Il saggio analizza le visioni urbane espresse da attivisti sociali operanti in quattro città italiane (Milano, Firenze, Roma, Napoli) interrogandole come dispositivi collettivi di orientamento simbolico, giustificazione morale e anticipazione del futuro. L’analisi si fonda su un impianto teorico che intreccia la teoria degli immaginari, i regimi di giustificazione e l’economia delle aspettative. Attraverso tecniche di analisi multivariata (ACP e cluster analysis), si individuano tre configurazioni simboliche dominanti – la città dell’equità, la città della cura e la città della produzione – interpretate come “mondi morali” dotati di regimi temporali distinti: trasformativo, conservativo, incrementale. I risultati mostrano come le rappresentazioni della città articolino diverse idee di giustizia, ordine sociale e possibilità. Ogni immaginario urbano si configura come spazio di politicizzazione del tempo: le aspettative funzionano come dispositivi di selezione del possibile, in grado di rendere visibili o invisibili soggetti, bisogni e traiettorie. In questa prospettiva, le visioni urbane sono archivi conflittuali di futuri latenti, abitati da segni, indizi, assenze che eccedono la razionalità dell’attesa. Il saggio propone dunque una lettura delle città come spazi simbolici performativi, attraversati da regimi morali e temporalità divergenti, in cui il futuro si manifesta non solo come progetto da realizzare, ma come campo di possibilità in contesa.
È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.
(Italo Calvino, Le città invisibili, 2012: 42)
Negli ultimi decenni, la riflessione sociologica sulle trasformazioni urbane ha spostato la rappresentazione della città come contenitore fisico di funzioni verso una sua lettura come campo eminentemente simbolico e politico e dunque teatro di frizioni e conflitti (Harvey, 2008). Questi attriti riguardano l’uso dello spazio e la distribuzione delle risorse, ad esempio, ma anche la produzione di visioni concorrenti sul futuro desiderabile, possibile o auspicabile della città (Castoriadis, 1975; Perulli, 2009). Le città, infatti, prima ancora che essere pianificate, sono “immaginate” attraverso rappresentazioni normative e simboliche che orientano aspettative, rivendicazioni e strategie di legittimazione.
La società civile organizzata assume un ruolo cruciale in questo scenario. A fronte della capacità di strutturazione da parte dei progetti istituzionali o delle retoriche ufficiali di sviluppo urbano, permane infatti la capacità delle rappresentazioni prodotte “dal basso” – ovvero nelle pratiche sociali quotidiane e quindi anche nei contesti associativi – di compartecipare all’orientamento dei futuri urbani. Le associazioni funzionano come laboratori sociali in cui vengono elaborate visioni collettive della città, sono definite le priorità politiche e articolate griglie valoriali capaci di orientare l’azione pubblica (Vitale, 2010; Burini, 2024), contribuendo a stabilire quali soggetti sociali meritino attenzione pubblica, quali siano le emergenze da affrontare, quali ordini morali e sociali vadano difesi, trasformati o superati.
L’imprenditorialità sociale ha un ruolo, per certi versi, ancora più forte nella costruzione di queste visioni di città. Ad esempio, è stato molto approfondito il coinvolgimento delle imprese sociali nei processi di rigenerazione urbana (Bailey, 2012; Cottino, Zandonai, 2012; Bernardoni et al., 2021; Baraldi, Salone, 2022; Sforzi, De Benedictis, Scarafoni, 2024). Le iniziative di riuso dei vuoti urbani hanno quasi sempre delle componenti di economia sociale. Queste iniziative, oltre a cambiare il profilo materiale della città, contribuiscono a strutturarne la proiezione futura. La ristrutturazione di beni immobili e spazi pubblici da destinare a servizi sociali, iniziative culturali, alloggi protetti, turismo sostenibile, ossia alcune delle forme tipiche dell’impresa sociale in ambiente urbano, sono interventi che, per quanto molto concreti, hanno anche una componente simbolica e, in ultima analisi, politica. Secondo alcuni autori, il contributo dell’economia sociale sarebbe cruciale per arginare i processi di gentrificazione che sempre più caratterizzano le grandi città (Earley, 2025), sviluppando pratiche economiche alternative in grado di creare una “città della solidarietà” (Murtagh, 2019). Secondo altri (Muñoz, Cohen, 2016; Scaffidi, Micelli, Nash, 2025), gli imprenditori sociali attivi nelle città sarebbero portatori di una peculiare versione di economia sociale spazialmente e socialmente radicata, nonché fortemente orientata al coinvolgimento comunitario.
