In questo articolo si riflette sull’ipotesi che uno degli esiti possibili delle esperienze e delle pratiche di auto-organizzazione e innovazione dal basso delle comunità locali – in particolare (ma non solo) nelle aree urbane – possa essere l’impresa di comunità, ancora poco diffusa in Italia, ma presente in altri contesti (es. Regno Unito). Un punto cruciale del dibattito è la possibilità di garantire alle innovazioni nascenti una forma di infrastrutturazione che permetta continuità temporale e quindi possibilità di sviluppo ed evoluzione, anche in termini di impatto. Nella prima parte del saggio verranno discusse le categorie di innovazione dal basso a livello urbano e di impresa di comunità, senza alcun intento strettamente definitorio, quanto più con l’intenzione di proporre alcuni ambiti di sperimentazione per comprendere eventuali incroci tra le due categorie; nella seconda parte verrà illustrata un’esperienza concreta di ricerca sul campo, che ha raccolto e riletto un centinaio di innovazioni dal basso nell’area milanese, per provare a esemplificare alcune questioni interpretative e di scenario. Infine, si cercherà di tracciare alcune implicazioni per le politiche urbane della prospettiva delle imprese di comunità.
This paper deals with the hypothesis that one of the possible outcomes of the experiences and practices of self-organization and bottom-up innovation of local communities – in particular (but not exclusively) in urban areas – may be the community enterprise, which has not yet widespread in Italy, but which already exists in other contexts (e.g. the United Kingdom). A particular attention will be drawn upon the possibility to guarantee rising innovations some form of infrastructures allowing a temporal continuity and, thus, the opportunity to develop and evolve, even as far as their impact is concerned. In the first part of the essay we will discuss bottom-up experiences of innovation both on an urban and community enterprise level, without any attempt to define them, but rather with the aim to propose some experimental fields in order to understand possible connections between the two categories; in the second part we will use a real experience of field-based research, in which almost a hundred of bottom-up innovations in the area around Milan were collected and interpreted, in order to exemplify some interpretative and background issues. Finally, we will try to suggest some implications for urban policies on the perspective of community enterprises.
È da tempo riconosciuto che, a fronte del progressivo ritrarsi del welfare state, e in particolare del welfare locale (socio-sanitario, assistenza, housing, educazione e istruzione, ma anche creazione e manutenzione di spazi pubblici, verde, ecc.), in molte città europee si assiste alla ripresa di un attivismo civico e dal basso che, se per alcuni versi richiama esempi di solidarietà e mutualismo del XIX secolo, per altri si declina e viene facilitato dalla diffusione capillare delle nuove tecnologie. Questo attivismo, di segno certo differente dalle mobilitazioni urbane che hanno contraddistinto la seconda metà del XX secolo, ma anche dalle forme più tradizionali di produzione privata di beni pubblici (ad esempio da parte di organizzazioni di volontariato), si struttura in modalità molto diverse tra loro, tra le quali nuove forme di impresa.
Alcuni osservatori (Moulaert et al., 2007) mettono in relazione l’emergere dell’innovazione dal basso nei contesti urbani con la necessità di tornare a pensare politiche locali rivolte non solo alla competitività su scala globale, ma anche a forme di coesione sociale ed inclusione a livello locale; queste ultime, a lungo elemento strutturante delle politiche locali nelle città europee, sono oggi meno praticate. Oltre che con condizioni strutturali legate all’arretramento dei sistemi di welfare, queste rinnovate forme di attivismo sono state inoltre messe in relazione con le progressive trasformazioni dei modelli di governance locale, in atto da tempo, seppure con modalità e tempi diversi, in molte città europee (Le Galès, 2002; Denters, Rose, 2005). Si è creata una più stretta relazione tra amministrazione pubblica e altri attori privati e del terzo settore, tra cui anche i cittadini, per la definizione e l’attuazione di politiche urbane: questo processo avviene a fronte della frammentazione dei riferimenti politici e nell’assenza della tradizionale modalità di trattamento delle istanze sociali che era un tempo appannaggio dei partiti politici, e in particolare in Italia dei grandi partiti di massa (Della Porta, Andretta, 2001; Della Porta, 2004).
