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Numero 5 / 2015

Policy

L'impresa sociale nel progetto di riforma del terzo settore italiano: appunti e spunti

Antonio Fici

Pubblicato il: 7 luglio 2015

*Il presente articolo costituisce, con qualche modifica ed integrazione, parte di un più ampio saggio di Antonio Fici dal titolo “Funzione e modelli di disciplina dell’impresa sociale in prospettiva comparata”, destinato a prossima pubblicazione nel volume, curato dallo stesso autore, Diritto dell’economia sociale. Teorie-tendenze-prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli.

Dopo essere stata annunciata nell’aprile del 2014 dal Presidente del Consiglio dei Ministri italiano[1] - che il mese seguente lanciava in merito una consultazione pubblica sulla base di alcune linee guida[2] - la riforma del terzo settore è divenuta oggetto di un disegno di legge delega, presentato dal Governo italiano alla Camera dei Deputati il 22 agosto 2014[3]. Apportando significative modifiche al disegno di legge governativo, la Camera ha quindi approvato nell’aprile del 2015 un testo di legge delega, che si trova attualmente in discussione al Senato della Repubblica[4] e su cui si basano le presenti brevi note di commento.

Per comprendere quale sia la relazione tra la riforma del terzo settore e il tema specifico dell’impresa sociale, è necessario premettere che nel contesto culturale italiano, anche legislativo, il “terzo settore” raggruppa un insieme di enti privati caratterizzati dal perseguimento di finalità di interesse generale senza scopo di lucro[5] (Zamagni, 2011; Rossi, Zamagni, 2011). Vi rientrano, pertanto, anche le cooperative sociali e le imprese sociali, che si distinguono all’interno del terzo settore, principalmente, per la natura imprenditoriale dell’attività svolta[6]. Volendo riformare il terzo settore, questo disegno di legge italiano si occupa dunque altresì - né poteva essere diversamente - degli enti imprenditoriali del terzo settore italiano, ovverosia le imprese sociali (e le cooperative sociali).

Occorre altresì preliminarmente rilevare che il terzo settore italiano non coincide con il settore dell’economia sociale, così come individuato da alcune recenti leggi nazionali europee in materia, innanzitutto perché il primo non comprende le cooperative ordinarie (cioè quelle mutualistiche e non sociali) che invece costituiscono la componente forse più importante del secondo; inoltre perché il terzo settore comprende gli enti di erogazione o donativi, che non rientrano invece nel secondo in ragione del requisito di economicità ed imprenditorialità che deve connotare l’attività svolta dagli enti dell’economia sociale[7].

L’iniziativa legislativa di riforma è ambiziosa, ed anche per questo particolarmente delicata e complessa[8]. Nel testo approvato dalla Camera si prospetta infatti non soltanto la revisione della disciplina codicistica in materia di associazioni e fondazioni (ed altre istituzioni private) (art. 1, comma 2, lett. a), ma anche e soprattutto di provvedere “al riordino e alla revisione organica della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del Terzo settore di cui al comma 1, compresa la disciplina tributaria applicabile a tali enti, mediante la redazione di un apposito codice del Terzo settore, secondo i principi e i criteri direttivi di cui all’articolo 20, commi 3 e 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni”[9].

La riforma, pertanto, è chiamata sia a modificare una specifica parte del codice civile italiano (il titolo II del libro primo) sia a dar vita ad un codice c.d. di settore (in questo caso, del Terzo settore) che raccolga e coordini tutte le disposizioni delle discipline vigenti in materia, tanto sostanziali quanto tributarie, e faccia ad esse precedere disposizioni generali e comuni[10]. Considerata la complessità del coordinamento tra disciplina codicistica e discipline speciali, e tra queste discipline speciali e le discipline tributarie che riguardano gli enti che le prime hanno ad oggetto; considerato il numero rilevante di discipline speciali attualmente esistenti, nonché la loro intrinseca complessità; considerata l’ampiezza del terzo settore e la varietà e pluralità di interessi, talvolta contrapposti, delle singole categorie di enti che lo compongono (basti solo pensare che al suo interno convivono enti imprenditoriali ed enti non imprenditoriali; enti solidaristici ed enti mutualistici; enti a struttura associativa ed enti a struttura fondazionale; tipi di enti e categorie di enti; categorie civilistiche e categorie fiscali; nonché ibridi vari tra questi estremi); tutto ciò considerato, l’attività del Governo di attuazione delle delega richiederà tempo e soprattutto energie considerevoli, sicuramente non inferiori a quelle a suo tempo impiegate per riformare nel 2003 il diritto delle società commerciali e cooperative, se (naturalmente) si vuole sfruttare l’occasione della riforma per migliorare realmente il quadro legislativo delle organizzazioni di terzo settore, nell’interesse di queste ultime e dei beneficiari finali delle loro attività.

