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ISSN 2282-1694
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Numero 5 / 2015

Saggi

Cooperazione di comunità e la partecipazione alla gestione dei servizi pubblici

Pier Angelo Mori

Abstract

Le cooperative di comunità si stanno oggi diffondendo in diverse parti del mondo. Questo fenomeno è il punto di arrivo di un’evoluzione secolare che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da particolari gruppi sociali o professionali alla società nel suo complesso. Mentre in passato le cooperative si preoccupavano in via prioritaria di soddisfare i bisogni di specifici gruppi all’interno della società, spesso individuati sulla base delle funzioni economiche svolte (lavoratori, consumatori, ecc.), le cooperative di comunità sono al servizio di un’intera comunità. In questo saggio ci interroghiamo sulla natura istituzionale della cooperazione di comunità così come si presenta oggi e su come questa si è sviluppata a partire da forme precedenti.


Nowadays, community cooperatives are spreading in various parts of the world. This phenomenon represents the finish line of a historical evolution that was characterized by the progressive transfer of cooperatives’ core from particular social or professional groups to society as a whole. While in the past the main concern of cooperatives was to satisfy the needs of specific groups within society, usually identified on the basis of their economic functions (workers, consumers…), community cooperatives aim at providing a service to the whole community. In this essay we investigate the institutional nature of community cooperation as it presents itself nowadays, and on how it developed starting from its previous forms.

Questo saggio è tratto da: Euricse (2015), Economia cooperativa. Rilevanza, evoluzione e nuove frontiere della cooperazione italiana, Terzo Rapporto Euricse.

Cooperative tradizionali, gruppi di interesse e beni di interesse generale

Per lungo tempo le cooperative[1] sono state costituite e gestite allo scopo di procurare benefici ai propri soci. Fin dagli esordi questo fu riconosciuto come un principio fondamentale della cooperazione. Il regolamento del 1844 della Rochdale Society – generalmente considerato come il manifesto del movimento cooperativo – è esplicito in questo senso: “La cooperativa si attiva per dare seguito all’obiettivo di procurare benefici pecuniari ai suoi soci, nonché il miglioramento delle loro condizioni sociali e personali” (Articolo Primo - Holyoake, 1893)[2]. A quel tempo i soci delle cooperative appartenevano per lo più alla classe lavoratrice, cioè erano lavoratori salariati, piccoli agricoltori, artigiani. Nonostante la varietà delle idee riformatrici allora in circolazione[3], vi era un consenso tra i primi riformatori sociali che si occuparono di cooperazione – Robert Owen, Charles Fourier, William King e George Cole – sul fatto che la nuova forma di impresa doveva sollevare queste categorie dallo svantaggio sociale ed economico in cui si trovavano a causa della mancanza di capitale. Di fatto, le cooperative erano viste come strumento per soddisfare i bisogni di gruppi socialmente svantaggiati. Tuttavia molto presto ha iniziato a diffondersi l’idea che la cooperazione potesse essere utile anche alla società nel suo complesso.

Le principali categorie di cooperative sviluppatesi nel XIX secolo – consumo, lavoro e credito – erano solitamente al servizio di interessi che non appartenevano a tutti i membri della società, bensì a gruppi ristretti di soggetti (come abbiamo visto, la società entrava in gioco indirettamente, se e nella misura in cui la cooperativa favoriva l’avanzamento delle classi inferiori). In una parola, le cooperative erano collegate a interessi particolari. Ad un certo punto, accanto a queste tipologie, hanno iniziato ad emergere cooperative che, nonostante fossero ispirate agli stessi ideali e avessero le stesse forme giuridiche, avevano una natura sostanzialmente diversa, in quanto offrivano servizi essenziali di interesse per tutti i membri di una comunità, non solo una parte di essa. Le cooperative elettriche sorte in diverse parti del mondo agli inizi dell’elettrificazione sono uno degli esempi più chiari e significativi.

La prima cooperativa elettrica del mondo è probabilmente la “Società cooperativa per l’illuminazione elettrica” fondata a Chiavenna nel 1894 (e tuttora attiva)[4]. Da allora sono nate numerose cooperative elettriche in Italia e altrove e negli anni ’30 questo ramo del movimento cooperativo era ben consolidato. In Italia queste cooperative producevano tutte energia idroelettrica e erano localizzate nell’area alpina. Inoltre, erano quasi tutte collocate in piccoli paesi ed erano di piccole dimensioni anch’esse. Nel 1962 – l’anno della nazionalizzazione dell’energia elettrica – in Italia erano attive più di 200 cooperative elettriche (alcune delle quali sfuggirono alla nazionalizzazione e sono ancora oggi in attività). Queste cooperative fornivano in regime di monopolio un servizio di interesse generale[5] e soddisfacevano i bisogni di intere comunità, indipendentemente dal fatto che gli utenti fossero o meno soci. Con l’attivazione di un generatore elettrico e di una rete di distribuzione, i soci perseguivano il proprio interesse ma solitamente fornivano anche i non soci, procurando in tal modo anche ad essi benefici e di fatto beneficiando l’intera società locale. Storie simili si possono ritrovare in Francia, Germania e Spagna, dove le cooperative elettriche avevano caratteristiche simili (tecnologia idroelettrica, dimensione piccola) ed erano collocate in aree con caratteristiche simili (per la maggior parte in zone rurali). La storia delle cooperative elettriche statunitensi è leggermente diversa. La maggior parte di esse erano solo distributori di elettricità, sorti sotto l’impulso del Rural Electrification Act del 1936, al fine di servire le aree ancora non raggiunte da fornitori pubblici o privati lucrativi: essenziale qui fu l’azione del governo centrale attraverso prestiti e sussidi (Cooper, 2008), diversamente da quanto accaduto per le loro sorelle in Europa.

Abbiamo fin qui visto due diversi modi di rapportarsi alla società, uno incentrato sull’avanzamento sociale delle classi inferiori e uno sulla fornitura di servizi di interesse generale. Nel prossimo paragrafo ne esamineremo un terzo: la gestione di imprese con l’esplicito scopo di recare benefici a persone diverse dai soci.

