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ISSN 2282-1694
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Numero 5 / 2015

Echi

Corporate Social Innovation. Processi di accelerazione dell’innovazione e di rigenerazione

Gianluca Cristoforetti, Michele Caprini

L’economista francese Thomas Piketty nel suo Le Capital au XXle siècle descrive quello che lui chiama “capitalismo patrimoniale”, fondato più su capitali ereditati piuttosto che accumulati con impresa e lavoro. La sua tesi è che a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, il graduale abbassamento delle tasse e la rapida accumulazione di ricchezze che ne è seguita hanno fatto sì che il capitale riprendesse a crescere più rapidamente del reddito. Creando una società dove i rendimenti del capitale hanno un’importanza sempre maggiore rispetto al reddito da lavoro. Nel 2010, nell’Europa occidentale, il 10% della popolazione più ricca contava per circa il 25% del reddito da lavoro complessivo, ma deteneva il 60% della ricchezza.

In un contesto così definito sembra quanto mai opportuno immaginare una nuova cassetta degli attrezzi per rigenerare senso etico, comunità e socialità, economia e istituzioni, il territorio. Un cambiamento reale, e con una visione prospettica non curvata sull’interesse meramente finanziario, può verosimilmente concretizzarsi ricombinando valore sociale, economico, istituzionale, motivazioni intrinseche, culture manageriali, capitali e relazioni.

Un nuovo modello, in prima istanza economico, può beneficiare di “enzimi sociali” non già codificati in un contesto di collaborazione tra impresa e impresa sociale, tesa quest’ultima alla costruzione di veri e propri asset. Per superare il concetto di filantropia e proporre iniziative di ibridazione virtuosa. Un modello in grado di aggredire i “deceleratori” del sistema, che per comodità possiamo definire come “riduzionismi” e che possiamo riconoscere, all’interno dell’impresa, allorquando alla massimizzazione del profitto non corrisponde una creazione di valore aggiunto. Un modello di innovazione sociale, quindi, e un diverso rapporto con il territorio che non è un bene della comunità ma è comunità, è habitat, e di conseguenza non c’è scissione se non fittizia tra uomo e spazio. Il territorio come habitat, infatti, non è risorsa strumentale, liberamente disponibile, ma elemento dell’identità, parte del tutto.

Il tema è quindi come ri-definire il rapporto tra comunità, innovazione sociale e ruolo delle aziende in questo processo, e quale ricaduta può avere nell’ambito di un profondo rinnovamento, anche rispetto alla pianificazione dei territori e alla programmazione da parte dell’amministrazione pubblica. A partire dall’idea che si ha di se stessi.

L’Italia vanta una tradizione straordinaria di responsabilità sociale dell’impresa nei territori; si pensi al Veneto a cavallo tra ‘800 e ‘900 (le famose company town) con i modelli di Valdagno (con la famiglia Marzotto) e Schio (con la famiglia Rossi). Si pensi alla rivoluzione culturale promossa da Adriano Olivetti, che non ha modellato solo Ivrea, ma l’idea stessa del rapporto tra impresa e comunità. Un processo che ha conformato coscienze e luoghi. Una tradizione ancora persistente in molte aziende del nostro Paese e che, se considerato assieme alla tradizione cooperativistica, costituiscono un humus straordinario per politiche di innovazione.

Le aziende sono forse i sensori più efficaci per verificare come una comunità – e per estensione il suo territorio – si collocano nel reticolo delle reti corte e di quelle lunghe della contemporanea competizione. Obbligate a ragionare costantemente su che cosa voglia dire utilizzare la tecnologia, come stare all’interno di reti d’impresa, e ancor più valutare quali modalità sono più efficaci per relazionarsi alle reti sociali (non solo clienti) e quale è l’impatto etico delle scelte. Un fenomeno amplificato sempre più dai social network.

I social network sono i nodi di individui, gruppi, organizzazioni e sistemi correlati che si legano in uno o più tipi di interdipendenze: queste possono essere basate su valori condivisi, visioni, idee, contatti sociali, parentela, conflitto, scambi economico-finanziari, commercio, comune appartenenza a organizzazioni, e sulla partecipazione collettiva a eventi e numerosi altri tipi di relazione umana. Il cittadino quindi può dare un “voto” alle imprese che producono beni e servizi, acquistando, in via preferenziale, da quelle che rispettano, ad esempio, la sostenibilità ambientale e sociale. Imprese che smaltiscono adeguatamente gli scarti, quelle che ripartiscono equamente gli utili tra tutti gli stakeholder, quelle che si adoperano per eliminare ogni condizione di degrado nella vita dei lavoratori, quelle che non eludono il fisco, che non corrompono, che non delocalizzano in Paesi con mano d’opera a basso costo e che non si rifugiano nei paradisi fiscali. Imprese che si preoccupano dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità.

