Il dibattito sull’innovazione sociale rende sempre più pressante l’esigenza di individuare una definizione condivisa del concetto, cercando di mantenere in equilibrio complessità e chiarezza. Comprendere cosa s’intende per “innovazione sociale” diventa, inoltre, sempre più necessario per uscire dalla frequente vaghezza e flessibilità di utilizzo del termine. Questo saggio cerca di affrontare la questione prendendo in rassegna quattro definizioni proposte da altrettanti approcci – tra i più rilevanti a livello internazionale – definiti approccio sistemico, pragmatico, manageriale e critico. In secondo luogo, analizzando comparativamente tali definizioni, vengono individuate tre dimensioni trasversali al concetto di innovazione sociale: la capacità di introdurre un’innovazione, la capacità di rispondere a un bisogno sociale insoddisfatto e la capacità di trasformare le relazioni sociali alla base di quel bisogno. Concentrandosi, in particolare, su quest’ultima dimensione, considerata più critica, il saggio introduce il concetto di generatività sociale e di approccio delle capacità sviluppato da Amartya Sen e Martha Nussbaum per indicare una possibile traiettoria attraverso cui meglio qualificare l’innovazione sociale. La trasformazione delle relazioni sociali introdotta dall’innovazione sociale può, infatti, essere qualificata come “capacitante”, ossia in grado di attribuire, direttamente o indirettamente, delle capacità di azione alle fasce più svantaggiate della popolazione.
The global debate on social innovation makes the need to identify a shared definition of this concept more and more urgent, while at the same time trying to maintain a balance between complexity and clarity. Moreover, understanding what is implied with “social innovation” becomes more and more crucial in order to get out from the frequent vagueness of this term. With these premises in mind, this essay deals with the issue by considering four definitions proposed by four different approaches - the more relevant ones on an international level - defined as systemic, pragmatic, managerial and critical approach. In the second place, by comparatively analyzing these definitions, it is possible to identify three transversal dimensions to the concept of social innovation: the ability to start an innovation, the ability to satisfy a social need, and the ability to transform social relations from which that need is stemming. By focusing in particular on the last dimension, which is considered the most critical one, this essay presents the concept of social generativity and capability approach as developed by Amartya Sen and Martha Nussbaum to indicate a possible path for the qualification of social innovation. The transformation of social relations started by social innovation, in fact, may be qualified as “abilitating”, i.e. managing to give, both directly and indirectly, the power of action to disadvantaged groups of population.
A partire dalla seconda metà del ventunesimo secolo, il concetto di innovazione sociale fa prepotentemente il suo ritorno nel dibattito globale sullo sviluppo economico e sociale. L’attenzione crescente rivolta da governi ed istituzioni all’innovazione sociale testimonia, però, solo in parte la portata del dibattito. Se, per un verso, paesi come Stati Uniti[1] e Regno Unito[2] e istituzioni come l’Unione Europea[3] individuano, soprattutto a partire dal 2008, il potenziale di questo concetto – avviando una serie di interventi e di sperimentazioni politiche atte a sostenerne la diffusione e la traduzione in pratiche – per un altro verso, proprio le pratiche emergenti a livello locale e, in particolare, a livello urbano, contribuiscono a sostenere ulteriormente la popolarità globale dell’innovazione sociale. Città come New York[4] oppure, per quanto riguarda l’Italia, come Torino[5] e Milano[6], hanno infatti avviato programmi sperimentali mirati al sostegno di idee di innovazione sociale provenienti dal territorio, sia attraverso l’accompagnamento che il finanziamento.
Va poi considerato che il concetto di innovazione sociale, in prospettiva storica, risulta emergere ciclicamente in relazione ai periodi di crisi (Godin, 2012; Busacca, 2013). Se, infatti, una parte della recente riflessione sulla innovazione sociale si è limitata ad assumere il concetto come radicalmente nuovo e, soprattutto, come geneticamente legato alla crisi del 2008, è importante sottolineare come discorsi e pratiche legate all’innovazione sociale abbiano segnato anche epoche storiche passate, a loro volta attraversate da trasformazioni e mutamenti di tipo sociale, economico, politico e tecnologico[7]. In questo senso, quella dell’innovazione sociale sembra presentarsi più come una questione storicamente aperta e ciclicamente emergente piuttosto che come una teoria costruita attorno a concetti ben definiti e condivisi una volta per tutte.
Per questo motivo può essere particolarmente significativo inquadrare il dibattito analizzando alcune definizioni formulate negli ultimi anni a livello accademico, individuando così i principali snodi attorno a cui oggi ruota la questione. In particolare, il presente contributo, dopo aver identificato quattro definizioni di innovazione sociale supportate da quattro approcci tra i più rilevanti a livello internazionale, cercherà di farle dialogare, individuando nella capacità di introdurre un’innovazione, di rispondere a bisogni sociali insoddisfatti e di trasformare le relazioni sociali alla base di questi bisogni le tre dimensioni comuni ai diversi approcci. Allo stesso tempo il contributo metterà in evidenza la fragilità delle definizioni analizzate e, attraverso un confronto con il concetto di generatività sociale, suggerirà la possibilità di integrare il concetto di innovazione sociale con l’approccio delle capacità di Amartya Sen e Martha Nussbaum, approccio che potrebbe meglio qualificare il concetto, altrimenti troppo vago e flessibile.