Cooperazione e la cura della comunità: un’idea diversa del rapporto con la società

Il fondamento delle cooperative tradizionali è, come abbiamo visto, il beneficio del socio. Questo tratto ha accomunato tutte le tipologie di cooperative fino alla fine del XX secolo. In questa prima fase le cooperative si sono evolute essenzialmente entrando in nuovi settori di attività ma hanno mantenuto le proprie caratteristiche di base, tra cui l’obiettivo di procurare benefici ai propri soci. Nell’ultima parte del secolo si è fatto un passo ulteriore nell’evoluzione della specie, sono cambiati gli scopi stessi delle cooperative, con la creazione di nuovi modelli organizzativi di cooperazione che di fatto determinano uno scostamento dalla cooperazione tradizionale (Chaddad, Cook, 2004): cooperative che non si propongono di apportare benefici ai propri soci sono diverse da quelle tradizionali; sono a tutti gli effetti altre organizzazioni.

Nella Dichiarazione d’Identità Cooperativa del 1995 dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ICA), viene richiamata la “cura della comunità” come compito della cooperazione[6]. Prendersi cura è un agire che sottintende il perseguimento di uno scopo esplicito. Quando lo scopo esplicito di una cooperativa è promuovere il benessere dei non soci, ci troviamo di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato. Le prime cooperative in effetti apportavano benefici alla società nel complesso attraverso lo scambio con i non soci e le esternalità che creavano, ma il loro scopo esplicito non era soddisfare i bisogni della collettività, quanto piuttosto apportare benefici ai propri soci attraverso lo scambio mutualistico. Pertanto ogni effetto positivo sul benessere della comunità era un effetto collaterale non intenzionale. In altre parole, se a quel tempo una cooperativa intercettava e serviva l’interesse generale, non lo faceva nel perseguimento di un obiettivo esplicito. Nella seconda metà del secolo hanno iniziato a nascere cooperative che si proponevano invece di agire nell’interesse generale, cioè quelle che vengono definite cooperative di pubblica utilità (public benefit cooperatives)[7]. In esse lo scopo di creare benefici per la società diviene un obiettivo esplicito e con esse sorgono nuovi modelli di organizzazione cooperativa che vanno ad aggiungersi a quelli tradizionali.

Un esempio particolarmente significativo è quello delle cooperative sociali italiane. Negli anni ‘70 del secolo scorso, diverse cooperative italiane furono fondate con il dichiarato intento di rispondere a bisogni sociali – come l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate – che al tempo non ricevevano risposta da parte dello Stato (Borzaga, Ianes, 2006). Nel 1991 una legge (n. 381/91) ha riconosciuto questa evoluzione nella natura dell’impresa cooperativa ed ha introdotto una nuova forma giuridica, denominata appunto cooperativa sociale, che esplicitamente si pone come obiettivo quello di promuovere scopi di natura sociale[8]: “Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale […]” attraverso la fornitura di servizi socio-sanitari ed educativi, da un lato, e di inserimento lavorativo di persone svantaggiate, dall’altro[9]. Oltre vent’anni di storia e una crescita impetuosa[10] fanno delle cooperative sociali italiane uno degli esempi più importanti al mondo di cooperative di pubblica utilità.

Il beneficio sociale prodotto dalle cooperative sociali deriva, in un modo o nell’altro, dalle “esternalità” e dalla promozione della “giustizia sociale”. Si noti che anche altre cooperative, e più in generale qualsiasi tipo di impresa, possono avere un’utilità sociale che si realizza attraverso questi stessi canali ma, se i benefici esterni non sono perseguiti in modo intenzionale, esse non si configurano come imprese di pubblica utilità. La legge italiana invece impone alle cooperative sociali che queste esternalità siano parte integrante degli obiettivi dell’impresa e, di conseguenza, vengano perseguite in maniera consapevole.

Quello delle cooperative sociali italiane non è l’unico modello di cooperativa di pubblica utilità. Una filosofia completamente diversa è, ad esempio, incorporata nelle Community Benefit Societies (Bencom) del Regno Unito. A differenza di altri paesi, nel Regno Unito non vi sono forme giuridiche specifiche per le cooperative e lo status di “cooperativa” si fonda sulle caratteristiche dello statuto societario e sulla prassi. Cooperatives UK classifica le Bencom come una delle forme organizzative della cooperazione (Cooperatives UK, 2009 - p. 32). Come le cooperative tradizionali anche le Bencom sono sotto il controllo democratico dei propri soci, ma in questo caso l’obiettivo è il beneficio esclusivo della comunità. Se nelle cooperative sociali italiane il beneficio dei soci è limitato dall’interesse della comunità, ma comunque esiste, qui scompare completamente. Abbiamo quindi due modi affatto diversi di perseguire l’interesse generale: congiuntamente a quello dei soci (come nelle cooperative sociali) oppure in modo esclusivo (come nelle Bencom). Di conseguenza, esistono due modelli organizzativi fondamentalmente diversi, espressione di due diverse concezioni dell’impresa cooperativa, per delineare le quali conviene tornare un attimo alla Dichiarazione d’Identità Cooperativa. Qui si propone una definizione universale di cooperativa, svincolata dai modelli giuridici dei diversi paesi: “Una cooperativa è un’associazione autonoma di individui che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni” (ICA, 1995)[11]. Il punto è come questa definizione si rapporti con il VII Principio, in particolare se il requisito della mutualità vada inteso come necessario o possa invece essere sostituito da finalità sociali (“la cura della comunità”). La Dichiarazione lascia di fatto la domanda senza risposta ed entrambe le soluzioni sembrano possibili. In particolare, secondo una visione la titolarità da parte di soggetti diversi dagli investitori e il controllo democratico sono sufficienti per classificare un’impresa come cooperativa (Jones, Kalmi, 2012 - p. 39). Secondo un’altra concezione invece la mutualità è indispensabile (è questa la visione inglobata nella legislazione italiana - Fici, 2013). All’interno della categoria delle cooperative di pubblica utilità si possono trovare cooperative appartenenti ad entrambe le tipologie.