Con specifico riferimento all’impresa sociale, i temi e le questioni principali che il d.d.l. coinvolge e pone sono i seguenti.

Innanzitutto, da un punto di vista formale, ma non privo di possibili risvolti sostanziali, soprattutto in ragione della scelta di raccogliere la normativa del terzo settore in un autonomo codice di settore, attualmente prevale la sensazione che la revisione delle disciplina dell’impresa sociale costituisca un punto a sé della riforma, distinto dal riordino e dalla revisione organica che dovrebbe portare alla redazione di un codice. Infatti, della prima si parla in una disposizione autonoma del d.d.l. (art. 1, comma 2, lett. c), distinta da quella che si occupa del codice del terzo settore (art. 1, comma 2, lett. b), ed anche in altre disposizioni del d.d.l. sembra emergere questa separazione tra enti del terzo settore ed impresa sociale (cfr. art. 9, lett. g)[11]. Ebbene, nessuna ragione vi sarebbe per mantenere post riforma una disciplina formalmente autonoma dell’impresa sociale (e dunque il d.lgs. n. 155/2006 eventualmente rivisto) piuttosto che inserirla, anch’essa, nel codice del terzo settore. Non solo, infatti, l’impresa sociale è un soggetto del terzo settore, come lo stesso legislatore dimostra di condividere, allorché nel d.d.l. definisce il settore facendo riferimento “anche” alla “produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale” (art. 1, comma 1); ma sarebbe inspiegabile da un punto di vista logico includere le cooperative sociali nel codice del terzo settore e mantenere l’impresa sociale in una legge da questa autonoma[12].

L’impresa sociale è e sarà ovviamente interessata da tutti i profili della riforma, anche quelli generali e comuni a tutti gli enti del terzo settore (categoria cui essa, come testé precisato, appartiene), attualmente contenuti negli artt. 2, 3 e 4 del d.d.l., anche se il loro impatto effettivo su questa particolare figura del terzo settore sarà limitato dalla circostanza che molte di queste disposizioni si rivolgono a realtà non imprenditoriali del terzo settore o hanno senso solo per queste ultime (cfr., ad esempio, artt. 3, lett. d, e 4, comma 1, lett. e); dal fatto che la disciplina attuale dell’impresa sociale già contiene molte delle previsioni generali che la riforma si propone di introdurre (cfr., ad esempio, art. 4, comma 1, lett. f); e infine del fatto che l’articolo 6 del d.d.l., dedicato all’impresa sociale, presenta varie previsioni particolari che, in quanto tali, prevarranno su quelle generali contenute nel d.d.l. (cfr., ad esempio, art. 4, lett. d).

Venendo proprio alle previsioni particolari di cui all’art. 6 del d.d.l., le novità che la riforma dovrebbe introdurre rispetto all’attuale disciplina contenuta nel d.lgs. n. 155/2006, pur non apparendo così sconvolgenti sul piano del diritto sostanziale (mentre più interessanti sembrano quelle di sostegno economico previste dell’art. 9[13]), potrebbero però avere un certo impatto (se positivo o negativo, rimane da stabilirsi, dipendendo molto dalle sensibilità individuali dell’interprete) sull’identità giuridica dell’impresa sociale.

