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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2014

Saggi brevi

Datemi una leva... Nuovi strumenti di filantropia e finanza per il sociale

Irene Bengo, Marco Ratti

Abstract

Il paper commenta un recente contributo di Lester Salamon sulla “nuova filantropia”, intesa con un’accezione ampia che descrive nuovi sviluppi e cambiamenti radicali (Salamon, 2014a). Oggi questo settore vede un’evoluzione sostanziale, e globale, che copre un ampio spettro di temi e “buzzwords”, come il settore sociale e i suoi sottoinsiemi (terzo settore e nonprofit), imprenditoria sociale, investimenti e misure d’impatto. L’opera si focalizza sulle nuove forme di filantropia-e-finanza, che combinano forze eterogenee (per tipo e settore di attività, forma giuridica, valori), che sembrano collidere ma che producono invece un tutto armonico e più avanzato (yin-yiang deals).

Questo contributo ha l’obiettivo di inquadrare alcune tematiche fondamentali (nuovi attori e nuovi strumenti, ruolo attuale e futuro rispetto al contesto italiano ed europeo) aggiornando il quadro grazie a importanti e recenti esperienze, quali ad esempio la Task Force istituita dal G8 sull’investimento d’impatto, la Social Business Initiative e la direttiva EuSEF.


This short paper deals with a recent contribution by Lester Salamon on the “new philanthropy” in a broader sense, describing new developments and radical changes (Salamon, 2014a). Nowadays this field is going through a substantial and global evolution that covers a wide spectrum of themes and buzzwords, such as social sector and its sub-sectors, namely the Third Sector and nonprofit, social entrepreneurship, investments and impact measures. The book focuses on the new forms of philanthropy-and-finance, which combine heterogeneous resources (depending on type and sector of activity, legal status, values, etc.) that seem to be conflicting, but that actually produce a harmonious and even more advanced whole (yin-yang deals).

This review aims at identifying the essential issues, like new actors and new tools, the present and future role within the Italian context and the European one, thus updating the framework thanks to recent relevant experiences, such as the G8 Task Force regarding impact investing, the Social Business Initiative and the EuSEF directive.

Introduzione

Il recente contributo di Lester Salamon sulla “nuova filantropia” (Salamon, 2014a) copre un ampio spettro di argomenti: il settore sociale e i suoi sottoinsiemi (terzo settore e nonprofit), l’investimento e le misure d’impatto, la filantropia e le sue evoluzioni. L’opera si focalizza sulle nuove forme di filantropia-e-finanza, che combinano forze eterogenee (per tipo e settore di attività, forma giuridica, valori), che sembrano collidere ma che producono invece un tutto armonico e più avanzato (yin-yiang deals).

Questo saggio intende fornire; 1) un ampliamento alla descrizione della realtà italiana (l’originale di Salamon è piuttosto USA-centrico, riporta pochi casi italiani e poco considera le dinamiche a livello europeo, come la Social Business Initiative e la direttiva EuSEF) (Zandonai, 2013); 2) un aggiornamento sullo “stato dell’arte”, in particolare per quanto riguarda il lavoro della Task Force sull’investimento d’impatto (Social Impact Investment Task Force, 2014a); 3) un contributo critico al dibattito e in lingua italiana.

Il prossimo paragrafo inquadra alcuni temi generali e propone una lettura complessiva. I successivi riguardano nuovi attori, nuovi strumenti, trend che giustificano le novità nel settore sociale e aiutano a giudicarne la probabilità di permanenza, difficoltà delle res novae, direzioni future, con qualche conclusione. I paragrafi replicano la struttura dei capitoli di Salamon (Salamon, 2014a), con commenti critici che riportano al contesto italiano.

Temi generali e una lettura dello sviluppo del settore sociale

Il core del cambiamento è descritto dal movimento della filantropia contemporanea “oltre”: oltre le erogazioni, con lo sviluppo di strumenti finanziari; oltre le fondazioni, con altri attori; oltre i lasciti, con la creazione di fondi d’investimento e la conversione di cespiti pubblici; oltre il cash, con la possibilità di donare lavoro, tempo o beni. Questi sviluppi sono resi possibili dall’uso della leva finanziaria, che moltiplica un ammontare limitato di risorse a titolo definitivo, permettendo loro di raggiungere risultati più ampi. La conseguenza è che la “nuova filantropia” è diversificata, globale, collaborativa, ma soprattutto più imprenditoriale; prevede la misura dei risultati, economici oltre che sociali. “L’orientamento è all’investimento, sostenibile nel tempo e perciò capace di apportare soluzioni permanenti ai problemi” (Salamon, 2014a).

La definizione di filantropia di Salamon (Salamon, 2014a) è la seguente: “una fornitura di risorse private per scopi sociali o ambientali”.[1] Sottolineamo alcuni aspetti rilevanti della definizione. In primis, “risorse” può significare denaro, ma anche lavoro, consulenza etc.; la filantropia può essere esercitata da attori non-standard - come le imprese - e non in denaro - quindi non necessariamente attraverso una fondazione, definita come un patrimonio destinato ad uno scopo. Inoltre prevalgono gli scopi sociali (ambientali, culturali, etc.) rispetto alla forma giuridica del beneficiario, che potrebbe anche essere for profit, low profit, individuale o ibrido, purché in grado di esercitare un impatto sociale. Osserviamo che questo approccio è stato fatto proprio dalla Commissione Europea che, nella Social Business Initiative e in altri documenti,[2] non richiede una forma giuridica nonprofit alle “imprese sociali”, in linea con una generale tendenza verso un ampliamento della definizione di “settore sociale”.

Lo stesso orientamento è stato assunto dalla Task Force sull’investimento d’impatto istituita dal G8 (“Task Force” d’ora in poi) (Social Impact Investment Task Force, 2014b). Nel dettaglio la Task Force definisce come appartenente al “settore sociale” il seguente continuum di organizzazioni:

  • organizzazioni impact-driven: organizzazioni che si pongono una missione sociale a lungo termine, impostano obiettivi di risultato sociale e misurano i risultati ottenuti;
  • imprese impact-driven: imprese profit-with-purpose o imprese businesses-seeking-impact, che impostano significativi obiettivi sociali da mantenere nel lungo termine, senza asset-lock;
  • organizzazioni del settore sociale: organizzazioni impact-driven con asset-lock parziale o totale; enti di beneficenza; imprese sociali e di solidarietà; cooperative; altre organizzazioni a dividendi ridotti;
  • imprese profit-with-purpose: imprese che sviluppano la missione sociale attraverso la loro governance e/o la incorporano nel modello di business;
  • imprese in cerca di impatto: imprese che definiscono e mantengono obiettivi sociali per una parte significativa delle loro attività, senza connessione diretta con la mission;
  • imprenditori sociali: imprenditori che gestiscono un’organizzazione impact-driven (del settore sociale e/o del business) per raggiungere un impatto sociale.

Tuttavia, sottolinea Salamon, lo scopo delle attività supportate dalla nuova filantropia deve essere “sociale” in un senso ben definito. Salamon si differenzia dall’ideologia di parte del movimento dell’investimento d’impatto e dall’ecosistema promosso dalla Task Force: egli afferma infatti che, se non si specifica quale “impatto positivo” oltre quello economico debba essere generato dalle attività finanziate, il termine “investimento d’impatto” può diventare così diluito nel suo significato da non consentire più di distinguere un investitore d’impatto da uno normale. Salamon preferisce perciò premettere il termine “social” a impact investing nel definire il movimento.