Cooperativa di comunità, beni di comunità e titolarità dei cittadini

Le cooperative di comunità che si stanno diffondendo in varie parti del mondo sono il punto di arrivo di un’evoluzione che ha visto il progressivo spostamento del baricentro delle cooperative da specifici gruppi sociali e professionali all’intera società. Una prima difficoltà nell’affrontare il tema delle cooperative di comunità è che il termine “comunità” è attualmente utilizzato con riferimento a una grande varietà di istituzioni e, all’interno del campo cooperativo, a molte tipologie differenti di cooperative. Per quanto riguarda il mondo cooperativo, il termine è in uso relativamente da poco tempo – anche se è difficile dire precisamente da quando – ma non tutti gli enti a cui è associato sono nuovi: alcuni sono in effetti indistinguibili negli aspetti rilevanti (tipo di attività, modello organizzativo) da istituzioni che esistevano in passato sotto denominazioni differenti, come le cooperative elettriche storiche, alcune banche cooperative e alcune cooperative di consumo locali (cfr. il primo paragrafo). La variabilità nell’uso del termine “comunità” è in effetti una potenziale causa di confusione. Per questo è importante elaborare un concetto preciso di cooperativa di comunità, coerente con l’evoluzione storica e la classificazione generale delle cooperative del precedente paragrafo.

Un primo problema è che uso si debba fare del termine a scopi scientifici, in particolare se lo si debba restringere alle cooperative esplicitamente denominate in questo modo. Un approccio puramente nominalistico è semplice da perseguire ma ha lo svantaggio che potrebbero essere arbitrariamente esclusi alcuni casi che sono identici nella sostanza a quelli inclusi. Invece, classificando come cooperative di comunità le une, è necessario fare lo stesso anche con le altre, il che impone necessariamente di andare oltre i nomi e di identificare gli elementi costitutivi del concetto. In poche parole occorre una definizione di cooperativa di comunità, e non solo per motivazioni di coerenza linguistica. Se, ad esempio, si ammettessero nella classe delle cooperative di comunità tutte quelle cooperative che hanno “comunità” nel nome, senza stabilire criteri discriminatori, si rinuncerebbe di fatto a comprendere in cosa consista questa classe, vista l’impossibilità di descriverla per elencazione. In ultima analisi, così facendo finiremmo per rinunciare a comprenderne la natura.

Cominciamo con qualche esempio. Un recente rapporto sulle cooperative di comunità elenca tra esse imprese che offrono servizi alla persona e ricreativi destinati ai residenti di una determinata area attraverso la gestione di negozi, bar, ristoranti, centri per la comunità, ecc., ovvero promuovono servizi all’infanzia, attività all’aperto, sport, recupero urbano, ecc. (Wales Co-operative Centre, 2012)[12]. Una diversa categoria di cooperative di comunità è quella delle community finance society del Regno Unito, la cui attività consiste nel raccogliere fondi e finanziare progetti/imprese a beneficio della comunità locale (Cooperatives UK, 2009, p. 32)[13]. Una terza categoria è quella delle cooperative nel campo dell’energia[14]. Alcune di esse hanno “comunità” nel proprio nome[15], mentre altre, nonostante siano in tutto simili, non sono denominate in questo modo. Queste organizzazioni sono parte di una più ampia categoria di iniziative a livello comunitario il cui campo di attività principale è la produzione di energia da fonti rinnovabili (solare, eolico, biomasse, ecc.). In alcuni casi si occupano anche della fornitura di energia a soci e non-soci con varie modalità contrattuali (Walker, Devine-Wright, 2008; Hoffman, High-Pippert, 2010; Müller et al., 2011; Seyfang et al., 2012). Questi esempi sono sufficienti a mostrare quanto differenziata sia la classe di cui stiamo parlando e la domanda che sorge naturale a questo punto è: esiste un filo conduttore che lega organizzazioni così diverse?

Non ci sono dubbi sul fatto che, indipendentemente dalle caratteristiche particolari che possono assumere, alla base delle cooperative di comunità ci sia il legame con una comunità ben definita. Il problema è cosa si intende per comunità. In realtà dietro ogni cooperativa c’è una comunità di un tipo o di un altro – per esempio i soci lavoratori di una cooperativa di lavoro costituiscono in un certo senso una comunità – ma questo non implica che tutte le cooperative siano di comunità e, infatti, si distingue tra quelle che lo sono e quelle che non lo sono. Di fatto, quando si parla di cooperative di comunità, si ha in mente qualche tipologia specifica di comunità.

La comunità è spesso associata al territorio[16]. Certamente, ci sono significati di comunità che lo trascurano, come, ad esempio, le comunità di interessi (Cooperatives UK, 2009 - p. 30; Walker, 2008 - p. 4402). Nell’era di internet la nascita di comunità virtuali ha esteso enormemente il campo. Non è comunque questo il tipo di comunità che entra nelle cooperative elettriche, vecchie e nuove, e nella maggior parte degli altri tipi di cooperativa di comunità ad oggi conosciuti. Una prima restrizione utile ai fini classificatori è quindi di limitarsi alle comunità “fisiche” che abitano un dato territorio. Come suggerisce il nome, le cooperative di comunità offrono beni di interesse generale per un’intera comunità. Si può utilizzare ancora una volta come esempio quello delle cooperative elettriche storiche. Queste organizzazioni offrivano un servizio di interesse per tutti i cittadini e normalmente servivano anche i non-soci (così, ad esempio, era in Italia), contribuendo in tal modo al benessere dell’intera comunità (a questo si aggiunge il fatto che l’attivazione del servizio in molti casi è stata anche la chiave dello sviluppo economico locale). In una parola, il servizio offerto era di interesse generale per tutti i residenti nel territorio servito, non solo per uno specifico gruppo professionale o sociale. Ciò significa che questo interesse era condiviso da tutti i residenti, indipendentemente dal loro status professionale o sociale, e cessava con il trasferimento ad altro luogo. È importante notare che l’interesse non richiede l’uso effettivo: una persona può essere interessata, anche se al momento non sta utilizzando il bene, semplicemente perché potrebbe averne bisogno in futuro. I beni/servizi che hanno queste caratteristiche li definiamo “beni di comunità”. Tra un bene di comunità e la sua comunità di riferimento c’è quindi una corrispondenza necessaria, ma quale dei due definisce l’altro? È la comunità ad identificare il bene o viceversa? In alcuni casi è la natura del bene, come nel caso delle cooperative elettriche di distribuzione, per le quali l’estensione della rete di distribuzione definisce i confini naturali della comunità di riferimento. In altri casi, quando l’uso del bene non dipende da un’infrastruttura locale, può accadere il contrario. Un bene può essere di interesse generale per una popolazione che, per qualunque ragione, si definisce come una comunità: questo è sufficiente per definire quel bene come bene di comunità. In tutti i casi, ciò che non può mancare è l’interesse universale per il bene all’interno del suo territorio di riferimento.