Il Terzo settore, nelle sue diverse componenti, è dunque un soggetto capace di influire sulle visioni di città: producendone di proprie, contestandone alcune, promuovendone altre. Poco conta che ciò avvenga con campagne informative, iniziative gratuite, azioni dirette; oppure, attraverso una start-up sociale, un nuovo servizio, una cooperativa. L’azione sociale, più o meno economicamente orientata, delle organizzazioni di Terzo settore implica una qualche forma di futuro urbano.
In questo saggio si esaminano le visioni urbane espresse da un campione di attivisti sociali operanti a Milano, Firenze, Roma e Napoli. I dati sono tratti dall’indagine sul campo realizzata da Iref in occasione del Decimo Rapporto sull’associazionismo sociale (Caltabiano, Vitale, Zucca, 2024). Si tratta, quindi, di un punto di vista peculiare, proveniente dall’ala più sociale del Terzo settore attivo nelle città considerate. Sarebbe sicuramente interessante confrontare la visione degli attivisti con quella degli imprenditori sociali per verificare eventuali differenze di valori e obiettivi. Tuttavia, non bisogna trascurare che le due anime del Terzo settore hanno margini di sovrapposizione: Darby e Chatterton (2019) arrivano ad affermare che “attivista sociale” e “imprenditore sociale” sono solo due etichette e nei fatti ci sono imprenditori che agiscono quasi come attivisti e attivisti che hanno un approccio quasi imprenditoriale. Il fatto che economia sociale e attivismo associativo abbiano confini mobili rende l’analisi presentata di seguito un contributo utile ad ampliare l’analisi del Terzo settore italiano non solo come attore impegnato in concreti processi di cambiamento sociale, ma anche come soggetto che contribuisce a definire un immaginario urbano. In poche parole, l’associazionismo e l’imprenditoria sociale non sono solo “passivi attuatori” delle visioni di città, ma sono soggetti attivi nella costruzione delle immagini future delle città.
Dal punto di vista teorico, l’analisi si fonda su tre assi interpretativi: la teoria degli immaginari come dispositivi performativi (Castoriadis, 1975; Adam, Groves, 2007), l’approccio dei regimi di giustificazione (Boltanski, Thévenot, 1991) e la prospettiva dell’economia delle aspettative (Beckert, 2016). Questa triangolazione consente di interrogare le rappresentazioni urbane come configurazioni discorsive intersoggettive in grado di legittimare priorità, orientare azioni e proiettare futuri socialmente situati.
Attraverso tecniche di analisi multivariata (analisi delle componenti principali e cluster analysis) applicate a una batteria di domande rivolte agli attivisti sulle priorità urbane, il lavoro individua tre configurazioni simboliche dominanti interpretate come “mondi morali” (Boltanski, Thévenot, 1991). Ciascuna di queste configura una specifica idea di giustizia urbana e un particolare regime di aspettative nei confronti del presente e del futuro delle città (Beckert, 2016) che delinea proiezioni normative del possibile e articola per tal via cornici di senso che definiscono chi conta, cosa merita attenzione e quale tipo di trasformazione è auspicabile.
L’obiettivo dell’articolo è dunque duplice. In primo luogo, si intende offrire una mappatura delle visioni urbane che attraversano il campo associativo italiano al fine di mostrare come esse costituiscano regimi di giustificazione capaci di fondare la legittimità delle rivendicazioni e finanche strutturare l’azione pubblica. In secondo luogo, il lavoro propone di leggere tali visioni come dispositivi collettivi che organizzano rapporti con il tempo, formulano aspettative e orientano possibilità d’azione, a fine di metterne in luce ambivalenze, aspetti paradossali e potenzialità trasformative. In questa prospettiva, l’analisi proposta intende restituire centralità alla dimensione simbolico-politica della città contemporanea, intesa non come spazio da gestire, ma come posta in gioco tra proiezioni morali e futuri immaginati.
