Uno dei tratti definitori delle imprese cooperative è da sempre l’interesse per la comunità, tratto che può assumere diverse sfaccettature, emergendo come conseguenza indiretta e non programmata dell’azione o all’opposto come elemento identitario della propria mission. Così, quando oggi si parla di cooperative di comunità, il confine tra questa nuova forma organizzativa e quelle cooperative tradizionali che ricoprono una forte funzione sociale e coinvolgono nella loro base sociale elevate percentuali di cittadini diviene piuttosto flebile. Il paper riflette su questa linea di demarcazione attraverso il caso studio delle cooperative di consumo trentine, identificando in base a quali elementi anche queste cooperative potrebbero definirsi cooperative di comunità e discutendo sulle implicazioni che un’eventuale legge sulle cooperative di comunità potrebbe avere per queste cooperative (e simili).
Since longtime, one of the defining traits of cooperative enterprises is their interest in the community, a trait that may acquire different features, thus emerging as an indirect and not-planned consequence of the action or, on the contrary, as an identificatory element of its own mission. Therefore, nowadays the boundary the boundary between the new organizational form of community cooperatives and that of traditional cooperatives, playing a strong social role and involving in their social base a large percentage of citizens, becomes somewhat weak. This paper focuses on this demarcation line by analyzing the case study of consumers’ cooperatives of the region of Trentino, by identifying the defining elements of these organizations as community cooperatives, and by discussing the effects that a targeted legislation may have on community cooperatives.
Nell’analisi dell’attuale scenario nazionale due dati emergono con chiarezza a sostegno del ruolo che la cooperazione riveste nel sistema socio-economico: la sua resilienza, la capacità di crescita e la propensione del movimento a rispondere a bisogni nuovi e in aumento. Guardando ai dati nazionali (Euricse, 2015) si rileva infatti che il numero di cooperative è cresciuto significativamente anche negli anni della crisi - assieme all’occupazione da esse generata - giungendo alle circa 70mila unità con 1.257.213 lavoratori occupati a fine 2013. Inoltre, tale crescita è stata garantita prevalentemente dal settore dei servizi sanitari ed assistenziali (che hanno registrato un aumento nel quinquennio 2008-2013 del 31% rispetto al valore della produzione e del 17,3% dell'occupazione). La lettura congiunta di questi dati pone di fronte ad una constatazione: la forma cooperativa rappresenta un modello resiliente e soprattutto capace di rispondere alla crisi anche per la sua capacità di internalizzare i problemi sociali, occupazionali e i bisogni emergenti trovando un modello solidale di risposta agli stessi. La cooperazione è in effetti, dal punto di vista definitorio e storico, un modello organizzativo generato dal basso, attraverso l’iniziativa di cittadini auto-organizzati, per rispondere ai fallimenti del mercato e dell’offerta di servizi da parte dell’ente pubblico. La cooperazione è una forma volontaria di azione coordinata e collaborativa tra soggetti che hanno un obiettivo diverso dal profitto.
E’ inoltre utile ricordare come nell’evoluzione storica della forma cooperativa siano progressivamente nate tipologie di cooperative atte a risolvere di volta in volta problemi collettivi diversi: i problemi della marginalità di alcune aree territoriali (con la conseguente capacità delle cooperative di rispondere ai bisogni di credito, di consumo, di occupazione delle stesse comunità); il problema crescente della carenza di servizi sociali o della scarsa qualità e diversificazione dei servizi offerti dal pubblico (che ha promosso la nascita negli anni ‘70 delle cooperative sociali); il problema della fornitura di energia nei territori limitrofi e della sua fornitura a prezzi non monopolistici (che ha stimolato lo sviluppo di cooperative di utenza). Per citarne alcuni.
Le problematiche collettive sono oggi diverse, ma si presenta con crescente frequenza - almeno in alcuni territori - la necessità di rigenerare il tessuto socio-economico, di sostenere lo sviluppo locale, di offrire una pluralità di servizi alla comunità, di ridare valore ai beni comuni, di investire con la comunità per la comunità. Forme auto-organizzate di cittadini hanno cominciato a riconoscersi come cooperative di comunità poiché vedono come tratto distintivo il coinvolgimento dei cittadini nella rigenerazione del proprio territorio. Anche dal punto di vista legislativo, alcune regioni (dalla Puglia alla Liguria, passando per il Piemonte) hanno promosso proprie normative istitutive della qualifica di cooperativa di comunità, assegnando a queste organizzazioni il compito di soddisfare interessi diffusi del territorio mantenendo una chiara funzione sociale. E’ l’ennesimo passo della cooperazione verso l’obiettivo di promuovere l’empowerment dei cittadini, il coinvolgimento attivo, la partecipazione alla realizzazione di beni comuni.
Dinanzi a questa naturale evoluzione, il sistema cooperativo e il legislatore nazionale stanno compiendo i primi passi per giungere a definire e regolamentare la nuova forma (o formula) cooperativa. Ciononostante, il percorso è alquanto articolato poiché l’istituzione di una nuova forma giuridica potrebbe rischiare di creare confusione nel movimento, competizione, iniquità di trattamento. Molti i punti aperti, anche se a ben guardare gli stessi ruotano di per sé attorno al macro-dilemma: quando possiamo definire un’impresa come “cooperativa di comunità”?
Il termine comunità rientra spesso nella missione delle cooperative, indipendentemente dalla loro forma, e il settimo principio cooperativo (ICA International Co-operative Alliance, 1995) parla esplicitamente dell’interesse delle cooperative per la comunità. La comunità è in sintesi uno stakeholder fondamentale per le cooperative, che alla comunità offrono spesso i loro servizi, che nella comunità sviluppano relazioni e fiducia, che sulla comunità riversano le loro ricadute sociali ed economiche, facendo quindi della comunità il soggetto della loro funzione sociale. Rispondere quindi alla domanda precedente richiede di definire il confine tra interesse per la comunità (o funzione sociale) e cooperativa di comunità.
Il presente articolo vuole riflettere sul tema per comprendere i possibili effetti, sulle cooperative esistenti, di una legge istitutiva delle cooperative di comunità. Se la tassonomia delle cooperative aveva finora identificato la tipologia in base allo stakeholder proprietario (il lavoratore, il produttore agricolo, il consumatore etc.) o in base all’oggetto allargato (l’azione sociale), l’introduzione di un concetto trasversale - quale potrebbe essere quello di cooperativa di comunità - potrebbe portare a discutere sull’identificazione delle forme esistenti nella nuova tipologia. Nel presente lavoro, dopo una riflessione sui parametri che possono definire una cooperativa di comunità e dopo aver ragionato sul teorico continuum tra funzione sociale e cooperazione di comunità, si affronta l’analisi della cooperazione di consumo per comprendere se e in qual modo una tipologia esistente di cooperative potrebbe convertirsi in impresa di comunità.
La scelta di analizzare la cooperazione di consumo nasce da una constatazione sulla sua struttura e natura: la cooperazione di consumo rappresenta in molti territori, soprattutto montani o rurali, una risposta alla marginalizzazione di aree a rischio di spopolamento, un soggetto che coinvolge nella propria base sociale percentuali anche molto elevate di cittadini, un’impresa in grado di offrire servizi essenziali anche diversificando progressivamente la propria offerta, un soggetto strettamente legato al territorio. Attraverso l’analisi di alcuni dati di ricerca, si vuole comprendere se, e con quali eventuali necessità riorganizzative, la cooperazione di consumo rappresenti o possa rappresentare una forma di cooperativa di comunità.
Rispondere a queste domande non è cosa semplice poiché mancano - quantomeno in Italia - precisi e condivisi riferimenti tanto normativi quanto teorici. Da una parte i riferimenti normativi sono pochi, in parte differenziati tra regioni e comunque non ancora espressione condivisa del movimento cooperativo; dall’altra, l’attenzione degli studiosi è stata rivolta prevalentemente alle cooperative di utenza e solo di recente le analisi teoriche ed empiriche si sono estese al concetto di cooperative di comunità, anche se concentrandosi, per ora, su singoli casi studio e su situazioni di recupero di beni pubblici da parte di cooperative.
I dati che si presentano sono frutto di una ricerca realizzata nel 2014 su 58 cooperative di consumo trentine attraverso la somministrazione di questionari. Il presente articolo presenterà un estratto dei risultati raggiunti, per evidenziare i tratti della funzione sociale di queste organizzazioni; l’analisi sarà poi integrata con interviste ai direttori di 3 cooperative di consumo che nel corso del questionario avevano ritenuto come realistica la possibilità di trasformarsi o identificarsi - in un prossimo futuro - in una cooperativa di comunità.