L’azione del cittadino consapevole che acquista è incredibilmente potente, perché esso determina le scelte delle imprese spingendole, anche, ad una maggiore responsabilità sociale. Agisce sì sui consumi, ma simultaneamente anche sull’ambiente, sul sociale e quindi sulla felicità degli esseri umani. A parità di prezzo e di caratteristiche del prodotto, il primo criterio per la scelta degli acquisti da parte dei consumatori-cittadini consapevoli è l’impegno dell’azienda in progetti di utilità sociale e ambientale. Tre consumatori su quattro sono pronti a cambiare brand, in favore di un’azienda più socialmente impegnata, e una persona su due non vorrebbe lavorare per un’azienda non impegnata sul fronte della responsabilità sociale.

Da un’indagine di Price Waterhouse Cooper su 344 CEO del settore Retail & Consumer risulta che la corporate social responsibility è sempre più decisiva per attirare e mantenere dipendenti, clienti e fornitori e per gli stakeholder di riferimento per l’azienda. L’impresa ha bisogno del territorio, di un rapporto equilibrato con le comunità che su quei territori vivono, con le competenze che possono esprimere, con il sistema delle infrastrutture, soprattutto sociali.

Una strategia “utile” si costruisce unicamente attraverso proposte concrete per la “rigenerazione del vantaggio competitivo” di un sistema definito dall’interazione tra territorio e comunità. Per far ciò la capacità di costruire assieme uno scenario, una “prefigurazione collettiva” del nostro futuro prossimo è centrale. Senza questa capacità – una capacità davvero “intimamente” istituzionale – risulta impossibile definire una qualsiasi strategia per una nuova competitività dei sistemi sociali ed economici. Si può affermare, in altri termini, che la competitività prenda corpo laddove si manifestino:

  • la ricerca di una coerenza complessiva (comunità di intenti), valorizzando le risorse del territorio, attraverso la capacità di agire velocemente in relazione alle necessità e alle opportunità;
  • il coinvolgimento dei diversi attori e la costruzione di capacità istituzionale, anche attraverso l’innovazione sociale, da parte delle comunità;
  • una reale governance dei settori di attività in un’ottica di innovazione complessiva (comunità d’azione).

Ricordiamoci che una strategia è un piano d’azione completo, che prevede quale azione scegliere per ogni possibile situazione, mentre un profilo di strategie è un vettore di scelte strategiche che prevede una strategia per ogni attore. L’idea che orienta l’analisi della competitività di una comunità locale si può porre in relazione alla teoria dell’equilibrio di John Nash (un doveroso ricordo) in base alla quale esiste un profilo di strategie tale per cui nessun giocatore può migliorare la propria vincita modificando la propria strategia in modo unilaterale. Ecco perché le imprese non possono essere escluse da un diverso modo di intendere il rapporto con la comunità ed il territorio. Semmai il tema verte sulle modalità di interazione.

Imprese che incontrano i mercati sempre più all’interno dei social network e nei media visuali. Non è più sufficiente veicolare informazioni e schede-prodotto, ma storie, contestualizzazioni, valori e reputazione, che maturano in un divenire narrativo fatto di forma e contenuti, proprio in rapporto alla comunità e spesso a livello di responsabilità sociale d’impresa. Ciò significa conversare con il mercato, nella forma più umana possibile, anche attraverso il racconto dei propri valori (storytelling).

Simbiosi tra vantaggio tecnologico, crescita complessiva della comunità e dei territori ed innovazione sociale. Nelle parole di James, Phills et al. “l’innovazione sociale è una nuova soluzione a un problema sociale che è più efficace, efficiente e sostenibile rispetto alle soluzioni esistenti e che è di valore più per la società nel suo complesso che per i singoli individui. L’innovazione sociale può essere un prodotto, un processo di produzione, una tecnologia (proprio come l’innovazione in generale), ma può anche essere un principio, un’idea, una norma legislativa, un movimento sociale, un intervento, o una combinazione di tali fattori”.

