali in tema di open innovation e spazi collaborativi, un campione più ristretto costituito da 7 casi che sono stati oggetti di un approfondimento verticale di tipo esplorativo. Il secondo step è consistito in un percorso partecipato di coinvolgimento di stakeholder e gruppi di cittadini. In questa fase, si sono realizzate interviste con 36 rappresentanti di 27 attori istituzionali, del mondo associativo e dell’impresa, e si sono coinvolti i cittadini attraverso workshop e focus group.

Il modello che ne risulta è costituito da quattro variabili (o dimensioni) organizzative a cui porre attenzione nel processo di disegno e sviluppo di un luogo di innovazione (Montanari, Mizzau, 2016):

  1. governance, ossia definizione delle modalità di allocazione dei diritti decisionali e di controllo nel rapporto tra proprietario dello spazio (spesso un ente pubblico) e soggetto gestore (in questa dimensione rientra anche la definizione dei criteri e delle modalità di selezione del soggetto gestore);
  2. attività da svolgere, ossia definizione dei campi/settori a cui dare priorità, delle attività e servizi core da erogare, di eventuali attività collaterali da svolgere (es. implementazione di spazi di ristorazione o di altre attività profit) e scelta dei “temi pilota” su cui far convergere parte delle attività oppure sperimentare i primi passi[3];
  3. layout degli spazi, ossia scelta di come organizzare l’ambiente fisico e socio-organizzativo, le cui caratteristiche possono influenzare le interazioni (e i relativi i processi di cross-fertilization) tra i soggetti che vivono gli spazi;
  4. modalità di engagement, ossia definizione delle azioni (on line e off line) di coinvolgimento degli attori dell’ecosistema locale (e non solo) attraverso l’attivazione di flussi inbound (cioè di attrazione di risorse cognitive e materiali dall’esterno all’interno dello spazio al fine di valorizzarne il suo ruolo di talent scout e vetrina per i talenti e le idee dell’ecosistema) e outbound (cioè di trasmissione all’esterno di risorse cognitive e sociali sviluppate all’interno dallo spazio).

Conclusioni

Una costante capacità innovativa viene sempre più frequentemente richiamata come il principale driver per lo sviluppo di organizzazioni e territori. L’innovazione, tradizionalmente appannaggio dei laboratori di ricerca e sviluppo delle imprese (o comunque di un ridotto numero di soggetti strutturati “depositari” di questa funzione), è sempre più capacità di connettere comunità aperte di soggetti (individuali e collettivi, destrutturati e strutturati) coerentemente con i principi dell’open innovation, che rappresenta un’importante àncora concettuale per la gestione della complessità degli ecosistemi di innovazione. Tuttavia, se è vero che all’aumentare delle relazioni collaborative e della varietà del mix di competenze messe in campo migliorano potenzialmente le performance innovative, è ineludibile che sorgano anche importanti criticità gestionali e di “messa a sistema”. In questo articolo ci siamo interrogati su questi aspetti, proponendo un modello organizzativo per la progettazione e il governo dei luoghi di innovazione.

Un primo aspetto cruciale che emerge dal modello proposto riguarda il fatto che la creazione di un luogo di innovazione pone l’esigenza di caratterizzarlo con una mission il più possibile chiara, precisa e condivisa con gli stakeholder. La sfida è coniugare la diversificazione delle attività e la “multivocalità” (tratti insiti nella natura di spazio di aggregazione di attori differenti) con una chiarezza di visione che ispiri la natura, la quantità e la qualità delle attività da intraprendere. In questo senso, è auspicabile che tale mission vada a inserirsi in modo coerente e armonico con l’insieme di policy che contraddistinguono un dato territorio a livello politico e che ispirano i piani strategici degli enti locali (a diversi livelli). Se la spontaneità d’iniziativa e la partecipazione dal basso vanno incoraggiate in quanto costitutive delle esperienze di open (e social) innovation, è anche vero che i leader di simili progetti “aperti” possono e devono lavorare per stabilire “norme di ingaggio” che possono aumentare i risultati potenzialmente raggiungibili (Chesbrough, Appleyard, 2007).

