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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2014

Saggi

L'impresa sociale nella cornice del benessere equo e sostenibile

Nereo Zamaro, Elisabetta Segre

Abstract

Il tema dell’impresa sociale, e più in generale dell’economia sociale, è al centro del dibattito pubblico e degli indirizzi di politica economica. In questo saggio, dopo un’analisi del concetto di economia sociale così come presentato nella letteratura scientifica e nel discorso politico, si proporrà un’accurata disamina di come il tema viene approfondito nel Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) elaborato dall’Istat, un’esperienza di primo piano nel filone di ricerca internazionale sulle misure di progresso. L’intento è quello di ripensare all’impresa sociale nella cornice del BES, sia da un punto di vista teorico che di misurazione, individuando punti di forza e debolezza. Il saggio si  conclude con due proposte di miglioramento, utilizzando informazioni dall’archivio ASIA e dal Censimento delle Istituzioni Non Profit dell’Istat.


The theme of social enterprises and, more in general, of social economy is at the center of the public debate and of the political guidelines. This article analyzes the concept of social economy as presented in technical literature and in the political discourse. It is followed by a careful examination of how the concept is tackled in the Report on Equitable and Sustainable Well Being (BES) edited by Istat (Italian National Institute of Statistics), a leading experience in the international research field on measures of progress. The BES approach to the social economy is reviewed both from the theoretical and the statistical point of view, and its strengths and weaknesses are identified. The paper ends with two suggestions for improvement, using information derived from the Archive on Enterprises (Asia) and from the Istat Census of Non-Profit Institutions.

Questo articolo presenta esclusivamente opinioni degli autori che non potranno in alcun modo essere attribuibili all’istituto di appartenenza.

Premessa

Il tema dell’impresa sociale e, più in generale, dell’economia sociale, continua ad essere al centro dell’attenzione pubblica soprattutto per effetto di una serie di linee guida che, a partire dal 2008, sono state formalizzate anche dalla Commissione Europea. In Italia, il confronto al quale erano inizialmente interessati quasi esclusivamente gli addetti ai lavori - in forma isolata o attraverso piattaforme messe a disposizione da organizzazioni di rappresentanza o da altri think tank di area - si sta ora ampliando, con esiti ancora poco chiari, grazie all’attenzione suscitata dalla recente proposta del Governo italiano di mettere mano a varie norme che potrebbero incidere sul profilo generale del terzo settore italiano.

In particolare, nelle Linee guida per una Riforma del Terzo Settore, si legge che i presupposti su cui gli interventi normativi in gestazione potrebbero essere disegnati, possono essere così indicati:

“[…] Noi crediamo che profit e non profit possano oggi declinarsi in modo nuovo e complementare per rafforzare i diritti di cittadinanza attraverso la costruzione di reti solidali nelle quali lo Stato, le Regioni e i Comuni e le diverse associazioni e organizzazioni del terzo settore collaborino in modo sistematico per elevare i livelli di protezione sociale, combattere le vecchie e nuove forme di esclusione e consentire a tutti i cittadini di sviluppare le proprie potenzialità.

Tra gli obiettivi principali vi è quello di costruire un nuovo Welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del terzo settore al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali, al fine di ammodernare le modalità di organizzazione ed erogazione dei servizi del welfare, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini, tra pubblico e privato, secondo principi di equità, efficienza e solidarietà sociale.

Un secondo obiettivo è valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e occupazionale insito nell’economia sociale e nelle attività svolte dal terzo settore, che, a ben vedere è l’unico comparto che negli anni della crisi ha continuato a crescere […]

[…] Il terzo obiettivo della riforma è di premiare in modo sistematico con adeguati incentivi e strumenti di sostegno tutti i comportamenti donativi o comunque prosociali dei cittadini e delle imprese, finalizzati a generare coesione e responsabilità sociale.” (Governo Italiano, 2014; pp 1-2 - corsivo degli autori).

Il quadro ideale delineato nella citazione sembra a prima vista auto-evidente. In esso si configurano, pur sinteticamente, tre aree-obiettivo distinte. Infatti, al di là dell’evidente intenzione di voler “declinare” tutti i settori dell’economia secondo regole ed opportunità “complementari”, “collaborative”, “partecipative”, è implicitamente suggerita una netta distinzione di posizionamento tra mondo dell’economia sociale e mondo del terzo settore. Non a caso si individua anche un obiettivo specifico, il secondo, su cui indirizzare le iniziative legislative future, mirando a sviluppare le potenzialità (definite “straordinarie”) dell’economia sociale e del terzo settore.

