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ISSN 2282-1694

Numero 4 / 2025

Saggi

Impresa sociale e associazionismo volontario: divaricazioni e nuovi intrecci

Francesca Donati, Emanuele Polizzi

Nelle riflessioni attorno al mondo dell’impresa sociale, la relazione con il volontariato, nelle sue varie forme, ha storicamente avuto un ruolo assai importante per i suoi operatori prima ancora che per i suoi osservatori e studiosi. Da sempre, infatti, la gran parte degli attori del Terzo settore riconosce il legame profondo, sociale, culturale e organizzativo tra queste due componenti. Allo stesso tempo, fin dai primi tempi del cammino di sviluppo delle imprese sociali in Italia, sono iniziate a emergere le diversità e le possibili tensioni con il volontariato, fino a far parlare diversi autori di una dinamica e crescente divergenza (Ascoli, Pavolini, 2017; Borzaga, 2009; Fazzi, 2017). Inoltre, le trasformazioni e le articolazioni organizzative ed economiche occorse nel mondo dell’impresa sociale negli ultimi due decenni sembrano aver rinforzato i motivi di divaricazione tra i due mondi. La stessa riforma del Terzo settore del 2017, sembra aver ulteriormente articolato la relazione tra queste due componenti, amplificandone alcune differenze, pur contenendo anche obiettivi di ricomposizione tra i diversi mondi del Terzo settore.

In questo contributo si intende analizzare l’evoluzione di questa relazione alla luce dei dati del Decimo Rapporto sull’associazionismo prodotti da IREF (Caltabiano et al., 2024), a quelli dell’ultimo Rapporto Istat sul volontariato e al Rapporto RUNTS del 2024[1]. Lo scopo è studiare tale relazione, con un focus sul presente e sui possibili scenari futuri, osservando le tendenze, interessi, punti di forza e di debolezza di entrambe le componenti. La convinzione che sta alla base di questa riflessione è che, pur essendoci vari e importanti motivi di divergenza tra impresa sociale e volontariato, ci sia ancora spazio per sviluppare un rapporto di complementarità e di reciproco stimolo, nel riconoscimento di una comune missione generale e di un’interdipendenza di fondo tra le rispettive forme di azione. Si tratta, infatti, di riconoscere come una relazione virtuosa tra questi due attori possa generare un valore aggiunto che essi, separatamente, non riuscirebbero a creare.

La graduale separazione tra l’impresa sociale e il volontariato

Nati generalmente in seno alla stessa storia o cresciute l’una come evoluzione dell’altra, il mondo dell’impresa sociale[2] - e del volontariato hanno generalmente intrattenuto ampie forme di intreccio e di collaborazione. Ne è riprova il fatto che in una parte importante del Terzo settore italiano essi sono cresciuti sotto il cappello delle stesse organizzazioni ombrello, dentro alle quali hanno convissuto e si sono mutuamente influenzate. Sono state diverse le forme di relazione tra esse e hanno riguardato sia organizzazioni storiche della società civile italiana, impegnate su un ampio raggio di campi come, ad esempio, Caritas, Acli, o Arci, così come molti soggetti dalla mission più specifica come Anfass, Croce Rossa, Legambiente, o anche organizzazioni non governative impegnate nella cooperazione e nell’ambito umanitario, come Emergency o Save the Children.

In un articolo del 2009 su questa Rivista, Carlo Borzaga, illustrava tre fasi principali che descrivevano l’evoluzione della relazione tra volontariato ed impresa sociale. La prima, chiamata “simbiosi”, la seconda “separazione” e la terza “incomprensione”[3]. La fase simbiotica è quella nascente, tipica di molte organizzazioni sorte negli anni ’70, nella quale le due realtà condividevano lo stesso milieu culturale e sociale o anche la stessa forma organizzativa dentro la quale la componente di volontariato era quella prevalente, e quella professionale era limitata e per lo più funzionale ad organizzare le attività volontarie (Marcon, 2004). Dagli anni ’80 e ’90, tuttavia, iniziò la fase della separazione, nella quale le forme volontarie e le forme professionali di impegno sociale iniziarono a prendere strade diverse, delineando traiettorie che coesistevano, si incrociavano e continuavano a collaborare, ma cominciavano anche a differenziarsi e a sviluppare modi e stili di azione distinti, talvolta anche competendo tra loro.