Questo articolo intreccia tre prospettive analitiche: la teoria degli immaginari come dispositivi performativi (Castoriadis, 1975), il paradigma dei regimi di giustificazione (Boltanski, Thévenot, 1991) e la prospettiva dell’economia delle aspettative (Beckert, 2016). L’intersezione di questi filoni di letteratura scientifica consente di leggere le rappresentazioni urbane come forme collettive di orientamento morale e anticipazione del possibile inscritte in grammatiche di senso che legittimano priorità, identificano soggetti rilevanti e organizzano il rapporto con il futuro.
Ogni immagine della città implica una specifica costruzione normativa del possibile e del desiderabile che orienta selettivamente ciò che viene considerato visibile, rilevante e degno di valorizzazione o cura. In questa prospettiva, gli immaginari urbani emergono come dispositivi performativi in grado di indirizzare l’azione collettiva, strutturare conflitti e plasmare le trasformazioni materiali e sociali dello spazio urbano. Si tratta, secondo Castoriadis (1975), di “forme che fanno mondo”, ovvero di schemi generativi capaci di strutturare significati condivisi attraverso i quali una comunità definisce sé stessa e si orienta nel presente e verso il futuro. Questi immaginari non si limitano a riflettere il presente, ma agiscono nel tempo come strutture di anticipazione; Barbara Adam e Chris Goves (2007) propongono di considerarli in questo senso come oggetti culturali dotati di forza performativa e, quindi, in grado di organizzare il campo delle possibilità sociali. Appadurai (2013) parla a questo proposito di una “etica della possibilità”, sottolineando come gli immaginari collettivi amplino ciò che può essere desiderato, pensato, rivendicato: in contesti di marginalità, la speranza stessa diventa una risorsa politica.
Nel campo degli studi urbani, questi immaginari prendono forma come “visioni di città” (Perulli, 2009): rappresentazioni collettive che intrecciano giudizi morali, preferenze estetiche, aspettative politiche e memorie condivise. Non si tratta di proiezioni astratte, ma di grammatiche di giustificazione (Vitale, 2010) che incidono direttamente sulle scelte urbanistiche e politiche, sulle forme della cittadinanza e sulle modalità di allocazione delle risorse. Alcuni immaginari si consolidano fino a diventare dominanti, dando forma a progetti urbani istituzionali; altri restano marginalizzati o si oppongono esplicitamente alle retoriche ufficiali, alimentando conflitti simbolici e politici significativi.
In molte città italiane, queste visioni si manifestano attraverso pratiche associative e iniziative d’impresa sociale che spesso si intrecciano e si rinforzano a vicenda, interagendo in modo più o meno forte con le politiche pubbliche e le iniziative di mercato. Gli immaginari promossi dalle associazioni civiche e dai comitati di quartiere tendono a rappresentare la città come spazio di diritti, inclusione e mutualismo quotidiano: esperienze come le reti di orti urbani autogestiti, i centri sociali rigenerati o i patti di collaborazione per la cura condivisa dei beni comuni costruiscono narrazioni della città come luogo di solidarietà e appartenenza. Parallelamente, le imprese sociali che operano nella rigenerazione di spazi dismessi, nella cultura o nel welfare territoriale traducono tali visioni in modelli organizzativi capaci di coniugare sostenibilità economica e finalità collettive: cooperative che gestiscono ex fabbriche trasformandole in hub culturali o comunità energetiche, fondazioni e start-up sociali impegnate in progetti di housing collaborativo, esperienze di economia di prossimità. In questi contesti, la dimensione politica dell’associazionismo e quella economico-produttiva dell’imprenditorialità sociale convergono nella produzione di immaginari condivisi di “città solidale” e “città collaborativa”, nei quali l’azione collettiva e quella economica non si oppongono, ma si ricompongono in forme di cittadinanza attiva e inclusiva (Burini, 2024; Sforzi, De Benedictis, Scarafoni, 2024). Un caso recente è la nascita di una cooperativa di quartiere al Quarticciolo, zona di edilizia residenziale pubblica a Roma. Questa iniziativa, sostenuta da Legacoop, si sviluppa in un’area che negli ultimi anni ha visto un forte degrado delle condizioni di vita dei residenti a causa, innanzitutto, della presenza della criminalità e dello spaccio del crack. Il comitato di quartiere assieme ad una rete di associazioni locali denuncia da tempo lo stato di abbandono della zona ed ha avviato una serie di iniziative mutualistiche, tra le quali la più conosciuta è una palestra popolare. A settembre 2025, gli attivisti hanno dato vita a “Botteghe Quarticciolo”, con l’obiettivo di dare lavoro a persone in condizioni di svantaggio. Le attività imprenditoriali (ristorazione e catering, produzione e commercializzazione di birra artigianale, micro-stamperia, promozione di orti urbani e di mercato per i produttori locali) sono gestite da un gruppo di cittadini che sino a qualche mese prima gestivano attività similari in forma associativa[1].