Purtroppo le potenzialità di cui si parla per entrambi sono evidenti quasi esclusivamente per il terzo settore, essendo per questo disponibili i risultati del Censimento delle istituzioni non profit del 2011, mentre per il primo, l’economia sociale, le evidenze sono ancora frammentarie, instabili e fragili sotto il profilo concettuale. Inoltre le potenzialità sono declinate soprattutto concentrandosi (è un caso o si tratta di un bias, come dire, culturale?) sulle politiche di welfare, dimenticando la sostenibilità ambientale. Infatti le imprese sociali - e più in generale l’economia sociale - potrebbero potenzialmente risentire della vocazione all’offerta di servizi di welfare meno di quanto sia capitato, negli ultimi decenni, alle istituzioni non profit orientate al mercato. Le nuove imprese sociali si potrebbero infatti posizionare in mercati diversi - o da generare ex-novo - costruiti da persone che, da sole o in modo organizzato, sono alla ricerca di un proprio posizionamento lavorativo e professionale, capace di rispondere, ad esempio, a una domanda di beni e di servizi eterogenea e non ancora consolidata, identificabile grazie a contatti o secondo processi di consultazione ad hoc e alla quale rispondere offrendo prodotti capaci di rispettare maggiormente le esigenze di vita, di tutela dell’ambiente e di coinvolgimento trasparente dei contraenti nella determinazione della qualità dei beni e dei servizi scambiati.

Di fatto, il tipo di bene e di servizio erogato non sembra affatto distinguere in modo netto, o predeterminare, la natura delle imprese sociali (o l’acquisizione di una forma organizzativa analoga), soprattutto - almeno per amore di flessibilità nell’adozione di eventuali programmi normativi - se si considera ciò che accade in altri Paesi, dove queste imprese possono operare ad esempio nell’agricoltura, per realizzare programmi di sviluppo urbano oppure per prendersi cura di beni comuni incidenti in ambiti territoriali e umani circoscritti.

Come mai le evidenze statistiche disponibili sono più robuste per il mondo del terzo settore che per il mondo dell’economia sociale? Inoltre, in che misura questi due mondi possono essere considerati sovrapponibili? Con quali effetti, statistici e reali? In parte la risposta è scontata. Le attività delle imprese sociali, in quanto imprese, sono rilevate nell’ambito delle normali attività di acquisizione e di analisi dei dati sulle imprese in generale, ma non sono identificate in modo distintivo, come invece può accadere per le imprese o per le istituzioni che sono riconoscibili statisticamente come unità economiche non profit - nonostante quanto sia indicato nella risoluzione del Parlamento Europeo (Parlamento Europeo, 2009) e si suggerisca nella Comunicazione sulla Social Business Initiative della Commissione Europea (Commissione Europea, 2011). Nel caso del non profit, infatti, è possibile adottare una definizione statistica ufficiale e da essa far dipendere una serie di conteggi e misurazioni statisticamente appropriati (United Nations, 2003). Per le imprese sociali ciò non è ancora possibile. Parallelamente, anche una definizione ufficiale di economia sociale non è ancora stata formulata (anche se alcuni tentativi indipendenti in questa direzione sono stati fatti (CIRIEC, 2012)).

Per cominciare a chiarire i confini che distinguerebbero, almeno sotto il profilo concettuale, non solo il mondo dell’economia sociale dal mondo del terzo settore, ma anche i confini tra questi e i mondi delle imprese for profit e delle amministrazioni pubbliche, uno schema utile (Figura 1a e Figura 1b) è quello proposto da Lewis (Lewis, 2007) e da Pearce (Pearce, 2003) a proposito di quella che viene chiamata provvisoriamente economia della solidarietà, sfera che non va confusa con quella dell’economia sociale. Lewis osserva:

“The solidarity economy is conceptually located at the intersection of the private, public, and social economy sectors. Whereas the social economy is often referred to as the third sector, occupying the societal space between the public and private sectors, the solidarity economy is being defined as explicitly involving all three sectors.” (Lewis, 2007; p. 8).

L’economia sociale (Figura 1a) si sostiene - nel contributo che diversi tipi di imprese sociali, tra le quali le cooperative, danno a vari gruppi di cittadini (poveri, immigrati, etc.) - rispondendo ad esigenze di cui essi sono portatori per il tramite dei servizi che esse erogano; tale processo, peraltro, è attivato coinvolgendo direttamente i gruppi di persone nello svolgimento delle attività d’impresa. In questo contesto l’economia sociale rappresenta un sottoinsieme del terzo settore dell’economia, costituito da quelle unità non profit che conseguono i loro scopi sociali attraverso la vendita sul mercato dei beni e dei servizi prodotti.