Lo scopo sociale è definito da Salamon (Salamon, 2014a) come la “promozione della salute, del benessere e della qualità di vita di una popolazione, in particolare dei suoi segmenti svantaggiati; l’incoraggiamento della libera espressione di idee; la promozione della tolleranza”. Questa definizione appare parzialmente incompleta: da una parte gli scopi ambientali e culturali rientrano “forzatamente”, dall’altra gli scopi “civili” (tolleranza, libertà delle idee, etc.) sono presenti a pieno titolo, anche se nei fatti raramente si concretizzano in un’organizzazione di tipo imprenditoriale e non sempre necessitano di risorse finanziarie per la costituzione di asset.

A nostro avviso la costituzione di asset nel settore sociale è il reale motore della “nuova filantropia”, ancor più della leva finanziaria. Salamon distingue fra fonti di reddito operativo e investimento di capitale; entrambe sono entrate monetarie; le prime servono a finanziare le operazioni correnti e possono prendere la forma di donazioni, erogazioni, contributi, pagamenti per servizi; le seconde vanno a costituire capacità operativa di lungo termine attraverso l’acquisto di beni capitali, locali fisici, capacità tecniche e strategiche. Il capitale può provenire da donazioni, come nel caso delle fondazioni, ma più spesso assume le forme di debito o equity. Salamon pone l’attenzione su un’indagine del 2006 della Johns Hopkins University, in cui circa l’80% delle nonprofit intervistate affermava di avere bisogno di mezzi finanziari per la costruzione di capacità a lungo termine e solo il 40% dichiarava di riuscire ad ottenerli. Molte organizzazioni segnalavano grandi difficoltà ad intercettare le maggiori fonti di capitale per l’investimento in USA: fondi pensione, fondi di investimento, banche, compagnie di assicurazione, etc.

Cerchiamo di fornire una lettura dell’argomento in questi termini. Alla base della distinzione tra mezzi che finanziano l’operatività corrente e mezzi che finanziano l’acquisizione di asset in realtà si nasconde un trend già in atto nel settore sociale non erogativo, cioè una trasformazione in senso imprenditoriale. Molte di queste organizzazioni hanno tradizionalmente vissuto in una logica cash flow based: date le entrate di cassa disponibili in un ciclo (diciamo annuale), si determina ed esegue il massimo servizio che l’organizzazione può apportare alla società in quel periodo, e poi il ciclo si ripete. Il modello è caratterizzato dal trasferimento di risorse a fini di coesione sociale, ma non ha la capacità di generare crescita. Invece una parte del settore sociale agisce in una logica asset based, fondata sul: 1) costituire cespiti durevoli, che possono fornire reddito operativo e impatto sociale per più cicli; 2) finanziare quei cespiti con risorse finanziarie di durata finanziaria simile; 3) eseguire il lavoro operativo, finanziandolo se necessario con risorse gratuite a titolo definitivo (volontariato, donazioni) e con altre risorse propriamente finanziarie (ad es. debito a breve per finanziare la liquidità), mantenendo la sostenibilità con entrate correnti che derivano dal mercato, pubblico o privato.

Il secondo modello - che in Italia è ben descritto dall’operatività delle cooperative sociali - è ovviamente molto più finance intensive, sia a lungo termine (per la costituzione di asset, tangibili o meno) che a breve termine (per il finanziamento dell’attività corrente). Il vantaggio è ovvio: la creazione di valore aggiunto - tramite la produttività di asset e lavoro - sostituisce le risorse che in precedenza provenivano a titolo di trasferimento e permette di ripagare i datori di risorse finanziarie, nonché di creare ulteriore valore (monetario, reputazionale etc.) da reinvestire nell’attività. A differenza del precedente, questo modello può generare nel tempo una crescita economicamente sostenibile. Con una precisazione: la riduzione di risorse a titolo di trasferimento (minori donazioni, erogazioni, contributi pubblici) non “si sostituisce” ad un finanziamento privato. Quest’ultimo non è un trasferimento, va prima o poi restituito, con maggiori o minori interessi, e quindi di per sé riduce il reddito operativo futuro, però permette di anticipare entrate future, di mercato o no, per costituire asset oggi. Il punto chiave sta nella produttività degli asset, non la creazione di nuovi flussi finanziari o l’indebitamento.

Il paradigma della filantropia si trasforma quindi nel seguente modo (Tabella 1).

Tabella 1: I paradigmi della nuova filantropia

Riteniamo che alcuni motivi per cui il settore sociale italiano non si sia sviluppato seguendo queste linee possano essere i seguenti:

  • il settore sociale nasce storicamente sviluppando attività di tipo “civile”, ancora oggi molto sentite, che mal si adattano alla logica imprenditoriale asset based;
  • al settore sociale è mancata la capacità manageriale per perseguire un modello imprenditoriale e/o questo modello è incompatibile con alcuni dei suoi valori fondanti;
  • il settore sociale non ha avuto accesso alle necessarie risorse finanziarie.

Le tradizionali attività del terzo settore - legate al volontariato, all’associazionismo, alle attività di advocacy e rappresentanza, nonché quelle erogative, ossia tutte quelle cristallizzate nel libro I del codice civile, con le relative forme dell’associazione, comitato e fondazione - poco si prestano allo scopo economico e all’organizzazione imprenditoriale. La nouvelle vague filantropica le riguarda poco e probabilmente le penalizzerà. Tuttavia “poco” non significa “nulla”: sotto il nonprofit tradizionale “cova un fuoco imprenditoriale” non trascurabile. Se si contano le organizzazioni nonprofit italiane le cui entrate provengono per oltre il 40% da fonti di mercato, si eccede di molto la numerosità delle forme più strettamente imprenditoriali, cioè le circa 12mila tra cooperative sociali e imprese sociali ex lege (D. Lgs. 155/2006),[3] tant’è che varie bozze (tra cui la proposta Bobba-Lepri) di riforma della legge sull’impresa sociale hanno incluso l’obbligatorietà di tale qualifica, proprio per far emergere attività imprenditoriali presenti nel terzo settore (Lepri, 2013).

Per quanto riguarda le capacità manageriali è sentore diffuso che in alcune componenti del settore sociale scarseggino linguaggio, dimestichezza, professionalità per svolgere attività imprenditoriali e relativi addentellati finanziari. E’ possibile che tale aspetto rifletta alcune inclinazioni valoriali del settore, anche se riteniamo non sia una tendenza universale; in alcune componenti del settore sociale queste capacità esistono ed a ottimi livelli. E’ quindi possibile che questo “freno” di matrice culturale si possa ridurre con il tempo, l’esperienza, la selezione.