Il sistema dell’impresa può dare una risposta a bisogni sociali emergenti in modo innovativo, creando contemporaneamente valore (non necessariamente solo economico) anche per se stessa, solo se posta in contesti conformati dal vincolo della fiducia. Citando Mulgan, “definiamo innovazioni sociali le nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società e che accrescono le possibilità di azione per la società stessa”. Si possono creare nuovi modelli di rigenerazione sociale e territoriale.

Particolarmente interessante l’esperienza della Fondazione IBM Italia che lavora con lo stesso presupposto, creando vantaggi per tutti i soggetti che aggrega attorno ai suoi progetti: gli enti con cui collabora (che hanno a disposizione il know-how e le tecnologie di IBM), i lavoratori della stessa azienda (che da queste attività ricevono stimoli e gratificazioni) e anche IBM stessa, dato che dalle collaborazioni con associazioni, istituzioni ed enti nonprofit possono nascere interessanti competenze utili anche nel segmento business. Dei 7 mila dipendenti italiani di IBM, quasi 2 mila sono iscritti alla On Demand Community, il serbatoio di volontari che, occasionalmente o in modo continuativo, sono impegnati in progetti di volontariato.

Il fattore (ri-)generativo è la fiducia tra impresa e comunità, rapporto in cui la valutazione condivisa e continuativa potrebbe essere l’elemento socialmente innovativo, anche attraverso un nuovo stile di management, finalizzato alla costruzione di valore e di capitale sociale.

La costituzione di asset territorializzati nel settore sociale può essere quindi il reale motore per politiche aziendali che superino il concetto di nuova filantropia. Salamon distingue fra “fonti di reddito operativo e investimento di capitale; entrambe sono entrate monetarie; le prime servono a finanziare le operazioni correnti e possono prendere la forma di donazioni, erogazioni, contributi, pagamenti per servizi; le seconde vanno a costituire capacità operativa di lungo termine attraverso l’acquisto di beni capitali, locali fisici, capacità tecniche e strategiche. Il capitale può provenire da donazioni, come nel caso delle fondazioni, ma più spesso assume le forme di debito o equity.” Questa modalità può intercettare una parte del settore sociale e agisce in una logica asset-based.

CAP Market è una catena, in costante crescita, di oltre cento supermercati di prossimità distribuiti sul territorio tedesco. Caratteristica primaria di CAP è l’impiego di mano d’opera portatrice di disabilità fisica o psichica. Nel 1999 a Ziegelfeld, quartiere popolare di Herrenberg, una città tedesca nel Baden-Württemberg, chiuse l’ultimo mercato alimentare locale. Rainer Knapp, un piccolo imprenditore locale attivo nella comunità, voleva assicurarsi che i residenti della zona potessero continuare a fare la spesa a piedi come sempre era stato. Decise quindi di aprire il primo supermercato CAP, con le caratteristiche tipiche del negozio di prossimità, ma con una particolarità: delle nove persone assunte sei erano portatrici di disabilità varie. Visto il successo del modello, dopo poco tempo aprì il primo supermercato in un’altra regione tedesca, a Dobbertin nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore. Knapp, a fronte delle tante richieste provenienti dalle diverse zone del paese, coinvolse GDW SÜD, soggetto attivo nell’ambito dei servizi alle imprese, che introdusse la pratica del social franchising. Negli anni successivi la catena CAP è cresciuta oltre le aspettative in tutta la Germania, e oggi conta una rete di punti vendita superiore alle cento unità, occupando 1500 lavoratori, dei quali 850 disabili a vario titolo.

In Germania il codice della previdenza sociale (Sozialgesetzbuch) vuole che le imprese debbano assumere una determinata quota di persone con gravi disabilità. Le aziende che non ottemperano a quest’obbligo sono costrette a pagare un “fondo di compensazione” che viene utilizzato per supportare le imprese che assumono persone con disabilità, magari tramite la costituzione d’imprese integrative. In questo modo si compensa la minore produttività di alcuni lavoratori e si consente un clima di inclusione che non “lascia indietro” nessuno, permettendo l’inserimento e l’operatività dei lavoratori disabili senza le normali pressioni. Questo rende i posti di lavoro piacevoli e sostenibili per i disabili.