Tra i requisiti per la qualifica di impresa sociale (lett. a), un’innovazione è quella relativa alla formula secondo la quale l’impresa sociale è tenuta a realizzare “impatti sociali positivi” attraverso la propria attività d’impresa. Non sembra tuttavia che questa formulazione possa essere foriera di significativi effetti sostanziali. Si tratta soltanto di un’espressione “di moda” (e che infatti nel d.d.l. abbonda: cfr., oltre all’art. 6, lett. a, gli artt. 4, lett. m; 7, comma 3; 9, lett. a, che di valutazione dell’impatto sociale contiene una definizione[14]) con cui si indicano i risultati, evidentemente positivi, che ci si attende dall’azione delle imprese sociali sulla società, la collettività o la comunità di riferimento (risultati che potranno e dovranno essere oggetto di informazione e comunicazione da parte delle imprese sociali medesime, innanzitutto attraverso lo strumento del bilancio sociale, nonché di accertamento da parte delle autorità incaricate di svolgere i controlli sulle imprese sociali). Peraltro, questa nuova formula (se rimarrà) potrebbe dar luogo ad una contraddizione interna alla disciplina, se si pensa che, nell’ordinamento giuridico italiano, a differenza che in altri (dove infatti formule di questo genere, come il community interest test inglese, hanno più senso), l’impresa sociale è vincolata a svolgere la propria attività in certi settori di utilità sociale (e questo requisito è destinato a rimanere dopo la riforma, che anzi, come diremo tra breve, aggiunge “nuovi” settori ai “vecchi” di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 155/2006)[15]. Da ciò sorge dunque una domanda: sarà sufficiente svolgere attività in quei settori affinché un ente possa essere considerato impresa sociale, oppure occorrerà che esso superi anche il test di impatto sociale positivo? Ma se così fosse, perché allora quei settori sono definiti “di utilità sociale”?

Più interessante è invece il riferimento (sempre nelle lett. a) al coinvolgimento, oltre che dei dipendenti e degli utenti, di tutti i soggetti interessati alle attività dell’impresa sociale, dal momento che il d.lgs. n. 155/2006 si limita a prevedere il coinvolgimento soltanto di lavoratori ed utenti[16].

Si prevede un ampliamento dei settori di attività di utilità sociale (che, dunque, rimangono come elemento identificativo dell’impresa sociale italiana), includendovi in particolare “quelli del commercio equo e solidale, dei servizi per il lavoro finalizzati all’inserimento dei lavoratori svantaggiati, dell’alloggio sociale e dell’erogazione del microcredito da parte di soggetti a ciò abilitati in base alla normativa vigente” (lett. b)[17].

Si prevede che le cooperative sociali e i loro consorzi acquisiscano di diritto la qualifica di imprese sociali (lett. c), laddove, secondo la normativa vigente, le prime devono rispettare due norme del d.lgs. n. 155/2006 per ottenerla. Questa innovazione non ci convincerebbe qualora non fosse accompagnata da modifiche della disciplina attuale delle cooperative sociali (di cui alla legge n. 381/91), dirette ad introdurre nel suo corpo quelle misure di governance di cui essa risulta al momento carente (obbligo di redigere un bilancio sociale; coinvolgimento degli stakeholder esterni, ecc.)[18]. È qui in gioco, infatti, il primato della forma cooperativa quale veste giuridica dell’impresa sociale (su cui ci siamo più ampiamente soffermati in altra sede), dove abbiamo cercato di spiegare per quale motivo l’impresa sociale in forma di cooperativa costituisca il modello per eccellenza di impresa sociale, quello che le attribuisce l’identità più forte come tale, in particolare se la si mette a confronto con l’impresa sociale in forma di società di capitali, così come disciplinata negli Stati Uniti d’America (Fici, di prossima pubblicazione, b). Se le lacune della disciplina vigente lasciassero troppo libere le imprese sociali cooperative rispetto alle imprese sociali costituite in altra forma, non solo potrebbe porsi un problema di legittimità costituzionale della disciplina di riforma per ingiustificata disparità di trattamento, ma in concreto aumenterebbe il rischio di “false” cooperative sociali, che danneggerebbero non solo l’immagine del settore cooperativo ma anche di quello dell’imprenditorialità sociale[19]. Un invito può dunque essere rivolto allo stesso movimento delle cooperative sociali a richiedere al legislatore regole più rigorose per lo stesso movimento; regole che non devono essere viste come vincoli, bensì come opportunità, perché segnalano al pubblico un “certo modo di fare impresa”, riducono il rischio di abusi della forma giuridica, e ne scoraggiano un uso opportunistico da parte di imprenditori animati da motivazioni diverse da quelle che si vorrebbero alla base del movimento[20].

La lett. d) fa invece riferimento al tema della remunerazione del capitale sociale di un’impresa sociale e della ripartizione degli utili. Sul punto il d.d.l. supera la disciplina vigente - la quale esclude ogni distribuzione di utili (cfr. art. 3 d.lgs. n. 155/2006) - e riconosce la possibilità di una remunerazione, da sottoporsi però (in sede di attuazione della legge delega) a condizioni e limiti massimi, anche differenziando a seconda della forma giuridica dell’impresa sociale (ad esempio, associazione o società per azioni), e “in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente”, fermo restando che, in ogni caso, deve essere assicurata “la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali”.