Figura 1a: Sistemi dell’economia, economia sociale ed economia solidale | Fonte: Lewis (2007)

L’economia della solidarietà (Figura 1b), invece, si ritaglierebbe uno spazio nei diversi settori di cui l’economia di produzione si compone e punterebbe a giocare una partita più sofisticata, che mira a modificare il modo di operare prevalente nei tre settori dell’economia fin qui riconosciuti. Secondo questa prospettiva, continua Lewis:

“[…] what becomes important is not so much what part of the three systems one occupies, but whether commitments and actions within any one of the three reflect the ‘life-damaging, growth-addicted features of low road capitalism’ or whether they reflect high road strategies where ‘the values of justice, inclusion, balance, diversity, ecological sustainability, and economic viability’ are actively shaping decisions.” (Lewis, 2007; p. 10).

Figura 1b: Sistemi dell’economia, economia sociale ed economia solidale | Fonte: Lewis (2007)

In particolare, considerate le caratteristiche proprie dell’economia sociale, i punti di contatto tra essa e il mondo dell’economia della solidarietà possono essere molteplici, tuttavia l’analogia non deve essere spinta troppo oltre, poiché:

“[…] it is too conceptually restricted to adequately inform strategy and action, particularly in light of peak oil and climate change, the implications of which cut across all segments of human society.” (Lewis, 2007; p. 11).

La strategia e l’azione su cui si orienta l’economia della solidarietà è definita in modo molto diretto. Lewis afferma infatti:

“In a context where human life and most earth creatures are at risk, the challenge is to mobilize the best of what we can bring to a common table. Governments, consumers, business, and civil society must find ways to concentrate our individual and collective attention on the goals of radically reducing our use of fossil fuels and consciously adapting to more local, bio-regionally based patterns of living. No sector or segment of society can do it alone. These two overarching goals, by their very nature, transcend the logic that divides the social economy and civil society from the private and public sectors. Solidarity becomes an economic, social, cultural, and moral resource by which those people, organizations, and institutions in each sector—those with sufficient vision and commitment to act in the interests of the planet and both present and future generations—can bind their investment of time, talent, and resources into building an economy based on reciprocity and intergenerational equity.” (Lewis, 2007, p.11).

Ora, è evidente che la prospettiva un po’ sbrigativamente delineata nelle Linee guida del Governo italiano precedentemente citate risponde solo in parte o, forse, non risponde in modo coerente, né per la natura né per l’ampiezza dei target indicati, ad un tipo di sfida come quella suggerita nella citazione di Lewis, mentre probabilmente questa potrebbe essere una sfida all’altezza delle ambizioni di una politica di cambiamento o per il cambiamento responsabile.

Come osservato, coloro che si occupano di economia della solidarietà cercano di fare la loro parte, in quanto produttori o in quanto consumatori, modificando i modi di produzione o di consumo, “investendo il tempo, il talento e le risorse per costruire un’economia basata sulla reciprocità e sull’equità intergenerazionale”. Un simile investimento potrebbe contribuire in misura determinante al benessere della società, di quella attuale e di quella futura.

Ci chiediamo: come è possibile “misurare” un tale contributo? Dei primi passi in questa direzione sono stati compiuti, in questi ultimi anni, da chi ha cominciato a lavorare sulla nozione di benessere equo e sostenibile, provvedendo ad individuare le dimensioni utili per un’analisi e gli indicatori statistici che potrebbero alimentarla stabilmente. Nei successivi paragrafi si presenterà sinteticamente il lavoro svolto in Italia, e non ancora concluso, per costruire un sistema di indicatori (o forse in futuro anche un indice sintetico) di “benessere equo e sostenibile” e, soprattutto, si verificherà se e in che misura un’analisi del benessere potrebbe beneficiare dell’inclusione di indicatori collegati con il mondo dell’economia “sociale” o della “solidarietà” come le abbiamo, in modo ancora provvisorio, definite in questa sede.