Nonostante il dibattito sull’innovazione sociale sia oggi particolarmente vivo, non è possibile individuare una definizione condivisa a cui riferirsi sia da un punto di vista teorico che pratico. Negli ultimi anni sono stati portati avanti diversi tentativi in questa direzione (Pol, Ville, 2009; Howaldt, Schwartz, 2010), senza giungere ad un vero e proprio dipanamento della questione. Per questo motivo, più che concentrarci sulla costruzione di una definizione alternativa di innovazione sociale, in grado di tenere assieme e conciliare le diverse dimensioni proposte in letteratura, cercheremo di individuare dei tratti ricorrenti, per poi procedere ad una loro analisi critica. In questo senso, più che suggerire una serie di termini adatti a meglio definire il concetto di innovazione sociale, faremo emergere quella che, a nostro avviso, è la questione problematica alla base del concetto, suggerendo altresì una possibile traiettoria per affrontarla.
Per fare questo, ripercorriamo la riflessione di un contributo di Andrea Bassi (2011), che prende in esame tre definizioni di innovazione sociale corrispondenti a tre tra i più rilevanti approcci attuali. Il primo approccio, legato ad un network canadese denominato Social Innovation Generation (SiG), guidato dal Waterloo Institute for Social Innovation and Resilience (WISIR), può essere definito sistemico poiché considera l’innovazione sociale un fattore chiave per consentire l’aumento della resilienza del sistema sociale di fronte alle crisi che minacciano il suo funzionamento. Il secondo approccio, definito pragmatico, è invece legato alla scuola di matrice britannica nata dall’incontro tra The Young Foundation e Nesta e ruota, in particolare, attorno alla figura di Geoff Mulgan, suo principale portavoce. Infine, il Center for Social Innovation della Stanford Graduate School of Business si fa portatore di un approccio all’innovazione sociale che è possibile definire manageriale, poiché declinato sulla base della capacità di produrre un’innovazione intersettoriale, sia per quanto riguarda i modelli di business che per quanto riguarda gli attori in gioco. A questi tre approcci, vogliamo aggiungerne un quarto, a nostro avviso in grado di fornire maggiore completezza al quadro analitico[8]. Sviluppato da un network internazionale di ricercatori coordinati da Frank Moulaert, questo approccio può essere definito critico, in quanto esplicitamente orientato a mettere in discussione gli assunti alla base del paradigma socio-economico neoliberista e a proporre modelli di sviluppo ad esso alternativi focalizzati attorno all’innovazione sociale, con uno sguardo attento, in modo particolare, alla dimensione territoriale e urbana[9]. Negli ultimi anni questi quattro approcci hanno proposto definizioni di innovazione sociale diverse tra loro, anche se con tratti comuni.
L’approccio sistemico definisce l’innovazione sociale come “un complesso processo attraverso cui sono introdotti nuovi prodotti, processi o programmi che cambiano profondamente le routine fondamentali, i flussi di risorse e di autorità o le credenze del sistema sociale in cui avviene l’innovazione” (Westley, Antadze, 2010 - p. 2). In particolare gli autori qualificano l’innovazione sociale come dotata di “durevolezza e ampio impatto” (ibidem), cioè come capace di produrre un cambiamento a livello sistemico. L’innovazione sociale, infatti, è letta come il motore dei meccanismi di aggiustamento del sistema sociale a seguito di una o più perturbazioni date dall’emergere di nuovi bisogni insoddisfatti. Per Westley e Antadze, l’innovazione sociale aumenta la resilienza sistemica poiché, intercettando nuovi bisogni emergenti e fornendo loro nuove risposte, è in grado di far evolvere il sistema sociale adattandolo alle richieste provenienti dall’esterno. Differenziandosi dall’imprenditorialità sociale, situata a livello individuale, e dall’impresa sociale, situata a livello organizzativo, l’innovazione sociale ha a che fare con la dimensione sistemica del mutamento sociale, arrivando a toccare il funzionamento stesso del sistema, organizzato attorno alle routine, alle credenze così come ai meccanismi di distribuzione delle risorse materiali e immateriali fondamentali. Proprio per questo motivo, è necessario intervenire nelle fasi più critiche di quello che gli autori chiamano “adaptative cycle”[10] (ibidem - p.7) affinché l’innovazione sociale possa aumentare di scala e introdurre una differenza fondamentale nel modo di funzionare del sistema in cui ha avuto origine.