Due sono le ragioni principali di questa divisione. Da un lato, una ragione riconducibile alla relazione sempre più intensa di tipo gestionale del Terzo settore imprenditoriale con le amministrazioni pubbliche la quale portò ad una crescente professionalizzazione, in particolar modo delle cooperative sociali. Dall’altro lato, gli interventi legislativi dell’inizio degli anni ’90 crearono un quadro specifico per ciascuna di queste realtà, salvaguardandone le specificità, ma anche incrementando la differenziazione dei due percorsi.

Già dagli anni ’80, infatti, le amministrazioni pubbliche locali avevano iniziato ad affidarsi ad attori del Terzo settore, sia di tipo cooperativo che volontariato, per l’erogazione dei servizi. La relazione tra le due componenti, tuttavia, era ancora molto stretta e la linea di demarcazione tra un attore e l’altro ben poco definita. Le cooperative erano popolate da volontari e molte associazioni di volontariato erogavano servizi in maniera continuativa. La separazione non fu dunque immediata. In questa fase dell’evoluzione del welfare italiano, inoltre, il rapporto tra Terzo settore e pubbliche amministrazioni è stato definito di mutuo accomodamento (Ascoli, Ranci, 2003; Pavolini, 2003). In tale relazione il pubblico si affidava a soggetti di Terzo settore di tipo prevalentemente cooperativo per l’erogazione di servizi alla persona, permettendo così un contenimento dei costi e l’esternalizzazione della responsabilità dell’erogazione. A loro volta, i soggetti privati potevano confidare in un rapporto privilegiato e generalmente non concorrenziale con le amministrazioni pubbliche, cioè non basato su gare realmente competitive, che ne garantivano la continuità e la sopravvivenza economica. In questo rapporto di regolazione più blanda era possibile mantenere ampi spazi di ambivalenza, tra quali fossero le dimensioni affidate a personale volontario e quali quelle affidate a personale di tipo professionale.

Con la fine degli anni ’80 diventò però sempre più pressante l’esigenza, soprattutto delle pubbliche amministrazioni, ma anche di molti attori del Terzo settore, di definire maggiormente il perimetro e le caratteristiche del lavoro di gestione delle attività riconosciute come parte del servizio pubblico (Scalvini, 1992). Tale richiesta sfociò nelle due riforme contestuali prima citate, cioè le leggi del 1991: la 266 sul volontariato e la 281 sulle cooperative sociali. Esse riconobbero l’importanza di queste due entità, ma allo stesso tempo, ne delinearono le caratteristiche in modo più specifico e così ne prefigurarono uno sviluppo differente, iniziando a produrre la dinamica di separazione di cui parlava Borzaga[4]. Soprattutto nel mondo delle cooperative sociali, la relazione sempre più stretta e continuativa con gli attori pubblici permise loro di potenziare maggiormente la propria dimensione di impresa e l’equilibrio economico interno, rendendo meno pressante la necessità di continuare a investire sulle risorse volontarie. Tale investimento rimaneva nella cultura e negli obiettivi di larga parte del mondo dell’impresa sociale, ma non era più un dovere indispensabile per poter sopravvivere e svilupparsi.