Benessere Equo e Sostenibile ed economia sociale

Il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile del 2013 (Istat-Cnel, 2013) è il frutto di un’iniziativa promossa nel 2010 dall’Istat e dal Cnel per individuare le dimensioni del benessere (applicabili per l’Italia) e gli indicatori statistici in grado di rappresentarle. L’idea di fondo era quella di sviluppare un processo partecipativo che coinvolgesse il più ampio numero di stakeholder nell’individuazione delle dimensioni del benessere. Infatti, come si può leggere nel Primo Rapporto sul BES, “il concetto di benessere cambia secondo tempi, luoghi e culture e non può quindi essere definito univocamente ma solo attraverso un processo che coinvolga i diversi attori sociali” (Istat-Cnel, 2013; p. 10). A tal fine sono stati costituiti un Comitato di indirizzo sulla misura del progresso nella società italiana, di cui fanno parte rappresentanti della società civile e delle parti sociali, istituito per individuare le dimensioni rilevanti del benessere e validare gli indicatori ad esse riconducibili; inoltre è stata nominata una Commissione scientifica composta da un ampio numero esperti nazionali ed europei nella misurazione dei fenomeni sociali e ambientali, con il compito di proporre al Comitato gli indicatori. Dal lavoro congiunto di Comitato e Commissione è stata realizzata una lista di 134 indicatori distribuiti in 12 domini.

Il quadro che questa selezione di informazioni statistiche riesce a fornire è certamente ampio (Istat-Cnel, 2013) e spazia da considerazioni di tipo micro/individuali (come la soddisfazione per il lavoro o il benessere soggettivo) a quelle macro (come la qualità dei servizi o la tutela del paesaggio), includendo anche domini e indicatori collocabili ad un livello meso. Si tratta di indicatori in grado di rappresentare alcune situazioni tipiche di un individuo quando entra in società, come ad esempio l’ingresso nel mercato del lavoro o, più in generale, la stabilizzazione dei contatti in relazioni sociali più strutturate. Il risultato finale non è un indice sintetico ma un dashboard di indicatori attraverso il quale è possibile leggere o delineare un quadro della situazione socio-economica e ambientale del Paese.

Tabella 1: Denominazione dei domini e numero di indicatori per dominio nel BES | Fonte: www.misuredelbenessere.it

Il lavoro è in un fase work in progress, in quanto sono da approfondire gli aspetti legati all’equità e alla sostenibilità. Tuttavia alcuni aspetti, e anche il set di indicatori proposti, potrebbero essere rivalutati e migliorati. In particolare in questo paper ci soffermeremo sull’analisi di come alcuni aspetti dell’economia sociale siano stati inclusi nel Rapporto e, in particolare, nella parte in cui si fa specifico riferimento ai temi dell’economia sociale nel dominio dedicato alle Relazioni sociali. Ed è quindi dalla descrizione di questo dominio che parte la nostra analisi.

Il dominio Relazioni sociali nel BES

Nel rapporto della Commissione scientifica relativo al dominio Relazioni sociali sono illustrate le motivazioni teoriche che hanno portato alla selezione degli indicatori individuati. La Commissione ha ritenuto opportuno, per meglio connettere il tema delle relazioni sociali e quello del benessere, organizzare gli indicatori in base allo schema del diamante del welfare (Ferrera, 2006), che considera Stato, Mercato, Famiglia e Società Civile quali driver del benessere degli individui.

Nella discussione sul settore Mercato entra in gioco il concetto di economia sociale. La descrizione del dominio (disponibile sul sito appositamente dedicato al BES - http://www.misuredelbenessere.it/index.php?id=29) fa riferimento ad attività “governate da motivazioni diverse dall’interesse economico individuale e che si basano sul capitale delle relazioni, i legami sociali e la collaborazione”. Si riconducono a questa realtà varie tipologie di attività economiche emergenti e che cercano soluzioni a problemi economici facendo leva su principi di solidarietà, socialità, valori ideali, etici o religiosi (Carlini, 2011). Si fa riferimento, ad esempio, ai gruppi di acquisto solidale (GAS), alle mutue di finanza autogestita (MAG), ai progetti di autocostruzione, al cohousing, agli hub, alle botteghe del commercio equosolidale, al social lending fino a diversi tipi di sharing. Si evidenzia che questo tipo di attività influenza positivamente il livello di benessere di una collettività valorizzando le relazioni e generando utilità (non solo in termini monetari) “[queste attività] sono, di per sé, in grado di generare relazioni improntate sulla reciprocità e sulla fiducia” (sito web). Si tratta di mercati non orientati alla sola generazione di profitti e alla redistribuzione di utili, ma che sono generati al fine di perseguire obiettivi sia sociali che di sostenibilità ambientale di interesse generale, “da una finalità sociale che si traduce nella produzione di benefici diretti a favore di un’intera comunità”. Questa descrizione di economia sociale, nonostante non faccia direttamente riferimento ai modi di produzione, sembra avvicinarsi più all’accezione di economia solidale di Lewis travalicando i confini dell’economia sociale (sempre nella definizione di Lewis).