La fornitura di beni di comunità, comunque, non è sufficiente a caratterizzare una cooperativa di comunità, come risulta immediatamente chiaro dal seguente esempio. Immaginiamo un’ipotetica cooperativa elettrica che ammetta solo i propri lavoratori come soci, in una parola una cooperativa di lavoro. Potrebbe questa essere una cooperativa di comunità? In effetti, non si baserebbe sulla comunità più di quanto non faccia una qualunque impresa esercitata da un ristretto numero di investitori, e la ragione è ovvia. Anche se questi lavoratori appartenessero tutti alla comunità di riferimento, sarebbero un sotto-gruppo professionale, per cui la titolarità d’impresa sarebbe condizionata alla qualifica professionale e di fatto non aperta a tutti i membri della comunità. Per contro, le cooperative elettriche storiche avevano come soci i propri clienti, una qualità posseduta da tutti i residenti. Questa è la caratteristica cruciale. Quando si parla di comunità, non si intende un qualunque gruppo di persone con interessi affini, ma una comunità di “residenti all’interno di un territorio”, il cui interesse per il bene/servizio nasce dal fatto che essi vivono in quel luogo, e non da particolari bisogni professionali o sociali. La caratteristica discriminante è quindi la “cittadinanza” come requisito qualificante del socio, e questo implica un sostanziale cambiamento di orizzonte per la cooperativa: l’obiettivo non è più rispondere ai bisogni di un gruppo sociale ristretto, come, ad esempio, un gruppo di lavoratori, ma ai bisogni dei cittadini.

Esaminiamo la questione più da vicino. Se al membro di una comunità togliamo tutte le sue caratteristiche professionali e sociali, cosa rimane? Il fatto di essere residente in un territorio associato a un particolare bene di comunità (il territorio in cui questo bene è disponibile e può essere utilizzato), e i bisogni di cui parliamo sono quelli che nascono in relazione a ciò. Si tratta, solitamente, di bisogni universali nel senso che interessano, attualmente o potenzialmente, tutti i residenti. Nelle cooperative di lavoro il requisito necessario per essere soci è lavorare nella cooperativa, nelle cooperative di utenti è acquistare (o avere interesse ad acquistare e poterlo fare) i servizi prodotti dalla cooperativa, ecc. Analogamente, diciamo che una cooperativa è “di cittadini” o “della comunità”[17], se il requisito è essere residente in un territorio o possedere altra qualifica che implica questa, come, ad esempio, essere utenti di un servizio pubblico che è offerto in quel territorio[18].

Questi requisiti sono sufficienti ad identificare le cooperative di comunità? Più precisamente, la domanda è: l’apertura della cooperativa a tutti gli individui aventi le caratteristiche di cui sopra è sufficiente per qualificarla come cooperativa di comunità o occorrono ulteriori requisiti? Se prendiamo le cooperative elettriche storiche ancora attive in Italia, si vede come alcune di esse includano tutte le famiglie del loro territorio di riferimento, mentre altre non le includono (nonostante la società sia aperta a tutti i cittadini)[19]. È quindi chiaro che identificare come cooperative di comunità solo le organizzazioni in cui tutti i membri della comunità di riferimento abbiano effettivamente lo status di soci – ossia i casi in cui clienti e soci coincidono – sarebbe eccessivamente restrittivo. Sembra più appropriato puntare sull’apertura alla comunità di riferimento: le cooperative di comunità devono potenzialmente includere un’intera comunità, cioè a tutti coloro che sono potenzialmente o attualmente interessati al bene fornito dalla cooperativa di comunità deve essere permesso di diventare soci, come richiesto dal principio della “porta aperta”[20]. Dunque le cooperative di comunità, come ogni altra cooperativa, devono certamente soddisfare questo requisito di base ma nel loro caso l’apertura nei confronti della comunità deve andare oltre. Le vecchie cooperative elettriche erano al servizio di tutta la comunità di riferimento, anche quando non tutti i residenti erano soci della cooperativa. Quando vi sono clienti non soci, lo scambio con questi non deve essere soggetto a restrizioni. Una cooperativa che offre un bene di comunità selettivamente ed esclude alcuni membri della comunità non può essere una cooperativa di comunità. Certamente non è necessario, affinché una cooperativa sia di comunità, che tutti i membri della comunità di riferimento effettivamente utilizzino i suoi beni/servizi (è sufficiente che abbiano un interesse in essi, ossia siano utenti potenziali), ma altrettanto certamente non può verificarsi che non li utilizzano perché viene loro negato l’accesso. Quindi “l’accesso non discriminatorio” al bene di comunità appare altrettanto necessario quanto il principio della porta aperta[21]. In sintesi, le cooperative di comunità sono quelle che rispondono a tre requisiti: sono controllate dai cittadini (comunità), offrono o gestiscono beni di comunità, garantiscono a tutti i cittadini un accesso non discriminatorio[22].