Diviene poi molto rilevante in queste pratiche e sperimentazioni anche la dimensione culturale, con l’emergere in parallelo di una necessità di differenziazione, e di costruzione di nuove identità comuni (Melucci, 1996), capaci di ricreare orizzonti di senso all’interno di società sempre più frammentate.
A partire da questo scenario si delinea un campo aperto a molteplici pratiche, alcune già strutturate, altre in una fase ancora nascente, per le quali il contesto urbano sembra essere privilegiato: in esso, infatti, si concentrano da un lato numerosi problemi, esigenze e bisogni non soddisfatti, dall’altro le risorse che possono essere mobilitate per affrontarli, in particolare facendo leva su elementi quali densità, prossimità, diversità.
L’idea di impresa di comunità rimanda a iniziative dal basso, che vedono la compartecipazione di più soggetti, a volte utenti, in generale finanziatori, che svolgono funzioni di disegno e mantenimento di un’infrastruttura organizzativa in grado di durare nel tempo, la quale mette la comunità al centro della propria mission e del proprio modello di business, secondo però un’accezione costruttivista. Sono infatti intraprese collettive che aggregano persone attorno ad un obiettivo riconosciuto come mobilitante per tutti. Definiscono comunità inclusive: sono agite da gruppi di persone con sistemi di preferenze analoghi, mossi da interessi congiunti, che si riconoscono in obiettivi comuni. Sono rappresentative quindi di comunità di interessi, di pratiche, di progetto, fondate sulla community ownership, legata a prospettive di sviluppo e rigenerazione di asset in qualche modo riferibili ad un territorio (Tricarico, 2014). Potremmo dire che sono imprese place-based, per le quali il capitale sociale rappresenta spesso prerequisito di esistenza, che con la loro azione contribuiscono a rigenerare ed incrementare.
Il dibattito sulle imprese di comunità nel nostro Paese ha guardato in particolar modo alla dimensione cooperativa – perché è questa la forma che più spesso esse assumono – e ai contesti non urbani, in particolare le aree interne – perché questi sono i luoghi delle prime sperimentazioni (Mori, 2014). Sono imprese dai caratteri inusitati, sono “ibridi organizzativi” (Venturi, Zandonai, 2014), nei quali convivono obiettivi, strutture, competenze e forme di relazione che fanno riferimento ad organizzazioni molto diverse e che costringono a ripensare separazioni tradizionali, quale quella tra profit e nonprofit.
La nostra tesi è che le imprese di comunità possono essere potenti fattori di innovazione delle politiche urbane. Il loro operato produce naturalmente trasformazione urbana: nel senso che la loro azione, definendosi in un campo che coincide con un contesto territoriale e non con un servizio da erogare, assume la dimensione locale come posta in gioco rilevante. Esse sono strumenti per lo sviluppo sostenibile delle città.
Un aspetto di rilievo è il tentativo di identificare alcune possibili accezioni del concetto di “comunità” che viene mobilitata: non si tratta infatti di comunità basate sulla condivisione di caratteristiche intrinseche, quali l’appartenenza ad un territorio circoscritto, ma di comunità di scopo, di progetto, di pratiche (Wenger, 1998; Hoadley, 2012). In particolare, per quanto riguarda quest’ultime, il principale collante della rete di soggetti coinvolti – che infatti ritroviamo nelle imprese di comunità – è la dimensione dell’apprendimento mutuo continuo e la dimensione della produzione di conoscenze condivise. Un altro tratto caratteristico è l’elevato grado di identificazione tra partecipanti e comunità, da leggere non in senso statico, quanto nella prospettiva dinamica di costruzione di identità condivise (Melucci, 1996).
All’inizio del 2015 una mostra-dibattito organizzata presso la Triennale di Milano ha provato a riflettere sull’innovazione dal basso nell’area milanese e sul suo potenziale trasformativo rispetto a diverse arene di policy. Questa iniziativa ha raccolto un centinaio di esperienze, “segnali di futuro” nella produzione dei servizi collettivi, nelle forme del lavoro, nei modi di abitare, nella creazione di coesione sociale, nelle strategie quotidiane di cura del benessere individuale e collettivo, nelle pratiche culturali e della mobilità[1].