Inoltre, nel corso degli anni ’90 e poi ancora di più dagli anni 2000, si iniziarono a introdurre forme più marcate di competizione economica, spesso improntate al criterio del massimo ribasso, anche per effetto dell’introduzione nella pubblica amministrazione italiana di approcci gestionali di tipo aziendalistico tipici del New Public Management (Ranci, 1999). Talvolta, le forme di competizione evolsero nella forma dell’accreditamento, la quale impone agli attori del Terzo settore il raggiungimento di determinati standard di qualità sul piano gestionale e strutturale. Furono gli anni nei quali avvenne in maniera massiva quel processo di professionalizzazione e managerializzazione delle imprese sociali, similmente a come stava avendo luogo già da tempo in contesti come quello statunitense (Busso, 2018; Eikenberry, Kluver, 2004). Tale professionalizzazione migliorò la capacità di gestione complessa dei servizi da parte delle imprese sociali, e si accompagnò ad una maggiore articolazione interna dell’organizzazione delle cooperative sociali. Un altro elemento che modificò a livello organizzativo l’impresa sociale fu il crescere dell’importanza della dimensione consortile nella vita di molte imprese sociali. I consorzi, infatti, permisero alle imprese non solo di crescere nella capacità organizzativa e nella formazione dei suoi livelli dirigenziali, ma anche di acquisire economie di scala e vantaggi competitivi nel mercato dei servizi alla persona, grazie ad una maggiore forza nell’aggiudicazione delle gare e ad una maggiore capacità di azione nel policy making locale (Pavolini, 2003). Si creò così una crescente collaborazione orizzontale tra soggetti dell’impresa sociale che intensificò i processi di isomorfismo delle imprese e favorì l’adozione di soluzioni aziendali efficienti (Scalvini et al., 2017). Inoltre, dagli anni 2000, si è intensificato in molte imprese sociali l’impegno verso il cosiddetto “secondo welfare” [5] (Maino, Ferrera, 2017), cioè nella scelta di allargare il proprio raggio di azione ad ulteriori attori rispetto alle sole pubbliche amministrazioni, con l’obiettivo di raggiungere una maggiore autonomia dal decisore e finanziatore pubblico. Si è, quindi, sviluppata una relazione diffusa con gli enti filantropici per l’innovazione sociale, con le imprese profit per il welfare aziendale, e in parte anche con i singoli acquirenti paganti. Questa tendenza si inquadra nel più generale processo di mercatizzazione, cioè il progressivo spostamento delle cooperative sociali dalla tradizionale fornitura di servizi su committenza pubblica verso la vendita diretta ai privati, recentemente descritto da Fazzi, Decorte, Maturo e Pisani nel Report di ricerca di EURICSE (2025). All'interno di questa tendenza, secondo gli autori del Rapporto, si creano tensioni crescenti nella conciliazione tra la mercatizzazione e i valori comunitari cooperativi, compreso il rapporto con il volontariato.

Le imprese sociali, in questo processo, sono cresciute come attori sempre più rilevanti, non solo per le risposte che forniscono in termini di servizi alle persone in situazione di fragilità e vulnerabilità, ma anche come soggetto economico e occupazionale del Paese. Marocchi (2024), a questo proposito, evidenzia come, in Italia, il tasso di occupazione nelle cooperative sociali sia cresciuto più rapidamente rispetto a quello generale. Anche le imprese sociali non cooperative hanno registrato un aumento dell’occupazione, assumendo un ruolo progressivamente più rilevante. Inoltre, la dimensione economica e organizzativa delle imprese sociali nel loro complesso è cresciuta dal 2008 a oggi, sebbene l’incremento del fatturato risulti più contenuto a partire dal 2017. Il settore dell’impresa sociale viene così assimilato al più generale settore dell’economia sociale e il ricorso oramai stabile da parte del pubblico a questi attori per la produzione di servizi fondamentali come quelli socio-educativi, sociali, socio-sanitari e sanitari, li rende indispensabili per il funzionamento della società nel suo insieme (Dagnes, Salento, 2022). Servizi come la cura delle persone non autosufficienti, l’accoglienza e il sostegno dei minori, l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, l’integrazione delle persone migranti, ecc. vengono gestiti quasi in esclusiva da imprese sociali, con alti livelli di professionalizzazione della forza lavoro.

Con la riforma del Terzo settore del 2017 questo percorso evolutivo ha avuto un successivo salto di qualità. La riforma, infatti, ha favorito ulteriormente il processo di ibridazione tra le organizzazioni di Terzo settore più imprenditoriali e i mondi della pubblica amministrazione e dell’impresa profit (Campedelli, 2025; Reggiardo, 2022). Ciò ha spinto ancora di più le imprese sociali verso i mondi professionali, lasciando così meno spazio alla relazione con il volontariato. Ciò vale non solo per le imprese sociali più radicate, ma anche per le imprese sociali di recente formazione, le quali, secondo i dati del Rapporto RUNTS 2024, solo nel 30% dei casi si avvalgono del lavoro volontario contro un 70%, invece, che ne prescinde.

Tale percorso di separazione, secondo Borzaga, ha finito nel tempo per generare la terza fase della relazione tra questi due mondi: quella dell’incomprensione. Sebbene Borzaga scrivesse nel 2009, facendo riferimento all’incomprensione degli anni 2000, la sua elaborazione rimane ancora un’ottima lente d’interpretazione dell’attuale post-riforma del codice del Terzo settore, relazione tra volontariato e impresa sociale. Molte cooperative sociali si sono orientate in misura crescente a una risposta professionalizzata ai bisogni sociali, con un rapporto di più diretta commissione con la pubblica amministrazione.