Vediamo ora alcuni dettagli ulteriori a completamento del quadro. Come si classificano le cooperative di comunità rispetto alle funzioni di base dei soci, cioè fornitori o clienti? Le cooperative in generale ricadono in due classi: cooperative di clienti e cooperative di fornitori, a seconda che siano titolari i clienti o i fornitori di un qualche input (normalmente diverso dal capitale). Le cooperative elettriche, ad esempio, sono per la maggior parte del primo tipo[23], ma non tutte. Le nuove cooperative di comunità che producono energia dalle fonti rinnovabili di ultima generazione (solare, eolico, biomasse, ecc.) e vendono sul mercato all’ingrosso invece generalmente appartengono alla classe delle cooperative di fornitori (si veda Mori, 2013, per ulteriori dettagli ed alcuni esempi)[24]. È importante notare che i servizi offerti dalle vecchie cooperative di comunità – cooperative elettriche, banche cooperative rurali, ecc. – non erano solo di interesse generale per la comunità, ma erano molto spesso anche vitali per la sua stessa sopravvivenza, e quindi influivano in modo cruciale sul benessere dei suoi membri. Anche oggi la classe delle cooperative che offrono servizi fondamentali è importante, ma il quadro attuale delle cooperative di cittadini è più complesso che in passato e ve ne sono alcune che offrono servizi di interesse generale non qualificabili come fondamentali, pur avendo tutte le caratteristiche delle cooperative di comunità. Un’ulteriore osservazione riguarda le dimensioni ed i confini geografici. In passato, le cooperative di comunità avevano territori e comunità di riferimento di piccole dimensioni. La nostra definizione non pone nessun limite alla dimensione, nonostante il termine cooperativa di comunità venga generalmente riferito ad entità territorialmente circoscritte. In effetti, chiamare cooperativa di comunità un’organizzazione che offre, ad esempio, servizi di telefonia mobile sul territorio nazionale[25], anche se non strettamente esclusa dalla definizione che abbiamo dato, suona strano e certamente non è in linea con l’uso corrente del termine. C’è un ultimo problema da segnalare, riguardo all’uso del termine cooperativa. Talune organizzazioni di comunità sono a volte etichettate come cooperative, a volte come enti nonprofit (Leadbeater, Christie, 1999 - p. 89). In effetti, le organizzazioni di comunità sono un punto di intersezione tra i due mondi, e il loro confine non è sempre nettamente definito. Questo è particolarmente vero in paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dove le cooperative non hanno una forma giuridica specifica e le organizzazioni possono essere cooperative e nonprofit allo stesso tempo, solitamente quelle controllate da beneficiari non investitori e sottoposte al vincolo della non distribuzione degli utili (Hansmann, 1980 - p. 890, n. 146). Infine, un’avvertenza sulla possibile confusione tra beni di comunità e beni comuni. I due concetti sono diversi e vanno tenuti distinti. I beni di comunità possono infatti appartenere a tutte le categorie della partizione classica, cioè beni privati, comuni, pubblici e di club. Se, ad esempio, la cooperativa ha a che fare con l’ambiente, il bene di comunità coinvolto è un bene pubblico; se gestisce un servizio pubblico locale, il bene è privato, e via dicendo.

Fornitura di elettricità, servizi bancari, trasformazione di prodotti agricoli possono essere, come abbiamo visto, beni (servizi) di comunità, che erano a volte – e in alcuni casi lo sono ancora – offerti da cooperative di comunità. Le prime cooperative di questo tipo erano piuttosto omogenee sia da un punto di vista istituzionale, sia organizzativo. Le nuove cooperative di comunità che nascono oggi sono invece assai più varie. Nel prossimo paragrafo affronteremo il tema della varietà istituzionale che caratterizza queste nuove cooperative di comunità.

Le nuove cooperative di comunità

Attualmente si assiste a una rapida diffusione delle cooperative di comunità ma, come abbiamo visto in precedenza, la cooperazione di comunità è un fenomeno antico. Per molto tempo questa modalità organizzativa è rimasta circoscritta ad ambiti limitati ed ha mostrato ben pochi cambiamenti. Le nuove cooperative di comunità, che stanno nascendo oggi sono invece molto diversificate. Certamente la differenza più visibile tra cooperative di comunità vecchie e nuove è l’uso da parte di queste ultime del termine comunità. Alcune di esse lo hanno già nel nome[26], altre, pur non essendo denominate in tal modo, si autodefiniscono cooperative di comunità[27]. Tuttavia, come abbiamo già argomentato in precedenza, queste non sono differenze di rilievo. Differenze ben più sostanziali riguardano i settori di attività e i modelli organizzativi.

Le vecchie cooperative di comunità erano concentrate, come abbiamo visto, in un numero ristretto di settori, tra cui i più rilevanti erano l’energia elettricità, il credito, la produzione agro-alimentare, i servizi idrici. Le nuove cooperative di comunità sono invece presenti in un numero molto maggiore di settori, dai servizi alla persona – come i servizi di welfare, assistenziali e di istruzione – fino ai servizi di vicinato (lavanderie e similari) e i servizi classici già offerti dalle vecchie cooperative di comunità (ancora: elettricità, servizi bancari, ecc.). Ma certamente più importanti ancora sono le differenze nei modelli organizzativi. Per illustrare il punto è opportuno riferirsi nuovamente al settore dell’energia, che ha visto la presenza di cooperative di questo tipo fin dal principio ed ha recentemente registrato una crescita notevole (nonostante non siano disponibili dati globali, pare questo il settore dove la crescita è stata più sostenuta; Mori, 2013).

In Italia sopravvivono alcune cooperative elettriche fondate nella prima fase delle cooperative di comunità, all’incirca dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX. Secondo dati recenti sono circa 30 in totale (Spinicci, 2011a). Cifre simili si riscontrano anche in Germania, dove vi sono circa 50 cooperative di questo tipo ancora in attività (Holstenkamp, 2012). Alcuni studi di casi sull’Italia hanno mostrato che, dal punto di vista organizzativo, queste cooperative sono cambiate poco nel corso degli anni. Molte di loro conservano il loro statuto originario[28] e la loro attività principale è la stessa, tipicamente la produzione di energia idroelettrica e la fornitura a livello locale attraverso reti proprie di distribuzione (anche se alcune di esse hanno allargato la propria attività a servizi complementari come internet; Spinicci, 2011b)[29]. Esiste quindi un gruppo di vecchie cooperative di comunità ancora in vita che può essere agevolmente comparato con quelle nuove. Il dato più rilevante di questo gruppo è il fatto che appartengono tutte ad un unico e ben delimitato modello organizzativo, quello delle cooperative tradizionali che offrono un bene di comunità. Questo significa che il loro scopo esplicito è procurare benefici ai propri soci, mentre la parte restante della comunità riceve benefici grazie all’universalità dei servizi – tutti i residenti nel territorio di appartenenza delle cooperative sono raggiunti dai loro servizi, siano essi soci o non soci – e attraverso le esternalità da essi generate, ad esempio in termini di sviluppo locale. Alcune delle nuove cooperative elettriche italiane appartengono al gruppo delle cooperative tradizionali[30], altre, come ad esempio le community finance society in Gran Bretagna, alla classe delle cooperative di pubblica utilità.