Un altro punto su cui concentrare l’attenzione è valutare se il settore sociale sperimenti seri vincoli alla disponibilità di capitale finanziario a titolo di debito, equity, forme intermedie o donazioni finalizzate alla costituzione di asset. Le esperienze proposte da Salamon (Salamon, 2014a) sono in realtà un po’ datate. L’esperienza italiana è più recente, ma “ambigua”. La “saggezza convenzionale” è riassunta in Zamagni (Zamagni, 2011), in particolare nel contributo di Propersi, che afferma che il nonprofit è affetto da “una debolezza strutturale che si manifesta generalmente con bassa capitalizzazione, mancanza di adeguate garanzie e difficoltà di accesso al credito”. Gobbi (Banca d’Italia) (Gobbi et al., 2010; 2012) rileva due risultati attesi: una forte crescita del credito al nonprofit, concentrata nelle cooperative sociali, nel decennio 2000, e un tasso di default inferiore per il nonprofit, coerente con l’evidenza sul settore sociale (Barigozzi, Tedeschi, 2014); ma si evidenzia anche un risultato sorprendente, ossia una scarsa evidenza di maggior difficoltà del nonprofit ad accedere al credito rispetto alle for profit di analoga dimensione.

Le evidenze rinvenibili in altre fonti non ci sembrano conclusive. Il recente censimento Istat (Istat, 2013) non porta di per sé alcun dato relativo alla patrimonializzazione del nonprofit o di suoi comparti, anche se mostra un buon equilibrio dei flussi (64 miliardi di euro di entrate, contro 57 miliardi di uscite nel 2011), che si estende alla gran parte dei sottosettori. La capitalizzazione del segmento imprenditoriale è conosciuta sommariamente per il segmento delle cooperative sociali: su un valore della produzione poco sopra i 10 miliardi di euro, il capitale investito è pari a 8,3 miliardi e il patrimonio netto è circa 2 miliardi, cui 1,6 di riserve indivise (cioè, utili accumulati e non distribuiti).[4]

Altre fonti, fra cui le recenti ricerche di Aiccon per UBI Banca (UBI Banca 2012; 2013; 2014) e quelle di Centro Studi Legacoop (www.cslegacoop.coop), riguardano primariamente lo stato dei cash flow e le intenzioni di investimento. Le prime (periodo 2013-14) forniscono risultati ambivalenti: le cooperative, a causa della crisi, hanno ridotto le intenzioni di investimento e intendono utilizzare soprattutto l’autofinanziamento per gli investimenti comunque previsti, anche se al contempo hanno fiducia nei creditori e intendono utilizzare anche l’indebitamento. Le seconde mostrano, nel periodo 2007-2011, una discreta redditività delle cooperative sociali più grandi (ma negativa fra le piccole), meno sensibile alla crisi rispetto agli analoghi dati del for profit. In sostanza: l’autofinanziamento esiste e in regime di scarsità di investimenti verrà usato di preferenza rispetto al debito, come peraltro avviene anche per il for profit (nel qual caso nessuno mette in discussione il fatto che la finanza non “conti”). Non è chiaro se il debito viene poco domandato, poco offerto, e se il “poco” sia temporaneo o permanente. L’esperienza interna di Banca Prossima è coerente con la “saggezza convenzionale”: escluse alcune aree più favorite, il nonprofit lamenta difficoltà di accesso al credito e/o dipendenza dal credito a breve termine per la sua sopravvivenza.

Questo insieme eterogeneno di evidenze legittima più di un’interpretazione. Una scuola di pensiero conclude che il finanziamento non è il principale problema del settore sociale italiano. Noi tendiamo a sostenere quanto segue:

  • il settore sociale italiano è severamente vincolato per quanto riguarda l’equity: l’impossibilità o i limiti della distribuzione di profitti giustificano la carenza di offerta, che peraltro esiste anche nel for profit in termini di operatori venture e private equity; a tale scarsità si aggiunge l’insufficiente propensione del settore sociale ad ammettere soci finanziari nel “sancta sanctorum” decisionale;
  • le forme di finanziamento ibride (quasi-equity) sono praticamente inesistenti;
  • le donazioni sono modeste sia come status quo che come possibile fonte finanziaria a lungo termine, coerentemente con il loro trattamento fiscale non particolarmente favorevole e con la scarsa disponibilità a donare ad entità produttive;
  • il nonprofit è vincolato, meno severamente che sull’equity, anche sul debito a medio e lungo termine, per la scarsa disponibilità del sistema bancario (o di altri investitori, finora poco evidenti) a giudicare il merito di credito su parametri che riflettano la realtà del nonprofit (ad es. la relativa scarsità di garanzie azionabili);
  • il nonprofit potrebbe avere un livello di vincolo simile a quello delle PMI, o forse anche superiore, sul debito a breve.

In generale l’accesso ai finanziamenti sembra un freno non trascurabile allo sviluppo di un modello sociale imprenditoriale. Se la sua portata inibitoria sia superiore, pari o inferiore a quella di altri freni sopra citati, crediamo sia difficile - e comunque non molto utile - a dirsi. Non crediamo, invece, che il fattore fondamentale sia la scarsa disponibilità della Pubblica Amministrazione a pagare entro i termini: questo è un freno semmai più esiziale per le organizzazioni che seguono un modello cash flow based che non per chi segue un modello di natura imprenditoriale. È molto più credibile che manchino le opportunità di investire in progetti o imprese che soddisfino sia la sostenibilità a medio termine che la scarsa propensione al rischio del mondo sociale. Si tratta di un punto, quest’ultimo, che riprenderemo e che - poiché riguarda produttività degli asset (tecnologia) e attitudine verso il rischio (gusti), o in sintesi la celebrata “economia reale” - non ha una soluzione finanziaria, ma neppure una basata sui trasferimenti.

Nuovi attori

La tassonomia proposta nel volume di Salamon (Salamon, 2014a) è la seguente (Tabella 2).

Tabella 2: Tassonomia proposta nel volume di Salamon (Salamon, 2014a)

Una disamina analitica di queste tipologie di operatori appare eccessiva in questo contesto; ci concentreremo sugli operatori per l’investimento e sulla situazione italiana nel campo del supporto.

Istituzioni per l’investimento d’impatto

Gli aggregatori svolgono una funzione simile a quella delle banche di investimento. Un capitolo del volume di Salamon (Salamon, 2014b) ipotizza un numero globale attorno ai 3mila, con asset attorno ai 300 miliardi di dollari. I precursori furono gli operatori USA immobiliari e territoriali degli anni ‘60: community development corporations, fondi azionari incentivati per la creazione di lavoro in aree svantaggiate, altri intermediari nati sulla scorta di politiche per l’housing sociale e il redevelopment di comunità decadute. Tutto ciò è accelerato con lo sviluppo del microcredito e la scoperta dei “profitti alla base della piramide” da parte di Prahalad (Prahalad, 2004). Negli USA a fine 2013 c’erano oltre 900 CDFIs, community development finance institutions, con attività gestite di più di 50 miliardi di dollari: per due terzi fondi di credito, il resto fra banche locali, credit unions e 80 fondi di venture capital; tutti focalizzati sullo sviluppo locale di un’area sotto stress.

In generale gli aggregatori si concentrano su una nicchia settoriale o regionale. La fonte del denaro è varia e comprende famiglie ricche (high net worth individuals) e fondazioni, ma più recentemente anche istituzioni finanziarie tradizionali come fondi pensione, fondi comuni e banche, che hanno iniziato a vedere nell’investimento d’impatto una nuova asset class. In molti casi gli aggregatori sono specializzati in un tipo di emissione finanziaria. Tuttavia, alcuni aggregatori offrono strumenti finanziari strutturati in tranches, destinate ciascuna a una diversa classe di investitori. La differenziazione degli strumenti finanziari è possibile sia per profilo del reddito promesso (simile a debito o a equity) sia per tipo di impatto sociale. È quindi uso comune distinguere fra investitori impact first, per cui l’obiettivo è massimizzare l’impatto con un vincolo di redditività, e investitori finance first, per cui vale l’opposto. È anche stato introdotto il termine “fondi di investimento quasi-pubblici” per designare gli aggregatori finanziati grazie all’iniziativa di governi (Nesta nel Regno Unito) o istituzioni multinazionali (la IFC della Banca Mondiale).