Roberto Chiappella vive nel condominio di Via Rembrandt 12 a Milano, da circa 40 anni. È un bibliofilo. Gli piace l’idea di rendere questa sua passione privata un progetto che possa essere a vantaggio di altri. Da quando è in pensione, si impegna per realizzarlo: propone all’assemblea di condominio di trasformare l’ex portineria in biblioteca. Aiutato anche da altri, che scopre essere pure loro appassionati di libri, finisce per raccogliere oltre 5 mila volumi. L’ex spazio del custode diviene luogo di incontro per i condomini e poi si apre alla città. Oggi funziona come una normale biblioteca civica, aperta tre giorni alla settimana. I promotori non hanno mai voluto strutturarsi in qualcosa di formale (un’associazione, ad esempio). Si stanno chiedendo se proseguire così o meno.
Elena Donaggio è una ricercatrice nel campo delle politiche urbane: pensa sia interessante usare gli spazi aperti della città per promuovere le pratiche sportive. Andrea Zorzi è uno sportivo, campione olimpionico di pallavolo: crede che per portare più gente a praticare sport, cosa che gli sta molto a cuore, non ci sia bisogno di impianti dedicati. Propongono al Comune di Milano un progetto dal titolo “MI Muovo, la palestra sotto casa che non sai di avere!”. Nell’estate del 2013, per alcune settimane, una piazza ed un parco della città ospitano un calendario di attività sportive aperte a chiunque. È una idea scalabile: gestire spazi pubblici con queste finalità può diventare impresa e lavoro.
Due anni fa un gruppo di ricercatori e studenti del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, coordinati da Francesca Cognetti, organizza il workshop “Mapping San Siro”, che ha l’obiettivo di costruire nuove rappresentazioni del quartiere di edilizia pubblica di San Siro a Milano. Al termine del workshop si decide di continuare il lavoro di indagine, aprendo uno spazio nel quartiere. Nasce “30MetriQuadri”, un locale ex-commerciale, divenuto un luogo di presidio: aperto due giorni a settimana, accoglie incontri, seminari e iniziative per il quartiere. Il gruppo promotore si sta interrogando su come proseguire questa esperienza.
“Ènostra” è una cooperativa che fornisce ai propri soci energia da fonti rinnovabili. Intende sostenere la transizione verso un sistema carbon free e il disinvestimento dalle fonti esauribili. La selezione degli impianti avviene sulla base di criteri di compatibilità ambientale e responsabilità sociale dell’impresa produttrice. L’idea è che l’energia vada consumata in modo riflessivo, come il cibo, e che ciò può influenzarne positivamente la produzione.
Sono segnali di futuro: in alcuni casi hanno dato luogo a risultati importanti, in generale potrebbero evolvere in qualcosa. Il percorso di evoluzione non è sempre segnato, l’approdo è incerto e il percorso può avere cambiamenti di direzione: i risultati raggiunti sollecitano a dare nuovi orizzonti di senso alla propria azione perché accontentarsi della routine bloccherebbe l’innovazione. Non sono prodotti finiti, sono “opere aperte”: dipendono da attori non pigri, che mettono a fianco l’un l’altro, creativamente, pezzi (problemi, risorse, opportunità, altri attori) che insieme, secondo logiche consuete, non dovrebbero stare.
Quali comunità producono queste pratiche? Sono comunità territoriali, a diverse scale: di condominio, di strada, di quartiere, e oltre. Costruiscono locali diversi, nel senso che la loro locality coincide con lo spazio definito dalla loro azione e dalle reti di relazioni che intrattengono con altri attori[2]. Avendo un rapporto con il locale di natura progettuale, il tratto identitario risulta spesso debole; sono sempre piuttosto comunità di progetto, di interessi, di pratiche[3]. In quanto comunità, interpretano la produzione e l’erogazione di servizi di welfare secondo una prospettiva niente affatto universalistica (infatti spesso danno luogo a beni di club, come l’housing sociale). Consumano, ma anche riproducono, capitale sociale. Nascono dove esistono diffuse capabilities, che contribuiscono a consolidare ed estendere: frequentando diversi campi di policy, costringono altri attori a sconfinare e dunque a sviluppare nuove abilità. Costruiscono e mobilitano risorse comuni e possono dunque essere legittimamente ascritte alla lista dei produttori di beni comuni, anche se non possono essere confuse con sentimenti di nostalgia per un pubblico statuale (che pure pervadono molto del dibattito dei “benecomunisti”). Si trovano anzi a loro agio dentro prospettive di natura liberale: sono più facilmente associabili ad esempi della big society promossa dal governo Cameron, che a manifestazioni della “azione popolare” professata da Settis.