Mutualità e funzione sociale non si presentano come un ossimoro, quanto piuttosto come elementi definitori delle imprese cooperative. Infatti esse sono caratterizzate da: un governo democratico, rispettoso del principio “una testa - un voto” (e quindi di assegnazione ai soci di uguale potere decisionale indipendentemente dalle quote di capitale sottoscritte); mutualità, intesa come erogazione dei propri servizi ai soci-proprietari dell’organizzazione e quindi come perseguimento prevalente del loro interesse[1]; porta aperta, indicata dai principi cooperativi come accettazione nella base sociale di chiunque ne faccia domanda. L’allargamento al perseguimento del benessere della comunità locale è poi obiettivo esplicitamente previsto dal settimo principio cooperativo, denominato “interesse verso la comunità”. Cita infatti lo stesso principio della Dichiarazione di identità cooperativa: “Le cooperative operano per uno sviluppo durevole e sostenibile delle proprie comunità attraverso politiche approvate dai propri soci” ossia esse hanno non solo un carattere puramente imprenditoriale o mutualistico, ma il compito di contribuire a risolvere i problemi sociali ed economici della comunità (ICA International Co-operative Alliance, 1995).
Da qui l’emergere dei due concetti di mutualità e di funzione sociale, con i quali si vuole esprimere rispettivamente l’attenzione agli interessi del socio-proprietario piuttosto che della società nel suo complesso. La funzione sociale viene in particolare già ad introdurre il fatto che la cooperativa rivesta, nella propria comunità di riferimento, un ruolo particolare (Bagnoli, 2011; Bonella, 2001).
Quale differenza, allora, tra l’essere cooperativa tradizionale che esprime la propria funzione sociale perseguendo anche l’interesse della comunità e cooperativa di comunità? In assenza di una regolamentazione nazionale o di un’univoca condivisione di quali siano i tratti che definiscono una cooperativa di comunità, la sovrapposizione - e confusione - tra i due concetti potrebbe essere alta. Ci sembra tuttavia esplicito nella definizione stessa di funzione sociale un elemento che contraddistingue le cooperative ordinarie con funzione sociale dalle cooperative di comunità: nel primo caso la cooperativa dimostra “interesse verso” la comunità; nel secondo è “costituita dalla” comunità.
In altri termini, la demarcazione tra funzione sociale delle cooperative ed essere cooperativa di comunità potrebbe derivare innanzitutto dalla prevalenza dell’obiettivo: per le cooperative con funzione sociale, l’obiettivo prevalente è il benessere dei soci e il prodotto indiretto dell’attività è il benessere della comunità, mentre per le cooperative di comunità obiettivo primario è rispondere ai bisogni (anche eterogenei) della comunità. Limitandoci a questa prima distinzione (obiettivo) potrebbe accadere che cooperative situate in zone periferiche (prevalentemente rurali o montane, ma anche quartieri urbani caratterizzati da problematiche comuni) possano essere definite cooperative di comunità nel momento in cui riescono ad assumere come obiettivo prevalente lo sviluppo del territorio e il sostegno dei sistemi socio-economici locali. Le piccole cooperative di consumo, ad esempio, rappresentano per alcune aree territoriali l’unico esercizio commerciale per soddisfare il bisogno primario alimentare della comunità. Le cooperative agricole hanno garantito spesso la sopravvivenza di culture e attività economiche prevalenti, rispondendo al rischio di declino demografico e mantenendo vive e sostenibili le comunità. Ed altri potrebbero essere gli esempi da cui dedurre che sicuramente la funzione sociale di queste cooperative è rilevante e forse rappresenta, anche se non lo dichiarano, un obiettivo primario dell’attività.
Altro criterio per distinguere tra funzione sociale delle cooperative e cooperative di comunità potrebbe essere quello della composizione della base sociale. Se le cooperative rappresentano tipicamente una sola tipologia di portatori di interessi, le cooperative di comunità dovrebbero avere una base sociale e una governance inclusiva della comunità. Anche da questa prospettiva, si possono avere casi ibridi: in molti territori periferici e tanto più laddove la forma cooperativa rappresenta una sorta di monopolista locale (se non dal punto di vista economico-operativo almeno da quello culturale) si verifica che l’intera comunità partecipa alla cooperativa ed è quindi socia. Esistono così, ad esempio, cooperative di credito in cui tutti o quasi gli abitanti del territorio sono soci e non solo clienti della banca; cooperative di consumo nelle quali ogni cliente ha anche deciso di sottoscrivere la quota di adesione come socio. Talvolta per convenienza economica; talvolta più per condivisione valoriale e comprensione del ruolo che la cooperativa ha per il proprio territorio.
In entrambe queste prospettive, un fattore sembra comune: la cooperativa diviene un elemento naturale di (interesse per la) comunità quando si colloca in territori marginalizzati per rispondere a problemi collettivi. Questi elementi permettono infatti di riconoscere in maniera più caratterizzante la “funzione sociale e comunitaria” della cooperativa. Il criterio della territorialità e dell’azione in territori marginalizzati può quindi essere adottato come distintivo per la definizione delle cooperative di comunità? Alcune leggi regionali sembrerebbero andare in questa direzione, riconoscendo l’appellativo (o qualifica per ora) di cooperative di comunità a quelle cooperative situate in territori circoscritti, identificabili e marginalizzati, dove il ruolo della cooperativa è contrastare fenomeni di abbandono, spopolamento, declino economico e degrado sociale o urbanistico. Criterio forse limitativo, se finisse per escludere quelle cooperative che anche nelle grandi aree urbane o con appendici disseminate sul territorio presentano comunque tratti del soddisfacimento di bisogni essenziali della comunità.
Da qui emerge un altro elemento che potrebbe - o dovrebbe - distinguere le cooperative di comunità dalla mera funzione sociale: l’oggetto dell’attività condotta. Se la cooperativa di comunità deve soddisfare un bisogno comune o collettivo, esso corrisponderà prevalentemente ad un bisogno primario dell’uomo ovvero di natura prevalentemente sociale, ricadendo nell’area dei servizi pubblici. Tuttavia, se il criterio dell’oggetto viene applicato in maniera restrittiva, vengono di conseguenza escluse dall’essere classificate come cooperative di comunità tutte quelle organizzazioni che pur avendo una funzione o ricadute sociali, sono attive in settori tradizionali.
Infine, ma certamente non da ultimo, le cooperative di comunità possono essere identificate in quelle organizzazioni che puntano a recuperare, riqualificare e sviluppare le risorse tangibili e intangibili di un determinato luogo, con l’obiettivo di rilanciarne lo sviluppo socio-economico e di soddisfare anche indirettamente i bisogni e gli interessi di tutti i membri di quella comunità, e non solo di una parte di essi. In tale visione, la cooperativa di comunità deve essere legata al recupero di beni del territorio e alla valorizzazione degli input locali e produrre beni, anche eterogenei, rivolti a tutti i membri della comunità. Verrebbero quindi escluse dalla qualifica di cooperative di comunità tutte quelle organizzazioni che non recuperano asset o risorse locali utilizzandole poi per offrire servizi di interesse comunitario. I casi di cooperative di consumo, agricole o di credito descritti in precedenza non assumerebbero quindi le forme di cooperative di comunità se non i casi eccezionali e diversificando la loro attività.
Difronte ad un vacuum legislativo che definisca la cooperativa di comunità, quindi, la riflessione non può che guardare, congiuntamente, ai fattori sopradescritti e alle diverse declinazioni che l’interesse per la comunità può assumere. E’ interessante ricordare il significato che la parola “comunità” può avere: per l’ecologia, la comunità è l’insieme degli organismi e degli individui che condividono uno stesso sistema geograficamente limitato; in senso sociologico, la comunità è identificata da tradizioni e valori identitari che accomunano gli appartenenti al gruppo; l’approccio psicologico afferma che la comunità è l’istituzione massima in grado di influenzare comportamenti e senso di appartenenza dell’individuo e di garantirne la protezione attraverso una rete sociale. Più dettagliatamente poi, si riconosce nella comunità societaria il sottosistema della società che ha come funzione l’integrazione, che è basato sulla lealtà e che presuppone che i suoi membri rispettino l’interesse collettivo e la solidarietà interna. Se le cooperative sono in generale organizzazioni del territorio, in grado di sviluppare fiducia, solidarietà e valori tra i loro appartenenti, con l’obiettivo di soddisfare bisogni collettivi, allora certamente la comunità è al centro dell’azione cooperativa.
Figura 1: La costellazione dell’impresa cooperativa nello spazio della socialità dell’azione
Una costellazione di cooperative, all’interno di uno spazio caratterizzato dalle molteplici sfaccettature della territorialità, della socialità dell’azione e del coinvolgimento della comunità, può in sintesi schematizzare l’eterogeneità dei modelli (Figura 1): da cooperative in cui la comunità sono i soci e il concetto prevalente è la mutualità; a cooperative con spiccati obiettivi e funzione sociale, in cui i cittadini di un territorio identificato appartengono alla base sociale della cooperativa e perseguono obiettivi simili e di interesse generale per rafforzare dal punto di vista economico-sociale il proprio territorio; a cooperative in cui la comunità ha fondato l’organizzazione con l’esplicito obiettivo di valorizzare risorse locali e recuperarne asset al fine di soddisfare esigenze collettive, sociali, eterogenee.