L’associazionismo volontario e le fatiche del lavoro di rete

Se guardiamo all’evoluzione odierna del volontariato possiamo vedere alcuni segnali e confermare come esso sia caratterizzato da diversi elementi che rendono complessa e non scontata la compatibilità con le logiche di evoluzione dell’impresa sociale. In particolare, a essere rilevante è la propensione, ancora assai presente in questo mondo, a considerare essenziale non solo le missioni “esterne” dell’associazione, cioè le azioni solidaristiche verso quale causa o popolazione, ma anche la partecipazione personale degli stessi associati per il proprio benessere sociale, il quale non di rado è anche esplicitamente la mission principale della vita associativa.

Come infatti attestato dal Decimo Rapporto sull’associazionismo sociale di IREF (Caltabiano et al., 2024), la gran parte delle associazioni di volontariato continua ad agire motivate da un desiderio di utilità per la società nel suo insieme, ma anche da un desiderio di senso e di benessere personale e relazionale degli associati. L’elemento relazionale e di socialità rimane, cioè, costitutivo ed essenziale di tali forme di impegno. Inoltre, per molte associazioni volontarie è l’advocacy, cioè la difesa dei diritti e delle opportunità dei cittadini, a costituire la propria missione centrale, più che la fornitura diretta di servizi. Questi elementi possono contribuire a spiegare la resistenza di molti enti di volontariato a dotarsi di forme organizzative eccessivamente complesse e più improntate alla produzione di servizi. Anche guardando all’ultimo Rapporto Istat sul volontariato, elaborato a partire dai dati dell’indagine multiscopo sull’uso del tempo 2023, possiamo rilevare segnali leggibili in chiave della divergenza tra il volontariato e impresa sociale. In tale Rapporto, infatti, si può osservare non solo il fatto che il numero dei volontari sia in continua decrescita, ma soprattutto che lo siano le forme di volontariato organizzato, ossia quelle nelle quali storicamente vi era maggiore intreccio con il mondo dell’impresa sociale[6]. A ciò si aggiunge la crescente difficoltà delle fasce di età tra i 30 e i 60 anni, ossia quelle con la massima difficoltà di conciliazione tra lavoro volontario e impegni lavorativi e familiari, nello svolgere le attività di volontariato, nonostante i tentativi di introdurre incentivi legislativi per la conciliazione tra vita personale e volontariato (Donati, Polizzi, 2024).

Nello stesso periodo, sembrano invece essersi stabilizzate le forme di partecipazione episodica, cioè l’impegno circoscritto a pochi momenti, anche intesi come azione civica, seppur assimilabili a quella che è stata chiamata plug-in volunteering (Hustinx, Lammertyn, 2003; Lichterman, 2006; Simsa et al., 2019). Tali forme di partecipazione si legano ad una specifica attività e non ad un più generale impegno nella vita associativa (Ambrosini, 2016), e si accompagnano alla riluttanza crescente di molti giovani a diventare appartenenti, preferendo forme di impegno temporanee, ad interim o occasionali (Macduff, 2004).

I dati IREF ci dicono che sono differenti i driver che spingono i volontari a impegnarsi in azioni civiche. Per il volontariato organizzato, il principale driver sono “gli ideali condivisi e bene comune, credere nella causa del gruppo, dare un contributo”. Per il volontariato diretto e svolto fuori da una cornice di appartenenza associativa e più come prestazione plug in o episodica, il principale driver è invece “l’assistenza a persone in difficoltà e desiderio di contribuire al bene comune o di far fronte a bisogni non soddisfatti”. In entrambi i casi si vuole dare un contributo ad una causa specifica, ma l’aspetto relazionale, del gruppo di ideali condivisi fa parte del primo tipo di partecipazione e non del secondo. In questa linea, i dati del Rapporto IREF confermano l’importanza della dimensione relazionale nella partecipazione alle associazioni locali. Al contrario, il volontariato diretto sembra coerente con le definizioni di impegno pragmatico, compatibile con l’individualizzazione delle società e contribuisce allo sviluppo di “un modo diverso di stare assieme, meno impegnato e più libero, più compatibile con lo stile di vita e i valori odierni di libertà, autonomia e indipendenza”[7].