Nessuna delle pratiche cui abbiamo accennato è al momento una impresa di comunità, anche se alcune ne possiedono i caratteri. Pensiamo che riflettere sui loro possibili percorsi di evoluzione, avendo in mente la forma dell’impresa di comunità, possa aiutare nel disegno del loro sviluppo e consolidamento. Più in generale, i segnali di futuro appartengono a campi diversi. Alcuni sono orientati a permettere di vivere meglio insieme, a sviluppare strategie di condivisione, forme di combinazione di diversi servizi, modalità poliedriche di uso, appropriazione e trasformazione degli spazi della vita quotidiana; altri servono a pensare, inventare, produrre e condividere conoscenza e cultura. Alcuni sono centrati su nuovi modi di scambiare e produrre valore, attraverso il superamento delle barriere tra proprietà ed uso, tra affitto e prestito, tra accessibilità ed esclusione; altri invece mettono in atto modi nuovi di spostarsi, di produrre energia, di impattare meno sull’ambiente, trasformando comportamenti quotidiani in atteggiamenti di responsabilità sociale. Altri ancora, dalla nuova agricoltura alla diffusione dell’artigianato 2.0, rivisitano le forme della produzione e del lavoro; per queste pratiche fare è un modo di stare nel mondo: orientamento pratico, tensione progettuale, conversazione riflessiva con gli oggetti del proprio fare e con la propria comunità di riferimento.
I segnali di futuro permettono di mettere a fuoco alcuni nessi tra innovazione dal basso, generazione di valore condiviso e processi di impresa in campo urbano, che vorremmo discutere a partire da sei prospettive di relazione.
Il primo nesso è quello tra crisi, innovazione urbana e impresa. La crisi economica ha accelerato i processi innovativi. Giovani e meno giovani inventano e re-inventano (sono costretti a farlo) la propria occupabilità: riformulano problemi, trovano soluzioni innovative. Le piccole economie che ne nascono spesso sono di sussistenza e di autoimpiego, ma potrebbero evolvere verso forme più evolute. Ne consegue che il fare impresa è relativamente più facile che in passato, perché il costo opportunità è più basso: le opportunità altre sono meno possibili, così come i redditi elevati. Diventa impresa ciò che, fino a non molto tempo fa, non sarebbe stato concepito come terreno dell’intraprendere. Il civismo si fa lavoro e, sempre più spesso, impresa, sia nel senso che le forme associative in molti casi diventano punti di partenza per fare impresa (in forma cooperativa o come srl, in alcuni casi impresa sociale), ma anche che temi civici (come la condivisione o lo stare bene insieme) diventano occasioni di impresa. Producono commons per la società: regole, standard, dispositivi. Facendosi veicoli di innovazione urbana, danno luogo a nuove modalità di trattamento di domande sociali, producono nuove relazioni nella comunità. Generano “energia sociale” (Hirschman, 1984). Si comportano come “istituzioni intelligenti”, che generano nuove capabilities e ne facilitano la diffusione (Donolo, 1997).