L’approccio all’innovazione sociale di Geoff Mulgan e colleghi ha avuto, negli anni, varie declinazioni. In un articolo del 2006 Mulgan parla di innovazione sociale in termini di “attività e servizi innovativi motivati dall’obiettivo di rispondere ad un bisogno sociale e diffusi prevalentemente attraverso organizzazioni i cui scopi primari sono sociali” (Mulgan, 2006 - p. 146). L’enfasi è quindi posta sia sulla motivazione sociale dell’azione innovativa, sia sulla forma organizzativa che questa assume. In entrambi i casi, la qualifica “sociale” differenzia l’innovazione sociale dalla più comune “business innovation” ricondotta ai meccanismi della massimizzazione del profitto (ibidem; Mulgan et al., 2006 - p. 42). La definizione più nota proposta dall’approccio pragmatico risale, tuttavia, a qualche anno dopo. Nel volume The Open Book of Social Innovation, infatti, gli autori scrivono: “definiamo innovazione sociale quelle nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che simultaneamente rispondono ai bisogni sociali e creano nuove relazioni sociali e collaborazioni” (Murray et al., 2010 - p. 3). In un certo senso, è possibile considerare quest’ultima definizione come una specificazione della precedente. Infatti, ciò che distingue l’innovazione sociale dall’innovazione tecnologica tout court non è solamente il fine sociale, cioè la capacità di intercettare bisogni sociali insoddisfatti, ma anche la modalità di rispondere loro, cioè attraverso la creazione di nuove relazioni e collaborazioni all’interno della vita sociale. Non a caso, qualche riga dopo, proseguono gli autori: “si tratta di innovazioni buone per la società e che accrescono la capacità di agire della società” (ibidem). Detto altrimenti, l’innovazione sociale non solo è in grado di risolvere i problemi sociali emergenti ma è anche in grado di trasformare le modalità di azione e di relazione sociale alla base dei problemi stessi.
Il terzo approccio, sviluppato presso l’Università di Stanford, definisce l’innovazione sociale come “una nuova soluzione ad un problema sociale più efficace, efficiente, sostenibile o giusta rispetto alle soluzioni esistenti e per la quale il valore creato va primariamente a favore della società nel suo complesso piuttosto che a favore di individui privati” (Phills et al., 2008 - p. 36). Il cuore di questa definizione, come riconoscono gli autori stessi, è dato dal concetto di valore sociale (ibidem - p. 37). Mentre, infatti, il concetto di valore economico fa riferimento principalmente ai meccanismi della massimizzazione del profitto per il soggetto privato in un’ottica di concorrenza di mercato, quello di valore sociale riguarda la creazione di benefici per la società nel suo insieme. Poco dopo Phills e colleghi specificano infatti: “in base alla nostra definizione, un’innovazione è davvero sociale solo se l’equilibrio è sbilanciato verso il valore sociale – benefici per la dimensione pubblica o la società nel suo insieme – piuttosto che verso il valore privato – guadagni per gli imprenditori, gli investitori e i consumatori ordinari (non svantaggiati)” (ibidem - p. 39). Ogni innovazione porta, quindi, dei benefici sia pubblici che privati ma è solamente quando le ricadute sulla società nel suo complesso superano quelle sugli individui privati che è possibile parlare di innovazione sociale. L’esempio citato dagli autori è quello della Fairtrade Labelling Organizations International (FLO)[11]. Innovando a molteplici livelli nella catena del valore, questa organizzazione ha prodotto profonde ricadute sulla società nel suo complesso, contribuendo ad introdurre nuovi standard internazionali per la definizione dei prezzi, per il rispetto delle condizioni di lavoro e degli scambi, per lo sviluppo territoriale e per la salvaguardia dell’ambiente.
L’ultimo approccio è definito critico, poiché maggiormente interessato a mettere in discussione il paradigma socio-economico dominante negli ultimi anni. Secondo gli esponenti di un network internazionale coordinato da Frank Moulaert, trent’anni di egemonia delle politiche economiche e sociali neoliberiste hanno seriamente compromesso la capacità della società di rispondere alle proprie sfide sociali. Spinte dai fallimenti delle istituzioni statali e dai fallimenti del mercato, le disuguaglianze sociali, l’esclusione, la povertà e la deprivazione sono cresciute oltre ogni limite. Per rispondere a questa vera e propria alienazione economica, politica e sociale è necessario ricorrere all’innovazione sociale, definita come “la soddisfazione dei bisogni umani alienati attraverso la trasformazione delle relazioni sociali” (Moulaert, 2009 - p. 12). Questa trasformazione, tuttavia, deve essere precisamente qualificata affinché possa costituire una valida alternativa al modello di innovazione precedente. Scrivono, infatti, gli autori: “queste trasformazioni ‘migliorano’ i sistemi di governance che guidano e regolano l’allocazione di beni e servizi deputati a soddisfare quei bisogni, e definiscono nuove strutture di governance e nuove organizzazioni” (ibidem). Detto altrimenti, la trasformazione introdotta dall’innovazione sociale deve toccare in profondità il funzionamento della struttura sociale, andando a trasformare i sistemi e le organizzazioni che presiedono alla distribuzione delle risorse materiali e immateriali fondamentali. Moulaert e colleghi non solo fanno coincidere l’innovazione sociale con un vero e proprio processo di “empowerment o di mobilitazione politica” (ibidem - p. 15) ma contribuiscono altresì a radicarlo profondamente a livello territoriale. Questa trasformazione delle relazioni sociali, infatti, non può che avvenire a livello locale, proprio dove la creazione di gruppi, di comunità, di forum partecipativi e di canali di comunicazione si ripercuote immediatamente sulla vita delle persone.