Dall’attuale formulazione della norma non risulta chiaro se il legislatore delegato, nel regolare il punto, dovrà in ogni caso attenersi al limite massimo di cui all’art. 2514, c.c., in tema appunto di cooperative a mutualità prevalente (ovverosia, interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo), oppure possa superarlo facendo leva sul successivo riferimento, sicuramente più ampio ed elastico, alla destinazione prevalente degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali. Riteniamo che la prima alternativa sia quella preferibile in termini di opportunità e coerenza sistematica, non sembrando sussistere alcuna valida ragione per cui alle imprese sociali si debba accordare la possibilità di remunerare il capitale sociale conferito dai soci più di quanto possano fare le cooperative ordinarie. Non potrebbe infatti addursi il motivo di agevolare il finanziamento dell’impresa sociale, che vincoli rigidi alla distribuzione di utili (come quelli di cui all’art. 2514 c.c.) comprometterebbero, sia perché in generale il capitale di rischio non costituisce l’unica forma di finanziamento di un’impresa (ma è solo quella forma che, questo sì, offre la possibilità di controllare l’impresa, non solo di fatto ma anche di diritto), sia perché, in concreto, tali vincoli non hanno certo impedito alle società cooperative di proliferare in Italia (grazie anche alla capacità che hanno dimostrato di crearsi, in una logica di sistema e con l’assistenza del legislatore, forme alternative di finanziamento, come quelle che transitano attraverso i fondi mutualistici gestiti dalle associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo, o meglio, da società da loro controllate). Rispettare l’art. 2514 c.c. significherebbe preservare il modello italiano di impresa sociale, che peraltro è anche quello più diffuso in Europa, in quanto contrapposto a quello inglese e nordamericano[21].

Collegata al precedente punto è la previsione di cui alla lett. e), soprattutto per quanto riguarda i limiti alla remunerazione delle cariche sociali e alla retribuzione dei titolari degli organismi dirigenti. Si tratta di impedire forme di distribuzione indiretta di utili (o di lucro indiretto, come si usa anche dire), come già faceva l’art. 3, d.lgs. n. 155/2006.

Logicamente collegata alla lett. b) è invece la disposizione di cui alla lett. f). Anche quest’ultima mira infatti ad estendere il perimetro di attività dell’impresa sociale, ma questa volta con riferimento all’impresa sociale di inserimento lavorativo (di cui all’attuale art. 2, comma 2, d.lgs. n. 155/2006), per cui prevede la ridefinizione delle categorie di lavoratori svantaggiati tenendo conto delle nuove forme di esclusione sociale, ciò che porterà ad un probabile allargamento del numero di lavoratori che l’impresa sociale di inserimento lavorativo potrà impiegare per essere qualificata tale.

La lett. i) si propone di vincolare l’impresa sociale ad avere un organo interno (precisamente, uno o più sindaci) incaricato del controllo di legittimità[22]. Tale disposizione ha contenuto innovativo solo se si ritiene che essa imponga questo vincolo sempre e comunque, e dunque a prescindere dalle condizioni attualmente individuate (mediante rinvio all’art. 2435-bis, codice civile italiano) dall’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 155/2006, alla cui sola presenza scatta l’obbligo per le imprese sociali di nominare uno o più sindaci.

Riservo l’ultimo commento alla disposizione di cui alla lett. g), che mi pare particolarmente significativa, non tanto perché stravolge l’attuale assetto di governance dell’impresa sociale, ma in quanto costituisce sintomo di un diverso approccio, di natura puramente strumentale, all’impresa sociale. Prevedendo che debba essere data possibilità alle imprese private e alle amministrazioni pubbliche di assumere cariche sociali negli organi di amministrazione delle imprese sociali (salvo il divieto di assumerne la direzione, la presidenza e il controllo), la lett. g) si propone di modificare l’attuale norma di cui all’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 155/2006, secondo cui soggetti nominati da questi enti non possono rivestire cariche sociali. Ora, a parte il fatto che il legislatore ha dimenticato di specificare nel d.d.l. “imprese private con finalità lucrative”, cui sicuramente intendeva fare riferimento, non è chiaro se questa disposizione punti addirittura ad introdurre nell’ambito della disciplina dell’impresa sociale la discussa figura della persona giuridica amministratore (Pescatore, 2012; Cetra, 2013), oppure se l’attuale formulazione della norma si debba soltanto ad un’imprecisione terminologica ed a confusione concettuale. Fatto sta che quest’ultima disposizione del d.d.l. (soprattutto se collegata con quella di cui alla lett. d) porta chiaramente alla luce alcune “forze” che stanno dietro l’attuale progetto di riforma della disciplina dell’impresa sociale italiana, cioè le imprese capitalistiche for profit che vedono in un’impresa sociale con minori vincoli per ciò che attiene alla distribuzione degli utili e da loro co-gestita mediante partecipazione diretta agli organi di governo (anche se il controllo non è in teoria ammissibile), un efficace strumento per l’attuazione dei propri scopi statutari.