L’impatto sociale sulla zona d’insediamento è evidente già nella tipicità del servizio di prossimità: i supermercati CAP sono posti al centro dei quartieri popolari e non nelle attrezzate aree commerciali di periferia. La spesa può, anzi “deve” essere fatta a piedi, il che è particolarmente importante per gli anziani, le famiglie a basso reddito e spesso prive di automobili, e i servizi di consegna a domicilio premiano la tendenza al risparmio energetico.

La sostenibilità del modello diventa particolarmente evidente quando se ne considera l’impatto diretto sul territorio. Si attua di fatto quella che alcuni chiamano la “politica di rigenerazione”: è assodato che la qualità della vita nelle città cade quando diminuisce o addirittura scompare il commercio in tutte le sue forme tipicamente locali, con le conseguenze del caso anche dal punto di vista dell’aggregazione e della socialità. Le proprietà che si rendono disponibili a prezzi accessibili permettono lo start up di iniziative come CAP, che si qualifica di fatto come freno al degrado delle zone più popolari.

Il brand è gestito dai lavoratori che quindi hanno un interesse primario al suo sviluppo e alla sua affermazione. Il caso CAP è la dimostrazione concreta che il social business e l’innovazione possono essere premiati dai risultati non in nicchie di mercato “dedicate” (ad esempio “equo e solidale”) ma in settori ad alta competitività. La sostenibilità convince eticamente, vince economicamente, ridefinisce il rapporto con il cliente e con il territorio e diventa motore di nuovo business.

Il social business è l’emancipazione dalla logica dell’assistenzialismo, spesso sinonimo di costo sociale improduttivo, parassitismo e mantenimento della penalità. E’ al tempo stesso emancipazione dalla logica della charity e delle donazioni, e ha lo scopo di creare soggetti e modelli di impresa auto-sostenibili, replicabili, scalabili e di effetto duraturo sul disagio, creando valore condiviso per tutta la società. La premessa indispensabile è l’evoluzione culturale diffusa nei confronti della disabilità, che va intesa come risorsa a tutti gli effetti. Le persone disabili possono diventare soggetti attivi e produttivi, eliminando le barriere concettuali, giuridiche e sociali che portano al loro isolamento: dall’esclusione e assistenza all’inclusione e al mercato.

Questo esempio – relativo ad un nuovo modello per la grande distribuzione organizzata – pone con grande chiarezza il tema di come sia possibile prefigurare processi di accelerazione per la trasformazione sia dei contenuti che dei contenitori, attraverso una reale rigenerazione che possa attuarsi anche attraverso l’impresa sociale. Impresa sociale che oggi può essere uno straordinario fattore propulsivo e di matching tra le esigenze delle comunità, il pubblico e l’impresa privata, proprio in quei contesti di confine (urbano, sociale, economico, ecc.) che ancora non hanno espresso un paradigma operativo compiuto.

Si pensi, a questo proposito, a tutto il tema dei beni comuni, che propone significativi punti di intersezione con la missione tipica dell’imprenditore sociale. In un contesto di terza rivoluzione industriale come quella digitale. Proprio nell’ottica di un sistema italiano che cerca nuovi modelli per tornare ad investire. E se per beni comuni si intendono - nelle parole di Sacconi – “i beni di possesso comune, gestiti secondo il criterio dell’open access e della non escludibilità di nessun utente potenziale, entro un certo ambito convenzionalmente definito”, allora vi evince immediatamente quali possano essere le opportunità.

Un tema, quello dei beni comuni, senza dubbio molto attuale ma che necessita, per essere portato a fattore economico, di essere affrontato non solo attraverso il dibattito che coglie gli aspetti regolativi e procedurali, ma proprio nella sua dimensione economica ed imprenditoriale. Prefigurare l’attivazione di un’economia dei beni comuni consente di enucleare il ruolo dei possibili stakeholder, così come prefigurare le possibili strategie di investimento, magari contaminando il campo di applicazione con l’impresa “industriale” delle reti (vedi anche smart greed).

Il tema della governance dei commons – si pensi al lavoro della Ostrom sulle forme di autorganizzazione cooperativa degli utenti dei beni comuni – può assumere un ruolo centrale, anche nella prospettiva di politiche di rigenerazione e di sviluppo locale.