Pur nella consapevolezza della parzialità di individuare questi quattro approcci come rappresentativi del complesso dibattito, riteniamo sia possibile far emergere alcune dimensioni comuni del concetto di innovazione sociale attraverso un’analisi comparata di queste definizioni. In particolare, la questione dell’innovazione sociale sembra ruotare attorno a tre snodi fondamentali: l’innovazione, la risposta a bisogni sociali insoddisfatti e la trasformazione delle relazioni sociali. Questi si presentano all’interno delle definizioni considerate, pur se declinati in modo diverso a seconda dell’approccio.
In primo luogo, i quattro approcci evidenziano come, per parlare di innovazione sociale, sia necessario fare riferimento alla categoria dell’innovazione. Ampiamente affrontata e dibattuta all’interno delle scienze sociali (Rogers, 2003; Fagerberg, Mowery, 2006), essa può essere genericamente ricondotta alla capacità di introdurre una novità – o qualcosa percepito come tale – all’interno di un dato campo dell’agire umano. Detto questo, tuttavia, è necessario specificare ulteriormente la natura dell’innovazione, sia per quanto riguarda la sua origine che per quanto riguarda il suo rapporto con l’esistente. Le definizioni di innovazione sociale considerate, in questo senso, provano ad attingere alla letteratura esistente per inserirsi e radicarsi in un campo già fortemente strutturato. L’approccio sistemico, ad esempio, fa riferimento alla tradizione struttural-funzionalista (Parsons, 1951) così come alla questione del rapporto tra struttura e agency (Giddens, 1984) per inquadrare l’innovazione come la capacità di introdurre “nuovi prodotti, processi o programmi” (Westley, Antadze, 2010 - p. 2) che vanno ad impattare sul ciclo di adattamento del sistema sociale. Mulgan e colleghi, invece, forti del taglio pragmatico dell’approccio sviluppato, fanno genericamente riferimento alla capacità di introdurre “nuove idee” (Murray et al., 2010 - p. 3) sotto forma di “prodotti, servizi e modelli” (ibidem). Tuttavia, nelle pagine successive, essi specificano ulteriormente la traiettoria del processo innovativo, individuando sei fasi[12] che, pur in modo non deterministico e lineare, portano un’idea a passare dalla sua nascita alla capacità di produrre un impatto sociale. Infine, mentre l’approccio critico lascia sullo sfondo la questione dell’innovazione, non facendovi esplicito riferimento nella definizione, l’approccio manageriale prova a qualificarla mettendola in relazione all’esistente. In particolare, l’innovazione viene definita come “una soluzione […] più efficace, efficiente, sostenibile o giusta rispetto alle soluzioni esistenti” (Phills et al., 2008 - p. 36). In realtà, questo tentativo di specificazione si scontra con l’eccessiva vaghezza delle spiegazioni addotte da Phills e colleghi. Se, infatti, la maggior efficacia ed efficienza dell’innovazione sociale è ricondotta alla generica capacità di introdurre un miglioramento, la maggior sostenibilità viene invece tradotta come “sostenibilità ambientale ed organizzativa”, mentre la capacità di essere più “giusta” viene addirittura non specificata. In altri termini, se certamente la categoria di “innovazione” risulta presente nelle definizioni considerate, questa è, tuttavia, affrontata appoggiandosi alla letteratura esistente, venendo qualificata principalmente come innovazione di prodotto o di processo, piuttosto che venire adattata in relazione alla specificità dell’innovazione sociale.
Il secondo aspetto comune emergente dalle definizioni analizzate ha a che fare con la capacità dell’innovazione sociale di intercettare e rispondere a bisogni sociali insoddisfatti. L’approccio dell’università di Stanford è qui il più vago dei quattro. Per Phills e colleghi, infatti, vi è sufficiente consenso riguardo a cosa costituisce un bisogno o un problema sociale, così come quali sono gli obiettivi sociali degni di valore: la giustizia, l’onestà, la salvaguardia dell’ambiente, il miglioramento della salute, l’arte, la cultura e l’educazione sono tutti esempi in questo senso (Phills et al., 2008 - p. 38). Anche l’approccio pragmatico parla genericamente di “bisogni sociali” (Murray et al., 2010 - p. 3) ma, poche righe dopo, pone l’attenzione, in particolare, su quei “problemi sociali intrattabili” (ibidem) che non possono essere affrontati né dal mercato, per assenza di adeguati incentivi, né dallo stato, per eccessiva rigidità e compartimentazione del proprio agire, né, infine, dalla società civile, carente di competenze e risorse necessarie per rendere scalabile un’innovazione. L’approccio sistemico, sebbene non ne faccia esplicito riferimento nella definizione, utilizza anch’esso l’espressione “problemi sociali intrattabili” (Westley, Antadze, 2010 - p. 3) per riferirsi a problemi come, per esempio, quello dei senza tetto, della povertà o delle malattie mentali, i quali, non solo non sono adeguatamente affrontati dalle istituzioni esistenti, ma che spesso sono addirittura ulteriormente radicalizzati dal loro inadeguato funzionamento. Ancora più radicale, in questo senso, è l’approccio di Moulaert e colleghi. A loro avviso, infatti, l’egemonia del paradigma politico-economico neoliberista, negli ultimi trent’anni, non avrebbe fatto altro che sostenere l’adozione di strategie di sviluppo centrate sul binomio innovazione tecnologica-mercato, gettando stati, regioni e città in una vorticosa competizione globale ma, di fatto, aumentando la distanza tra i processi di innovazione e i reali bisogni della popolazione (MacCallum et al., 2009; Moulaert et al., 2013). Per questo motivo, l’innovazione sociale è concepita dagli autori come un’opportunità per sviluppare un approccio meno tecnocratico all’innovazione, capace di avere come punto di partenza proprio quei “bisogni umani alienati” (Moulaert, 2009 - p. 12) progressivamente persi di vista sia dal mercato che dallo stato. Più in generale, quindi, sebbene con livelli di specificità diversi, risulta esserci sufficientemente accordo riguardo alla centralità per la definizione dell’innovazione sociale della capacità di rispondere a bisogni sociali insoddisfatti nelle istituzioni esistenti, soprattutto a causa della loro complessità e trasversalità.