L’autore di questa pagine non può pertanto che rinviare qui ad un caveat già formulato altrove sul rischio di “cattura” del settore dell’economia sociale da parte di quello dell’economia capitalistica for profit. Un tentativo di “cattura” dapprima confinato a raffinate analisi teoriche volte a negare validità alla tesi del vantaggio comparativo del non-distribution constraint e degli enti non profit rispetto a quelli for profit, e quindi a sponsorizzare la pari (o addirittura maggiore) efficacia ed efficienza della c.d. for-profit philantropy; adesso comprendente tentativi più subdoli di annullare le distanze tra il concetto di impresa sociale e quello di responsabilità sociale d’impresa, fino all’uso dell’impresa sociale da parte di enti for profit per perseguire in forma indiretta le loro finalità lucrative, ciò che è facilitato dalla possibilità loro accordata dalle legge di co-gestire o, in alcuni ordinamenti giuridici, addirittura di controllare un’impresa sociale (Fici, di prossima pubblicazione, b).

In un’intervista molto recente, Muhammad Yunus è tornato su un tema a lui caro e su cui peraltro si era già espresso in più occasioni, cioè quello dell’importanza della legislazione per lo sviluppo dell’impresa sociale, affermando che “il social business e quindi l’impresa sociale hanno bisogno di regole e leggi ad hoc”, perché quelle esistenti “sono state costruite su misura per quelle imprese che hanno come obiettivo unico, quello di fare soldi, soldi e soldi”[23]. Egli evidentemente allude al modello nordamericano di legislazione sull’impresa sociale, che è quello che più conosce. Al modello europeo, incluso il modello italiano attuale, questo rimprovero non potrebbe infatti essere mosso[24]. Un impegno dovrebbe dunque essere profuso da parte di tutti i soggetti coinvolti e direttamente interessati dalla riforma per preservare le attuali specificità del modello legislativo italiano contro tentativi di riforma dell’impresa sociale, che possano trasformarla da fine in puro strumento per il perseguimento di scopi diversi da quelli che connotano l’economia sociale.

In questa prospettiva, l’impresa sociale dovrebbe, piuttosto, essere valorizzata quale modalità operativa di tutti gli enti del terzo settore e non solo di quelli di natura imprenditoriale, anche al fine di favorire l’aggregazione di secondo (o ulteriore) livello tra loro (ciò che peraltro costituisce uno degli obiettivi generali della riforma: cfr. art. 4, lett. n). Com’è noto, l’attuale art. 2, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 155/2006, contempla la figura dell’impresa sociale strumentale, quella cioè che non si caratterizza per operare in un certo settore di utilità sociale, bensì per svolgere servizi strumentali alle imprese sociali, da cui deve essere costituita per almeno il 70%. Ebbene, in sede di riforma, una modifica importante a questa disposizione potrebbe essere quella finalizzata ad estendere a tutti gli enti del terzo settore (e non solo alle imprese sociali) la possibilità di costituire un’impresa sociale loro strumentale, attraverso la quale organizzare e gestire congiuntamente un’attività di auto-produzione di servizi in prospettiva mutualistica. A tal fine, basterebbe aggiungere all’art. 2, comma 1, lett. m), d.lgs. n. 155/2006, dopo le parole “alle imprese sociali” le seguenti: “o ad altri enti del terzo settore”; e dopo le parole “organizzazioni che esercitano un’impresa sociale” le seguenti: “o da altri enti del terzo settore”. In tal modo, non solo si espanderebbe il ruolo e l’importanza dell’impresa sociale, ma si renderebbe l’idea di un’unità, non solo concettuale, del terzo settore; quell’unità che l’idea di un Codice del Terzo Settore intende promuovere e sviluppare. In concreto, si offrirebbe un’opportunità in più ad enti del terzo settore di tipo non imprenditoriale, come ad esempio le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, di organizzare e curare i propri interessi in modo più efficace ed efficiente, facendo appunto ricorso a figure tipiche del settore in cui agiscono, quali l’impresa sociale[25].