Dalla riflessione si qui proposta, nasce quindi la domanda di quali siano i tratti che fanno di una cooperativa che è oggi costituita secondo le ordinarie forme giuridiche una cooperativa di comunità. O quali sarebbero, secondo una diversa prospettiva, i cambiamenti che una cooperativa ordinaria dovrebbe affrontare per divenire impresa di comunità? Già ora alcune cooperative si auto-definiscono “di comunità” poiché si riconoscono fortemente negli elementi della territorialità, dell’azione di sostentamento e recupero di territori e di società a rischio di marginalizzazione, e nel coinvolgimento di intere comunità nella propria base sociale.
Partire da un settore specifico ed identificare per una specifica forma cooperativa i tratti della funzione sociale, della sua azione per la comunità (e ad opera della comunità) permetterà nel seguito del paper di rispondere, almeno parzialmente, alle domande poste. Il modo più semplice per analizzare i tratti distintivi delle cooperative oggetto di indagine è verificare quanto esse possano definirsi sociali negli obiettivi piuttosto che strettamente mutualistiche.
Le piccole cooperative di consumo rappresentano sotto più profili un esempio concreto di cooperative con caratteristiche vicine a quelle delle cooperative di comunità: coinvolgono nella loro base sociale ampie percentuali di popolazione locale; agiscono spesso in territori marginalizzati, montani o rurali, dove il rischio di spopolamento è elevato; offrono servizi essenziali e di interesse generalizzato, agendo spesso come uniche garanti del mantenimento dell’offerta di prodotti di prima necessità. Analizzare questo settore sembra quindi adeguato per cominciare ad interrogarsi su quanto queste cooperative abbiano semplicemente una funzione sociale (seppur consistente), quanto esse continuino a mantenere come prevalente l’interesse dei soci piuttosto che quello della comunità, o quanto al contrario stiano diventando istituzioni volte a soddisfare bisogni anche diversificati dei cittadini e della comunità, secondo logiche strettamente collettive e partecipate.
L’analisi che segue prende come riferimento cooperative di consumo trentino, prevalentemente organizzazioni di piccola dimensione, dislocate in quasi tutte le municipalità presenti nella provincia, soprattutto in valli e piccoli centri. La metodologia utilizzata è la raccolta dati attraverso questionario[2]; in questo articolo verranno presentate solo le domande pertinenti con la dimensione comunitaria. Alcune sezioni del questionario permettono di distinguere tra diversi livelli in cui si struttura la funzione sociale e il rapporto con la comunità.
Primo aspetto di analisi è l’attivazione del socio, non solo in termini di partecipazione economica e proprietaria, ma come suo coinvolgimento nella realizzazione di nuove attività e servizi, nonché la presenza di “iniziative sociali” della cooperativa come: educazione al consumo consapevole; campagne in difesa della salute o a sostegno della solidarietà locale o internazionale; iniziative per rendere la base sociale responsabile e partecipe (con due possibili ripercussioni: da un lato accrescere il capitale sociale, dall’altro ampliare la percezione dei bisogni del socio e l’attenzione dello stesso alle problematiche della comunità).
Altro fattore analizzato è l’attenzione della cooperativa ai bisogni del territorio e la capacità di promuovere politiche per affrontarli. Il territorio esprime realtà e culture diverse: compito della cooperativa di comunità dovrebbe essere anche quello di cogliere e valorizzare tanto le proprie specificità territoriali quanto le diversità di bisogni, prospettive, sensibilità presenti nella collettività.
Infine, si è chiesto alle cooperative se si sentono cooperative di comunità o vedono come prospettiva futura il divenirlo.
Le cooperative di consumo - aderenti alla Federazione Trentina della Cooperazione - oggetto dell’indagine sono 76, di cui due risultano inattive e la cui gestione è affidata al consorzio di riferimento. La localizzazione geografica evidenzia una distribuzione capillare, che va ad interessare tutte le valli, ed in molti casi anche centri abitati di piccolissime dimensioni.
Nel 2013 erano 204 le località del Trentino in cui il punto vendita cooperativo rappresentava l’unico negozio dove acquistare beni alimentari a costi contenuti. Nel dettaglio, il 29,7% delle cooperative di consumo esercita la propria attività in aree con meno di 1.000 abitanti ed un ulteriore 21,6% in zone con un numero di abitanti compreso tra 1.000 e 2.500. Le cooperative di consumo riescono ad avere un forte impatto sul territorio anche grazie alla presenza, in molti casi, di filiali distaccate in comuni di piccolissime dimensioni, aspetto che va ad amplificare la relazione con le comunità locali. A titolo comparativo, sono parte dell’universo delle cooperative di consumo anche quelle cooperative che, con la propria attività e spesso con più filiali agiscono in territori con più abitanti: il 25,7% delle cooperative di consumo trentine ha come territorio di riferimento aree con un numero di persone comprese tra i 5.000 ed i 10.000 e nel 10,8% agiscono in aree con più di 10.000 abitanti.
Si devono poi tenere presenti alcune altre specificità delle cooperative analizzate. In primo luogo, il loro radicamento storico: il 53,5% delle cooperative di consumo analizzate vede la sua origine nei primi anni di sviluppo del fenomeno cooperativo in Trentino (fine diciannovesimo secolo) e un altro 31% presenta esperienza quasi centenaria essendo stata fondata prima del 1925. In una storia così radicata, anche le relazioni con la comunità e l’elemento della territorialità vengono ad assumere dimensioni molto forti, poiché le cooperative sono ormai considerate in tutto e per tutto come le organizzazioni del e per il territorio. E’ vero tuttavia che anche laddove il radicamento è elevato, le pressioni concorrenziali e le necessità economiche hanno portato, negli anni, molte cooperative di consumo ad esasperare la dimensione commerciale, sacrificando talvolta la visione dell’interesse del socio o della comunità.
In secondo luogo, le possibili politiche di apertura alla comunità da parte delle cooperative di consumo potrebbero essere spiegate anche da una diversa capacità economico-finanziaria e da rischi di insostenibilità di lungo periodo tali per cui le cooperative più in difficoltà tendono a ricercare un maggior coinvolgimento della comunità e ad un ampliamento dei servizi offerti più per necessità che per missione. Le cooperative di consumo trentine sono caratterizzate, sotto questo profilo, da un fatturato nel 56,6% dei casi inferiore a 3 milioni di euro; solo il 10,5% delle cooperative presenta un valore superiore ai 10 milioni di euro e si tratta - in linea con le aspettative - delle cooperative situate nei centri di maggiori dimensioni.
Rispetto all’universo sin qui descritto, ha risposto all’indagine il 74,4% delle organizzazioni (58 cooperative su 78). La rappresentatività statistica dell’universo risulta buona sia dal punto di vista della copertura territoriale, che per numero di soci e per dimensione economico-finanziaria.
Nei punti che seguono, alcune delle domande del questionario sono state aggregate per mettere in rilievo le caratteristiche che potrebbero distinguere una cooperativa tradizionale da una cooperativa di comunità: l’azione in e per territori marginalizzati, il coinvolgimento attivo della comunità e dei suoi stakeholder, la mission e l’azione a favore della comunità, il confine tra funzione sociale e azione di comunità.
Uno dei parametri che sembra oggi definire la rilevanza di una cooperativa per la sua comunità è la marginalità dei territori di riferimento. Osservando i dati sulle cooperative di consumo emerge che il presidio dei territori è stato storicamente uno dei motivi fondamentali della nascita delle cooperative di consumo nei piccoli paesi montani del Trentino: l’85% delle cooperative intervistate (92,3% per le cooperative situate in territori con meno di 1.000 abitanti) dichiara che al momento della loro fondazione non esistevano altre organizzazioni simili nella comunità di appartenenza o, se esistevano, offrivano una varietà ridotta di prodotti. Il ruolo di risposta a problemi insoddisfatti in territori completamente marginalizzati è comunque venuto meno nel tempo: oggi sono solo 7 le cooperative che continuano ad essere l’unico punto vendita nella propria area di competenza (tutte in territori con meno di 2.500 abitanti).
Le cooperative di consumo ritengono importante continuare ad offrire servizi anche nelle aree più marginali? Le intervistate dichiarano con ampio accordo (valore medio 6,2 | scala da 1 a 7) che è nel proprio ruolo tenere aperti anche i piccoli punti vendita dislocati sul territorio, anche a rischio di danno economico. Si trovano in questa situazione - in modo polarizzato - le cooperative che servono territori con meno di 1.000 abitanti e quelle che agiscono in centri con più di 5.000 abitanti; le prime sembrano difendere direttamente la funzione sociale ricoperta, le seconde sembrano più interessate ad investire individualmente (o in rete) affinché la cooperativa di consumo continui a soddisfare bisogni primari in territori più isolati o marginalizzati.
Le cooperative di consumo si attribuiscono una buona socialità dell’azione; secondo un discreto accordo vedono una relazione tra le proprie attività e la produzione di esiti sociali positivi (valore medio 5 | scala da 1 a 7) e hanno una visione di quali cambiamenti sociali promuovere (5). Un po’ meno di rilievo l’attitudine a tenersi informate sui bisogni dei clienti-cittadini (4); in questo mostrano una maggiore sensibilità le cooperative di piccole dimensioni, che sono anche più facilitate nel raccogliere informazioni sul ridotto numero di soci (meno di 1.000).