Dal punto di vista della misurazione il Rapporto sottolinea le difficoltà che si incontrano nel cercare di delimitare con finalità statistiche i confini di questi tipi di fenomeno. L’economia sociale, per come sopra descritta, non è del tutto compresa nel settore non profit, che è di questa un sottoinsieme limitato dall’obbligo di non redistribuzione degli utili; fanno eccezione le cooperative sociali che sono incluse tra le istituzioni non profit anche se, in quanto cooperative, possono seppure in misura molto limitata redistribuire gli utili di gestione. E forse non tutte le realtà contabilizzate nel non profit rispecchiano le caratteristiche proposte sopra (si pensi alle mutue pure, interamente rivolte alla propria base sociale). Ed è altrettanto possibile individuare organizzazioni che concettualmente potrebbero essere incluse nell’economia sociale ma che si sono di fatto dotate di una veste giuridica non contemplata per le istituzioni non profit (spesso cooperative, ma a volte anche Srl o Spa). Infine, si riflette nel Rapporto, possono esistere casi che non operano utilizzando una forma giuridica, come accade per molte esperienze comunitarie anche innovative di coworking, o swap trading ma anche i GAS o le banche del tempo.

La statistica ufficiale fatica, dunque, a cogliere diversi aspetti di queste realtà e non a caso il Rapporto BES sottolinea - nella parte “appunti per il futuro” - “[…] particolare attenzione dovrà inoltre essere rivolta dalle statistiche ufficiali a quel complesso di realtà associative emergenti impegnate nella creazione di nuovi stili di consumo e di produzione” (sito web). D’altro canto le statistiche di fonte non ufficiale (per esempio di provenienza dalla rete di botteghe del commercio equo e solidale o dalla rete dei GAS) non garantiscono i requisiti di qualità dell’informazione statistica ufficiale e pertanto non sono da ritenersi affidabili.

In definitiva gli indicatori scelti dalla Commissione per dare rappresentazione dell’economia sociale risultano essere i seguenti:

  • organizzazioni non profit ogni 10.000 abitanti;
  • cooperative sociali ogni 10.000 abitanti;
  • quota di persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi ha svolto attività gratuita per associazioni o gruppi di volontariato;
  • quota di persone di 14 anni e più che ha fornito gratuitamente almeno un aiuto a parenti e persone non conviventi;
  • quota di persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi ha finanziato associazioni.

I valori rintracciabili nel Rapporto BES 2013 (Istat-Cnel, 2013) sono riportati nella Tabella 2.

Tabella 2: Indicatori riferiti all’economia sociale nel dominio Relazioni sociali del Rapporto BES | Fonte: www.misuredelbenessere.it

Osservazioni sulla misurazione del dominio Relazioni sociali

In merito agli indicatori scelti si possono fare alcune considerazioni, a partire da quelle di natura concettuale. L’appartenenza di un soggetto all’economia sociale per come è descritta nel Rapporto (che come osservato si avvicina alla definizione di economia solidale proposta da Lewis) dovrebbe essere ricondotta a scelte riguardanti i modi di produzione, più che a questioni di merito sul prodotto o sul servizio offerto. Un’istituzione economica, a prescindere dalla sua natura giuridica, rientra nel mondo dell’economia sociale se i modi di produzione adottati e i modelli di distribuzione/erogazione e consumo sono concepiti in modo da prestare attenzione agli effetti, o alle esternalità positive e negative che queste possono generare, sia all’esterno che all’interno dell’organizzazione, nell’ambiente sociale e naturale in cui operano.

La forma giuridica non sembrerebbe, d’altro canto, rappresentare di per sé una garanzia per l’individuazione di soggetti dell’economia sociale. Certamente alcune realtà dell’economia sociale, come quelle citate dal Rapporto, possono essere identificate anche dal tipo di prodotto/servizio erogato in quanto già di per sé connotate da uno spiccato carattere comunitario (finanza autogestita, gruppi di acquisto, banche del tempo, cohousing, i vari tipi di sharing), ma certo non sono che una fetta del mondo dell’economia sociale. E’ vero d’altro canto che la statistica ufficiale consente di discriminare solo attraverso la forma giuridica e non ripone alcuna attenzione nei modi di produzione, e ancora nella classificazione di prodotti e servizi non entrano forme innovative di produzione. Non si può far altro quindi che affidarsi alla forma giuridica con tutte le perplessità espresse sopra.