Tutto ciò delinea un cambio significativo della maniera di partecipare (dalla partecipazione plug-in all’impegno pragmatico) di un segmento importante di volontari. Tale cambiamento, unito alle note difficoltà del ricambio generazionale che caratterizzano questi enti (Citroni, 2018) può ulteriormente confermare lo scenario di fatica di un’ampia parte dell’associazionismo volontario tradizionale a sposare le logiche d’azione dell’impresa sociale. Tuttavia, potrebbe prefigurare una maggiore compatibilità del mondo dell’impresa sociale con il volontariato privo di appartenenza associativa, meno attento alle dimensioni relazionali e a quelle culturali e politiche dell’associazione. La stabilità del numero di volontari che operano nelle imprese sociali non è in questo senso incompatibile con il distanziamento tra associazioni di volontariato ed imprese sociali.

In questo scenario, una delle possibili conseguenze dell’allentamento del rapporto tra associazionismo volontario e impresa sociale è la difficoltà crescente delle associazioni volontarie ad aumentare l’impatto delle proprie iniziative. Infatti, per le ragioni dette sopra, è più difficile che in passato contare su una collaborazione con soggetti sociali professionali, capaci di mobilitare più risorse. Inoltre, molte associazioni di volontariato hanno scelto di fare della gratuità della loro azione una caratteristica esclusiva e incompatibile con altre, talvolta fino a rifiutare di mischiarla con forme di azione di tipo più professionali, reputate uno stravolgimento dello spirito originario dell’organizzazione. L’esito di tale dinamica di riduzione della diversità interna delle logiche e degli stili d’azione (Citroni, 2023) dentro alla stessa organizzazione ha minato in molti casi le comuni radici sociali e culturali dei due mondi.

D’altronde, questa stessa dinamica sembra portare molte associazioni volontarie a patire una certa solitudine e autoreferenzialità, figlia di una frammentazione in tanti attori di piccole dimensioni. Tale frammentazione è avvertita dagli attivisti delle associazioni, come emerge dai dati IREF a livello organizzativo, che rilevano, tra i problemi più sentiti da chi fa vita associativa, quello della carenza di legami orizzontali con altri attori del territorio (Donati, Polizzi, 2024). La scarsa capacità di collaborazione orizzontale del tessuto associativo volontario sembra cioè ridurre il capitale sociale delle associazioni e la loro capacità di uscire dai propri confini per entrare nel dibattito pubblico, specialmente quando cerca di impegnarsi in attività di advocacy. Quella dell’advocacy è una delle vocazioni storicamente più caratterizzanti delle realtà volontarie (Borzaga et al., 2023) ed implica l’investimento su una relazione orizzontale con altri gruppi e verticale con le istituzioni con l’obiettivo di convincere il decisore pubblico a promuovere politiche pubbliche in linea con i propri valori e la propria causa. Se, infatti, la risposta diretta ai bisogni può essere data anche solo con l’azione diretta, anche attraverso la tessitura di reti informali e auto-organizzate e persino con forme di impegno individuale, la dimensione politica del volontariato necessita di reti e legami forti con altri soggetti del territorio e con reti sovralocali. Tali alleanze, hanno permesso storicamente al Terzo settore di contribuire a innovare e migliorare le politiche pubbliche. Dove questa capacità di azione di rete è indebolita rischia di ridursi una delle ragioni stesse di vita di molto associazionismo volontario. Anche tale tendenza, inoltre, sembra rafforzata dal decrescere dell’impegno volontario organizzato, a favore di quello individuale ed episodico. Pertanto, sia a livello di organizzazione che a livello di partecipazione di senso individuale, la dimensione pubblica rischia di perdere di rilevanza.