Alle cooperative di consumo intervistate è stato poi chiesto quali siano le strategie future auspicate, anche per rispondere all’attuale crisi; se il 25,9% vede quale prima strategia l’investimento nei settori di attività tradizionali - e quindi il miglioramento della qualità dei beni e servizi già offerti (valore medio 6 | scala da 1 a 7), la tendenza più diffusa è aumentare la quantità e varietà dei servizi, e il numero di clienti raggiunti (innovazione espansiva) (6). Da questa parte di indagine emerge dunque un’attenzione alla diversificazione dei servizi e alla possibilità di rispondere ai nuovi bisogni della comunità.
In questa logica il coinvolgimento della comunità diverrebbe un elemento strategico, capace non solo di soddisfare maggiormente i cittadini, ma anche di generare economie di scala e sostenibilità della cooperativa nel lungo periodo. Non vi è tuttavia una correlazione tra dimensione della cooperativa e strategia di apertura ai nuovi bisogni, risultando forse il tema piuttosto delicato e la capacità di risposta ai bisogni della comunità dipendente anche dalle risorse economiche disponibili.
Tabella 1: Possibili strategie future delle cooperative [numero di cooperative / numero di abitanti; valori medi su scala da 1 a 7].
Se si guarda ad alcune dimensioni dell’impatto delle cooperative di consumo sul territorio, le stesse affermano di non ritenere di influenzare significativamente il benessere e la vita degli stakeholder (valore medio 4,5 | scala da 1 a 7), e non sembrano dare particolare importanza alla collaborazione con partner chiave del territorio al fine di aumentare il loro impatto sociale (4,4). Dimensioni che inducono a pensare che il coinvolgimento sia effettivamente poco marcato e la partecipazione reale da sviluppare, soprattutto nell’ottica di una migliore capacità di rappresentare interessi e bisogni diversificati.
Un ultimo dato più di natura qualitativa risulta, a nostro avviso, interessante: se è vero che, come prevedibile, la maggior parte delle strutture nelle quali le cooperative svolgono la propria attività è di proprietà (179 su 292) o in affitto (64), ben 27 cooperative (con 47 strutture utilizzate) esercitano la propria attività in edifici offerti in concessione da parte dell’ente pubblico. Questo dato è interessante da un lato perché identifica la natura eterogenea dei rapporti con la comunità e, dall’altro, perché legato ad un punto di discussione nella definizione delle cooperative di comunità: la gestione di asset o di beni pubblici o comunitari, che risulterebbe quindi presente - stando ai dati - in una percentuale non ridotta di cooperative di consumo.
Una ulteriore caratteristica che dovrebbe essere distintiva di una cooperativa per definirsi cooperativa di comunità è il coinvolgimento dei cittadini nella base sociale, aspetto che può essere declinato in almeno due modi: attraverso il coinvolgimento nella propria base sociale di una percentuale significativa di cittadini della comunità oppure quando la base sociale e gli organi decisionali sono comunque organizzati e gestiti in modo da tenere in considerazione e soddisfare gli interessi di gruppi diversificati di cittadini.
L’analisi delle cooperative di consumo trentine evidenzia una buona adesione dei cittadini alla base sociale, con una media provinciale di 1.430 soci a cooperativa, per un totale di 77.801 soci nelle 58 cooperative rispondenti all’indagine[3]. La maggior parte delle cooperative è dislocata nelle valli laterali della regione e in piccoli comuni (questo influenza anche la propensione all’adesione degli abitanti alla cooperativa). Il 13,8% delle cooperative di consumo accoglie nella propria base sociale più della metà della popolazione residente nella propria area di competenza; un ulteriore 38% ha un numero di soci compreso tra il 30 e il 50% della popolazione residente. Solo 2 cooperative (3,4%) hanno nella propria base sociale meno del 10% della popolazione residente (in uno dei due casi si tratta di una cooperativa situata nella valle centrale del Trentino, la Valle dell’Adige). Se una legge istitutiva delle cooperative di comunità prevedesse vincoli di adesione minima degli abitanti del territorio alla cooperativa, non vi è dubbio che una parte della cooperazione di consumo trentina dovrebbe rinunciare a questo requisito, mentre altre dovrebbero rafforzare le politiche di adesione della comunità alla base sociale. Non vi è comunque una netta sovrapposizione tra dimensione del territorio di competenza e capacità di coinvolgimento della cittadinanza nella base sociale: tra le cooperative con percentuale di adesione più elevata rientra anche una cooperativa che opera in un territorio di oltre 30mila abitanti; tra le cooperative in cui la base sociale supera il 30% degli abitanti vi sono anche 5 cooperative che agiscono su territori con più di 5mila abitanti.
Quali possono essere ulteriori criteri per verificare il grado di partecipazione della comunità alla cooperativa? Un primo semplice elemento è la partecipazione dei soci alle assemblee. Il 59% delle cooperative di consumo analizzate dichiara di avere tassi di affluenza inferiori al 25% della propria base sociale e nessuna cooperativa registra tassi di partecipazione superiore al 75%. Solamente 3 cooperative - tutte di piccole dimensioni e collocate in comuni con pochi abitanti - dichiarano di avere percentuali di partecipazione comprese tra il 50% ed il 75%.
Una seconda forma di coinvolgimento della comunità è rappresentata dall’organizzazione di momenti di incontro e partecipazione attiva. Al riguardo emerge che solo 5 cooperative di consumo organizzano assemblee straordinarie coi propri soci; 20 cooperative si impegnano in ulteriori incontri formali dedicati ai soci ed incontri aperti al territorio. In 15 di esse si promuovono anche momenti di incontro informale, con gite, serate informative (tra cui la “serata del socio”), concerti, spettacoli, colloqui, corsi formativi.
L’adesione della comunità dovrebbe poter poi emergere anche nel coinvolgimento nella governance e nei processi decisionali. Rispetto alla composizione dei consigli di amministrazione, le cooperative di consumo oggetto di indagine coinvolgono 566 persone. Se tuttavia nella base sociale sono comprese anche persone giuridiche, ciò non accade nei consigli di amministrazione. Inoltre, vi è scarsa apertura del CdA anche a rappresentanti della società civile locale (valore medio di 3,62 | scala da 1 a 7). Esistono poi anche organismi integrativi finalizzati a garantire l’ascolto e la partecipazione attiva del socio anche nel processo decisionale; gli organi di governo con funzione di intermediazione sono adottati tuttavia da sole 5 cooperative, che nello specifico prevedono al loro interno il “comitato dei rappresentanti dei soci”. Molte cooperative affermano di voler migliorare le politiche di coinvolgimento e prevedono di istituire in un vicino futuro organismi di rappresentanti dei soci (per 14 cooperative) o comitati di soci su base territoriale (per 13 cooperative). Inoltre, se il 57% delle cooperative di consumo afferma che sta studiando nuove modalità di coinvolgimento dei soci nelle assemblee (anche se non ha ancora trovato il modo più opportuno per farlo), ben 10 cooperative hanno indicato di non ritenere necessario trovare nuove modalità di coinvolgimento dei soci.
L’identità di una cooperativa si verifica poi nella composizione degli organi gestionali. La base sociale delle cooperative di consumo intervistate sembra potersi definire per alcuni aspetti multi-stakeholder, vista la presenza di organizzazioni del territorio che possono portare specifiche esigenze ed interessi nella base sociale: se la maggioranza dei soci sono ovviamente “consumatori persone fisiche” (circa 81% di 77.801, di cui più della metà donne), a molte cooperative aderiscono anche lavoratori (804 soggetti in totale) e in alcuni casi volontari (22). In non pochi casi aderiscono alla base sociale anche altre organizzazioni o persone giuridiche: cooperative e associazioni (presenza di 142 cooperative socie totali, concentrate in 20 delle cooperative di consumo intervistate), organizzazioni for profit (86 socie, presenti in 14 cooperative di consumo), enti pubblici (35 soci, presenti in 10 cooperative di consumo). Sono tuttavia solo 6 le cooperative che, riclassificando le tipologie di soci, presentano una base sociale estremamente allargata e differenziata, coinvolgente persone fisiche e giuridiche con natura e ruoli differenziati, che possono rappresentare quindi stakeholder eterogeneamente rappresentativi della comunità.
Possiamo chiederci quale possa essere l’eterogeneità di interessi, se la cooperativa offre un bene prevalente (i.e. generi alimentari e di primo consumo) e ha una attività ben identificata e tipicamente circoscritta. Le cooperative intervistate, chiamate ad auto-valutare la propria capacità di identificare e soddisfare i bisogni degli stakeholder, affermano che principale bisogno ed aspettativa prevalente della comunità e dei soci è quella di poter acquistare beni e servizi senza doversi spostare (46%), di godere di vantaggi economici legati alla natura associativa (27%) e di pagare a fine mese senza costi e commissioni (17%). A questi bisogni propri della natura di cooperativa di consumo, si aggiungono anche altre funzioni: la possibilità di trovare nella cooperativa un punto di incontro e di socializzazione (punteggio medio di 7,07| scala da 1 a 10) e il condividere con la cooperativa ideali e valori (punteggio medio di 6,82).