Comprendere come gli immaginari urbani orientino l’azione collettiva richiede allora di esaminare i dispositivi morali attraverso cui le visioni della città vengono rese pubblicamente giustificabili.
L’approccio proposto da Boltanski e Thévenot (1991) si fonda sull’idea che la vita sociale sia attraversata da molteplici ordini morali, ciascuno dei quali offre criteri condivisi per valutare ciò che è giusto, legittimo e degno di valore. Contro l’idea che i conflitti siano riconducibili a una mera contrapposizione tra interessi materiali, questo approccio mostra come le controversie pubbliche assumano spesso la forma di dispute morali in cui gli attori si appellano a diversi “regimi di grandezza” (grandeurs) per giustificare le proprie azioni e valutazioni.
I regimi di giustificazione emergono come grammatiche di legittimità storicamente sedimentate, dotate di coerenza interna e orientate alla costruzione di un bene comune. Ogni regime di giustificazione articola un’ontologia morale del mondo sociale: definisce che cosa è legittimo, quali soggetti meritano riconoscimento, quali “prove” sono valide per testare la grandezza di un’azione. Esse operano in questo senso come “architetture morali” (Boltanski, Thévenot, 1991: 19) che strutturano la possibilità di cooperare o confliggere. Tra i principali regimi di giustificazione si distinguono: il regime domestico, fondato sulla tradizione, la fiducia e la gerarchia affettiva; il regime civico, centrato sull’uguaglianza, la collettività e il bene comune; il regime industriale, basato su efficienza, competenza e funzionalità; il regime della fama, che valorizza la notorietà e il riconoscimento pubblico; il regime ispirato, legato a creatività, grazia e interiorità; e il regime commerciale, incentrato sullo scambio, l’utilità e l’interesse individuale. Con Le nouvel esprit du capitalisme (1999), Boltanski e Chiapello descrivono un ordine emergente fondato su mobilità, connessione e progettualità individuale, che la letteratura successiva ha interpretato come una nuova grammatica di giustificazione spesso definita regime progettuale (Boltanski, Chiapello, 1999; Shachar et al., 2018).