Il secondo nesso è tra processi di progettazione e processi di implementazione nell’innovazione urbana. Le pratiche osservate imparano e innovano facendo e interagendo. L’interazione con clienti, utenti, partner è centrale nelle pratiche, in quanto è fattore abilitante, di coesione interna, di conoscenza del mercato, di sopravvivenza e condizione per la replicabilità e la scalabilità. Sono forme di progettazione integrata, secondo diverse accezioni: perché nel corso del loro sviluppo si allargano e riconnettono più sistemi di azione; perché sono l’esito dell’azione di attori che al principio si pensavano soltanto come progettisti di una policy, ma che scoprono, nel corso del processo, di voler sperimentare nuovi ruoli e si muovono verso l’attivazione in prima persona, integrando così più fasi diverse del ciclo di policy (dal disegno alla gestione); perché, per trattare un problema locale, devono riuscire a mobilitare risorse e attori non locali, ridefinendo e integrando il campo di azione (Barca, 2011). Incorporano dimensioni di design e making. E si rifiutano di distinguerle: la prima si completa con la seconda e il “fare” dà la misura della rilevanza del progetto. Sanno che l’incontro con la realizzazione interroga la progettazione, è strategia di indagine che apre ad una conversione riflessiva con l’oggetto del proprio esercizio di design (Schön, 1987). Ma soprattutto – per questo sono rilevanti – trattano queste due dimensioni in modo originale: design non è planning e making non è solo fare irriflessivo. Design è piuttosto attività anticipatoria, che si colloca “always one step ahead of the material” cui è riferita (Sennett, 2008 - p. 175). D’altro canto, il fare interroga il pensiero progettuale in modo inconsueto: “if the mind wants to be involved in the process of making, it must be not only open but forward-looking, in the direction of as-yet-unknown creation” (Spuybroek, 2011 - p. 160).
Il terzo nesso riguarda la relazione tra fare impresa e politiche pubbliche. Va riconosciuto che oggi sono ormai largamente cadute le barriere ideologiche sull’impresa, per cui il valore creato può avere utilità sociale ed essere condiviso a beneficio di tutti i portatori di interesse. Anche le imprese con finalità di lucro si rivolgono alla comunità come attore rilevante del processo produttivo, nella dinamiche di open innovation e di co-progettazione di beni e servizi più vicini ai bisogni dei cittadini. La funzione di produzione non considera più solo l’utilità del consumatore ma l’utilità sociale, intesa come beneficio collettivo per una determinata comunità, che l’attività di impresa è in grado di generare.
Le imprese che hanno questa etica possono trattare problemi pubblici, non solo le istituzioni. D’altro canto, gruppi e individui paiono sempre più interessati alle policy, prima lo erano alla politics. Gli attori dell’innovazione sono più imprenditori che lavoratori. Indipendentemente dalle infrastrutture giuridiche e dalla definizione dei contratti (anche nel caso del volontariato), i protagonisti delle pratiche imprendono, assumono dei rischi, rinunciano momentaneamente al reddito, validano continuamente prodotti e servizi e li adattano ai bisogni. E infatti le forme giuridiche adottate sono le più varie, e cambiano nel tempo; gruppi informali, associazioni, imprese cooperative e imprese a responsabilità limitata, consorzi e reti d’impresa sono i vestiti formali delle pratiche.
Su un piano più generale, alcuni segnali di futuro producono servizi oltre la sfera del pubblico, spesso in competizione con le istituzioni, alieni da logiche tipiche della erogazione di servizi pubblici in regime di accreditamento. Ciò non esclude la collaborazione con il settore pubblico; abbandonando l’approccio della sussidiarietà, il fare impresa (di comunità) sollecita la riqualificazione della sfera pubblica, secondo la logica della distinzione e dei processi abilitanti. Nel fare impresa la dimensione pubblica assume una rilevanza identitaria e strategica. I segnali di futuro indicano che l’obiettivo dell’imprendere non è solo profitto o il reddito ma che, al contrario, va affermandosi un modello in cui la dimensione di utilità pubblica (produzione di beni pubblici, esternalità positive, ecc.) sta diventando prevalente.