L’ultimo tratto ricorrente nelle quattro definizioni analizzate ha sicuramente a che fare con la capacità dell’innovazione sociale di trasformare le relazioni sociali implicate nella risposta ad un dato bisogno sociale. Nuovamente, l’approccio manageriale è forse il più vago dei quattro. La soluzione sviluppata dall’innovazione sociale deve essere non solo più efficace, efficiente, sostenibile o giusta delle soluzioni esistenti, non solo deve rivolgersi ad un problema sociale, ma deve altresì produrre valore primariamente per la società nel suo complesso, piuttosto che per i singoli individui che l’hanno sviluppata (Phills et al., 2008 - p. 36). Sebbene non venga chiarito in che modo sia possibile valutare l’effettiva distribuzione del valore prodotto da una data innovazione sociale, gli autori sono più espliciti riguardo al modo attraverso cui raggiungere un tale risultato. Infatti, è il concetto di cross-sector fertilization (ibidem - p. 40) ad indicare l’importanza di processi come lo scambio di idee e valori, la trasformazione dei ruoli e delle relazioni sociali, l’utilizzo congiunto di risorse pubbliche, filantropiche e private; in altre parole l’importanza di creare nuove connessioni e dinamiche tra i confini del pubblico e del privato, del profit e del non profit, dello stato e del mercato. Questa stessa capacità dell’innovazione sociale di creare nuove connessioni e relazioni sociali è enfatizzata anche dai restanti approcci. La definizione proposta da Geoff Mulgan e colleghi, ad esempio, fa riferimento alla capacità dell’innovazione sociale di creare “nuove relazioni sociali e collaborazioni” (Murray et al., 2010 - p. 3) e, nello specifico, di “aumentare la capacità di agire della società” (ibidem). Quella sviluppata dalla scuola canadese parla di innovazioni che “cambiano profondamente le routine fondamentali, i flussi di risorse e di autorità e le credenze del sistema sociale” (Westley, Antadze, 2010 - p. 2), cioè cambiano il funzionamento del sistema sociale nel suo complesso. Infine, l’approccio critico sottolinea proprio come il soddisfacimento dei bisogni umani alienati passi attraverso la trasformazione delle relazioni sociali; in altre parole, come proprio la trasformazione delle relazioni sociali alla base di un dato bisogno sia il mezzo attraverso cui produrre innovazione sociale. In definitiva, sembra che tutti e quattro gli approcci, pur con linguaggi ed enfasi diverse, mettano l’accento sulla capacità dell’innovazione sociale, non solo di introdurre una novità, non solo di prendere in considerazione e di rispondere a bisogni sociali insoddisfatti, ma anche di trasformare il tessuto sociale alla base di quei bisogni, facendo così mutare il modo stesso di funzionare della vita sociale.
Proprio quest’ultimo aspetto, a nostro avviso, deve essere considerato con maggior attenzione per tentare di meglio qualificare le definizioni e, di rimando, il concetto di innovazione sociale. La domanda da porsi, infatti, è la seguente: quale trasformazione delle relazioni sociali è necessario effettuare per poter parlare di innovazione sociale? I quattro approcci considerati, in questo senso, ci forniscono interessanti spunti di riflessione. Difatti, non limitandosi strettamente alle definizioni considerate ma allargando il campo di analisi ai loro approcci, è possibile far emergere l’attenzione verso specifiche forme di trasformazione delle relazioni sociali implicate nei processi di innovazione sociale. In altre parole, sebbene nelle definizioni sintetiche questo aspetto venga solo accennato, esplorando il loro più ampio contesto diventa possibile osservare come gli autori finiscano per evidenziare la particolare importanza di determinati tipi di innovazione sociale e, di conseguenza, per qualificare ulteriormente, anche se implicitamente, un concetto altrimenti troppo vago e generico. Senza uscire da una prospettiva sistemica, ad esempio, Westley e Antadze sottolineano fortemente l’importanza per i processi di innovazione sociale di “reinserire le popolazioni vulnerabili nelle istituzioni economiche, sociali e culturali mainstream, non solo come beneficiari di servizi o di trasferimenti di diritti ma anche come partecipanti attivi e contributori […]” (Westley, Antadze, 2010 - p. 5). Poveri, senza fissa dimora, persone con malattie mentali o sole devono essere coinvolte attivamente nel funzionamento del sistema sociale: non solo con il fine di migliorare la loro vita ma anche per rendere il sistema sociale il più resiliente possibile, cioè adatto ad affrontare le sfide che minacciano il suo funzionamento. Allo stesso modo Mulgan e colleghi, in Social Silicon Valleys (Mulgan et al., 2006), specificano come, sebbene il concetto di innovazione sociale possa avere dei confini molto ampi e flessibili, l’interesse debba concentrarsi su quelle innovazioni “che hanno cambiato gli equilibri di potere – dando a coloro che sono relativamente poveri o senza potere maggior controllo sulle loro vite e migliorando la giustizia sociale” (ibidem - p. 9). Non è un