Nelle città italiane, questa pluralità di ordini morali è riconoscibile nelle differenti giustificazioni che accompagnano pratiche associative e imprenditoriali. I comitati di quartiere e le reti civiche che difendono spazi pubblici minacciati da trasformazioni speculative si richiamano spesso a un regime domestico, fondato sulla prossimità, la memoria dei luoghi e la continuità delle relazioni di vicinato. Al contrario, le cooperative sociali e le associazioni di seconda generazione che promuovono progetti di rigenerazione o welfare di comunità mobilitano un regime civico, in cui la legittimità deriva dall’inclusione, dalla partecipazione e dalla costruzione di beni condivisi. In altri casi, le imprese sociali culturali e creative, attive nella gestione di spazi ibridi o nell’attrazione di flussi turistici e di investimento, si muovono entro regimi industriali o progettuali, che valorizzano la capacità di innovare, generare valore e rendere sostenibili le iniziative. Questi diversi ordini di giustificazione non sono isolati, ma si incontrano e si contendono il significato stesso della città: la tutela della memoria può entrare in tensione con l’esigenza di innovazione, la cooperazione con la sostenibilità economica, la cura con la performance. È in queste zone di attrito – nei mercati rionali riqualificati, nei centri culturali rigenerati, nei quartieri dove associazioni, cooperative e imprese sociali coabitano – che la pluralità dei mondi morali diventa esperienza concreta e che la città si manifesta come spazio di confronto tra visioni differenti del bene comune. In questo senso, è esemplare il caso di San Salvario a Torino. Nel processo di rigenerazione del quartiere le autorità locali hanno scelto di centrare gli interventi sulle proposte dal basso provenienti da diversi attori della società civile locale. Analizzando questo processo, Bolzoni (2019) evidenzia una tendenza all’inclusione selettiva: le autorità comunali hanno sostenuto, anche economicamente, alcuni approcci e iniziative, liquidandone altri come irrilevanti e non rappresentativi; di fatto, l’ente locale ha accolto prevalentemente le posizioni e gli attori in linea con un percorso di trasformazione predefiniti, finendo per indebolire il potere critico e trasformativo della società civile locale.
Applicate al campo urbano, le grammatiche permettono quindi di leggere la città come spazio ordinato moralmente in cui le disuguaglianze, i progetti di sviluppo, le priorità dell’azione pubblica vengono giustificate attraverso narrazioni morali concorrenti. Diversi regimi possono infatti coesistere nello stesso spazio urbano, generando tensioni, ambivalenze, conflitti e zone ibride. Secondo Boltanski e Thévenot (1991), la società democratica si definisce proprio come “una pluralità di mondi in competizione”, in cui nessun ordine di legittimità può imporsi una volta per tutte.
Da qui derivano due implicazioni fondamentali per lo studio della città: in primo luogo, che ogni immaginario urbano, ogni visione del futuro o del bene comune, è sempre radicata in un ordine di giustificazione; in secondo luogo, che il conflitto urbano non è semplicemente materiale o istituzionale, ma anche semantico, cioè un conflitto su cosa valga, su chi conti, su cosa sia giusto aspettarsi dal futuro.
Se i regimi di giustificazione permettono di comprendere le logiche morali che conferiscono senso e legittimità all’agire collettivo nel presente, l’approccio dell’economia delle aspettative consente di analizzare come tali regimi vengano proiettati nel tempo e mobilitati in funzione di un futuro desiderato. Secondo Jens Beckert (2016), l’agire economico e sociale è strutturalmente orientato a rappresentazioni fittizie del futuro che operano come dispositivi cognitivi, normativi e affettivi in grado di organizzare l’azione, legittimare le scelte e mobilitare risorse.
In questa prospettiva, le aspettative non sono meri stati mentali individuali, ma configurazioni condivise dell’immaginazione sociale che strutturano la capacità di anticipare, desiderare e pianificare. Esse consentono agli attori sociali di muoversi entro scenari incerti attribuendo significato alle traiettorie possibili e definendo ciò che può essere considerato auspicabile, accettabile o temibile. Il futuro diventa un dispositivo di regolazione del presente: ciò che si attende orienta ciò che si fa (Adam, 2010). Le aspettative, in tal senso, agiscono come una forma di potere simbolico in grado di plasmare la struttura delle opportunità e dei vincoli, di stabilire priorità e di selezionare valori.
Applicata al campo urbano, questa chiave di lettura consente di riconoscere le visioni di città come proiezioni di ordini simbolici e morali nel tempo che agiscono nel presente informando le scelte pianificatorie, legittimando determinati assetti spaziali ed escludendone altri, e per tal via performando la città attraverso le attese che la riguardano.
Uno dei contributi più rilevanti dell’impostazione di Beckert consiste nella tipizzazione delle forme di aspettativa in rapporto alla temporalità. Egli distingue tra: a) “aspettative trasformative”, che concepiscono il futuro come rottura, discontinuità, apertura di possibilità inedite. In questo orizzonte, il futuro agisce come leva critica, spazio di immaginazione radicale e orizzonte normativo da costruire collettivamente; b) “aspettative conservative”, che vedono il futuro come prosecuzione ordinata del presente. Il valore è attribuito alla continuità, alla stabilità dei legami sociali, alla preservazione di equilibri considerati desiderabili. La città è qui spazio da custodire, non da rivoluzionare; c) “aspettative incrementali”, che concepiscono il futuro come estensione ottimizzata del presente. L’accento cade sulla crescita, l’efficienza, la valorizzazione tecnica e performativa. La trasformazione è ammessa, ma solo nella forma dell’innovazione controllata e cumulativa.