In altri paesi, questo tipo di processi è riconosciuto da tempo e sostenuto. Un confronto serio con quanto avvenuto nel Regno Unito, nel lungo ciclo che pigramente definiamo “neo-liberista” (intrapreso da Thatcher, proseguito in qualche modo con Blair e giunto a Cameron), metterebbe in evidenza connessioni interessanti fra orientamenti di politics e attivazione della società nelle policies. Da un lato, occorre notare che la politica di deregolamentazione dei governi conservatori inglesi a partire dalla fine degli anni Settanta, riducendo l’ampiezza dell’intervento statale e la capacità di penetrazione nella società, ha permesso l’emergere di approcci innovativi alla produzione di beni pubblici. Dall’altro, va detto che la strategia della Big Society di Cameron, perseguendo un approccio da “stato minimo” e trasferendo sempre maggiori spazi di autonomia alle organizzazioni della società civile, colloca l’azione delle community enterprises nel quadro più generale della riforma del sistema dei poteri pubblici. Alle comunità locali, il Localism Act del 2011 affida infatti diversi diritti, tra i quali quello di gestire servizi attualmente erogati dall’ente locale (right to challenge); di acquisire un asset (pubblico o privato, inserito in specifiche liste di assets of community value), attraverso la partecipazione ad una gara (right to bid); di proporre sviluppi immobiliari (community-led developments), redigendo un neighbourhood plan (right to build)[4].
Il quarto nesso riguarda l’innovazione urbana e il conflitto. Molte innovazioni scaturiscono, anche indirettamente, dal conflitto e dalla messa in discussione del modello economico e sociale dominante. In alcuni casi, come contrapposizione a progetti sgraditi, gruppi e associazioni non confinano se stessi alle sole strategie di tipo Nimby, ma piegano il conflitto alla produzione di controprogetti, si mobilitano attivamente per dare corso a differenti proposte, trovando in questi la palestra per affinare capacità e crescere nell’organizzazione[5]. Dal conflitto nasce l’auto-organizzazione, la condivisione, il fare con meno, che leggiamo in molte pratiche, apparentemente lontane dai luoghi e dagli attori del conflitto. In altri casi, alcune tra le innovazioni interessanti si configurano come un sabotaggio delle prassi consolidate, infrazione di regole scritte e non scritte. Ciò avviene quando una molteplicità di gruppi e iniziative dal basso forniscono di fatto beni e servizi lasciati scoperti da altri operatori, pubblici o di mercato, ma lo fa al di fuori di un perimetro formale, a volte addirittura in modo illegale. La formalizzazione e l’istituzionalizzazione di queste pratiche allora non hanno solo a che vedere con la forma giuridica in senso stretto (impresa, cooperativa, associazione, …), quanto con il senso che queste sperimentazioni assumono, e con la possibilità di consolidarle, irrobustirle, eventualmente diffonderle, piuttosto che irrigidirle con requisiti formali.
Il quinto nesso è tra fare impresa e fare in condivisione. Le due cose vanno insieme. Le ragioni sono legate alla disponibilità di risorse, alla ricerca di legami, alla condivisione delle responsabilità, all’accesso a clienti. La condivisione è interpretata spesso come bene di club. L’interazione analogica e quella digitale si mischiano e diventano strumenti per abilitare collaborazioni e condivisioni. Le pratiche di questa natura si presentano come un “pubblico minore”, che si costituisce per l’occasione, su base volontaristica, per reciproca utilità e con legami solidaristici (Bianchetti, 2014). Sono “spazi della condivisione”, dove si danno azioni orientate (intenzionalmente o meno) a ispessire il legame sociale. Si collocano a metà tra la pura appropriazione individualistica e l’ossessione comunitaria. Sono lontane dal comunitarismo regressivo delle gated communities, mentre sembrano reinterpretare in chiave progettuale le prospettive insorgenti del comunitarismo bottom-up.