Un ulteriore elemento distintivo delle nuove cooperative di comunità è una base sociale più composita. L’apertura all’intera comunità porta le cooperative di comunità a replicare la composizione sociale della società circostante. In passato, le cooperative di comunità come le banche di credito cooperativo, le cooperative elettriche e agricole avevano soci e clienti piuttosto omogenei da un punto di vista sociale. Oggi, in linea con la maggiore stratificazione della società, anche i soci delle cooperative di comunità tendono ad essere più diversificati che nelle cooperative tradizionali del passato, come, ad esempio, le cooperative di lavoro. Le nuove cooperative di comunità sono un punto focale verso cui convergono le due tendenze più rilevanti della storia della cooperazione del XX secolo – una maggiore stratificazione della base sociale e l’orientamento dell’impresa verso scopi sociali.

Un’ultima differenza rispetto alle esperienze precedenti riguarda le modalità con cui le cooperative di comunità nascono. Le vecchie cooperative di comunità normalmente nascevano con l’attivazione di un servizio nuovo: elettricità, servizi bancari, trasformazione di prodotti agricoli sono i principali esempi storici. Questa modalità di costituzione trova certamente spazio anche oggi: asili nido, lavanderie, biblioteche – solo per richiamare alcuni degli esempi citati nei paragrafi precedenti – possono in effetti essere avviati ex novo per offrire un servizio assente nella comunità. Tuttavia sempre più spesso le cooperative di comunità vengono oggi create con lo scopo di produrre e fornire un servizio già esistente in un modo nuovo. Questo meccanismo può diventare ancor più importante in futuro.

Nei paesi più sviluppati oggi i canali principali per entrare nei servizi pubblici sono essenzialmente le liberalizzazioni di mercato e le privatizzazioni. Nel XX secolo la fornitura di servizi pubblici da parte dello Stato, anche se non l’unica, era certamente la modalità organizzativa di gran lunga più diffusa e, di fatto, ha tenuto ai margini le imprese cooperative. Questo modello è entrato in crisi per la prima volta verso la fine del secolo scorso, quando lo Stato ha iniziato a ritirarsi dalla produzione aprendo i mercati dei servizi pubblici alla competizione (liberalizzazione) o insediandovi operatori privati in regime di monopolio (privatizzazione). Molte nuove cooperative di comunità sono nate sulla scia delle liberalizzazioni, specialmente in Europa (ad esempio, nell’elettricità; Mori, 2013). Le privatizzazioni invece non hanno fino ad ora favorito l’entrata di nuove cooperative, ma vi sono fatti nuovi che potrebbero far cambiare il quadro.

Le motivazioni sottostanti alle privatizzazioni negli Stati Uniti, Europa e altrove nel mondo sono molteplici. Ci sono comunque due gruppi principali che le comprendono praticamente tutte: ragioni di efficienza[31] e vincoli finanziari. Le motivazioni finanziarie sono oggi particolarmente rilevanti, dato che molti Stati non sono in grado di far fronte a nuovi investimenti e talvolta neanche di coprire i costi di esercizio, tradizionalmente finanziati attraverso il gettito fiscale. Quando lo Stato si ritira dalla produzione lascia uno spazio che finora è stato occupato da imprese lucrative. È questo il classico modello di privatizzazione dei servizi pubblici in cui un servizio precedentemente fornito dallo Stato viene assunto da un’impresa capitalistica. Questo modello ha mostrato diversi difetti dal punto di vista economico (Clifton et al., 2003; OECD, 2003), ma il problema forse più grave è politico, e precisamente la crescente opposizione dei cittadini[32]. La causa è soprattutto da ricercare nell’incapacità dello Stato di tenere sotto controllo la crescita delle tariffe e di far rispettare ai gestori privati dei soddisfacenti standard di qualità nel servizio (Mori, 2013). In alcuni paesi come l’Italia l’opposizione dei cittadini ha completamente bloccato le nuove privatizzazioni, con la conseguenza che anche gli investimenti si sono bloccati. Un fatto largamente sottovalutato nel dibattito politico è che le cooperative di comunità – specialmente quelle appartenenti alla tipologia delle cooperative di utenti – potrebbero risolvere questi problemi. Ai nostri fini sono sufficienti alcune brevi considerazioni (rimandiamo a Mori, 2013, per una discussione più approfondita).

La titolarità d’impresa da parte degli utenti, sommata alla governance democratica, permette l’accesso diretto dei soci-cittadini alle informazioni interne e questo può ridurre, se non addirittura eliminare, le asimmetrie informative sulla qualità del servizio (particolarmente rilevante in ambiti come l’assistenza sanitaria, la gestione dei rifiuti, ecc.). Inoltre, l’auto-regolazione permette di gestire le tariffe meglio che nelle esperienze tradizionali di regolazione da parte di un’autorità esterna. Questi potenziali vantaggi suggeriscono che, nonostante non sia sempre e ovunque l’opzione più efficiente, la cooperativa di utenti è una seria alternativa sia alla fornitura pubblica, sia a quella lucrativa, certamente da mettere sullo stesso piano di queste, non da escludere a priori, come è accaduto finora. In alcuni casi potrebbe addirittura essere l’unica via d’uscita dalle sempre più frequenti situazioni di stallo che vedono, da una parte, Stati incapaci di sostenere il peso di nuovi investimenti in infrastrutture e, dall’altra, cittadini che bloccano l’entrata nei servizi pubblici di imprese lucrative[33].