Generalmente gli aggregatori nonprofit si associano a investitori impact first che spesso accettano anche un rischio più alto (ad es. prima perdita su fondi di garanzia). Un esempio di aggregatore nonprofit, che offre un profilo di rendimento basso con alto impatto sociale, è Acumen Fund. Al contrario, gli aggregatori for profit (ad es. Bridges Ventures in UK o Willow Impact Investors in Dubai) usano un modello più vicino al private equity ed attirano investitori che desiderano un rendimento anche maggiore a quello di mercato.

Salamon (Salamon, 2014a) distingue fra “mercati secondari” (espressione con cui intende in realtà investitori che ricomprano le attività originate dagli aggregatori, finanziandosi sul mercato) e borse sociali (mercati secondari in senso proprio). Tra i primi si riconosce la funzione originaria di Fannie Mae e delle altre agenzie immobiliari, che acquistano credito ipotecario generato da banche e assicurato dal Governo americano. Esempi successivi sono il Community Reinvestment Fund, Habitat for Humanity International, Partners for the Common Good (una CDFI nata nel 1989 per servire istituzioni cattoliche), Blue Orchard (un fondo svizzero di microfinanza), BRAC (l’enorme organizzazione di sviluppo del Bangladesh). Sulle borse sociali rimandiamo allo studio di Avanzi (Dal Maso, Zanoni, 2009) per la costituzione di una borsa sociale italiana, finora mai realizzata.

Le fondazioni diventano “banche filantropiche” nella misura in cui investono parte del loro patrimonio in modo sociale, mischiando le loro attività core: la gestione del patrimonio, che in passato implicava solo la “massimizzazione responsabile” del suo rendimento, e le erogazioni, che invece massimizzavano l’impatto sociale dato un budget spendibile. Hanno seguito questa strada sia fondazioni USA di media taglia (ad es. KL Felicitas e HB Heron con alte quote del patrimonio, altre con quote inferiori) che grandi istituzioni (ad es. Annie Casey, Kellogg, Kresge o Robert Wood Johnson). Sviluppi in altre nazioni includono la Esmée Fairbarn Foundation nel Regno Unito e Fondazione CRT in Italia.

Ci sembra opportuno menzionare anche le piattaforme di crowdfunding (che Salamon include invece fra gli operatori di erogazione), in quanto la funzione di social lending e, in misura minore, equity crowdfunding pertengono appunto all’investimento; inoltre la prima funzione costituisce la buona parte dei flussi del crowdfunding italiano (Castrataro, Pais, 2013). In Italia esistono piattaforme di equity crowdfunding (ad es. quelli regolati da Consob a seguito della normativa sulle start-up innovative), piattaforme di social lending (fra cui Terzo Valore promosso da Banca Prossima) e piattaforme donation-based e reward-based (tra cui lo stesso Terzo Valore e altri - come IlMioDono di UniCredit - nonché declinazioni italiane di piattaforme globali come Kickstarter o Kiva).

In generale in Italia la gran parte degli aggregatori di capitale esiste come categoria, ma il loro “menu operativo” è molto meno ricco di quello americano. Il campo dell’housing ha visto sviluppi interessanti, sia privati (ad es. con la creazione di Fondazione Housing Sociale da parte di Fondazione Cariplo) che quasi-pubblici (ad es. con la costituzione del FIA, Fondo Italiano per l’Abitare, con una partnership tra Cassa Depositi e Prestiti e vari operatori privati). Esistono poi varie agenzie di sviluppo territoriale, d’ispirazione pubblica. Ci sono infine operatori con passività finanziate sul mercato che investono a fini sociali, come ad esempio Banca Etica.[5] Sono però assenti - ad eccezione del campo immobiliare - i grandi operatori e gli investitori, soprattutto impact first, ad eccezione di alcune attività di CSR di imprese corporates e di alcune compagnie di assicurazione. Considerando infine l’esistenza di un pool non indifferente di denaro di private banking, è assente anche qualsiasi evidenza, non puramente aneddotica (sulla nota filantropia di alcune famiglie) o episodica, di investimento sociale da parte di individui. In particolare il settore culturale - che ad esempio nei Paesi anglosassoni trova quote importanti di finanziamento da parte di grandi investitori e donatori - è in fondo alle classifiche di indagini motivazionali alla donazione.

Istituzioni di supporto all’investimento d’impatto

Gli enterprise brokers sono individui o istituzioni che aiutano gli aggregatori a identificare imprese sociali promettenti, e viceversa. La necessità di questo ruolo discende dalla frammentazione dello “spazio di investimento”, sia dal lato degli investitori che da quello degli investees.

I capacity builders sono consulenti - presenti nel settore sociale americano da decenni - che si sono però tradizionalmente concentrati su fundraising, eventi, top management, contabilità, risorse umane; invece i “nuovi” capacity builders si focalizzano su sostenibilità e scala: assistono le organizzazioni nello sviluppo di strategie di produzione di reddito, nell’accesso al capitale e nel misurare gli outcome sociali. Questi attori si dividono in tre categorie:

  • venture philantropists, che forniscono un mix di fondi e assistenza tecnica “ad alto coinvolgimento”. Alcune di queste organizzazioni sono fondazioni di tipo tradizionale (ad es. Edna McConnell Clark negli USA), altre hanno trovato un funding specifico (ad es. New profit, REDF, Social Venture Partners, Venture Philanthropy Partners); in Europa sono federati in EVPA, con quasi 150 membri (tra cui il principale operatore italiano, OltreVenture);
  • società classiche di consulenza che hanno sviluppato una practice specifica (ad es. Bridgespan, uno spinoff di Bain) e tipicamente non forniscono la componente di finanziamento;
  • incubatori-coworking-acceleratori sul modello di The Hub, che oggi ha 31 affiliate nel mondo, un network di oltre 4mila aspiranti imprenditori sociali, oppure Ashoka.

In Italia gli incubatori sociali - per quanto considerati ad uno stato embrionale a causa anche di un ordinamento che ne limita lo sviluppo (come la normativa sull’impresa sociale attualmente in vigore) - stanno giocando un ruolo importante nell’evoluzione dell’ecosistema del nostro Paese. La stessa normativa sta però evolvendo ed alcune misure fiscali (ad es. quella prevista dalla normativa per le start-up innovative, gli incubatori e il crowdfunding, L. 221/2012) già prevedono condizioni fiscali agevolate per gli investimenti e i veicoli di investimento - inclusi gli incubatori destinati alle start-up - con specifici incentivi per le start-up a vocazione sociale. Gli incubatori ed acceleratori rappresentano ad oggi un’arena di collaborazione fra pubblico-privato, profit e nonprofit e sviluppo di veicoli di finanza ad impatto (Meneguzzo et al., 2008).