Un ultimo nesso è tra innovazione e processi di partecipazione. Le pratiche di cui parliamo sono una forma emergente di presa in carico di problemi pubblici da parte della società. Sono agiti da attori che – lo avevo colto Paolo Fareri circa quindici anni fa – "implementano politiche pubbliche 'di fatto', che si affiancano, si contrappongono o spesso si sostituiscono a quelle istituzionali" (Fareri, 2009). Sono forme di produzione del pubblico, secondo regimi che non sono di supplenza né nei confronti del pubblico, né del privato. Sarebbe riduttivo leggerli come risposte a market failures o state failures. E neppure pare pertinente richiamare la nozione di sussidiarietà, che "raramente ricopre la cooperazione tra pari" (Pichierri, 2014 - p. 209). Sono – sempre seguendo Pichierri – ordinamenti produttivi di “beni pubblici locali”[6]. Sono molto lontani dalle esperienze di community involvement degli anni Settanta, che erano manifestazioni di un conflitto urbano organizzato attorno ad issues definite dai grandi organizzatori della domanda sociale. Ma non sono neppure l’esito di pratiche partecipative codificate secondo percorsi di “partecipazione progettata”, come nei numerosi esercizi di democrazia deliberativa che affollano l’arena pubblica. Hanno superato il problema di avanzare domande alla sfera politica. Non hanno bisogno di chiedere, perché semplicemente fanno, rendendo così vetusta la partecipazione come maieutica delle volizioni degli attori, che continua a costituire l’orizzonte teorico-metodologico della partecipazione assistita (Romano, 2012). Sono l’espressione di attori che, non volendo più ingaggiare un confronto con la politics o avendo smesso di esserne fonte di legittimazione, hanno iniziato a occuparsi di policies.
Oggi le città manifestano domande di intervento che sollecitano nuove forme di impresa. La prima fa riferimento all’housing. Le difficoltà crescenti nella produzione e nella gestione di abitazioni sociali ha reso evidenti i limiti dell’offerta pubblica. La necessità di reperire “gestori sociali”, in grado di condurre in modi più efficienti gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma soprattutto di associare funzioni di property e facility management a quelle di promozione della coesione sociale, apre un campo di azione molto ampio per soggetti come le imprese di comunità. Si pensi infatti alla possibilità di affidare loro la gestione di parti del patrimonio Erp di proprietà delle aziende ex Iacp, degli stessi Comuni o di altri enti pubblici, sulla base di progetti costruiti per ambiti territoriali, che associno la gestione immobiliare alla provvista di servizi complementari alla residenza e alla attuazione di iniziative di inclusione. Un altro esempio è l’ipotesi di procedere con interventi di alienazione di alloggi Erp, non a favore del singolo occupante, ma di gruppi di abitanti costituiti in cooperative. Ciò permetterebbe di irrobustire il profilo di questi soggetti attraverso strategie di patrimonializzazione.
La seconda dimensione insiste sugli aspetti gestionali, ma estende le possibilità di interventi dal campo dell’housing a quello più generale del patrimonio immobiliare pubblico. Gli esempi non mancano: a Milano vi sono alcune esperienze di frontiera su questo fronte. Il Comune sta infatti sperimentando modalità di assegnazione di immobili di proprietà che versano in condizioni di abbandono o comunque di degrado ad associazioni e gruppi, a fronte di progetti con finalità sociali e culturali. Tuttavia il tema si può ampliare anche alla gestione di beni pubblici, quali aree verdi o impianti sportivi, dove sollecitare la presa in carico di questi beni da parte di gruppi di abitanti, che potranno poi consolidarsi in imprese di comunità. Esperienze di questa natura sono ormai diffuse in molte città d’Europa e la stessa Commissione le presenta come esempi di buone pratiche per avvicinare i traguardi delle Cities of Tomorrow (EC, 2011).
Un’ultima dimensione importante è quella delle community enterprises come esempi dei nuovi makers urbani. C’è una cospicua letteratura e diverse esperienze che indicano nella crescita di filiere urbane innovative, che connettono produzione e servizi, e mostrano spiccata propensione alla sperimentazione nei modelli organizzativi, un potente fattore di sviluppo. Si pensi, ad esempio, al capitolo dell’economia della condivisione o della collaborazione, la cui espansione risponde certo ad esigenze maturate in una congiuntura economica di crisi, ma che contiene anche indizi rilevanti, in termini di ridefinizione dei modelli di crescita, dell’emergere di nuovi attori dello sviluppo e di nuove forme di collaborazione. È evidente come si tratti di un ambito potenzialmente ricco per la nascita e il consolidamento di imprese di comunità, con significativi radicamenti locali, sia in ambito urbano che nelle aree interne.
A partire da questi ultimi punti sugli ambiti d’azione privilegiati e dalle questioni poste all’inizio dell’articolo, è possibile proporre alcune riflessioni conclusive: i contesti urbani contemporanei, contraddistinti da emergere di bisogni non trattati, e allo stesso da forme, seppure embrionali, di attivismo dal basso, possono essere visti come sistemi integrati di azione plurimi dove esercitare l’intervento delle imprese di comunità.