Tornando agli indicatori individuati nel Rapporto, sembra coerente la scelta di un indicatore (ponderato sulla popolazione) sul numero di istituzioni non profit. Tuttavia considerare congiuntamente anche le cooperative sociali, che sono già incluse nel settore non profit (nonostante la loro forma giuridica consenta una qualche forma di redistribuzione di utili), genera un problema di double counting che andrebbe evitato. La scelta di includere le cooperative sociali sembrerebbe essere - ma su questo il testo non è del tutto chiaro - una scelta determinata dalla volontà di includere in qualche modo il mondo della cooperazione o anche dalla possibilità per le cooperative sociali di disporre di un dato annuale (fonte ASIA), mentre il dato sul numero di istituzioni non profit è stato finora diffuso con una periodicità decennale, essendo legato alle operazioni censuarie. Qualunque sia la spiegazione, il problema del doppio conteggio rimane. Infine, l’uso di indicatori costruiti per l’analisi del comportamento delle famiglie probabilmente portano fuori dall’obiettivo di tracciare i confini dell’economia sociale. D’altra parte il Rapporto BES non commenta il quadro fornito dall’insieme di indicatori scelti per l’economia sociale e non permette quindi di capire completamente la scelta fatta dalla Commissione scientifica.

Non è chiaro inoltre come mai, seppure se ne faccia menzione nel Rapporto della Commissione scientifica, non siano state considerate le cooperative nel loro complesso e ci si limiti alle cooperative sociali. Infatti, come si suggerisce nel suddetto documento, le cooperative svolgono una funzione sociale a carattere di mutualità e senza di fini speculativi riconosciuta dalla Costituzione (art. 45).

In generale, comunque, ci si muove certamente in un terreno scivoloso, nel quale non si può far riferimento ad una letteratura propriamente consolidata. Come si è detto, la riflessione sull’economia sociale è una riflessione che cerca di concentrare l’analisi su unità economiche i cui modi di produzione non trascurano le esternalità, interne ed esterne, che esse possono provocare; il terreno in cui ci si muove è quello vasto dell’innovazione sociale o del cosiddetto impatto sociale, temi che richiedono alla statistica ufficiale, innanzitutto, una riflessione sulla propria capacità di cogliere e misurare fenomeni in gran parte emergenti e aspetti o dinamiche innovative in via di diffusione nel Paese. Al di là di tale cautele, tuttavia, è possibile utilizzare meglio la produzione statistica già consolidata per descrivere in maniera più accurata questi aspetti.

Possibili miglioramenti nella misura dell’economia sociale

Rimanendo nei limiti delle informazioni messe a disposizione dalla statistica ufficiale non è quindi possibile riuscire a descrivere, neppure approssimativamente, i confini dell’economia sociale come descritta dalla Commissione e quindi dell’economia solidale (nell’accezione di Lewis) non essendo disponibili informazioni adeguate sui metodi di produzione. Tuttavia è possibile migliorare, rispetto a quanto proposto dal Rapporto BES, la descrizione dell’economia sociale (sempre nell’accezione di Lewis). Come accennato nel paragrafo precedente, un possibile miglioramento si avrebbe allargando i confini dell’economia sociale al mondo della cooperazione utilizzando le informazioni presenti nell’Archivio delle imprese attive (ASIA). Tuttavia, a differenza dei dati proveniente dal censimento, ASIA permette di conoscere solo alcuni aspetti delle cooperative sociali, come la collocazione geografica, forma giuridica, numero di addetti e classe di fatturato.

Quindi, eliminando il dato sulle cooperative sociali, già contenuto in quello sulle istituzioni non profit e unendo invece quello sulle società cooperative si ottiene il quadro illustrato nella Tabella 3. Il totale delle istituzioni dell’economia sociale risulta essere di poco superiore alle 345 mila unità (a fronte delle 301.191 delle sole istituzioni del non profit), ovvero 58 istituzioni ogni 10mila abitanti (50,7 per il solo non profit).

Tabella 3: Istituzioni dell’economia sociale per regione (valori assoluti e ogni 10 mila abitanti) | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011 e Istat - Archivio ASIA 2011

Come si può verificare guardando la Tabella 4, l’inclusione del mondo della cooperazione cambia il quadro complessivo della distribuzione territoriale delle istituzioni dell’economia sociale. Questo risultato deriva dal fatto che il mondo della cooperazione è più diffuso al Centro Italia e nel Mezzogiorno (fatta eccezione per le regioni autonome della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige). Ovviamente, considerato che il settore non profit è cinque volte quello della cooperazione per numero di istituzioni, la classifica finale non si discosta troppo da quella iniziale, ma comunque si osserva un consistente miglioramento per Sardegna, Basilicata ed Emilia Romagna e un modesto miglioramento per Lazio, Sicilia e Puglia. Mentre si ridimensiona il peso dell’economia sociale in Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia.