Come si è visto nel paragrafo precedente, un ruolo importante in tal senso deve essere esercitato dal soggetto gestore, che svolge un fondamentale compito di facilitazione tra la comunità di cittadini, i gruppi informali e gli attori economici e sociali più istituzionalizzati. Ad esso deve essere affidata, secondo schemi che permettano una relazione a sua volta aperta e collaborativa, ma anche guidata e monitorata, la principale responsabilità di funzionamento ed efficacia dello spazio, e quindi la traduzione in realtà organizzativa (strutture, organigrammi, competenze, network, ecc.) della mission di cui sopra. Al di là della natura giuridica delle scelte effettuate in termini di soggetto gestore (singola azienda, cooperativa, ATI, ecc.), quello che emerge con forza è l’importanza di ibridare logiche profit e non profit. Se infatti l’aspetto economico (in termini di criteri di organizzazione delle attività, risultati attesi, sostenibilità, ecc.) è di primaria importanza, esso deve andare di pari passo con quello sociale. Ovviamente questo connubio pone diverse sfide organizzative che devono essere tenute ben presenti sia dal proprietario dello spazio, sia dal soggetto gestore (Dacin et al., 2011), il quale deve mostrare adeguate competenze sia sociali, sia economiche, svolgendo al tempo stesso un cruciale ruolo di gatekeeping tra i diversi utenti-contributors che provengono dal comunità di pratiche (e di bisogni) locali e non solo, e che hanno istanze e obiettivi anche molto diversi tra loro. L’ideale ruolo di uno spazio di innovazione, infatti, è dare forma alle iniziative provenienti dalla comunità, costituendo una cassa di risonanza per il recepimento di determinate istanze presso attori più istituzionali, che in alcuni casi potranno farli propri, finanziarli, co-progettarli, renderli sostenibili e replicarli su scale più ampie.

Se è vero che il soggetto gestore ha compiti importanti (e sfidanti), non si deve cadere in una visione troppo “eroica” dove il soggetto gestore viene visto come l’unico attore in grado di determinare il successo di un luogo di innovazione. L’efficacia di un luogo di innovazione, infatti, è positivamente correlata al suo radicamento (embeddedness) nell’ecosistema di riferimento. Pertanto, il soggetto gestore deve attivarsi per svolgere una funzione di enhancement delle relazioni tra attori diversi dell’ecosistema creando e/o rafforzando comunità di pratiche trasversali che possono contribuire in termini di idee e competenze alla creazione o al raffinamento dei prodotti e servizi che lo spazio è chiamato a realizzare. Solo in questo modo è possibile rafforzare l’ecosistema, contribuendo a mettere a sistema le iniziative già presenti, a migliorane i processi, la sostenibilità e la scalabilità.

Quanto detto sopra può anche essere letto in un’ottica di gestione della conoscenza diffusa all’interno di un ecosistema (Metaxiotis et al.; Mizzau, Montanari, 2016). Infatti, un luogo di innovazione può essere visto come una sorta di “centro di ricerca” (e anche di formazione) che genera conoscenze trasversali, per temi affrontati e settori interessati, di cui possono beneficiare i diversi attori dell’ecosistema. In particolare, partecipare alle attività organizzate da un luogo di innovazione può avere importanti benefici per il singolo attore di un ecosistema, anche quando queste riguardano tematiche o prototipizzazioni non pertinenti ai suoi settori di riferimento. Dal momento che in generale tutti gli attori (aziende, istituzioni pubbliche, ecc.) sono normalmente focalizzati sull’operatività e sulla compliance alle procedure in essere, con la conseguenza che i loro membri hanno poco tempo per pensare a progetti nuovi, la partecipazione alle attività messe in campo da un luogo d’innovazione può aiutare a sviluppare, accumulare e applicare “pezzetti” (bundle) di conoscenze codificate che, se opportunamente integrate, possono migliorare le capabilities dell’organizzazione di provenienza contribuendo allo sviluppo di nuove idee e progetti. Per questi motivi, tutte le organizzazioni di un territorio (anche e soprattutto le aziende) dovrebbero essere primariamente interessate a sostenere i luoghi di innovazione del territorio stesso, anche se i risultati (e relativi ritorni degli investimenti) non sono necessariamente né immediati né quantificabili a priori. Nella prospettiva dell’open innovation, infatti, la partecipazione ai luoghi di innovazione può essere un importante elemento moltiplicatore dei flussi di informazioni e conoscenze inbound e outbound. In tal senso, la partecipazione e il sostegno ai luoghi di innovazione potrebbe rappresentare una nuova modalità attraverso cui la logica sociale entra a contatto con quella economica tipica del mondo aziendale, andando ad attualizzare e innovare le stesse modalità tradizionali di responsabilità sociale d’impresa.

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Note

  1. ^ Oltre agli autori del presente articolo, lo studio ha visto la partecipazione nel team di ricerca composto da Alessandra Cataneo, Cristian Massicot, Matteo Rinadini e Stefano Rodighiero.
  2. ^ Il progetto a sua volta si inserisce nelle linee strategiche della Regione Emilia-Romagna in materia di “Città attrattive e partecipate” (Asse 6 del POR-FESR 2014-2020). 
  3. ^ A titolo esemplificativo, tra le attività e servizi core si possono citare il supporto alla generazione e sviluppo di idee, progetti e iniziative (soprattutto a carattere collettivo) finalizzati a creare nuovi prodotti/servizi oppure a migliorare quelli esistenti; il rafforzamento (e/o lo sviluppo) di connessioni e sinergie con altri attori dell’ecosistema (incubatori, community hubs, università, aziende, ecc.) e con altri ecosistemi nazionali e internazionali.
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