L’attenzione ai bisogni dei soci emerge anche da un’altra domanda rivolta alle cooperative, nella quale le stesse affermano nel 53% dei casi sarebbe opportuno lasciare spazio ai soci e trovare occasioni per permettere agli stessi di avanzare proposte su nuove attività e servizi che la cooperativa potrebbe offrire.
Per indagare il grado di sviluppo della funzione sociale, è utile osservare gli elementi identitari e fondativi delle cooperative e quindi la mission dichiarata e attuata, spaziando dalla natura mutualistica in senso stretto, (la cooperativa che mette come prioritario l’interesse del socio), alla ricerca di soddisfare interessi più ampi (sebbene limitatamente ad una omogenea tipologia di portatori di interesse, il consumatore) fino alla funzione sociale estesa alla comunità. Dai dati emerge una certa eterogeneità di interessi: circa un terzo delle cooperative di consumo (39,7%) ha come prioritario il perseguimento degli interessi dei soci e questa percentuale è particolarmente elevata tra le grandi cooperative (raggiungendo il 71,4% tra quelle con fatturato superiore ai 10 milioni di euro); all’opposto, sono le cooperative di consumo più piccole ad avere come mission prevalente il perseguimento degli interessi generali del proprio territorio (85,7% delle cooperative con un fatturato inferiore a 500mila euro).
Per trovare riscontro concreto nell’identificazione dei bisogni eterogenei e del perseguimento dell’interesse sociale, è possibile osservare innanzitutto i dati sul rapporto con le diverse tipologie di clienti-soci. Più della metà delle cooperative rispondenti (51%) ritiene che la categoria degli anziani sia quella ad accedere maggiormente al punto vendita e quindi sia più che rappresentata rispetto alla composizione della comunità; più difficile è invece il coinvolgimento dei giovani, che secondo il 74% delle cooperative di consumo sono decisamente meno rappresentati dalla cooperativa rispetto alla loro presenza nella propria comunità di riferimento. Si può quindi affermare che il target è spostato su una tipologia di soggetti prevalente e incontra difficoltà a farsi portavoce e soggetto che coinvolge soprattutto la componente più giovane della comunità.
Altro dato a supporto dei diversi impegni delle cooperative verso la comunità o verso il socio è rappresentato dalle politiche sostenute a livello organizzativo rispetto alla distribuzione degli utili. Sebbene le risposte possano essere influenzate dalla diversa capacità economica delle organizzazioni, è interessante osservare come tra le cooperative di maggiori dimensioni (specialmente quelle con più di 2.500 soci) la maggioranza abbia come politica prevalente la pratica del ristorno, anche se sono presenti cooperative che dichiarano di investire gli utili soprattutto in attività a favore della comunità; nelle cooperative di minori dimensioni, tuttavia, tale percentuale aumenta significativamente e nelle cooperative che agiscono nelle aree territoriali più piccole e coinvolgendo meno soci la decisione è quasi univocamente quella di investire in attività che soddisfino bisogni del territorio - educativi, ricreativi e atti ad influenzare lo sviluppo del territorio. Si tratta quindi di un secondo dato oggettivo che fa presumere una maggiore attenzione alla funzione sociale tra le cooperative nelle aree marginalizzate e di dimensioni minori, evidenziando dei primi tratti di cooperazione di comunità in quanto attente ai diversi bisogni di soci e cittadini.
In relazione a questo aspetto è utile anche verificare quanto le cooperative di consumo intervistate cerchino di individuare i diversi bisogni emergenti del territorio per darvi risposta, aggiornando così la propria mission, l’offerta di beni e servizi, le ricadute della propria azione per il benessere collettivo. Interrogate sulle modalità di monitoraggio dei problemi dei soci e della comunità, le cooperative affermano di utilizzare varie metodologie, anche se quella più utilizzata è senza dubbio la consultazione durante l’assemblea generale (80,7%). Questo strumento risulta tuttavia poco soddisfacente, in termini di coinvolgimento attivo e potere decisionale dei cittadini: i temi prevalenti di discussione sembrano quelli più propri della cooperativa di consumo e solo pochissime cooperative organizzano tavoli e momenti di incontro con la comunità (12,3%) o hanno organi preposti all’analisi della domanda e dei bisogni diversificati della comunità (7%). In modo interessante, tuttavia, queste politiche sono promosse più dalle cooperative di grandi dimensioni, forse per la loro maggiore capacità economica, o forse per un maggior investimento in strategie volte più a identificare l’andamento della domanda che ad intercettare bisogni collettivi eterogenei.
Quando si chiede invece se negli ultimi anni le cooperative abbiano realizzato iniziative specifiche per rispondere ai nuovi bisogni dei soci e della comunità, le cooperative si dividono a metà. Il 49,1% risponde affermativamente e nella maggioranza dei casi si tratta di cooperative di medio-grandi dimensioni; nessuna iniziativa è stata promossa dalle piccolissime cooperative, portando così a pensare che sia l’esiguità di risorse economiche ad influenzare la possibilità di investire concretamente in iniziative di coinvolgimento della comunità.
L’analisi delle tipologie degli interventi promossi permette poi di comprendere “che cosa” le cooperative di consumo intendano per “iniziative a favore della comunità”. Se a prevalere è il tema della solidarietà locale (dove il 37,3% già ha avviato iniziative in tal senso e un 15,3% è intenzionato a realizzarle in futuro) e vi è una quasi ovvia attenzione all’educazione al consumo consapevole (realizzata dal 30,5% e nei progetti futuri del 28,8% delle organizzazioni), una quota non marginale di cooperative monitora e coinvolge i soci-cittadini anche in iniziative su temi di welfare: la salute (realizzata dal 28,8% e prevista dal 23,7%) e la scuola (realizzata dal 22% e prevista dal 15,3%).
Tra le cooperative di consumo risulta quindi una prima presa di coscienza del fatto che la comunità vada coinvolta ed ascoltata anche sulle problematiche di attualità, non solo come momento formativo e culturale, ma possibilmente come sviluppo d’azione o quantomeno di riflessione futura.
Per approfondire il rapporto tra cooperative di consumo e stakeholder, è utile analizzare anche gli elementi che permettono di identificare se la cooperativa persegue gli interessi della comunità di riferimento anche quando lo stakeholder non è direttamente coinvolto nella base sociale. In particolare, in una serie di sezioni del questionario, sono state indagate le relazioni con i singoli portatori di interesse e la visione degli stessi da parte delle cooperative.
In generale, le cooperative di consumo affermano che oltre all’ovvia volontà di dare priorità agli interessi dei soci (98,2%) e dei clienti in generale (84,2%), le politiche aziendali sono attente anche agli interessi e al benessere dei lavoratori (76,4%). Inoltre, nonostante sia emersa una frequente relazione con gli enti pubblici territoriali (il 56,6% delle intervistate si relaziona con pubbliche amministrazioni), i loro interessi vengono presi in considerazione nei momenti decisionali più rilevanti solamente dal 13,7% delle cooperative.
Dall’indagine emerge come le cooperative di consumo siano, a livello territoriale, importanti attori per l’occupazione ed il lavoro. Nel 2013 i dipendenti totali delle 76 cooperative di consumo attive nella provincia di Trento erano 1.845; 1.365 sono i dipendenti nelle cooperative campionate, per una media di 23 persone a cooperativa. L’impatto occupazionale è aumentato nel tempo e anche nel periodo della crisi l’occupazione è cresciuta da 1.211 dipendenti del 2006 ai 1.356 nel 2013. L’impatto occupazionale risulta significativo per le donne (59% dei lavoratori totali) ed anche per i giovani (ben il 20% ha meno di 30 anni), permettendo di garantire occupazione anche ai soggetti meno scolarizzati (il 70% dei lavoratori ha come titolo di studio la scuola dell’obbligo o la scuola professionale). L’occupazione è inoltre prevalentemente locale, con effetti sul già citato problema della decrescita demografica (il 61% dei lavoratori risiede nel comune in cui ha sede la cooperativa). La funzione sociale ricoperta dalle cooperative di consumo nei confronti dei propri lavoratori è esplicitata almeno parzialmente anche nel fatto che il 26% offre servizi connessi al welfare aziendale, ma soprattutto nella stabilità degli impeghi.
Un secondo elemento di attenzione alle ricadute sociali e al benessere della comunità è individuabile nella collaborazione in rete per lo sviluppo di progetti di interesse collettivo. Se la partecipazione delle cooperative di consumo a reti territoriali è abbastanza diffusa, prevale tuttavia l’adesione a consorzi (92%), mentre l’impatto della rete sulle dimensioni sociali è abbastanza contenuto (valore medio 4,07 | scala da 1 a 7), così come la rete non influenza le strategie delle cooperative (3,24). Sono abbastanza sviluppate, comunque, le reti e le relazionali delle cooperative di consumo con il comune (4,46) e con le associazioni e onlus locali (4,22) tale da far presumere che in futuro questi attori potrebbero essere coinvolti direttamente nella definizione di politiche più propriamente da impresa di comunità.