La crescita degli incubatori ed acceleratori sociali in Italia rappresenta:

  • un’evoluzione delle relazioni tra Pubblica Amministrazione e nonprofit; si pensi ai numerosi incubatori promossi da comuni italiani in collaborazione con organizzazioni nonprofit o istituti universitari (FabriQ a Milano, InVerso a Roma, OSIS-Osservatorio e Incubatore di Imprese Sociali a Bari, Ale. Chi. di Perugia, Bomba Sociale di Craviglia etc.);
  • un esempio di collaborazione fra organizzazioni nonprofit, associazioni di volontariato, cooperative sociali, consorzi e reti di consorzi; si pensi al progetto del Gruppo Cooperativo CGM “Fare Rete”, che ha comportato uno sviluppo sull’intero territorio ed un’evoluzione del ruolo dei consorzi di cooperative da incubatori ad agenzie di sviluppo dei territori attraverso collaborazioni fra istituzioni, banche, fondazioni, integrando forme ibride e giuridiche inedite;
  • il posizionamento delle imprese sociali quali promotori di sviluppo locale; a questo fenomeno è possibile associare l’evoluzione dei numerosi incubatori nati per lo sviluppo tecnologico (ad es. gli incubatori universitari), che negli ultimi anni hanno incardinato allo sviluppo tecnologico il concetto di innovazione sociale creando nuovi veicoli per start-up ad alto valore sociale; oppure i primi incubatori nati ad hoc come Make a Cube, primo in Italia specializzato in start-up ad alto impatto ambientale e sociale e prima low-profit company italiana, nata dalla joint venture tra Avanzi e Make a Change.

Osserviamo infine che le organizzazioni infrastrutturali “fanno all’ingrosso” ciò che le realtà sopra elencate “fanno al dettaglio”. Essenzialmente si tratta di associazioni “di categoria”, fra cui la Global Alliance for Banking Values, il Social Investment Forum (e la versione europea Eurosif), il Microfinance Information Exchange. La Rockefeller Foundation ha costituito il Global Impact Investors Network - creatore degli IRIS (Impact Reporting and Investment Standards), un insieme di indicatori che dovrebbero standardizzare la misura della performance sociale - e varato un programma di ricerca mirato a sostenere l’investimento d’impatto come asset class.[6]

Nuovi tipi di entità erogative

Rispetto all’esercizio della finanza erogativa osserviamo una sostanziale assenza, in Italia, di fondi aziendali di erogazione con grandi capitali (negli USA hanno asset pari a circa 12 miliardi di dollari), se non per filiazioni locali (ad es. Fondazione Johnson & Johnson); ovvero di donor advised funds - mini-fondazioni che consentono agli individui ricchi di donare in regime di fiscalità favorevole, mantenendo nel corso della vita dei fondi un certo controllo sulla destinazione di questi. Una pratica che negli USA oggi è tipicamente figliata dalle corporates (in origine da fondazioni di comunità).

Invece osserviamo che l’istituto che negli USA prende il nome di “fondazione di conversione”, creata con la dismissione di asset pubblici o semipubblici, esiste anche in Italia come “fondazione di partecipazione”, con una decina di casi (ad es. Fondazione Palazzo Ducale a Genova) o specificamente normati (fondazioni lirico-sinfoniche). Salamon (Salamon, 2014a) afferma che il settore sociale potrebbe perseguire questa strada in Paesi con alte proprietà pubbliche, come i Paesi ex-comunisti; riteniamo che essa sia applicabile anche in Italia, ad esempio nel settore culturale.

Nuovi strumenti

In generale gli strumenti della nuova filantropia permettono un uso efficace della leva finanziaria. Raramente si tratta di strumentazione innovativa di per sé, ma l’adattamento al settore sociale ha richiesto varie modifiche alla loro forma standard e la creazione di strumenti nuovi. Omettiamo di discutere in questo contesto casi come la micro-assicurazione, SRI e l’acquisto sociale, mentre ci focalizziamo sul security design per l’economia sociale.

Il credito è rimasto la forma dominante del finanziamento al settore sociale: tutte le indagini specifiche sull’investimento d’impatto hanno mostrato che il debito, e all’interno di questo il credito, è la forma di finanziamento dominante con almeno il 60% (fino anche oltre l’80% nei valori massimi). Fatti stilizzati:

  • molto di questo debito (negli USA, il 60% ed oltre) non è protetto da garanzia (unsecured);
  • il debito tende ad essere senior, particolarmente se fornito da prestatori for profit;
  • le start-up sociali tendono a essere finanziate con soft loans che hanno termini flessibili di restituzione.

Varie garanzie (credit enhancements) sono state portate al mercato, sia pubbliche o semipubbliche, che private.[7] Ad esempio nel 2011 il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha creato un programma di garanzia per assistere le CDFI nell’emissione di strumenti obbligazionari per finanziare affordable housing e community development. Una serie di grandi emissioni obbligazionarie (complessivamente 3,6 milardi di dollari) è stata garantita dal sostegno internazionale ai programmi di vaccinazione.

Come esempio di operazione in titoli del settore privato citiamo Fondazione Calvert, che ha lanciato nel 1995 la Community Investment Note, costituita da mini-bonds privi di rating.[8] Gli investitori potevano scegliere il tasso (0, 1, 2 o 3%) e la durata (1, 3, 5, 7 o 10 anni); i proventi erano investiti in programmi di rigenerazione urbana e housing sociale. Collettivamente questo programma ha generato 220 milioni di dollari di capitale da circa 10mila investitori privati, con perdite inferiori all’1% (comunque a carico delle riserve di Calvert). Altre CDFI hanno seguito questa rotta con emissioni proprie.

Nel mondo sociale statunitense recentemente (ma prima della crisi) sono stati osservati casi di securitization. Nel 2004 il Community Reinvestment Fund ha portato la prima emissione con rating backed da prestiti per l’housing sociale e la rigenerazione urbana, seguita da altre tre emissioni. Anche il mondo della microfinanza ha impiegato tecniche di securitization, per un totale nel 2008 che eccedeva i 500 milioni di dollari in una decina di operazioni, seguite a quella portata da Blue Orchard nel 2004 (64 milioni di dolari). In assenza di queste operazioni “di mercato tradizionale”, il mercato secondario dei prestiti è stato basato su collocamenti privati a consorzi di investimento, spesso assistiti da garanzie fornite da istituzioni filantropiche o angel investors.

L’equity invece è stata storicamente poco impiegata, sia per la proibizione alla distribuzione di profitti, sia a causa del lungo tempo di gestazione nel quale le imprese sociali non sono redditizie (l’eccezione sono grandi operazioni immobiliari, in cui c’è un cespite tangibile). Tuttavia in tempi recenti il maggiore impiego delle forme for profit e cooperative spiega un aumento (survey annuali di JP Morgan) della quota di equity. Si tratta spesso di private equity collocata in “fondi alternativi d’investimento”. Una stima di questo mercato del private equity negli USA ai colloca su 375 fondi, 34 miliardi di dollari in private equity e venture capital, 44 miliardi di dollari nell’immobiliare.[9]

Tuttavia l’equity non è disponibile per molte imprese sociali, che sono tipicamente più “giovani” delle analoghe for profit e hanno tempi più lunghi di raggiungimento di una redditività affidabile. In questi casi, quando è comunque necessario del capitale di rischio, sono stati sviluppati vari tipi di protezione (ad es. operazioni in cui un donatore è disposto a prendere le prime perdite) oppure soluzioni di quasi-equity. Sostanzialmente si tratta di forme di debito o di accordi di royalty, il cui rendimento ha un profilo simile a quello dell’equity; ad esempio l’investitore può ricevere una quota del fatturato[10] dell’impresa sociale o di un suo programma specifico. Un esempio riportato in Salamon (Salamon, 2014a) è HCT Group, una rete di charities inglesi che operano nel trasporto commerciale e di persone svantaggiate che ha emesso 4 milioni di sterline in quasi-equity per finanziare veicoli e facilities, senza diluire la sua struttura proprietaria. In Italia non ci risulta che siano state eseguite operazioni di questo tipo.