caso, quindi, che questi autori individuino le origini dell’innovazione sociale proprio nel periodo storico caratterizzato dalla crescente industrializzazione nella seconda metà del XIX secolo e, in particolare, che identifichino la nascita dei sindacati e delle cooperative, delle assicurazioni collettive e degli asili come esempi emblematici di innovazione sociale (ibidem - p. 11). Così come non è un caso che tra le dieci innovazioni sociali che hanno cambiato il mondo Mulgan e colleghi inseriscano il Fairtrade, Amnesty International, Oxfam oppure la Grameen Bank: tutte innovazioni che, in qualche modo, hanno migliorato la vita delle fasce più svantaggiate della popolazione, dando loro maggior capacità d’azione. Proprio il Fairtrade e il microcredito sono presi come esempio anche dall’approccio manageriale (Phills et al., 2008 - p. 39). Infatti, è il concetto stesso di “valore sociale” al centro della definizione ad indicare la necessità per l’innovazione sociale di creare valore non solo per gli imprenditori, gli investitori oppure per i consumatori ordinari ma anche per quelle fasce della popolazione i cui problemi non trovano soluzione né nel mercato né nelle istituzioni statali. Infine, ancora più evidente, è la direzione auspicata per la trasformazione delle relazioni sociali dall’approccio critico. Fin dalla definizione proposta è, infatti, esplicito l’obiettivo di questa trasformazione: migliorare “i sistemi di governance che guidano e regolano l’allocazione di beni e servizi” o, addirittura, creare “nuove strutture di governance e organizzazioni” (Moulaert, 2009 - p. 12). L’idea di fondo, definita sulle orme dell’approccio dell’Integrated Area Development (IAD)[13] sviluppato dal network di Frank Moulaert, è quella di mantenere indissociabile il soddisfacimento dei bisogni sociali e la trasformazione in senso partecipativo e contributivo delle relazioni sociali alla base di quei bisogni. Gli esempi concreti di questa trasformazione si moltiplicano nei lavori del network: dalla creazione di gruppi e di comunità, alla costruzione di canali di comunicazione per le persone svantaggiate, fino alla costituzione di forme di democrazia a livello locale e, in particolare, a livello di quartiere o di vicinato (ibidem - p. 17). Per gli autori considerati, in altre parole, l’innovazione sociale deve portare a una vera e propria mobilitazione dal basso di forze economiche, sociali e politiche capaci di dare maggior potere alle persone deprivate sia di beni materiali che di servizi di base. Solamente in questo modo diventa possibile produrre, attraverso l’innovazione sociale, un reale impatto su problemi complessi come la povertà oppure l’esclusione sociale: agendo cioè sulla trasformazione del tessuto sociale alla loro base e, soprattutto, attribuendo maggior capacità di azione a coloro che non ne hanno.
Alla luce delle riflessioni presentate diventa evidente la necessità di concentrarsi su una miglior specificazione della dimensione della trasformazione delle relazioni sociali implicata nel concetto di innovazione sociale. Se, infatti, sembra essere sufficientemente condiviso il riferimento alla dimensione dell’innovazione, così come alla dimensione del soddisfacimento dei bisogni sociali, più frammentato e indefinito rimane, invece, il riferimento al potenziale di trasformazione delle relazioni sociali da parte dell’innovazione sociale. In particolare, come abbiamo visto, sebbene tutti e quattro gli approcci in qualche modo auspichino una trasformazione del tessuto sociale da parte dei processi di innovazione sociale e, ancora più precisamente, auspichino una trasformazione capace di dirigersi verso le fasce svantaggiate della popolazione, dando loro maggior potere e, quindi, maggior capacità di azione, nessuno di essi risulta essere in grado di chiarire effettivamente la direzione di questa trasformazione. Per questo motivo, senza pretese di fornire una definizione alternativa di innovazione sociale, riteniamo possa essere utile proporre un dialogo tra il concetto di innovazione sociale e il concetto di generatività sociale.
Formulato negli anni ‘50 del secolo scorso dallo psicologo Erik Erikson (1950; 1968) e successivamente ampliato attraverso la definizione di una vera e propria “psicologia della generatività” da parte di Dan McAdams e colleghi (McAdams, de St. Aubin, 1992; McAdams et al., 1998; McAdams, Logan, 2004), il concetto di generatività si inserisce in una più ampia teoria alla cui base si trova una concezione dello sviluppo dell’esistenza individuale lungo una sequenza di otto fasi. In particolare, la settima fase, segnando il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, apre il dilemma tra generatività e stagnazione. Mentre la prima porta il soggetto ad aprirsi al mondo circostante mediante il prendersi cura di quelle che saranno le future generazioni, la seconda conduce il soggetto alla chiusura individualistica e, di conseguenza, all’incapacità di mettere al mondo qualcosa che, rivolgendosi all’altro, sopravviva alla propria esistenza.