Le esperienze citate, insieme a moltissime altre nel nostro Paese, indicano un movimento importante verso il trattamento di problemi collettivi o verso la valorizzazione di opportunità di intervento in ambito pubblico, per i quali la società si mobilita e tende a fare da sé, o in un rapporto con il settore pubblico che vuole essere di confronto; non sussidiario ma di co-progettazione; non da rent seeker ma di natura agonistica.
In alcuni casi, le istituzioni hanno favorito e accompagnato l’emergere di questo fenomeno. Un esempio noto è quello dell’iniziativa Bollenti Spiriti di Regione Puglia. Vanno segnalati inoltre i numerosi bandi, gare, call per idee progettuali, contest che amministrazioni locali – a volte in partenariato con fondazioni, organizzazioni, imprese – hanno lanciato in questi anni per, ad esempio, proporre nuovi programmi funzionali per immobili, impianti o aree dismesse. In alcuni casi, non hanno solo sollecitato un coinvolgimento sul piano progettuale, ma hanno anche richiesto impegno in termini di gestione. Da questo punto di vista, l’esperienza dei Laboratori Urbani della Regione Puglia – immobili dismessi di proprietà dei comuni, la cui gestione è affidata, via bando, ad imprese e associazioni di giovani – è un caso di riferimento. Ma basta anche gettare lo sguardo fuori dall’Italia e la casistica diventa molto amplia (Karvonen, Van Heur, 2014).
In molti contesti, si diffondono iniziative caratterizzate dalla cura dei meccanismi di integrazione tra protagonismo sociale e resto della comunità. Si tratta di strutture, regolazioni, policy tools, che cercano di disegnare e accompagnare mobilitazione degli attori e prospettive di cambiamento locale. Prime riflessioni in questo senso stanno emergendo a Milano da parte della rete dei Laboratori Urbani ormai presenti in vari quartieri, relative all’integrazione tra politiche di rigenerazione, housing e inclusione sociale. Inoltre è possibile pensare, sempre nel contesto milanese, alle iniziative di coesione sociale promosse da Fondazione Cariplo o anche ai casi di progetti al confine tra rigenerazione urbana e promozione delle culture locali (come “Dencity” al Giambellino).
Che ruolo svolge il soggetto pubblico in tutto ciò? Noi pensiamo debba soprattutto costruire condizioni per la diffusione dell’innovazione e la capacitazione degli attori; orientare le risorse finanziarie sui processi abilitanti distogliendole dalle opere; irrobustire il profilo progettuale e di capacità di management della società, anche pensando a favorire occasioni di patrimonializzazione per le comunità, chiamate non più solo alle sfide della progettazione e della gestione, ma anche a quella dell’acquisizione di asset pubblici. Come chiarisce un documento di linee guida in questo campo, elaborato dal Ministero del Tesoro inglese: “the public sector holds financial, corporate and physical assets in the pursuit of policy objectives and not for its own sake or for the creation of profit” (Lowe, 2008 - p. 4). Su questo stesso filone di ragionamento, si pone il capitolo dei fondi per il community development: potrebbe essere il tempo di sperimentare anche nel nostro paese impact funds per sostenere lo sviluppo di economie locali[7].
In conclusione, i terreni su cui esercitare l’innovazione sono numerosi. A puro titolo di esempio:
Sono altrettanti ambiti di sperimentazione di una possibile agenda urbana nazionale, che identifica campi per l’esercizio di progettazioni creative, grazie alle quali riconoscere e ingaggiare nuovi attori: attori del campo sociale che sperimentano incursioni nella rigenerazione di quartiere difficili; imprese che mettono a profitto il civismo e la condivisione; gruppi locali e giovani creativi che si ridefiniscono makers; cooperative sociali che si avventurano su nuovi modelli di business. Quelle che abbiamo citato sono fenomeni che già avvengono: si tratterebbe di riconoscerli e, se ritenuti interessanti, provare a dar loro gambe. Identificare attori innovativi e aiutarli a produrre lavoro e impresa.
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