Il vero “strumento nuovo” dell’economia sociale sono i social impact bonds (SIB). Fondamentalmente si tratta di strumenti finanziari, di varia sofisticazione, il cui rendimento varia a seconda di una misura dell’impatto sociale generato dall’opera che viene finanziata con la sua emissione. Si tratta quindi di un caso specifico di pay for performance (o pay for success), una clausola che le pubbliche amministrazioni anglosassoni stanno cercando di introdurre nella loro contrattualistica. Salamon (Salamon, 2014a) descrive brevemente i due casi più noti, che finanziano programmi di riabilitazione sociale di detenuti: HMP Peterborough in Inghilterra e la città di New York; tuttavia la trattazione del caso Peterborough ci appare incompleta e il caso di New York ci sembra fuorviante per quanto riguarda la ripartizione dei rischi. Essendo l’argomento noto e dibattuto rinviamo al capitolo 16 di Salamon (Salamon, 2014b) e ad uno studio di Avanzi per Fondazione Cariplo (Fondazione Cariplo, 2013); si veda anche il lavoro di MacHugh et al. (MacHugh et al., 2013; 2014), che si conclude con una riflessione scettica sull’effettiva praticabilità in Italia dei SIB, così come strutturati nelle operazioni anglosassoni.

Molti operatori italiani stanno cercando di definire strumenti finanziari assimilabili ai SIB; al momento nulla che utilizzi il meccanismo pay for performance si è ancora concretizzato. Invece sono state emesse obbligazioni italiane più semplici (delle vere obbligazioni: i SIB non sono bonds, perché l’investitore mette a rischio il proprio capitale) i cui proventi (o una frazione legata ai proventi) sono stati utilizzati per erogazioni al settore sociale o per finanziarlo. In particolare UBI Banca ha emesso circa 40 cosiddetti social bonds; le prime emissioni sono state normali obbligazioni vendute al retail, a tassi di mercato, ma una parte delle commissioni di collocamento veniva designata per essere erogata a beneficiari, di norma identificati ex ante. Altre emissioni di UBI, nonché le due di Banca Prossima e altre di dimensione minore, sono state invece dedicate a finanziare il credito al settore sociale a costo ridotto, solo in alcuni casi identificato ex ante. Il totale collocato si situa attorno ai 450 milioni di euro, anche se questa cifra non ha molto significato come misura del “supporto” al settore sociale: una gran parte si trasforma in erogazioni (ma con una percentuale bassissima, <0,5%) e il resto si trasforma in credito.

Per quanto riguarda altre innovazioni, le forme di erogazione in grado di raggiungere una certa leva sono grant noti come start-up, matching e pilot projects. Innovazioni più recenti hanno preso la forma della venture philanthropy, che combina un approccio di partecipazione al management con erogazioni di grande ammontare. Ricordiamo infine le competizioni a premio; negli USA la forma più recente è quella della competizione per la soluzione di un problema sociale, in cui la scelta non solo del vincitore ma anche del problema a volte è aiutata da un meccanismo di crowdsourcing.

La Tabella 3 riassume gli strumenti presenti in Italia, suddividendoli in tre segmenti in base al grado di maturità (Social Impact Investment Task Force, 2014a):

  • maturo: tradizionale, con strumenti maturi, offerti da intermediari ad operatività consolidata, che operano secondo regole definite, producendo risultati economici;
  • primo sviluppo: caratterizzato da strumenti in fase di sviluppo, offerti da pochi intermediari con un approccio operativo strutturato, per i quali non sono ancora disponibili informazioni e track record sui risultati economici;
  • embrionale o inesistente: in fase di sviluppo embrionale o addirittura inesistente, nel quale operano da poco tempo intermediari pionieristici, ad operatività non ancora ben strutturata, non ancora rilevanti nelle ricerche di mercato.

Tabella 3: Strumenti della nuova filantropia presenti in Italia

Perché ora?

Negli ultimi decenni, a livello globale, ingenti problemi sociali hanno iniziato ad affliggere seriamente le cosiddette economie sviluppate, sfidando i responsabili politici a livello internazionale. La crisi finanziaria mondiale ha frenato l’economia, generando problemi di sostenibilità finanziaria delle organizzazioni private e pubbliche (Sgherri, Zoli, 2009; Reinhart, Rogoff, 2010). I governi di molti Paesi, tra cui l’Italia, hanno dovuto affrontare questioni critiche, come la riduzione del reddito familiare, un livello crescente di disoccupazione (in particolare per i gruppi vulnerabili, donne, giovani, immigrati), la necessità di tagliare la spesa sociale (in aree come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’integrazione lavorativa) per preservare la sostenibilità finanziaria (Vis et al., 2011; Karanikolos et al., 2013). Questa situazione ha messo alla prova la coesione sociale, ma al contempo ha aperto la strada a una nuova sintesi in cui il principio di sussidiarietà viene superato, al fine di attivare nuove forme di cooperazione tra il sistema istituzionale e i differenti attori del sistema economico (in particolare su welfare e servizi alla persona). In questa sintesi è possibile posizionare la nuova filantropia nella sua accezione ampia e rappresentativa di un nuovo mercato per una imprenditoria sociale ed innovativa. L’Italia sta tessendo un substrato per la crescita di tali realtà attraverso la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e della disciplina del Servizio civile universale, la collaborazione con l’Europa, l’utilizzo del Fondo Sociale Europeo.

Oltre alle scelte istituzionali e della stessa filantropia, riteniamo infine necessario esplicitare il ruolo delle giovani generazioni, considerate attori prioritari dell’oggi e rappresentanti il futuro. La crisi degli ultimi dieci anni ha portato la generazione dei giovani - sia in Europa che in Italia - a forti livelli di difficoltà ed insoddisfazione, sia professionale (disoccupazione oppure ad esempio le cosiddette “fughe di cervelli”) che sociale (difficoltà a trovare un ruolo sociale). Questa situazione ha messo in discussione la netta separazione storica tra sfere di occupazione for profit e nonprofit, in quanto le nuove generazioni “ricercano” nel lavoro una forte dimensione di risoluzione di problemi sociali; in questo scenario la nuova filantropia potrà svolgere un ruolo interessante e di supporto.