Il concetto di generatività rappresenta la base per un recente lavoro di ricerca volto a costruire, attraverso il concetto di generatività sociale (Magatti, Giaccardi, 2014; Cappelletti, 2015; Cappelletti et al., di prossima pubblicazione), un corrispettivo sociologico di quello sviluppato in ambito psicologico. In particolare, l’ipotesi di partenza vede la possibilità di concepire la generatività non solo come un’azione individuale ma anche come una vera e propria azione sociale, capace di dare vita a forme organizzative di diversa natura in grado di durare nel tempo. In questo senso, diviene possibile parlare non solo di “innovazione generativa” ma anche di “organizzazioni generative” (Cappelletti, 2015 - p. 120) per riferirsi a quelle forme emergenti e, successivamente, istituzionalizzate, frutto dell’azione generativa. Proprio la possibilità di non esaurirsi nel processo di innovazione e di successiva istituzionalizzazione ma di essere in grado di rivolgersi alle nuove generazioni rendendole a loro volta capaci di agire generativamente, rappresenta, tuttavia, la peculiarità della generatività sociale. Al cuore della generatività sociale si trova, infatti, non solamente la capacità di mettere al mondo qualcosa di nuovo e di prendersene cura, ma anche la capacità di lasciare andare quanto generato, affinché possa contribuire alla successiva autonoma realizzazione personale e sociale di altri soggetti.
Per questo motivo, la generatività sociale può essere definita come un’azione nella sfera economica, politica, sociale o culturale che, in risposta ad uno stimolo esterno[14], mette al mondo qualcosa di nuovo oppure rigenera qualcosa di già esistente con il fine di promuovere la capacitazione dell’altro: direttamente attraverso il suo empowerment oppure indirettamente attraverso il miglioramento del contesto circostante (Cappelletti et al., di prossima pubblicazione). Risulta quindi naturale identificare anche per il concetto di generatività sociale le tre dimensioni trasversali già individuate per l’innovazione sociale. La dimensione dell’innovazione è qui concettualizzata come la capacità di mettere al mondo qualcosa di nuovo oppure di recuperare qualcosa di già esistente, in opposizione alla postura passiva tipica del consumatore moderno; la dimensione della risposta a un bisogno sociale insoddisfatto viene qui tradotta come la capacità di farsi interrogare da uno stimolo esterno che, investendo il soggetto, lo spinge all’azione generativa. Più interessante, tuttavia, è il riferimento alla terza dimensione, ossia la trasformazione delle relazioni sociali. Il concetto di generatività sociale poggia infatti sulla possibilità di stabilire tra il soggetto e l’altro o, più in generale, tra le generazioni presenti e quelle future, un legame sociale “capacitante”, cioè un legame sociale fondato sulla possibilità della realizzazione autonoma dell’altro (ibidem). Affinché quanto generato non si esaurisca nel processo di innovazione e istituzionalizzazione è infatti necessario che l’azione generativa porti con sé la possibilità che altri siano in grado a loro volta di agire generativamente, o perché diretti beneficiari dello sviluppo delle proprie capacità personali oppure perché indirettamente sostenuti da condizioni contestuali favorevoli all’iniziativa personale. In questo senso, la trasformazione delle relazioni sociali implicata nell’azione generativa non porta solamente a rispondere ad un dato bisogno emergente nel presente ma anche a far si che si apra la possibilità per le generazioni future di rispondere a loro volta alle sfide del proprio tempo, in un movimento a spirale che continuamente si riapre nel tempo e nello spazio.
A differenza delle definizioni e degli approcci fin qui considerati il concetto di generatività sociale prova a meglio qualificare la direzione del processo inaugurato dal rapporto tra bisogno sociale e innovazione sociale. Non si tratta solo di saper cogliere bisogni sociali insoddisfatti, i quali non trovano risposta né nel mercato né dallo stato. Non si tratta neppure solamente di rispondere in modo innovativo a quei bisogni, facendo si che siano soddisfatti. Come i quattro approcci intuiscono, si tratta soprattutto di trasformare il tessuto sociale alla base di quei bisogni, modificando il funzionamento del sistema sociale in modo durevole (approccio sistemico), sviluppando nuove relazioni e collaborazioni (approccio pragmatico), creando benefici per la società nel suo complesso (approccio manageriale) oppure dando vita a nuove forme di governance (approccio critico). In particolare, come è possibile leggere tra le righe dei testi considerati, per parlare di innovazione sociale i beneficiari di questa trasformazione delle relazioni sociali devono appartenere alle fasce più svantaggiate della popolazione: coloro che da beneficiari di servizi o di trasferimenti di diritti devono diventare partecipanti attivi e contributori (approccio sistemico), che devono avere maggior controllo sulle loro vite (approccio pragmatico), che devono beneficiare del valore sociale creato (approccio manageriale) e che devono essere parte di strutture e organizzazioni capaci di dare loro voce e potere di azione (approccio critico).