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Note

  1. ^ Precisamente il 12 aprile 2014 nel corso del Festival del Volontariato di Lucca.
  2. ^ Linee guida per una riforma del Terzo Settore, 12 maggio 2014, annunciate dallo stesso Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, con due tweet in pari data. La consultazione pubblica si è svolta dal 13 maggio al 13 giugno 2014. Lo slogan generale era “Lo chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo”. Cinque le linee guida principali ivi individuate: ricostruire le fondamenta giuridiche, definire i confini e separare il grano dal loglio; valorizzare il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale; far decollare davvero l’impresa sociale; assicurare una leva di giovani per la “difesa della Patria” accanto al servizio militare; dare stabilità e ampliare le forme di sostegno economico, pubblico e privato, degli enti del terzo settore. A loro volta, queste linee guida erano articolate in 29 punti.
  3. ^ Cfr. A.C. n. 2617, Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale, presentato il 22 agosto 2014.
  4. ^ Cfr. A.S. n. 1870, Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale, approvato dalla Camera dei Deputati il 9 aprile 2015.
  5. ^ Sul versante legislativo la prima volta (se non andiamo errati) in cui compare un riferimento legislativo esplicito al terzo settore è nell’art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328, che peraltro non conteneva una definizione di terzo settore (anche se l’art. 1 della medesima legge faceva riferimento a “organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati”). Da quel momento in poi al terzo settore hanno fatto riferimento numerosi atti normativi, senza però mai fornire di esso una precisa definizione.
  6. ^ Anzi, il d.d.l. in esame contribuisce alla migliore messa a fuoco di questo terzo settore, poiché, colmando una lacuna dell’ordinamento giuridico, che più volte fa riferimento al terzo settore senza mai propriamente definirlo, di terzo settore offre una precisa definizione, che è la seguente: “per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità. Non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati e le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche” (art. 1, comma 1). V’è da aggiungere che il d.d.l., pur non presentando un elenco di enti del terzo settore, fa riferimento nel testo a tipi legislativi generali e speciali di enti, che in tal modo implicitamente considera appartenenti alla categoria degli enti del terzo settore, e cioè associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro (art. 1, comma 2, lett. a); art. 3); cooperative sociali, consorzi di cooperative sociali e imprese sociali (art. 6); organizzazioni di volontariato; centri di servizio per il volontariato; associazioni di promozione sociale; società di mutuo soccorso; associazioni tra enti del terzo settore (art. 5); enti delle confessioni religiose che hanno stipulato patti o intese con lo Stato (art. 4, comma 1, lett. c).
  7. ^ Antesignana la legge spagnola del 2011 (Ley 5/2011, de 29 de marzo, de Economía Social) cui hanno fatto seguito la legge portoghese del 2013 (Lei 30/2013, de 8 de maio, Lei de Bases da Economia Social) e quella francese del luglio del 2014 (Loi 2014-856, du 31 juillet 2014, relative à l’économie sociale et solidaire), sulle quali cfr. (Arrieta Idiakez, di prossima pubblicazione), (Aparício Meira, 2013) e (Hiez, 2015). Non può invece definirsi una vera e propria legge sull’economia sociale (per lo meno, avendo come modelli di riferimento le leggi sopra indicate), nonostante il titolo che porta (Legge sull’economia sociale e la imprenditorialità sociale), la legge greca n. 4019/2011, che in realtà è una legge sulle cooperative sociali: cfr. (Nasioulas, 2011), dove si afferma: “This legislative act should then be named as ‘Law on Social Cooperative Enterprises’. Thus the utilization of the term ‘Social Economy’ is misleading; the concept of Social Economy is not substantially utilized in the body of the Law thus proving to be superfluous and of no real practical or legal consequence. In essence it is only used one more time in Art. 14 as a distinctive name of the Register for the three kinds of civil cooperatives discussed above” (Nasioulas, 2011 - p. 13). Anche in altri paesi dell’UE si sta discutendo di introdurre leggi sull’economia sociale, ad esempio in Romania: cfr. al riguardo (Fici, Galera, di prossima pubblicazione).