Ostacoli rimanenti

Non tutti ci guadagnano. Secondo Salamon (Salamon, 2014a) l’orientamento alle metriche penalizza il lavoro sociale, che necessità di lunghi tempi di attuazione; avvantaggia chi fornisce servizi alle persone (salute, cibo, elettricità, etc.), ma non gli sforzi di advocacy che mirano a rimuovere diseguaglianze e barriere allo sfruttamento di opportunità (cambiamenti più profondi e duraturi). Riteniamo inoltre che, in alcuni settori di intervento sociale, il problema non sia solo l’accumulazione di capitale quanto il reperimento di risorse per le operazioni correnti. In questo caso la finanza non aiuta, anzi può peggiorare la situazione, in quanto crea la necessità di servire del debito (o del capitale) oltre ai costi esistenti. Se i funder non faranno attenzione alla ripartizione di risorse erogative, la “nuova filantropia”, con la sua enfasi finanziaria, toglierà attenzione dai settori a basso costo fisso a favore di quelli con alte necessità di capitale.

La misurazione d’impatto. Il problema della misura d’impatto è nello strumento: “non esiste ancora alcuno strumento che misuri in modo affidabile il rendimento misto (blended) sugli investimenti filantropici, e certamente non ne esiste alcuno che possa paragonare i rendimenti relativi attraverso una gamma di interventi diversi” (Salamon, 2014a). Riteniamo che il giudizio di Salamon sia centrato. Esistono misure e sistemi di misura su casi specifici del lavoro sociale. Crediamo auspicabile: 1) richiedere che l’impatto sia misurabile e misurato nel caso di accesso a finanza esterna; 2) applicare, dove opportuno, ciò che è sufficientemente stabile (ad es. SROI, anche per paragonare progetti diversi all’interno dello stesso settore con le stesse ipotesi sottostanti); 3) continuare la ricerca. Non riteniamo invece utile pretendere che “esista ciò che non c’è” (ad es. un sistema di misura comprensivo che possa valutare, sulla stessa base, interventi in campi diversi del settore sociale). In particolare riteniamo che tassonomie del tipo degli IRIS (con 400 indicatori diversi, non uno dei quali misura un outcome, ovvero un cambiamento nella vita dei beneficiari) non aiutino i confronti tra progetti diversi e supportino più la rendicontazione sociale (un misto di storytelling e di evidenze) che non la misura d’impatto vera e propria.[11] Salamon osserva che gli investitori non hanno “comprato” le misure d’impatto. Le ricerche esistenti sui rapporti di missione degli investitori citano solo rari esempi di misure d’impatto sofisticate; il punto è che molti osservatori hanno proposto sistemi investor centered.[12] Questo espone il sistema al rischio che gli investitori si auto-convincano di produrre un impatto sociale, mentre le imprese investite subiscono un mission drift che le allontana dal campo sociale. Di questo fenomeno esiste già evidenza negli USA, con il reperimento di “conflitti significativi” fra alcune imprese sociali e i loro investitori finanziari, e con la perdita di attenzione delle prime verso i beneficiari più bisognosi (e più costosi). Riteniamo inoltre che il problema di misura non possa essere affrontato solo da un punto di vista tecnico: la governance della misura, il ruolo degli attori e la regolamentazione giocheranno un ruolo sostanziale.

La nuova filantropia è ancora una boutique. Finora, l’investimento d’impatto sociale non è riuscito a “vendersi alla sua audience di elezione”: investitori istituzionali come fondi pensione, compagnie di assicurazione, fondi sovrani o società commerciali. I problemi sono ben noti: l’immaturità dei business e delle imprese che li perseguono, la limitata preparazione del management, la novità di alcuni veicoli di investimento e l’illiquidità dei titoli. Il risultato è che l’investimento a impatto sociale, se è una asset class, è ancora molto piccola.

Imprese sociali “investibili”. Un altro problema è la difficoltà nell’individuare imprese sociali investibili (the pesky issue of deal flow… “la fastidiosa questione dei flussi di transazioni”). Molti investitori lamentano la mancanza di opportunità “di qualità”; si entra nel paradosso per cui esiste necessità di capitale, ma è difficile operare nel sociale producendo un profitto. Ricordiamo alcuni casi a sostegno di questa ipotesi: Grameen ha impiegato 17 anni prima di diventare redditizia, Acumen ha dovuto valutare circa 5 mila progetti in 10 anni per estrarne 65 investibili; entrambi avevano aspettative di redditività molto conservative. Gli investitori temono di essere i primi a lanciarsi nel finanziamento di start-up sociali, supportandone il costo probabilmente in cambio di poco beneficio, in quanto alla finestra ci sono molti investitori potenziali. E’ un problema di free riding e come gli altri si risolve con una soluzione non di mercato. Alcuni governi hanno finanziato direttamente start-up; questo sembrerebbe essere un campo promettente per le fondazioni, che potrebbero fare “filantropia d’impresa” identificando imprese sociali che hanno superato la fase di prova e aiutandole a validare commercialmente i loro progetti, portandoli su scala necessaria. Questo è possibile sia con erogazioni che con equity non di controllo che con debito (ad es. soft loans) a basso interesse, o con un mix di varie cose.

Ipotesi troppo ottimistiche? Secondo Salamon è necessario superare le ipotesi troppo ottimistiche. Per un periodo sembrava che le tensioni esistenti fra scopo sociale e di lucro, tra rendimenti di mercato e impatto sociale, fossero sospese, ma le aspettative cresciute attorno alla nuova filantropia hanno bisogno di essere deflazionate. Le combinazioni rischio-rendimento nel sociale non sono simili a quelle tradizionali, come sperato da alcuni; e il business sociale non può sostituire l’azione governativa. Far pervenire un piccolo flusso di capitale al settore sociale ha richiesto, in più di un settore e di una nazione, un pesante intervento governativo.[13]

La situazione italiana non appare molto diversa, anche se sembrerebbe prevalere una minor illusione sui rendimenti ottenibili e sulle possibilità di sostituzione dell’intervento pubblico,[14] anche se al contempo esiste una minor esperienza di investimento e di valutazione d’impatto. Nel settore culturale, ad esempio, urge un cambio di mentalità in direzione imprenditoriale, di denaro investibile e di un approccio comprensivo alla descrizione dell’impatto socio-culturale.

Il futuro

Riteniamo che questi ostacoli non siano un ostacolo allo sviluppo della “nuova filantropia”. Esistono spazi enormi non sfruttati nella combinazione filantropia-finanza, nel matching fra nonprofit e altri operatori (ad es. for profit, ma anche singoli individui) e nella collaborazione fra pubblico e privato. In Italia, inoltre, esiste il problema di disomogeneità geografica sullo sviluppo della filantropia e la necessità di rafforzare il coinvolgimento del Meridione.

Salamon (Salamon, 2014a) sostiene che una nuova filantropia e investimenti a impatto sociale possono funzionare efficacemente quando sono soddisfatti quattro criteri:

  • le soluzioni pubbliche, e/o quelle filantropiche, da sole non bastano;
  • deve esistere una soluzione di mercato fattibile, già provata o in ragionevole prospettiva;
  • gli investitori privati tradizionali devono avere sufficiente volontà e capacità di investire;
  • le soluzioni di mercato devono essere considerate moralmente accettabili.

Date queste condizioni, Salamon suggerisce sei imperativi (visualizzare, pubblicizzare, incentivare, legittimare, capacitare e attualizzare), ma non crediamo sia questo il luogo per promuovere un’azione per lo sviluppo futuro dell’investimento d’impatto.