Tabella 4: Classifica delle regioni in base ai tre indicatori | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011 e Istat - Archivio ASIA 2011

La Figura 2 permette di visualizzare su mappa le differenze tra le distribuzioni a livello provinciale delle istituzioni non profit (verde) delle cooperative (rosso) e complessivamente del mondo dell’economia sociale (azzurro).

L’economia sociale quindi risulta, per numero di istituzioni, dominata dal mondo del non profit. La Figura 3 ne riporta la composizione per forma giuridica e mette in rilievo che la fetta più consistente è costituita dalle Associazioni riconosciute e non riconosciute, che congiuntamente rappresentano oltre il 75% dell’intero universo di istituzioni (circa 270mila istituzioni su 345 mila).

Il quadro cambia drasticamente se al posto del numero di istituzioni per forma giuridica si considera il numero di lavoratori impiegati. La Figura 4 infatti mostra come sul totale di oltre 1.700mila addetti quasi 562 mila (il 33%) sono addetti delle cooperative a mutualità prevalente e il 13% (229 mila) nelle cooperative diverse. Sarebbe opportuno stabilire quindi, in ottica di BES, se basti considerare il numero di istituzioni o anche una qualche misura della loro dimensione, visto che in questo secondo caso lo scenario è destinato a mutare considerevolmente.

Figura 2: Distribuzione per provincia delle istituzioni non profit, delle cooperative e dell’economia sociale | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011 e Istat - Archivio ASIA 2011

Figura 3: Composizione percentuale per numero di istituzioni e forma giuridica dell’economia sociale (etichette in valore assoluto) | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011 e Istat - Archivio ASIA 2011

Figura 4: Composizione percentuale per numero di lavoratori e forma giuridica dell’economia sociale (etichette in valore assoluto) | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011 e Istat - Archivio ASIA 2011

Considerazioni al margine sull’economia sociale

Come osservato il concetto di economia sociale richiama questioni legate più ai modi di produzione che non alla natura dei beni e dei servizi prodotti. Esistono alcuni casi, tuttavia, in cui la natura dei servizi prodotti, a prescindere dalla forma giuridica, può essere già di per sé indice di attenzione ai modi di produzione e relazioni in esse coinvolti. Nella domanda 28 del Censimento sulle istituzioni non profit l’istituzione rispondente ha indicato i servizi offerti nel 2011, selezionandoli da un dettagliato elenco di oltre 100 item. Tra questi si possono isolare 6 tipi di servizio che individuano precisamente alcune delle attività di economia sociale richiamate nella descrizione di economia sociale data dalla Commissione: microcredito e finanza etica (item 72), commercio equo e solidale (item 73), consumo critico e gruppi di acquisto solidale (item 74), autocostruzione e recupero di unità abitative (item 77), banca del tempo (item 88). Questi 5 item permettono di isolare, a prescindere dalla forma giuridica, alcune esperienze di economia sociale che si potrebbero definire economia comunitaria (Tabella 5). La Figura 5 mostra la diffusione (anche in questo caso pesata in base alla popolazione) di queste realtà su scala provinciale. Una distribuzione a macchia di leopardo che sembra concentrarsi nelle zone con urbanizzazione più intensa e in cui la classica diseguaglianza Nord-Sud risulta abbastanza attenuata. Si tratta complessivamente di 3.690 istituzioni che hanno dichiarato di erogare almeno uno dei servizi richiamati nei 5 item descritti sopra la cui distribuzione per forma giuridica ricalca quella dell’intero settore non profit presentando una larga maggioranza di associazioni non riconosciute. Pur sempre muovendosi, necessariamente del resto, dentro i confini del settore non profit, attraverso una domanda così dettagliata è possibile travalicare la logica della forma giuridica per andare a individuare con più precisione alcune realtà di interesse. Tuttavia è innegabile che, anche in questo caso, si dia per scontato che il prodotto/servizio sia di per sé garanzia di metodi di produzione solidali e sostenibili.