Le cooperative di comunità hanno come riferimento la cittadinanza nella sua interezza e non particolari gruppi sociali o professionali. Attraverso le cooperative di comunità i cittadini prendono assieme l’iniziativa per dare risposte ai propri bisogni: non sono più solo beneficiari, ma anche attori. Al centro delle cooperative di comunità c’è dunque la partecipazione dei cittadini alla gestione di servizi di interesse generale. Per questa ragione, la cooperazione di comunità può essere vista come parte del più ampio fenomeno della “cittadinanza attiva”, che sta guadagnando terreno nelle società post-industriali contemporanee. Al di là del vecchio modello di partecipazione indiretta dei cittadini attraverso gli organi politici elettivi, si sta facendo strada un nuovo modello in cui i cittadini sono co-fornitori attivi dei servizi sullo stesso piano delle istituzioni pubbliche. La cittadinanza attiva può avere varie motivazioni, economiche e non (Fung, 2004), e assumere forme diverse. Ad esempio, la co-produzione attraverso il volontariato degli utenti finali – un fenomeno diffuso in alcuni paesi nel campo dei servizi di welfare (Matthies, 2006) – è uno di questi, ma ce ne sono anche altri (Mizrahi, 2011). Nelle cooperative di comunità la partecipazione dei cittadini acquista particolari connotati. Le cooperative di comunità sono imprese e la partecipazione dei cittadini avviene attraverso un’organizzazione controllata direttamente da essi. I processi produttivi di servizi come, ad esempio, l’assistenza sanitaria, la fornitura di acqua e di energia elettrica, ed altri ancora, sono complessi e richiedono un capitale fisico consistente, un’amministrazione, una gestione professionale, cioè tutti gli elementi tipici dell’impresa moderna. In una parola, richiedono un’organizzazione di impresa. La cooperativa di comunità diventa strumento di partecipazione dei cittadini alla gestione di tali servizi: attraverso di essa i cittadini cessano di essere semplici elettori e diventano imprenditori.