L’equilibrio dipenderà dall’evoluzione dell’ecosistema, che ad oggi lascia intravedere la coesistenza di un approccio demand driven - maggiormente orientato alla profondità dell’impatto - e di un approccio market driven, più orientato al valore monetario dell’impatto (Social Impact Investment Task Force, 2014a). Quindi l’impatto sociale e il rendimento dell’investimento dovranno trovare formule di coabitazione: la leva per le diverse azioni da intraprendere, sia sul lato dell’offerta che della domanda, sarà strettamente connessa con il ruolo riformatore delle istituzioni. Sarà necessario adottare una visione sistemica degli attori e della governance, che rappresenta una variabile strategica fondamentale per assicurare equilibrio tra attori diversi. Infine, l’allineamento tra domanda e offerta dipenderà strettamente dallo sviluppo di infrastrutture intangibili in grado di ridurre l’asimmetria informativa tra finanziatore e finanziato, e quindi dalla misurazione. Una regolare misura d’impatto sociale dovrebbe diventare pratica comune nelle organizzazioni filantropiche del settore sociale che richiedono finanza esterna o contributi; tale misura dovrebbe essere coerente con le richieste/caratteristiche dei fornitori di mezzi finanziari sia pubblici che privati e le amministrazioni pubbliche dovrebbero sia promuovere che in parte regolare tali requisiti.

Riteniamo che se l’impatto sociale, come generatore di chiari e quantificabili obiettivi di sviluppo, fosse riconosciuto come componente fondamentale del sistema economico, il ritorno finanziario terrebbe conto del ritorno economico generale, includendo i concetti di efficacia dei business sociali, portando ad una percezione del rischio per gli investimenti a impatto sociale ridotta (e quindi una maggior capacità delle organizzazioni ad impatto sociale di attrarre capitali e crescere). Ovviamente questo processo è connesso ad un cambiamento culturale e necessita di tempo, ma potrebbe condurre ad un rafforzamento strutturato del sistema filantropico e più in generale ad un nuovo sviluppo economico.

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Note

  1. ^ In Salamon (Salamon, 2014a) gli scopi “sociali” o “ambientali” non sembrano includere quelli “culturali”. Crediamo che l’omissione non sia voluta, ma limiti l’argomento, anche in relazione ad importanti organizzazioni della filantropia italiana, come le fondazioni bancarie, nelle cui erogazioni il settore “arte e cultura” risulta il primo target per ammontare.
  2. ^ L’Europa, in coerenza con la programmazione 2014-2020, incardina allo sviluppo della Social Business Initiative alcuni fondi comunitari quali il Social Impact Accelerator (SIA) e ha emanato una direttiva relativa ai Fondi Europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF).
  3. ^ Si tratta di 22.500 organizzazioni nonprofit “che potrebbero diventare imprese sociali” (Social Impact Investment Task Force, 2014a) o di circa 60mila nelle stime di Ceccaroni e Zamaro (mai pubblicate, ma desumibili dal video di presentazione del Censimento Istat: https://www.youtube.com/watch?v=j1RtlMn--R8 / 35:49 e seguenti). Il “settore sociale” potrebbe inoltre comprendere quasi 90mila imprese profit che operano nei settori Ateco indicati nel D. Lgs. 155/2005 (Social Impact Investment Task Force, 2014a - p.37) e naturalmente le imprese pubbliche.
  4. ^ Il rapporto capitale/prodotto è l’83% e quello tra equity e capitale circa il 20%. Per paragone, le medie imprese industriali censite da Mediobanca avevano, per lo stesso anno 2011, rapporti più alti (97% e 36% rispettivamente), ma ciò potrebbe dipendere dalla diversa composizione settoriale, in particolare dalla maggior intensità di capitale del settore industriale. Un’analisi completa, con matching settoriale, si può trovare in Borzaga e Fontanari (Borzaga, Fontanari, 2014a; 2014b), si riferisce a tutte le cooperative (non solo quelle sociali) e trova un buono stato di solidità finanziaria e di mercato.
  5. ^ Oppure Banca Prossima, di cui circa un terzo del capitale è di tre fondazioni (Cariparo, Cariplo, San Paolo) che quindi hanno svolto un ruolo di “banca filantropica” nel senso di Salamon. La maggioranza è di Intesa Sanpaolo.
  6. ^ Su questo punto segnaliamo che la situazione è ancora embrionale. Gli IRIS comprendono circa 400 indicatori, di cui ogni utente può (di fatto, deve) selezionare un sottoinsieme: quindi la comparabilità fra risultati degli utenti IRIS è più teorica che fattuale. Inoltre nessuno di questi indicatori misura un outcome, il che rende impossibile misurare l’impatto, in un senso moderno, con tale sistema. Anche definire l’investimento d’impatto come asset class ci pare dubbio; gli strumenti sono generalmente tradizionali (eccetto alcuni molto minoritari, come i SIB): in termini di asset class si tratta quindi di debito o equity illiquidi, niente di molto nuovo; gli investimenti in questione esercitano un impatto sociale, ma è difficile caratterizzarli con questo, date le incertezze sulla sua misura.
  7. ^ Un campo in cui le garanzie in Italia sono spesso private è il microcredito. Sia l’iniziativa flagship, il Prestito della Speranza (una convenzione fra ABI e CEI), che un buon numero di iniziative finanziate a cura di enti religiosi o fondazioni, hanno avuto fondi di garanzia privati. Esistono anche esempi, spesso regionali o comunali, di fondi di garanzia di origine pubblica. Si veda ad esempio l’inventario delle iniziative in Borgomeo & co. (Borgomeo & co., 2007).
  8. ^ Si noti che la mancanza di rating rende questo tipo di finanziamento impraticabile, di fatto, in Italia se rivolto al pubblico generale. È possibile, ma a volte ostacolato da regole aziendali interne, se rivolto a investitori istituzionali.
  9. ^ Internazionalmente Bridges Ventures (UK), Willow Impact Investors (Dubai) e Aavishkaar (Singapore) hanno seguito un modello standard di venture capital, promettendo rendimenti allineati al mercato e investendo in business che servono il “fondo della piramide” sociale.
  10. ^ Negli USA sarebbe legalmente rischioso legare il rendimento agli utili, che nel nonprofit sono per definizione non distribuibili. La legge italiana lascia più margine a operatori come le cooperative sociali.
  11. ^ La risposta del GIIN in merito è stata lo sviluppo dei GIIRS, che assegnano un rating alle imprese (sociali e non) sulla base di governance, trattamento dei lavoratori, impatto sull’ambiente e ruolo nella comunità. Questi elementi sono ben al di sotto delle necessità minime di misura di impatto sociale e al massimo possono aiutare lo SRI su società quotate.
  12. ^ Il sistema più logico, sostiene Salamon (Salamon, 2014a), sarebbe di “centrare questi sistemi” sui beneficiari (“come farebbe Google”).
  13. ^ Ad esempio far nascere investimenti immobiliari nelle aree svantaggiate degli USA ha richiesto una pesante collaborazione fra molte aree di governo diverse.
  14. ^ È facile verificare il maggiore realismo del rapporto dell’Advisory Bord italiano della Task Force (Social Investment Task Force, 2014a) rispetto al rapporto globale (Social Investment Task Force, 2014b), più portatore di visioni e di slogan vendibili, ma a nostro giudizio meno in contatto con la situazione sul campo, sia in generale che sulle questioni di misura d’impatto.
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