In questo scenario, può essere utile soffermarsi sul ruolo esercitato della riforma del Terzo settore sulla relazione tra associazionismo volontario e impresa sociale. Essa mira, infatti, a creare un frame normativo comune all’insieme del Terzo settore italiano. Inoltre, delinea un possibile luogo di collaborazione tra le imprese sociali e il volontariato all’interno della vita stessa delle imprese sociali, prevedendo e incoraggiando la partecipazione dei volontari nelle attività delle imprese e la partecipazione volontaria della popolazione, in generale. Tuttavia, la riforma ha avuto un effetto di appesantimento del carico rendicontativo per una parte importante del Terzo settore italiano (Polizzi, 2019). Essa impone, per il registro degli attori nel Registro Unico del Terzo Settore (RUNTS), requisiti formali che richiedono impegni rendicontativi assai onerosi a fronte dei quali molte associazioni, che fino a quel momento si consideravano ed erano considerate soggetti collaboratori delle amministrazioni pubbliche, hanno scelto di non entrare nel suo nuovo perimetro (Lori, Zamaro, 2019). Il riconoscimento in tale Registro ha però effetti assai significativi sulla capacità di azione delle organizzazioni che ne rimangono al di fuori. Esso, infatti, non solo influisce sulla possibilità di “entrare nel sistema” delle relazioni con la pubblica amministrazione, ma anche su quella di ricevere risorse, in termini di sostegni monetari, immobiliari o di altro genere, in assenza delle quali molte realtà volontarie rischiano di vedere messa a repentaglio la loro stessa esistenza.

Un ulteriore elemento di possibile divergenza tra volontariato ed imprese sociali riguarda gli strumenti pratici forniti nella riforma per la strutturazione dei processi di co-progettazione e co-programmazione. Essi, infatti, favoriscono le relazioni verticali tra pubblica amministrazione e Terzo settore, mentre le relazioni orizzontali, cioè interne al Terzo settore, appaiono per lo più funzionali nel permettere quelle verticali. A questo proposito, possiamo notare come dal lato dell’impresa sociale si siano sviluppate capacità diffuse, specialmente grazie alla presenza dei consorzi di cooperazione sociale, i quali permettono di facilitare la collaborazione orizzontale e rafforzano la capacità di negoziazione con il pubblico. Tali strumenti di rete orizzontale e verticale più raramente comprendono un ruolo significativo del volontariato. Tale difficoltà, in relazione sia all’impresa sociale che nell’analisi dell’indebolimento del tessuto associativo volontario, va letta anche alla luce della storica assenza, tutta italiana, di organi di secondo livello per il coordinamento degli attori locali, regionali e nazionali. I Centri di Servizio per il Volontariato (CSV) esistono come organi di supporto o di promozione del volontariato, ma non svolgono funzioni di coordinamento né di rappresentanza delle associazioni. In questo senso è proprio la Riforma del Terzo settore che cerca di sopperire a tale mancanza, riconoscendo come attori del Terzo settore le reti associative. Tuttavia, nel Codice (art. 41) le reti riconosciute sono solo di livello nazionale o sovraregionale, mentre la formazione di coordinamenti locali non viene direttamente supportata.

Tutti questi elementi, dalla difficoltà nel ricambio generazionale e la diminuzione dell’impegno organizzato agli oneri del RUNTS e la mancanza di reti, contribuiscono a delineare un quadro nel quale le associazioni di volontariato sono sospese tra l’autoreferenzialità e la ricerca di collaborazioni con l’attore pubblico.

Alla ricerca di nuove forme di intreccio tra associazionismo e impresa sociale

Davanti a questo scenario possiamo trarre alcune piste di riflessione sul futuro delle due anime del Terzo settore italiano. È senz’altro vero che la relazione tra imprese sociali e volontariato sta attraversando da oramai più decenni una fase di differenziazione crescente, che rischia di portare ad uno scenario di definitiva polarizzazione nel quale questi due mondi non sarebbero più visti come due ramificazioni dello stesso settore bensì come due settori differenti. Ci sono però diverse ragioni per le quali considerare ancora essenziale una relazione stretta tra queste due dimensioni.

In primo luogo, per l’impresa sociale mantenere forte l’interazione con l’associazionismo volontario e, in generale, con la componente volontaria significa garantirsi un contatto più stretto con i cittadini e con le relazioni sociali e comunitarie in cui sono immersi. Grazie a tale relazione, l’impresa sociale può almeno mitigare il rischio di appiattirsi su un ruolo di semplice erogatore di prestazioni, che indebolisce sia la dimensione aggregativa che quella di advocacy più tipiche dell’associazionismo volontario. Questa necessità è maggiormente reale in una fase nella quale è sempre più diffusa l’adozione di programmi basati sul cosiddetto “welfare di comunità”, cioè sull’idea che, accanto all’erogazione di servizi, si promuovano spazi e occasioni dediti anzitutto alla valorizzazione della dimensione relazionale. Diverse esperienze e programmi sperimentati in questi anni nel nostro Paese vanno in questa direzione (Mozzana, Polizzi, 2025). Tale welfare prevede l’inclusione non solo di operatori e dei destinatari in situazione di fragilità, ma della più ampia ed eterogenea cerchia della cittadinanza locale. In questo senso, la collaborazione tra gli attori di impresa e di volontariato diventa un elemento chiave per il funzionamento di questo tipo di programmi.