Le diverse forme di aspettativa trovano riscontro in pratiche sociali e imprenditoriali che orientano in modo diverso la costruzione del futuro urbano. Le aspettative trasformative si esprimono, ad esempio, nei movimenti di cittadinanza attiva e nelle imprese sociali di rigenerazione che mirano a ripensare radicalmente gli spazi abbandonati – ex scuole, fabbriche, mercati – come infrastrutture comunitarie aperte, capaci di ridistribuire valore sociale e simbolico. Le aspettative conservative si riconoscono invece nelle associazioni e nelle fondazioni locali impegnate nella tutela del patrimonio e nella cura dei legami di prossimità, dove il futuro viene immaginato come prosecuzione ordinata del presente. Le aspettative incrementali emergono, infine, nelle esperienze di innovazione civica e nelle start-up sociali che coniugano sostenibilità economica, tecnologia e impatto sociale proponendo un modello di città efficiente e competitiva – ma non necessariamente egualitaria. In tutte queste traiettorie, l’idea di futuro agisce come dispositivo di legittimazione morale: ciò che ciascun attore immagina come possibile o desiderabile contribuisce a definire, nel presente, la forma e la giustizia della città che verrà. Queste aspettative non si distribuiscono casualmente, ma si articolano in relazione a specifici posizionamenti sociali, assetti valoriali, biografie collettive. Il desiderio di trasformazione radicale è più frequente nei gruppi che vivono condizioni di marginalità o esclusione; viceversa, la valorizzazione dell’ordine esistente è tipica dei soggetti che da quell’ordine traggono benefici. Il futuro, quindi, diventa a sua volta un oggetto di contesa, uno spazio di politicizzazione implicita, in cui si confrontano poteri asimmetrici di proiezione e legittimazione (Tavory, Eliasoph, 2013).
Sovrapposta alla teoria dei regimi di giustificazione (Boltanski, Thévenot, 1991), la prospettiva di Beckert consente di illuminare la politicità intrinseca degli immaginari urbani. È nell’intersezione tra moralità e temporalità che si gioca la performatività della città: non solo ciò che essa è, ma ciò che può diventare, e per chi.
La base empirica dell’analisi è composta dalle risposte a una batteria di undici priorità urbane contenute nella domanda D32 di un questionario di oltre cinquanta domande[2], distribuito a un campione di attivisti, operatori sociali e membri di associazioni civiche attive in quattro città italiane: Milano, Firenze, Roma e Napoli. I partecipanti potevano selezionare fino a tre priorità ritenute più urgenti per il futuro delle loro città. Ciascuna opzione è stata successivamente trasformata in una variabile dicotomica, indicando la presenza o assenza della priorità tra le scelte del rispondente.
Su questa base dati è stata condotta un’analisi delle componenti principali (ACP) con rotazione ortogonale Varimax e normalizzazione Kaiser, finalizzata a identificare le dimensioni latenti che sintetizzano lo spazio delle preferenze. La scelta dell’ACP è motivata dalla volontà di ridurre la complessità del dataset e al contempo di individuare assi simbolici interpretabili come configurazioni valoriali sottostanti alle scelte espresse. L’ACP ha restituito tre componenti principali che spiegano complessivamente il 100% della varianza: la prima componente rende conto del 47,9%, la seconda del 31,1% e la terza del 21,0%. Queste sono state interpretate come dimensioni simboliche orientate alla giustizia urbana, alla cura territoriale e alla valorizzazione economica. Successivamente, i punteggi fattoriali ottenuti per ciascun individuo sono stati utilizzati come input per una cluster analysis di tipo K-means (silhouette score euclideo: 0,36) al fine di raggruppare i rispondenti in insiemi omogenei e distinti l’uno dall’altro sulla base della loro collocazione nello spazio semantico definito dalle componenti. Ogni cluster è stato infine profilato in base alle caratteristiche socio-demografiche e associative degli appartenenti, nonché alla distribuzione delle priorità selezionate. Questa combinazione di tecniche multivariate ha permesso di ricostruire non solo le categorie prevalenti di senso attribuite alla città, ma anche le configurazioni morali e temporali che organizzano le aspettative e le rivendicazioni espresse dalla società civile urbana.