Tabella 2: Aspetti per cui la cooperativa è conosciuta nel territorio [numero di cooperative / numero di abitanti; valori medi su scala da 1 a 7].
L’aspetto più interessante è tuttavia l’articolazione del rapporto tra cooperativa di consumo e comunità locale in senso lato (Tabella 2). Le cooperative affermano che gli elementi che le legano maggiormente alla comunità sono la storia e la tradizione (valore medio 5,79 | scala da 1 a 7), anche se la comunità vede nella cooperativa ancora essenzialmente un fornitore di buoni prodotti e servizi (5,72). La visibilità della cooperativa non è garantita in modo spiccato dalle attività sociali che essa promuove (4,2). Da osservare come le molte cooperative affermino che i propri soci-clienti e la propria comunità locale identificano la cooperativa come un soggetto in grado di dare risposta ai bisogni del territorio (5,2); ad affermarlo non sono solo le cooperative situate nei territori più piccoli o con meno soci (5,7) ma anche quelle dislocate in territori di medie dimensioni (5,9).
Il concetto di bisogno e di aiuto alla comunità locale qui riportato è, si tenga presente, soggettivo. L’81% delle cooperative di consumo lo identifica nell’offerta di beni a prezzi più vantaggiosi o nello sviluppo di occupazione; il coinvolgimento della comunità nella base sociale e negli organi decisionali è percepito come secondo elemento di attenzione (36,5%) e solo un quarto delle cooperative offre alla comunità anche servizi aggiuntivi e attività socio-culturali (Tabella 3).
Tabella 3: Attività promosse dalle cooperative per cercare di essere vicine al territorio e alla comunità locale [numero di cooperative / numero di soci; valori percentuali].
I bisogni e le aspettative primari della comunità vengono identificate, dalle cooperative stesse, nell’offerta di beni e servizi di qualità (85%); ciò può spiegare il fatto che le attività della cooperativa nei confronti della comunità siano concentrate prevalentemente sul servizio cardine offerto dalla cooperativa. Tuttavia il 25% delle cooperative ritengono che la comunità locale richieda loro di soddisfare anche nuovi bisogni e nuova domanda emergente. Ad affermare di soddisfare maggiormente i vari bisogni della comunità sono soprattutto le cooperative più piccole (con numero di soci è inferiore a 250) e dislocate in zone con pochi abitanti, dove si pensa di poter generare esternalità positive per il proprio territorio e un significativo miglioramento della qualità di vita (Tabella 4). Nonostante siano autovalutazioni, queste cooperative di consumo si percepiscono come istituzioni con un forte ruolo sociale a favore della comunità e del suo benessere.
Tabella 4: La capacità di soddisfacimento dei bisogni della comunità locale – autovalutazioni [numero di cooperative / numero di soci; valori medi su scala da 1 a 10].
A sottolineare ulteriormente queste affermazioni sono le dichiarazioni su quanto realizzato a favore della comunità di riferimento. Abbastanza buona è la percezione di aver migliorato la qualità della vita del proprio territorio e sembra che ciò abbia avuto come conseguenza anche un certo sviluppo del senso di comunità. E’ vero tuttavia che le cooperative non credono di essere state in grado di influenzare ancora un vero e proprio processo di empowerment dei cittadini e lo sviluppo di comportamenti proattivi nella società.
Tabella 5: Prospettive di realizzazione di maggiori attività sociali per territorio di riferimento [numero di cooperative / numero di abitanti; valori percentuali].
Rispetto al futuro (Tabella 5) le cooperative oggetto di indagine hanno affermato di voler investire, nei prossimi anni, in attività di tipo sociale e con ricadute sul territorio, nello specifico offrendo nuovi servizi per la comunità (46,4%) e sensibilizzando maggiormente su temi della solidarietà (23,2%). Va comunque osservato che questa attenzione sociale crescente sembra essere più presente nelle cooperative di medio-grandi dimensioni che non nelle piccole.
I dati sin qui riportati sembrano quindi descrivere un universo eterogeneo di cooperative di consumo, non solo per il numero di soci o la dislocazione territoriale, ma anche per le politiche adottate e il riconoscimento della propria funzione sociale, con realtà che dichiarano una mission in cui lo stakeholder prevalente è la comunità e altre che dimostrano capacità di coinvolgere e ascoltare i bisogni della comunità.
Al fine di comprendere se vi sono quindi tipologie di cooperative di consumo che più di altre agiscono per gli interessi della comunità (che quindi più marcatamente presentano i tratti delle cooperative di comunità) si è condotta una cluster analysis, in cui le variabili dipendenti considerate sono esplicative dei vari rapporti con la comunità e dei tratti che teoricamente potrebbero avvicinare la cooperazione di consumo alla natura di cooperativa di comunità.
Il primo aspetto da sottolineare è che la cluster analysis non riesce a classificare in modo completo le cooperative; nei cluster finali vengono allocate solo 36 cooperative di consumo sulle 54 intervistate. Inoltre, guardando alla distribuzione delle cooperative nei cluster, si osserva che quasi tutte (26 cooperative) si collocano in uno stesso gruppo presentando quindi tratti simili, mentre un gruppo è in realtà composto da 1 sola cooperativa che rappresenta quindi, nell’universo analizzato, un caso del tutto a sé stante, soprattutto per l’elevata dimensione di soci e l’elevata percentuale di abitanti dell’area di competenza che sono soci; il terzo gruppo generato dall’analisi è invece composto da sole 9 cooperative di consumo. Infine, provando a realizzare due sole cluster, l’esperimento fallisce, poiché tutte le cooperative verrebbero accorpate in unico gruppo e opposte alla grande cooperativa di consumo che rappresenta quindi per natura un outlier nell’analisi.
Dal confronto tra il gruppo 1 e 3 (Tabella 6) si può osservare innanzitutto che il modello ha distinto le cooperative prevalentemente in base alla loro dimensione media (quelle più piccole - in termini di numero di soci totali - inserite nel primo gruppo, quelle medio-grandi inserite nel terzo). Minor influenza ha invece la percentuale di soci sul numero totale di abitanti della zona, con i due cluster molto eterogenei al loro interno e con un valore centrale pari al 30% circa di abitanti-soci; questo dato anticipa la diversità anche in relazione al territorio di riferimento, con le cooperative più piccole dislocate anche in territori meno popolati e le cooperative più grandi presenti in territori con più popolazione. L’indice che conferma, per le piccole cooperative dislocate nei territori più piccoli, una maggiore predisposizione nell’essere cooperative di comunità è rappresentato dalla capacità delle stesse di agire in territori marginali, come dimostra il fatto che le stesse operano dove sono assenti organizzazioni con offerta simile. Non è invece possibile affermare che questo stesso gruppo sia più attento alla comunità anche dal punto di vista dell’azione e del perseguimento di interessi più generali; al contrario la cluster analysis evidenzia come, mediamente, il gruppo delle cooperative medio-grandi tenda a coinvolgere maggiormente nella sua base sociale anche altre organizzazioni (multi-stakeholder) e a sentire la necessità di una partecipazione della società civile anche nei propri organi decisionali; le cooperative medio-grandi creano inoltre una rete più forte con le organizzazioni locali, anche per realizzare progetti comuni e dare una migliore risposta alla comunità e ai suoi bisogni. L’elemento del soddisfacimento dei bisogni torna anche nella strutturazione delle politiche di incontro e ascolto della comunità e nell’offerta di servizi integrativi (e che ha come ricaduta la percezione di riuscire ad influenzare il benessere e la vita del territorio).
In sintesi, è alquanto difficile riuscire a trovare in un unico raggruppamento di cooperative tutte le caratteristiche che potrebbero descrivere la loro natura di cooperative di comunità. Se infatti rispetto ad alcuni parametri più oggettivi - il coinvolgimento del territorio e l’azione in aree marginali - le piccole cooperative di consumo sicuramente dimostrano i tratti di una cooperativa di comunità, è vero tuttavia che la funzione sociale e l’impatto sociale si fanno più spiccati nelle medio-grandi. E’ allora il benchmark minimo di questi valori, ovvero la decisione di considerare solo alcuni di questi parametri come essenziali per la definizione di cooperativa di comunità, che potrebbe rappresentare il discrimine per le cooperative di consumo nell’accedere o meno alla qualifica.
In conclusione possiamo affermare che sicuramente tutte le cooperative analizzate dovrebbero quantomeno intervenire per migliorare alcuni dei loro tratti sociali, qualora volessero divenire vere e proprie imprese di comunità.
Tabella 6: Tipologie di cooperative (risultati di una cluster analysis k-medie)
Alla domanda “quali potrebbero essere le ragioni per trasformarsi in cooperative di comunità” una prima risposta speculativa potrebbe essere ricercata nella necessità, per alcune cooperative di consumo in crisi e a rischio chiusura, di convertire la propria formula organizzativa e gestionale, ampliando la gamma dei servizi, estendendo la base sociale, trovando quindi nella comunità sia la domanda aggiuntiva di servizi che lo stimolo al cambiamento. Dalle affermazioni delle cooperative emerge che la crisi è stata affrontata con modalità diverse, che hanno fatto prevalere talvolta la componente sociale e talvolta quella commerciale: il 54% delle intervistate è intervenuta con una riduzione mirata delle diseconomie, ma uno speculare 46% ha promosso iniziative volte a far riemergere il ruolo della cooperazione per affrontare i momenti difficili.