In secondo luogo, anche il volontariato trova nel supporto dell’impresa sociale un grande alleato sia per contrastare la tendenza alla frammentazione e la polverizzazione delle proprie iniziative che per acquisire maggiore capacità di incidere e stare sul territorio dal punto di vista delle risorse e della programmazione di lungo periodo. Seguendo questo ragionamento, almeno in teoria, l’impresa sociale potrebbe infatti fornire un supporto essenziale per l’azione del volontariato, in termini organizzativi, logistici, di competenze esperte, di relazioni con la pubblica amministrazione e di capacità di reperimento di risorse, economiche e materiali, in generale. L’impresa sociale, cioè, ha potenzialmente le risorse e le competenze per svolgere un ruolo di facilitazione logistica, organizzativa e di mediazione per l’associazionismo volontario. Si può immaginare, in questo senso, una nuova vocazione dell’impresa sociale a svolgere un compito di quella che Gregorio Arena ha chiamato una funzione bifronte del Terzo settore (Arena, 2020). Essere, cioè, un soggetto allo stesso tempo rivolto verso le istituzioni e i servizi che con essa promuove ed eroga, ma rivolto anche verso i cittadini, nel tentativo di fare da soggetto facilitatore e organizzatore dell’impegno civico nei territori.

C’è poi una ragione che ha a che fare con la capacità di attrarre nuovi lavoratori per l’impresa sociale. Se negli anni ’70, ’80 e ’90 la gran parte dei lavoratori delle imprese sociali veniva da percorsi di volontariato, oggi le modalità di reclutamento sono sempre meno collegate a questo canale e più basate su percorsi di formazione professionale specifici. In questo senso, se prima la motivazione al lavoro nelle imprese sociali era garantita da percorsi che implicavano un’adesione personale ai valori di solidarietà sociale (Fazzi, 2024), oggi questa motivazione è assai più debole, anche a causa delle condizioni salariali assai sfavorevoli, a fronte di una fatica del lavoro sociale sempre più marcata. Uno degli effetti di questo indebolimento è la crescente fuga dal lavoro sociale (Busso, Lanunziata, 2016; Caselli, Giullari, Mozzana, 2025). La crisi del lavoro sociale non può essere evidentemente risolta facendo leva solo sulla dimensione motivazionale e il tema delle condizioni salariali rimane prioritario. Tuttavia, una relazione più stretta con il mondo volontario gratuito potrebbe aiutare le imprese a “lavorare su un maggiore allineamento tra obiettivi ideali e azioni concrete, evitando derive meramente gestionali o produttivistiche, da un lato, e ponendo cura di rendere gli obiettivi dell’agire di impresa coerenti con gli obiettivi ideali dei lavoratori, oggi meno astratti e più pragmatici rispetto al passato” (Fazzi, 2024: 9), e a trovare personale che basi la propria permanenza lì anche su una condivisione di fondo della missione sociale e politica dell’impresa sociale. Anche le amministrazioni pubbliche possono svolgere un ruolo importante per favorire un nuovo cammino di intreccio tra i mondi del volontariato e dell’impresa sociale. Per quanto riguarda l’erogazione dei servizi, esse possono promuovere progetti nei quali queste due componenti del Terzo settore siano non solo contemplate per coesistere, ma anche per collaborare in modo più effettivo, in modo da valorizzare in forma complementare le rispettive vocazioni. Ciò, evidentemente, non significa scaricare sull’associazionismo volontario compiti gestionali, magari in chiave di risparmio rispetto all’affidamento a enti di Terzo settore professionali. Significa semmai alleggerire il loro carico organizzativo, autorizzativo e rendicontativo per permettere che giochino il ruolo che è più proprio di tali realtà, come il collegamento con le reti informali e la promozione della socialità di prossimità. Gli enti locali, inoltre, possono fare molto per favorire un nuovo inserimento dell’associazionismo volontario nei processi di programmazione e progettazione del welfare pubblico, anche al di fuori dei procedimenti formali riconducibili all’articolo 55 del Codice del Terzo settore. Già oggi possiamo vedere alcune amministrazioni pubbliche provare a ricomprendere anche i soggetti esterni al RUNTS nei processi di amministrazione condivisa, istituendo strumenti di ingaggio più aperti e anche diversi da quelli dei tavoli (Caltabiano, 2024), compatibili con la norma ed in linea con i principi di cittadinanza attiva e di allargamento della partecipazione (Marocchi, 20121)[8].