Tabella 5: Istituzioni non profit che erogano uno o più servizi di economia comunitaria | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011

Figura 5: Istituzioni dell’economia comunitaria ogni 100mila abitanti | Fonte: Elaborazioni su dati Istat - Censimento delle istituzioni non profit 2011

Osservazioni finali

L’analisi statistica ufficiale delle imprese sociali, dell’economia sociale e dell’economia della solidarietà (Lewis, 2007) sta muovendo i suoi primi passi. Accanto alle elaborazioni scientifiche discusse nelle sedi tradizionali, più recentemente l’esigenza di disporre di informazioni statistiche di quadro, affidabili e comparabili, è stata rafforzata per effetto delle iniziative che, soprattutto in sede europea, hanno messo al centro delle politiche comunitarie - orientate al riallineamento delle economie nazionali, tuttora in gran parte bloccate o perlomeno frenate dagli effetti della crisi del 2008 e delle successive politiche di austerità - il ripristino di adeguati livelli di investimento ed occupazionali, l’innovazione (anche di natura organizzativa) delle iniziative imprenditoriali e la valorizzazione delle competenze, delle abilità e delle capacità professionali più avanzate, secondo un’ottica di sostenibilità e di maggiore equità.

Come più volte sottolineato il tema dell’identificazione delle imprese sociali e, conseguentemente, della misurazione dell’economia sociale o, a maggior ragione, dell’economia della solidarietà, appare ancora, almeno secondo l’ottica statistica, se non tecnicamente controverso, almeno incerto e forse anche contestabile sotto il profilo della sua specifica rilevanza concettuale. In passato una sorte analoga era capitata - a lungo, ma per ragioni diverse - alle istituzioni non profit, del tutto trascurate nelle statistiche ufficiali, ovvero, come nel caso delle stime di contabilità nazionale, confinate alla sfera del consumo (come Non Profit Institutions Serving Househods) o come unità produttive di beni e servizi sparpagliate, irriconoscibili o riconosciute in modo distorto, negli altri sotto-settori istituzionali dell’economia (United States, 2003).

Nel caso delle imprese e dell’economia sociale, oltre all’eterogeneità interna, parecchi sono i fattori che incidono sulla possibilità di procedere ad una rappresentazione statistica coerente dell’unità di analisi. Innanzitutto non si dispone di una definizione condivisa dell’unità di analisi. L’etichetta “impresa sociale” è attribuita a soggetti caratterizzati da attributi istituzionali, forme di governance, mission, settori di attività, modalità organizzative interne e di raccordo con l’ambiente esterno che solo in senso lato possono essere considerati univoci.

In gran parte stiamo assistendo alla nascita, alla fase iniziale e generativa di nuove forme di organizzazione dell’attività economica e che, non a caso, sono definite in modo ambiguo o instabile - o variabile - tra paesi e in momenti diversi, a seconda della situazione o degli scopi per i quali sono immaginati i vari tipi di soluzione, o anche dal tipo di background da cui possono trarre ispirazione gli stessi promotori delle imprese sociali (qui le cooperative, lì le associazioni, altrove i vari modelli di corporate social responsability o di community relief plan). Parallelamente, e in forme altrettanto variabili, stiamo assistendo al proliferare di molteplici tentativi di accreditamento, forse ideologici, ma in parte funzionali alla promozione di specifiche policy quasi-settoriali (come ad esempio il programma per la Social Business Initiative, sul financial impact, soprattutto in sede europea, ma non solo).

Tali fenomeni o processi possono essere solo in parte rispecchiati o addirittura accompagnati con gli strumenti di identificazione, di misurazione e conoscitivi propri della statistica ufficiale. Quest’ultima, per costituzione, opera solo dopo che fatti e processi sociali ed economici, nonché il loro profilo istituzionale, raggiungono un certo livello di consolidamento effettivo e di riconoscimento tecnico e scientifico. Anche l’esercizio proposto in queste pagine va letto in questo tipo di contesto: è stato svolto un esercizio, preliminare, per catturare uno specifico insieme di imprese sociali e per stabilire quali fossero le conseguenze di una loro inclusione all’interno del framework costruito per analizzare le condizioni del benessere equo e sostenibile in Italia. L’esercizio ha dimostrato che esse potrebbero incidere sulla rappresentazione del benessere, in parte attenuando l’effetto variabilità territoriale a favore del Mezzogiorno del Paese. Analizzando, infine, alcuni tipi di servizio offerti da istituzioni non profit e riconducibili ai servizi che anche le imprese sociali sembrano offrire, si è potuto osservare che il driver del loro insediamento è il contesto urbano, piuttosto che un diversa e più generica caratterizzazione geografica.

Bibliografia

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Ferrera M. (2006), Le politiche sociali, Il Mulino, Bologna.

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Istat-Cnel (2014), Rapporto BES 2014. Il benessere equo e sostenibile in Italia, a cura dell’Istat (Istituto nazionale di Statistica) e Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro).

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Pearce J. (2003), Social Enterprise in Anytown, Calouste Gulbenkian Foundation.

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