Guardando al futuro, invece, se la situazione economico-finanziaria richiedesse alle cooperative di attuare operazioni straordinarie, solo una piccolissima percentuale opterebbe per la conversione in impresa di comunità, mentre le pratiche più probabili sarebbero quelle tradizionali di fusione[4] (52,7%) o aggregazione di rete tra cooperative (30,9%).
Tabella 7: Operazioni straordinarie per contrastare una eventuale grave situazione economico-finanziaria [numero di cooperative / numero di soci; valori percentuali].
La trasformazione in cooperativa di comunità non sembra essere, stando ai dati, un’opzione praticabile dalle cooperative intervistate. Per quali motivi?
Innanzitutto, perché forse la crisi economica (e la situazione di difficoltà interna che ne deriva) non è la reale leva per decidere di perseguire strategie di maggior coinvolgimento della comunità e di diversificazione dell’offerta di servizi. Le motivazioni proverrebbero piuttosto dalla già citata volontà di rispondere ai bisogni differenziati della collettività, di risollevare il benessere e la qualità della vita nei propri territori, di essere più partecipate attivamente dai soci.
In secondo luogo, vi è forse ancora una certa confusione su cosa si intenda per cooperativa di comunità; l’assenza di una regolamentazione in merito frena le cooperative dal promuovere processi di conversione e innovazione radicale, in quanto non si conoscono ancora i possibili benefici o rischi del cambiamento.
Per chiarire questo punto - e ragionare sulle modalità di maggior coinvolgimento degli attori locali nelle proprie attività - si è indagato su cosa si intenda per cooperativa di comunità con 3 cooperative di consumo che si sono dichiarate interessante a trasformarsi in cooperative di comunità.
Forse il termine “cooperativa di comunità” non è ancora così diffuso nelle riflessioni tra cooperatori. Tuttavia, in 3 delle cooperative di consumo partecipanti all’indagine il direttore ha deciso di barrare l’opzione “in caso di difficoltà, la nostra cooperativa sarebbe pronta a realizzare una conversione in impresa di comunità con maggior coinvolgimento degli attori locali”. Cosa si cela dietro a questa risposta? Un consenso passivo con i temi oggetto di indagine o un’effettiva conoscenza del contesto e delle riflessioni in corso?
Per approfondire la scelta, sono state realizzate delle interviste ai dirigenti delle tre cooperative in questione[5]. Da un punto di vista metodologico, l’intervista ha il vantaggio di comprendere in profondità e dalle parole dell’intervistato i contenuti principali del tema oggetto di analisi e la sua interpretazione nel contesto; senza una pretesa di rappresentatività dell’intero universo, ha il vantaggio di comparare in modo dettagliato diversi punti di vista individuali.
I dirigenti intervistati appartengono a cooperative di consumo di medio-piccole dimensioni e operano in un territorio montano o di piccola valle.
Le interviste hanno indagato, quale primo punto, l’interpretazione che ognuno dà al concetto di cooperativa di comunità, consci del fatto che non esiste ad oggi una visione condivisa e che nel territorio trentino non vi sono ancora esempi cui ispirarsi. Comparando le interviste, sembra emergere una definizione condivisa secondo cui la cooperativa di comunità è “un’azienda di servizi che, oltre ad erogare i servizi commerciali che attualmente la cooperativa offre, faccia anche servizi sociali, intesi anche come presidio del territorio, associazionismo, attenzione alla comunità, quindi luogo di socializzazione”. “Non da ultimo” aggiunge uno dei direttori “potrebbero venire offerti altri sevizi, quali servizi postali, offerta di medicinali mediante farmacie, anche attraverso il sostegno e accordi sul territorio”. Sembra quindi che il primo elemento di differenziazione dalla cooperativa di consumo sia l’eterogeneità dei servizi offerti, in modo tale da rispondere a bisogni diversificati della propria comunità e coprire una domanda più allargata e di sostegno al territorio nel suo complesso. Gli intervistati pongono inoltre l’accento sulla dimensione territoriale, confermando - anche nelle interviste - il fatto che la conversione in cooperativa di comunità può rappresentare una soluzione da preferire decisamente alla fusione tra cooperative della medesima tipologia; una preferenza quindi per un’innovazione estensiva tipologica piuttosto che territoriale, dato che l’ampliamento della zona di competenza potrebbe più facilmente “snaturare il legame con il territorio”.
Rispetto alla definizione di cooperativa di comunità, si è cercato poi di capire se gli intervistati siano favorevoli all’introduzione di una nuova forma giuridica, disciplinata e regolamentata legislativamente, oppure concepiscano tale denominazione come una semplice caratteristica migliorativa della propria cooperativa di consumo, con un nuovo assetto di governance o una qualifica aggiuntiva, a fini identificativi piuttosto che di convenienza fiscale o per accesso a contributi e partnership pubblico-private. Se una cooperativa opta in maniera netta per far sorgere una nuova tipologia cooperativa, un’altra pensa che ciò non sia assolutamente necessario e che “la cooperativa potrebbe rimanere la medesima, ma con un’idea imprenditoriale nuova, rivolta più al sociale e alla comunità” e puntualizzando che, nella pratica tale, cambiamento sta già avvenendo. La terza cooperativa non prende invece posizione, credendo che sia importante valorizzare le attività e i prodotti del proprio territorio, perché “promuovere il prodotto di un’organizzazione del territorio porta benefici a tutta la comunità”. Non è quindi facile, all’interno dello stesso mondo cooperativo, trovare almeno per ora una visione comune di cooperativa di comunità e identificare quale sia la strada da intraprendere dal punto di vista giuridico e gestionale.
Approfondendo le dimensioni del cambiamento e dei tratti che una cooperativa di comunità dovrebbe avere, emerge innanzitutto la necessità di confrontarsi su natura e dimensione della compagine sociale. I direttori concordano nell’affermare che la base sociale potrebbe sostanzialmente rimanere invariata, dato che “il socio della cooperativa di consumo è anche socio della cassa rurale e della cantina sociale”. Sono identificabili tuttavia, nelle parole dei direttori intervistati, anche almeno altri due soggetti che potrebbero essere inclusi nella base sociale: l’ente pubblico e l’Azienda di promozione turistica (Apt). In queste affermazioni possiamo identificare interessanti aspetti di approfondimento.
Soffermandoci sulla prima parte dell’affermazione, secondo cui il socio della cooperativa di consumo è anche socio della cassa rurale e della cantina, emergono due riflessioni. In primo luogo, come premesso, il presupposto dal quale queste affermazioni scaturiscono è l’appartenenza ad un territorio molto circoscritto; le cooperative intervistate identificano la natura di cooperativa di comunità nella capacità di includere un numero significativo di cittadini o appartenenti al territorio (aspetto che non sarebbe possibile riproporre in ambito urbano, dove il contesto è molto più ampio ed i bisogni dei cittadini troppo eterogenei o già meglio soddisfatti da imprese tradizionali). In secondo luogo, l’affermare che i soci della propria cooperativa sono anche soci di altre cooperative del territorio fa intendere che la comunità è già inserita in un tessuto fatto di cooperazione e principi cooperativi, che la comunità trova già nella cooperazione il soddisfacimento a diversi suoi bisogni, e che quindi il senso di una cooperativa di comunità sarebbe quello di includere sotto lo stesso “tetto” persone, bisogni e strumenti diversi ma spesso già esistenti.
Questa visione è confermata in altri passaggi delle interviste. Se la cooperativa di comunità si costituisce come aggregazione tra diverse cooperative del territorio può avere il vantaggio di affrontare in modo migliore - rispetto alla frammentazione - la congiuntura economica sfavorevole; in particolare, per le cooperative di consumo, l’esercizio della sola attività commerciale è a forte rischio, soprattutto per il problema (percepito anche nei piccoli centri) della pressione da parte di altri punti vendita ordinari, che “riescono talvolta ad essere più competitivi, perché agiscono come imprese, non dando attenzione agli aspetti sociali”. La diversificazione dei servizi potrebbe essere considerata un modo per creare economie di scala, per fidelizzare i soci, per coprire le eventuali temporanee perdite di un’attività con i profitti di un’altra, per stare sul mercato con maggior efficienza.
La riflessione ha portato poi l’attenzione sul coinvolgimento dell’ente pubblico. La sua inclusione nella base sociale è considerata un modo per rendersi “ancor più” cooperative di comunità. Come affermato da uno dei direttori intervistati, “l’attenzione al territorio e alla comunità da parte della cooperativa e dell’ente pubblico dovrebbero andare nella medesima direzione”. In questa visione, la cooperativa di consumo sembra quindi evolvere nettamente verso un assetto multi-stakeholder, quantomeno per la volontà di coinvolgimento dell’attore pubblico.