L’analisi delle componenti multiple e l’analisi dei cluster a tre componenti restituisce una mappa tridimensionale delle visioni urbane che attraversano la popolazione indagata (Tab. 1).
Tabella 1 – Analisi delle Componenti Principali. Pesi fattoriali delle modalità sulle componenti (matrice ruotata)
|
Cluster |
Modalità |
Comp. 1 |
Comp. 2 |
Comp. 3 |
|
Città dell’equità |
Donne |
0,461 |
-0,078 |
0,362 |
|
Migranti |
0,596 |
-0,092 |
0,371 |
|
|
Studenti |
0,623 |
-0,004 |
0,057 |
|
|
Residenti periferie |
0,650 |
-0,066 |
0,146 |
|
|
Lavoratori |
0,661 |
0,114 |
-0,121 |
|
|
Operai |
0,692 |
0,189 |
0,078 |
|
|
Città della cura |
Anziani |
0,030 |
0,089 |
0,810 |
|
Bambini |
0,142 |
0,058 |
0,753 |
|
|
Città della produzione |
Turisti |
-0,021 |
0,677 |
0,061 |
|
Imprese |
0,037 |
0,796 |
-0,042 |
|
|
Commercianti |
0,061 |
0,793 |
0,080 |
Fonte: elaborazioni su Iref 2024.
Ognuno dei tre raggruppamenti empirici evidenzia una specifica configurazione di priorità, vissuti e orientamenti valoriali che può essere interpretata come un’espressione incarnata di un regime di giustificazione (Boltanski, Thévenot, 1991) e, al contempo, come una proiezione selettiva verso il futuro (Beckert, 2016).
Nel primo cluster si rende visibile un uso sociale e politico della città come spazio dotato di senso, di conflitto e di possibilità. Esso si struttura attorno a un’immagine della città come spazio redistributivo in cui il riconoscimento delle soggettività escluse è inteso non solo come obiettivo politico, ma anche come criterio attraverso cui si misurano le disuguaglianze: la città è ingiusta non solo per quello che non dà, ma anche per quello che non ascolta e non vede (Fraser, 2000).
Le priorità espresse – operai (0,692), lavoratori (0,661), residenti delle periferie (0,650), studenti (0,623), migranti (0,596), donne (0,461) – definiscono un progetto urbano che assume il margine come punto generativo per l’estensione della cittadinanza effettiva. Il profilo socio-demografico è coerente con tale configurazione. Il 55,6% dei rispondenti è donna, con una composizione anagrafica prevalentemente adulta e situata nelle fasi centrali della biografia sociale: il 30,6% ha tra i 36 e i 45 anni, oltre il 38% tra i 46 e i 75, mentre gli under 35 si fermano al 15,8%. Ne emerge un gruppo composto da individui collocati nelle fasi centrali o terminali della vita lavorativa, ma ancora fortemente posizionati nello spazio pubblico. Il livello di istruzione è mediamente elevato, con circa due terzi dei rispondenti in possesso almeno di un diploma, e una quota significativa di laureati. Questo dato suggerisce percorsi di mobilità sociale ascendente e una cultura politica riflessiva, orientata alla critica delle disuguaglianze strutturali. L’orientamento politico si colloca prevalentemente nel campo del centro-sinistra e della sinistra, coerente con un orizzonte normativo che intreccia giustizia sociale, inclusione e pluralismo. I rispondenti vivono per lo più in quartieri misti o di transizione, situati tra centro e periferia, zone urbane talvolta segnate da disuguaglianze, ma anche da possibilità di attivazione civica.