È chiaro che oggi il compito è cogliere le opportunità, in un contesto però ancora indefinito, in cui è difficile afferrare la dialettica tra massimizzazione degli interessi del mercato e gestione pubblica. Anche perseguendo inconsuete “terze” vie come quella dell’impresa sociale, capace di realizzare modelli di business ibridi. Il ruolo strategico che potrebbe giocare l’impresa sociale, nei processi di rigenerazione urbana, è quello di mobilitare risorse sociali per rivitalizzare lo spazio della reciprocità. Si tratta dunque di:

  • ri-socializzare le relazioni di prossimità;
  • promuovere una risposta adeguata ai bisogni relazionali;
  • favorire la co-produzione ed il coinvolgimento dei fruitori dei servizi.

Interessante da questo punto di vista l’intervento di rigenerazione urbana – per ri-materializzare il ragionamento – della ex Polveriera militare di Reggio Emilia, un bene in disuso di proprietà della pubblica amministrazione, contesto in cui un’impresa sociale è stato il driver dell’iniziativa (coincidenza tra committenza ed utenza di primo livello), mettendo in campo una notevole capacità di costruzione di partnership e un ruolo di intermediazione. Un processo di valorizzazione attraverso l’azione da parte di comunità fluide, temporanee, di intenti prima e di azione poi (capacità di realizzare).

In questa prospettiva l’espressione “rigenerazione urbana” ha un significato esteso a tutte le azioni diffuse nel tessuto cittadino che costituiscono il sostegno principale della costruzione dell’offerta complessiva di città e territori in grado di intervenire su qualità, vitalità, funzionamento, efficienza, vivibilità e prestazioni.

Tutto ciò è possibile a fronte del superamento del concetto di destinazione d’uso per approdare a quello di sviluppo d’uso, anche economico (condizioni ed azioni “per”, connessi a spazi e luoghi “per”), un approccio dinamico e non statico, che presuppone la conclusione del processo rigenerativo non nella consegna dello spazio fisico riqualificato, ma nello start up delle attività previste con la comunità nel suo complesso.

Quindi dobbiamo parlare di una riconoscibile relazione dell’ambito di intervento con la matrice del welfare urbano, inteso come insieme delle condizioni che consentono a cittadini e alla comunità il pieno accesso alle risorse del territorio. Ecco perché diventano interessanti soggetti apparentemente estranei alle dinamiche rigenerative edilizie, come l’impresa sociale, con azioni finalizzate al contrasto dell’esclusione sociale attraverso la previsione di una molteplicità di funzioni e di tipi di utenti, con interventi materiali ed immateriali, e con un grande obiettivo: ricostruire una città dei diritti e del lavoro.

Ponendoci in un quadro di ricerca di una maggiore qualità della vita, come il risanamento dell’ambiente urbano mediante la previsione di infrastrutture ecologiche, oppure utilizzando il paradigma della smart city, attraverso la creazione di smart cluster come nodo urbano di una rete di luoghi materiali ed immateriali di interconnessione. Nelle parole della ricercatrice Silvia Sacchetti della Open University: “A fronte di questi scenari, le imprese sociali hanno di fronte l’opportunità di porsi come attori privilegiati, sfruttando le loro caratteristiche e competenze nel coinvolgere dal basso gli attori della comunità. Questo è infatti il tipo di processo che l’impresa sociale mette in pratica nel momento in cui ricerca soluzioni imprenditoriali alle sfide di sviluppo locale (migliorare l’inclusione sociale, l’impegno culturale, la rigenerazione del territorio e l’uso sostenibile delle risorse ambientali e del paesaggio).”

 

Becchetti L., Di Sisto M., Zoratti A. (2008), Il voto nel portafoglio. Cambiare consumo e risparmio per cambiare l'economia, Il Margine, Trento.

Murray R., Caulier-Grice J., Mulgan G. (2010), The open book of social innovation, The Young Foundation, Nesta.

Ostrom E. (1990), Governing the commons, Cambridge University Press, New York.

Phills J.A.Jr., Deiglmeier K., Miller D.T. (2008), “Rediscovering Social Innovation”, Stanford Social Innovation Review, Fall 2008.

Piketty T. (2013), Le Capital au XXIe siècle, Éditions du Seuil, Paris.

Sacconi L., Ottone S. (2015), Beni comuni e cooperazione, Il Mulino, Bologna.

Salamon L.M. (2014), Leverage for Good: An Introduction to the New Frontiers of Philanthropy and Social Investment, Oxford University Press, Oxford.

Venturi P., Zandonai F. (2012), "Innovazione sociale e imprese sociali", Aiccon Working Paper.

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