In conclusione, possiamo dire che è possibile pensare ad un rilancio del legame tra impresa sociale e volontariato, con una molteplicità di vie da percorrere basate sull’idea di una possibile complementarità tra queste due dimensioni dell’impegno civile organizzato. Ciò non significa tornare alle forme di relazione della fase nascente del Terzo settore italiano degli anni ’70-’80, basate su modalità spontanee di scambio e convergenza che sarebbero oggi non più possibili. Non è, infatti, cambiata solo la relazione tra i due attori, ma anche il contesto economico e sociale nel quale entrambi sono immersi. Si tratta però di pensare ad una relazione che non veda alcuna sostituzione tra questi due mondi e che piuttosto si apra a configurazioni nuove di intreccio che ne promuovano la contaminazione e il mutuo apprendimento.

DOI: 10.7425/IS.2025.04.09

 

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[1] In questo contributo l’analisi è circoscritta alla relazione tra le imprese sociali e le associazioni di volontariato (OdV). La relazione delle Aps, invece, sia con le imprese sociali, ma soprattutto con le OdV, non verrà esplorata. Tuttavia, si ritiene quest’ultima particolarmente rilevante. La maggiore differenza tra le Aps e le OdV riguarda i destinatari delle attività e l’assenza di disposizioni specifiche per le Aps relativamente alle risorse economiche. Questa peculiarità ha portato fenomeni quali la creazione di Aps associate ad OdV. Attraverso le prime, vengono organizzati eventi ludico-ricreativi per i soci e svolte attività commerciali che contribuiscono alla sostenibilità di questi attori del Terzo settore.

[2] Quando si parla di “imprese sociali” non si fa riferimento alla definizione giuridica, ma a tutti i tipi di organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale, basandosi su personale professionale e logiche organizzative tipiche delle imprese.

[3] “A questo fine è utile una periodizzazione così articolata: a) il periodo della “simbiosi” va dall’inizio fino alla fine degli anni ’80; b) la fase della “separazione” coincidente con l’approvazione nel 1991 delle due leggi sul volontariato (266) e sulla cooperazione sociale (381); c) la fase dell’”incomprensione”, ricomprendente tutti gli anni successivi fino ad oggi” (Borzaga, 2009:63).

[4] Tra le varie novità di questa riforma, si può ricordare come con essa si stabilì una percentuale massima di personale volontario attivo all’interno delle cooperative sociali. Questo criterio limitò gli scambi di risorse umane tra le due tipologie di attori.

[5] Per esempio, il welfare aziendale e, in generale, quello che viene chiamato secondo welfare, che comprende anche la filantropia di origine sia bancaria che aziendale e da ultimo i tentativi di finanziarizzazione (non molto fortunati, tipo social impact bond).

[6] È possibile che l’indagine Istat possa sottostimare il dato del volontariato non organizzato. L’indagine multiscopo, infatti, chiede ai partecipanti se hanno svolto attività di volontariato nelle quattro settimane precedenti all’intervista e tale domanda esclude dal conteggio la partecipazione episodica.

[7] Statistiche Report - Il Volontariato in Italia, Istat, 29/07/2025. https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/07/REPORT_Il-volontariato-in-Italia_anno-2023.pdf.

[8] Qualche esempio di tali forme lo troviamo nelle leggi regionali della Regione Piemonte (legge 5/2024), della Regione Toscana (legge 65/2020), della Regione Molise (legge 21/2022) e della Regione Emilia-Romagna (legge 3/2023) nelle quali si osserva la volontà del legislatore di includere soggetti più piccoli e organizzativamente più informali all’interno dei processi di amministrazione condivisa.

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