  8. ^ Proprio la delicatezza dei temi trattati e delle diverse sensibilità coinvolte dalla riforma richiederebbe una legge delega più specifica rispetto all’attuale testo approvato dalla Camera, che, nonostante qualche passo in avanti, rimane, come già si è osservato con riguardo all’originario d.d.l. governativo (Rossi, 2014), assai generico. Nella direzione di integrare i contenuti (ancora) troppo lacunosi del d.d.l. sembra orientato il Senato, per lo meno da quanto emerge dalla relazione del sen. Lepri in Commissione Affari Costituzionali (Vita 12 maggio 2015).
  9. ^ Invero, il medesimo comma dell’art. 2 contiene altri due punti autonomi, la revisione della disciplina in materia di impresa sociale (lett. c) e la revisione della disciplina in materia di servizio civile nazionale (lett. d). Della prima si darà conto subito appresso nel testo.
  10. ^ Da notare che l’originario disegno di legge governativo faceva riferimento, piuttosto, ad un testo unico (cfr. A.C. n. 2617). La dottrina si era schierata allora in favore di un codice di settore (Pacini, 2014), in ciò seguita dalla Camera, che ha così modificato il testo. Naturalmente, la scelta del codice sollecita, ed in un certo senso impone, la presenza di disposizioni generali e comuni a tutti gli oggetti disciplinati, che sono peraltro prodromiche all’autonomia del codice, anche rispetto al codice civile (particolarmente utile, al riguardo, la lettura del recente saggio di Zoppini (Zoppini, 2015)). Appare dunque leggermente contraddittorio da un lato difendere e promuovere l’idea del codice del terzo settore, dall’altro suggerire che lo statuto generale, comprendente le regole comuni alle singole aree di intervento sia contenuto nel codice civile e non già nel codice del terzo settore, come invece propone Pacini (Pacini, 2014); ciò anche perché l’impatto di questa tecnica normativa sul codice civile, che sinora si è occupato solo di associazioni e fondazioni, sarebbe imprevedibile, data la varietà delle figure soggettive del terzo settore. Il legislatore, tuttavia, come rilevato nel testo, sembra propenso a includere questa parte generale nello stesso codice del terzo settore, come appare giusto che sia.
  11. ^ Questo articolo recita infatti: “istituzione di un fondo rotativo destinato a finanziare a condizioni agevolate gli investimenti degli enti del Terzo settore e delle imprese sociali in beni strumentali materiali e immateriali, disciplinandone altresì le modalità di funzionamento e di ripartizione delle risorse” [corsivo aggiunto]. Diverso, pare, l’incipit dell’art. 7, comma 1: “Le funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo pubblico sugli enti del Terzo settore, ivi comprese le imprese sociali di cui all’articolo 6 …” [corsivo aggiunto]. Il problema segnalato nel testo era stato già rilevato, in sede di commento dell’originario testo di d.d.l., da Rossi (Rossi, 2014).
  12. ^ Di questa anomalia si è accorto il sen. Lepri che nella sua relazione in commissione del Senato opportunamente afferma: “Va quindi chiarito, sia nell’articolo 1 che nel testo complessivo, che le imprese sociali sono ricomprese entro la dizione ‘enti privati’ e che esse fanno indiscutibilmente parte a pieno titolo del Terzo settore”.
  13. ^ Sono misure che in generale riguardano tutti gli enti del terzo settore (come il fondo rotativo per finanziare gli investimenti, di cui alla lett. g, o i titoli di solidarietà di cui alla lett. h), comprese dunque le imprese sociali; specificamente dedicata alle imprese sociali è soltanto la previsione, di cui alla lett. f, “1) della possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali di rischio tramite portali telematici, in analogia a quanto previsto per le startup innovative; 2) di misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale”.
  14. ^ “Per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”.
  15. ^ Critici anche, al riguardo, Carlo Borzaga e Lorenzo Sacconi (Borzaga, Sacconi, 2014), nonostante la loro critica non sembri cogliere pienamente nel segno là dove si concentra sul problema del potenziale conflitto tra il requisito normativo della valutazione positiva di impatto sociale e quello del vincolo alla distribuzione di utili. In realtà, se contraddizione vi è, a noi sembra darsi esclusivamente, come detto nel testo, tra requisito dell’impatto sociale e requisito dello svolgimento dell’attività in certi settori di utilità sociale, perché in linea di principio i due requisiti si pongono come requisiti alternativi di qualificazione dell’impresa sociale, come anche ha dimostrato l’analisi comparatistica condotta in questo articolo.