Per questi motivi, un’interessante evoluzione del concetto di innovazione sociale potrebbe essere data dal dialogo con l’approccio delle capacità[15]. Questo è stato sviluppato, prima parallelamente e poi congiuntamente, da A. Sen (1992; 1999) e M. Nussbaum (2000; 2006; 2011), andando a definirsi sia come una vera e propria teoria della giustizia sociale che come un sistema per la valutazione comparata della qualità della vita. L’idea di fondo è di spostare il focus dell’attenzione dai diritti formali di cui godono le persone alle loro libertà sostanziali, cioè alle scelte che queste sono effettivamente in grado di compiere o non compiere nella loro vita. In particolare, si tratta di individuare quale miglior indicatore per la qualità della vita di una persona le “capacità” di cui dispone, cioè le opportunità di realizzazione autonoma che è in grado di scegliere liberamente nei diversi ambiti dell’esistenza: dalla salute alle relazioni sociali, dall’espressione dei propri sentimenti alla capacità di decisione politica[16].
Come si può intuire, l’approccio delle capacità costituisce una base fondamentale per il concetto di generatività sociale sopra analizzato. Infatti, se il fine ultimo dell’azione generativa è quello di capacitare direttamente o indirettamente non solo coloro che nel presente sono portatori di un bisogno insoddisfatto ma anche le nuove generazioni (cioè coloro che avranno a loro volta la libertà di scegliere se e come agire nei confronti dei loro contemporanei e delle loro future generazioni), l’approccio delle capacità e l’approccio della generatività sociale risultano accomunati dall’enfasi sull’autonoma realizzazione della libertà personale. E questa realizzazione, sebbene mai garantita proprio per la sua intrinseca natura relazionale e non meramente individualistica, per essere tale deve poggiare su un ambiente economico, politico, sociale e culturale favorevole. Ciò che distingue i due approcci concerne i meccanismi di attribuzione delle capacità. Mentre l’approccio di Sen e Nussbaum mantiene uno sguardo macroscopico, considerando gli stati nazionali quali principali promotori e garanti della capacità individuali, l’approccio della generatività sociale considera la possibilità che ogni forma di relazione sociale possa essere potenzialmente capacitante, sia a livello interpersonale che a livello organizzativo. Detto altrimenti, se da una parte lo sfondo entro cui trovano senso e garanzia le libertà sostanziali individuali è quello statale, dall’altra parte è altresì necessario estendere lo sguardo ai processi di capacitazione provenienti dall’intero tessuto sociale, includendo così sia la società civile che il mercato[17]. Per l’approccio della generatività sociale, infatti, gruppi sociali, associazioni e imprese possono concorrere alla promozione diretta e indiretta delle capacità al pari delle istituzioni statali.
In questo senso, il concetto di innovazione sociale potrebbe essere ricondotto non solo alla capacità di rispondere in modo innovativo a bisogni sociali insoddisfatti, non solo alla capacità di trasformare le relazioni sociali alla base di quel bisogno ma anche alla capacità di trasformare in senso capacitante quelle relazioni sociali, cioè di far si che l’innovazione sociale introdotta attribuisca direttamente o indirettamente delle capacità di azione ai suoi beneficiari. L’orizzonte temporale dell’innovazione sociale rischia, difatti, di essere schiacciato sul presente, sotto forma di una mera risoluzione immediata di problemi sociali. In realtà, è forse sempre più necessario estendere l’orizzonte temporale e sociale dei processi di innovazione, avendo come riferimento ultimo proprio quelle generazioni future che a loro volta saranno chiamate a risolvere i problemi del loro tempo. Introdurre la dimensione della capacitazione nel concetto di innovazione sociale non solo permetterebbe di meglio qualificare il pur necessario processo di trasformazione delle relazioni sociali ma eviterebbe di ridurre il potenziale del concetto ad un semplice meccanismo di problem solving traslato in ambito sociale.
Attraverso l’analisi di quattro definizioni afferenti a quattro diversi approcci tra i più rilevanti nel dibattito attuale, è stato possibile identificare alcune dimensioni trasversali del concetto di innovazione sociale. Quest’ultimo può essere caratterizzato dalla capacità di introdurre un’innovazione, di rispondere a bisogni sociali insoddisfatti e di trasformare le relazioni sociali alla base di questi bisogni. Si è cercato di mostrare come, tra questi tre snodi chiave, è senz’altro l’ultimo a costituire quello più problematico. Infatti, sebbene i diversi approcci indichino tra le righe una possibile direzione per quanto riguarda la trasformazione delle relazioni sociali implicate nell’innovazione sociale, non sono effettivamente in grado di introdurre questa qualificazione all’interno delle definizioni proposte. Allo stesso tempo, come abbiamo mostrato, proprio la specificazione della trasformazione delle relazioni sociali può costituire una preziosa opportunità per far uscire il concetto di innovazione sociale dalla sua attuale vaghezza, evitando contemporaneamente di ridurlo ad un mero processo di problem solving sociale. In questo senso, attraverso l’approccio della generatività sociale e l’approccio delle capacità, si è cercato di individuare una possibile traiettoria attraverso cui meglio qualificare l’innovazione sociale in senso capacitante.
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