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Note

  1. ^ Ci riferiamo qui alle moderne imprese cooperative apparse per la prima volta durante la Rivoluzione Industriale (Cole, 1944). Forme di cooperazione sono esistite anche prima di allora, in campo agricolo - le più antiche delle quali risalgono all’antichità (Woeste, 2003) - e nella manifattura, le prime tracce delle quali secondo alcuni studiosi risalgono all’epoca medievale (Battilani, 2014).
  2. ^ Una diversa formulazione dello stesso concetto: “L’obiettivo immediato delle società cooperative è soddisfare i bisogni dei propri soci in modo migliore e più economico di quanto viene fatto dalle istituzioni esistenti” (Gide, 1922 - p. 22).
  3. ^ Alcune delle quali davvero fantasiose, come, ad esempio, l’idea di Fourier secondo cui la produzione non solo avrebbe dovuto svolgersi senza capitalisti, ma avrebbe dovuto essere parte di una struttura sociale centralizzata preposta a gestire ogni aspetto della vita dei lavoratori, all’interno di complessi appositamente costruiti, chiamati falansteri (Beecher, 1986).
  4. ^ Una cooperativa elettrica pressoché coeva è la Società cooperativa forza e luce di Aosta, di solo un anno più giovane (e anch’essa ancora in attività) (Spinicci, 2011a). Negli Stati Uniti Stony Run Light and Power, fondata nel 1914 (Granite Falls, Minnesota), è considerata la prima cooperativa elettrica degli U.S.A. (Keillor, 2000 - p. 322). In Germania cooperative di questo tipo hanno iniziato a diffondersi dopo il 1900 (Klemisch, Maron, 2010, sostengono che le prime siano state fondate nella regione di Teutoburgo nel 1920-22, ma la Elektrizitäts-Genossenschaft Rettenberg è in effetti precedente, 1913). In Spagna la Cooperativa Eléctrica de Madrid fu fondata nel 1909. In Francia le cooperative elettriche rurali iniziarono a diffondersi negli anni ’20 (come, ad esempio, la Coopérative d’électricité de St-Martin-de-Londres, fondata nel 1920).
  5. ^ Questo termine è in uso anche nel diritto europeo (Commissione Europea, 2003), ma è qui utilizzato in un significato generico, non legale.
  6. ^ Il VII Principio nell’originale inglese ha come titolo Concern for community e recita: “Le cooperative lavorano per uno sviluppo sostenibile delle proprie comunità” (ICA, 1995).
  7. ^ Nonostante la denominazione simile, queste cooperative non appartengono alla categoria delle “organizzazioni di pubblica utilità” (public benefit organization) di Gui (1991), le quali sono invece una tipologia particolare di organizzazioni non-profit come ad esempio le fondazioni. In effetti, Gui colloca le cooperative all’interno di quelle che definisce “organizzazioni di mutua utilità” (mutual benefit organization) ma, quando scriveva, le cooperative orientate al sociale come le cooperative sociali italiane non erano ancora nate. Henrÿ (2012) usa il termine “organizzazioni di pubblico interesse” (public interest organization) in un senso simile a quello utilizzato nel presente lavoro.
  8. ^ Art. 1, Legge 381, 28 novembre 1991. La cooperativa sociale è generalmente riconosciuta come una forma di impresa sociale (cfr. Spear e Bidet, 2005; Borzaga e Defourny, 2001).
  9. ^ Simili tipologie di cooperative esistono anche in altri paesi europei, come, ad esempio, le cooperative svedesi di genitori che offrono servizi per l’infanzia (si veda Pestoff, 2009, per un’analisi istituzionale ed empirica), la Société coopérative d'intérêt collectif in Francia, la régie cooperativa (cooperativa di pubblico interesse) in Portogallo. È opportuno notare che in alcuni paesi le stesse attività di carattere sociale possono essere attuate attraverso tipologie di organizzazioni non classificabili come cooperative (ossia non controllate da soci).
  10. ^ Al 31 dicembre 2005 le cooperative sociali italiane risultavano 7.363 secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, ISTAT (2008) (nel 1999 ce n’erano solamente 4.651, come si rileva dai dati del I Censimento del settore nonprofit, ISTAT, 2001).
  11. ^ Cfr. Cap. I (“Scopo, definizione e obiettivi”), ILO (2002).
  12. ^ Secondo un documento della Avon Co-operative Development Agency (Avon CDA, Community Co-operatives – An Introduction, Bristol, 2007) le cooperative di comunità si occupano tipicamente di asili nido, negozi di paese, lavanderie a gettoni, centri polifunzionali ad uso della comunità, e simili.
  13. ^ Come la Exeter Local Food Ldt., una community finance society che gestisce un negozio di alimentari di quartiere (il Real Food Store di Exeter, Regno Unito).
  14. ^ Nella sola Germania sono state recentemente censite più di 350 cooperative di questo tipo nate dopo il 1998 – anche se non sono tutte di comunità – ma fenomeni simili si sono verificati anche in altri paesi (Mori, 2013).
  15. ^ Un esempio è la Hepburn Community Wind Park Co-operative Limited (Victoria, Australia), la prima cooperativa australiana nel campo dell’energia rinnovabile.
  16. ^ Anche le “organizzazione di vicinato” di Milofsky (1987) hanno come elemento chiave il territorio, ma si differenziano dalle cooperative di comunità in quanto organizzazioni nonprofit, di piccole dimensioni e operanti nel settore dei servizi sociali.
  17. ^ Il secondo termine è utilizzato, ad esempio, da Energy4all.
  18. ^ Le Community Interest Companies (CIC) britanniche potrebbero avere queste caratteristiche, ma non è detto. Come dichiara il CIC Regulator “La caratteristica essenziale di una CIC è che le sue attività sono svolte a beneficio della comunità” (DBIS, 2010 - p. 13), il che è anche un tratto fondamentale delle cooperative di comunità, ma qui la comunità è intesa in senso molto più ampio: “Una comunità, ai fini di una CIC, può includere sia una comunità in particolare, sia la popolazione nella sua interezza, o ancora un settore o gruppo specifico di persone, sia in Gran Bretagna, sia altrove” (ibidem). Quindi “comunità” potrebbe essere qualunque gruppo di persone che condividono un interesse comune. I requisiti del servizio alla comunità, della titolarità d’impresa da parte della cittadinanza e della governance democratica non sono necessari per una CIC, come mostrano alcuni dei casi discussi dal CIC Regulator (http://www.bis.gov.uk/cicregulator/case-studies). Non tutte le CIC possono dunque essere identificate come cooperative di comunità nel nostro senso (Corrigan et al., 2001).
  19. ^ In Italia appena un terzo delle cooperative elettriche ricade nella prima categoria (Spinicci, 2011a).
  20. ^ Cfr. Dichiarazione d’Identità Cooperativa di ICA, Principio 1. Per una discussione dei principi ICA e come sono applicati nei vari paesi europei si veda Fici (2012).
  21. ^ In molti paesi l’accesso non discriminatorio ai servizi pubblici è imposto dalla legge in virtù del principio del “servizio universale”. Qui si parla di un requisito essenziale della nozione di cooperativa di comunità, che prescinde del tutto dalle norme vigenti.
  22. ^ In questo ci differenziamo dalla definizione di Cooperatives UK che invece ammette anche le “comunità di interessi” come titolari dell’impresa (Cooperatives UK, 2009 - p. 30).
  23. ^ Appartengono, ad esempio, a questa categoria tutte le cooperative elettriche storiche italiane.
  24. ^ Un altro esempio sono le cooperative casearie (in cui i soci non acquistano, ma forniscono qualcosa alla cooperativa). In passato, questo tipo di cooperative ha talora avuto, all’interno della propria economia locale, un ruolo simile a quello delle banche cooperative e delle cooperative elettriche (Leonardi, 1996).
  25. ^ Come, ad esempio, CUT, una cooperativa di consumatori nel campo dei servizi telefonici che ha sede a Prato (Spinicci, 2011b).
  26. ^ Come, ad esempio, la Devon Community Wind Cooperative.
  27. ^ Ad esempio la Baywind Energy Co-operative Ltd (Cumbria, UK) descrive la propria attività come “produzione comunitaria di energia eolica”.
  28. ^ Si può prendere ad esempio il Consorzio Elettrico Industriale di Stenico (CEIS). È stato fondato nel 1905 e il suo statuto ha subito solo cambiamenti minimi nel 1963, 1965 e 1983 (Gorfer, 1987 - p. 413) ma rimane fondamentalmente quello originale.
  29. ^ Vedasi in particolare lo studio di caso del Consorzio Elettrico Industriale di Stenico (CEIS), Stenico (TN), fondato nel 1905, ibidem, p. 8 ss.
  30. ^ Un esempio è EUM (Energie- und Umweltbetriebe Moos) i.P. Gen., Moos P. (Bolzano, Italia), una nuova cooperativa elettrica fondata nel 2002. Dal punto di vista giuridico si configura come un’ordinaria società cooperativa, il cui scopo è, secondo la legge italiana, beneficiare i soci, che in questo caso sono i suoi clienti. Per uno studio di caso su questa cooperativa v. Spinicci (2011b).
  31. ^ Vi è un’ampia letteratura sull’inefficienza burocratica (Mueller, 2003) e fenomeni collegati, come la corruzione. Sul problema specifico della corruzione cfr., ad esempio, Mishra (2005).
  32. ^ Le privatizzazioni si sono rivelate impopolari fin dalle prime esperienze negli anni ’90, cfr. Kay (1996). Il fenomeno è ora ben documentato ed è disponibile una letteratura che lo esamina da diverse angolature. Checchi et al. (2009) e Bonnet et al. (2011) riportano molti dati sull’America Latina ed enfatizzano l’impatto redistributivo delle privatizzazioni, collegato al problema delle tariffe, come una delle probabili cause dell’opposizione politica. Van Gyes et al. (2009) esaminano le posizioni del pubblico verso la privatizzazione/liberalizzazione in alcuni paesi europei e rilevano un livello di insoddisfazione nei confronti delle tariffe elettriche. Lobina e Hall (2003) e Hall et al. (2005) offrono un quadro dei movimenti anti-privatizzazione nel mondo, con riferimento particolare all’acqua, e indicano una serie di possibili cause economiche, tra cui le tariffe.
  33. ^ Cfr. Birchall (2011) per ulteriori considerazioni sulle prospettive di sviluppo della cooperazione di utenza nei servizi pubblici.
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