  16. ^ Su questa dimensione più ampia di coinvolgimento, quale tratto distintivo dell’impresa sociale, anche rispetto alla mera responsabilità sociale d’impresa, ci sembra abbia particolarmente insistito Giuseppe Guerini, Presidente di Federsolidarietà-Confcooperative, in una recente relazione del 18 giugno 2015 ad Assisi, in occasione di un evento per festeggiare il trentennale della prima assemblea delle cooperative sociali aderenti a Federsolidarietà (Guerini, 2015 - p. 4 e nei vari riferimenti alla “mutualità allargata”) .
  17. ^ Un giudizio positivo sull’allargamento dei settori di utilità sociale era stato già formulato da Marco Musella (Musella, 2014). L’allargamento dei settori non risolve il problema della successiva emersione di ulteriori settori di utilità sociale, problema posto dalla tecnica legislativa della lista di settori, che caratterizza l’ordinamento italiano (a differenza di altri, come ad esempio quello inglese, che liste non presentano, bensì clausole generali di utilità sociale: per più precisi riferimenti (Fici, di prossima pubblicazione, b). Una soluzione a questo problema di rigidità la propone il sen. Lepri nella sua relazione al Senato: “Relativamente alla lettera b), anche in considerazione della rapida evoluzione, in relazioni ai mutevoli bisogni sociali, dei settori di attività dove può esplicarsi la realizzazione di un beneficio di interesse generale, sembra opportuno introdurre la possibilità di intervenire su questi aspetti, oltre che in sede di legge, come qui opportunamente avviene, anche con autonoma decretazione del Governo, sulla base di un’analisi da compiersi periodicamente anche di concerto con le rappresentanze del terzo settore”.
  18. ^ Lo avevamo già rilevato in scritti precedenti (Fici, 2004), proprio per ciò valutando positivamente la previsione di cui all’art. 17, comma 3, d.lgs. n. 155/2006 (Fici, 2007a - p. 667), (Fici, 2007b - p. 237 e ss.)
  19. ^ Recenti, noti ed eclatanti fatti di cronaca relativi a cooperative sociali coinvolte in scandali di varia natura legati alla c.d. vicenda “Mafia Capitale” (cfr. La Repubblica) dovrebbero rendere il legislatore della riforma più attento sul punto e consigliare lo stesso movimento cooperativo a richiedergli misure più rigorose per le cooperative sociali.
  20. ^ Ci pare che Giuseppe Guerini (Guerini, 2015) sia particolarmente attento al problema della “falsa” cooperazione sociale, né poteva essere diversamente considerati i recenti fatti di cronaca segnalati nella precedente nota 19.
  21. ^ Opportunamente, ed in linea con quanto da noi sostenuto nel testo, il sen. Lepri nella sua relazione al Senato afferma: “In riferimento ai criteri di distribuzione degli utili, pur apprezzando lo sforzo di sintesi realizzato nel testo della Camera, si suggerisce di valutare la possibilità di un testo più rigoroso, che eviti il rischio di interpretazioni estensive e alla fine poco rispondenti all’orientamento non profit del terzo settore. Si ipotizza pertanto la possibilità di un testo alternativo quale il seguente: ‘previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare alle condizioni e ai limiti massimi applicati alle cooperative a mutualità prevalente e che assicurino comunque la prevalente destinazione degli utili a una riserva indivisibile, da destinare integralmente, in caso di scioglimento, ad altre organizzazioni di terzo settore con finalità coerenti con lo scopo dell’impresa sociale’”.
  22. ^ Precisamente, “allo scopo di monitorare e vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto da parte dell’impresa sociale, sul rispetto dei princìpi di corretta amministrazione, anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile”.
  23. ^ L’intervista è di Stefano Arduini (Vita, 3 luglio 2015). Invero, il testo attualmente pubblicato contiene un leggero refuso che non rende completamente chiara l’affermazione di Yunus, che ci sembra però corrispondere alla sostanza indicata nel testo.
  24. ^ Rinvio, per riferimenti più precisi in merito all’alternativa tra modello nordamericano (ed in buona parte anche inglese) e modello europeo, a (Fici, di prossima pubblicazione, b).
  25. ^ Tra i vari possibili usi dell’impresa sociale strumentale da parte di enti non imprenditoriali del terzo settore, penso ad esempio alla possibile assunzione di questa veste da parte dei Centri di Servizio per il Volontariato costituiti da ODV: sul punto, che meriterebbe ben altro approfondimento, rinvio a (Fici, 2015).
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