Se i direttori intervistati hanno visto nella sinergia con l’ente pubblico soprattutto la possibilità di pianificare insieme interventi o semplicemente trovare interessi comuni per il benessere della comunità, l’intervista ha poi portato gli intervistati a riflettere esplicitamente sulla possibilità o necessità di gestire, come cooperativa di comunità, anche beni pubblici; uno dei direttori crede potrebbe essere “una buona idea” sottolineando ancora una volta la necessità di trovare interessi comuni, affinché un progetto (comunque complicato da attuare, come quello della costituzione di una cooperativa di comunità) possa essere realizzato.
Terzo attore da coinvolgere, come premesso, è - nell’intenzione di uno dei direttori - l’Azienda di promozione turistica (Apt), che dovrebbe interagire con le strutture commerciali, con le cooperative e le associazioni del territorio, così da creare sinergie positive tra le attività, i beni e prodotti tipici del luogo ed il contesto economico, anche in prospettiva di una “valorizzazione degli antichi mestieri e delle attività artigianali che via via si stanno abbandonando”.
Conoscenza del territorio, quindi, e sostegno dello stesso: da parte della cooperativa, che include la comunità nella sua base sociale; da parte dell’ente pubblico, che ne studia i bisogni e può partecipare alla pianificazione degli interventi; con l’Apt, in quanto soggetto di promozione degli interessi economici e della visibilità del territorio. Il territorio sembra apparire l’elemento di delimitazione dell’azione per l’identificazione dei soggetti da coinvolgere. Per questo, in una delle domande, si è chiesto in modo esplicito qual è la dimensione ottimale, nell’ambito territoriale, nel quale sarebbe bene far operare la cooperativa di comunità. Se un direttore rimane molto vago sull’argomento, un altro afferma che “mettere un vincolo fisso potrebbe essere restrittivo, perché dipende dal territorio” ed il terzo sostiene che l’ordine di grandezza massimo dovrebbe essere la comunità di valle. Riflessione molto aperta quindi, risposte soggettive ed elemento di possibile dibattito.
Per queste ragioni, probabilmente, portare avanti da soli un percorso di conversione in cooperative di comunità non è proponibile. Non solo l’assenza di un contesto giuridico chiaro non aiuta, ma di certo i processi di conversione richiedono pur sempre l’apprendimento graduale da parte di organizzazione e soci coinvolti. E’ per questo che le cooperative di consumo hanno affermato, a conclusione dell’intervista, che l’attore principale che possa sostenere il cammino di trasformazione (quanto meno di tipo culturale se non di forma giuridica) deve essere la Federazione Trentina della Cooperazione, organizzazione di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo, giuridicamente riconosciuta, operante sul territorio della provincia di Trento e che ha recentemente affrontato temi quali il “rapporto con i soci e la socialità, per far capire e riprendere quei principi che hanno fatto nascere la cooperazione” afferma un direttore. “E questo è il sentiero che dobbiamo continuare a seguire”.
Quando, da un punto di vista teorico, ci interroghiamo sulle implicazioni che una nuova regolamentazione o nuove istituzioni possono comportare, è necessario valutarne le implicazioni pratiche e la necessità che nuovi scenari amplino le possibilità di azione, invece che rischiare - al contrario - di generare ostacoli o di turbare equilibri di per sé fragili. Così, discutere oggi di cooperative di comunità significa, per chi scrive, interrogarsi anche su cosa la presenza di una nuova forma giuridica (o qualifica) di questo tipo possa avere nel movimento cooperativo e per l’azione pratica delle organizzazioni già esistenti.
Nel tempo e nello spazio, le cooperative tradizionali (di produzione e lavoro, di consumo, di credito, agricole etc.) hanno dato ampia dimostrazione della loro funzione sociale, della capacità di rispondere a bisogni collettivi attraverso l’azione auto-organizzata e solidale delle persone, delle ricadute occupazionali, economiche e sociali, della possibilità di rappresentare una chance per le zone marginalizzate, della capacità di mobilitare risorse locali per realizzare beni di interesse comune, di soddisfare esigenze di stakeholder anche diversi. Le cooperative sociali rappresentano forse ad oggi la forma cooperativa che più marcatamente identifica la funzione e l’impatto sociale delle cooperative, poiché in essa la missione è esplicitamente il perseguimento del benessere della comunità o di fasce marginali della stessa, e poiché la base sociale tipicamente si amplia prevedendo il coinvolgimento spesso di molteplici portatori di interessi.
L’interesse per la comunità è in altre parole un elemento fondante di molte forme cooperative già esistenti. Il discutere oggi di cooperative di comunità significa anche capire quali tipologie di cooperative esistenti presentino - o potrebbero presentare - le caratteristiche di una cooperativa di comunità. Il presente articolo si è proposto come una sorta di esercizio, volto ad identificare le caratteristiche che potrebbero definire una cooperativa di comunità e - nell’azione di cooperative già esistenti - il livello di sviluppo della funzione sociale e dell’interesse verso la comunità.
Le cooperative qui analizzate sono state le cooperative di consumo, con focus sperimentale su quelle trentine, caratterizzate da una forte presenza in aree montane o rurali, marginali, a bassa offerta di servizi, ad elevata partecipazione della popolazione.
Le analisi condotte hanno permesso di stabilire come la maggior parte delle cooperative di consumo metta certamente al centro della sua azione e delle politiche sociali il socio-consumatore e la vendita di servizi di qualità. Inoltre in più aspetti si rilevano un’attenzione marcata per le ricadute sociali, per il sostegno dei sistemi socio-economici locali e per un diretto coinvolgimento della comunità. Il fatto che quindi le cooperative di consumo possano assumere i tratti, la qualifica o la forma giuridica di cooperative di comunità è una possibilità che potrà non appartenere a tutte, ma che potrebbe interessarne certamente una parte (anche significativa). Guardando alla composizione della base sociale, si osserva infatti che le cooperative di consumo includono spesso ampie percentuali di popolazione locale e in alcuni casi portatori di interessi diversi (anche se la partecipazione attiva è talvolta bassa o la cooperativa stessa non promuove politiche per un miglior ascolto e coinvolgimento dei soci).
Analizzando la territorialità, certamente nel caso trentino spiccano per numero le cooperative dislocate nei piccoli centri, dove i rischi di decremento demografico o spopolamento sono elevati e la cooperativa può rappresentare un elemento di continuità per la vita e il benessere della popolazione locale. Rispetto alla mission, molte cooperative di consumo - soprattutto di piccole dimensioni - si sono date fin dalle origini l’obiettivo di rispondere ai bisogni collettivi e di migliorare il benessere locale. Rispetto all’oggetto della produzione, alcune si stanno già interrogando sulla necessità di ripensare l’attuale offerta quasi esclusivamente concentrata nel settore della vendita dei generi alimentari per allargarla ad altri servizi di cui il territorio necessita.
Superando queste definizioni vogliamo anche sottolineare come vi sia una difficoltà di separazione tra cooperative di comunità e funzione sociale e il continuum tipologico sia presente in modo chiaro anche tra le cooperative di consumo, come dimostrano i modelli di raggruppamento e di lettura congiunta dei loro tratti.
Queste considerazioni ci portano ad affermare che un’ipotetica legge sulle cooperative di comunità avrà un forte impatto a seconda dei parametri più o meno restrittivi che la stessa adotterà nel definire questa nuova forma giuridica (o qualifica). Essa potrà determinare o meno, infatti, un diverso interesse alla adozione di questa forma da parte di organizzazioni che attualmente hanno una diversa natura giuridica.
Un punto tuttavia rimane fuori discussione: la cooperazione riveste una forte funzione sociale. Molte delle cooperative qui oggetto di indagine - in modo eterogeneo per dimensione, territorio, struttura - hanno in comune il ruolo sociale che la cooperativa ricopre per il suo territorio, per la sua comunità e per i diversi stakeholder. E’ in questa natura spesso ibrida che il confine della mutualità si confonde con quello della socialità dell’azione e che l’essere cooperativa per la comunità può declinarsi nel diventare cooperativa di comunità. Si tratta di equilibri a geometrie variabili, che ad oggi è difficile manovrare, ma che sarà necessario posizionare a breve per evitare che tutti si definiscano imprese di comunità per mera convenienza o che nessuno investa nella trasformazione in impresa di comunità per la presunzione di riuscire già a soddisfare gli interessi del proprio territorio.
Se la cooperazione di consumo, al pari di altre tipologie esistenti, vuole diventare espressione più inclusiva dei diversi stakeholder del territorio e soddisfare i bisogni degli stessi, essa deve tuttavia riflettere in modo più innovativo sui modelli organizzativi, sui beni e servizi che la comunità richiede, che possono generare sia maggior impatto sociale della cooperativa stessa che aumento delle proprie economie. Per fare ciò potrebbe essere necessario avvalersi di nuove forme di aggregazione tra soggetti. L’elemento identificativo deve comunque essere l’intreccio tra i bisogni della comunità ed il territorio di appartenenza.
Bagnoli L. (a cura di) (2011), La funzione sociale della cooperazione. Teorie, esperienze e prospettive, Carocci, Roma.
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