Decisivo è il ruolo della partecipazione associativa. Il 64,3% riferisce un coinvolgimento almeno occasionale in forme di attivismo, con una presenza significativa del Terzo settore, del volontariato e dell’associazionismo territoriale. La partecipazione, in questo gruppo, non si limita all’adesione strumentale a reti di servizio, ma si configura come una pratica politica quotidiana, diffusa e non delegata, radicata nei territori e orientata alla trasformazione sociale (Polletta, 2002).
Nel complesso, questo cluster articola un immaginario urbano centrato sull’inclusione attiva, sulla riparazione delle disuguaglianze storiche e sull’espansione della cittadinanza sociale. È portatore di una visione politica che interseca giustizia redistributiva, valorizzazione delle differenze e costruzione di legami sociali attraverso l’impegno collettivo. La città che emerge da questa posizione non è soltanto uno spazio da abitare, ma un campo da trasformare, in cui le soggettività marginalizzate possano divenire agenti di riorganizzazione simbolica e materiale dell’ordine urbano. Essa, in questa prospettiva, è pensata come dispositivo di riparazione attiva, in cui la redistribuzione delle opportunità si intreccia con la valorizzazione simbolica di soggetti storicamente silenziati (Honneth, 1996).
La grammatica morale che regge questa posizione è, quindi, quella del “regime di giustificazione civico” (Boltanski, Thévenot, 1991), in cui la giustificazione delle scelte si fonda sulla ricerca dell’uguaglianza, del bene comune e della solidarietà fra eguali. L’ingiustizia urbana non è dunque solo percepita nei termini di una carenza materiale, ma come negazione di legittimità simbolica: il problema non è solo chi ha o non ha, ma chi viene contato, rappresentato, nominato nello spazio pubblico urbano.
Il futuro urbano auspicato da questo cluster non è un orizzonte tecnico da amministrare, ma un campo di riconfigurazione simbolica, in cui l’autorità politica e la pianificazione urbana sono chiamate a rendere visibili gli invisibili, a riconoscere i non-riconosciuti, a trasformare la cittadinanza formale in cittadinanza sostanziale. L’analisi delle aspettative, alla luce dell’economia delle aspettative di Beckert (2016), permette di leggere la visione di questo cluster come “aspettativa trasformativa” – non solo probabilistica. Qui il futuro non è previsto, ma immaginato come apertura desiderante, e questo desiderio è orientato verso una città altra, non ancora data, e che può emergere solo se si mettono in crisi i dispositivi attuali di potere e distribuzione. Il futuro qui auspicato ha tratti utopici: non nel senso dell’irrealizzabilità, ma in quanto eccede le tendenze probabilistiche (la crescita, la concorrenza, l’attrattività) per proiettarsi verso una trasformazione delle regole stesse di convivenza urbana. La città, in questo regime, è un progetto di giustizia, non una struttura di opportunità. Le aspettative sono generative: non si limitano a spostare i margini, ma vogliono riscrivere la mappa urbana a partire da chi oggi ne è escluso.
Questa posizione, dunque, produce un conflitto semantico e politico rispetto agli altri cluster: mentre altri vedono nella città una risorsa da attivare, qui si rivendica il diritto alla città (Lefebvre, 1968), inteso come potere collettivo di modificarla, redistribuendo non solo beni, ma centralità simbolica e capacità progettuale.
Il secondo cluster articola il futuro urbano come spazio regolato e rassicurante, centrato sulla continuità dei legami familiari e sulla protezione delle fragilità. Le figure privilegiate – anziani e bambini – non sono solo destinatari di interventi, ma veri e propri dispositivi narrativi attraverso cui si costruisce un ordine urbano legittimo fondato sulla cura.
Le categorie che occupano il centro dell’orizzonte valoriale di questo gruppo – anziani (0,810) e bambini (0,753) – funzionano come figure paradigmatiche di una città che si riconosce nella continuità generazionale, nell’accudimento quotidiano e nella sicurezza ordinaria. Lontano da visioni trasformative o antagonistico-rivendicative, questo cluster esprime una domanda politica orientata alla manutenzione dei legami fondamentali e alla riproduzione regolata della coesione sociale (Tronto, 1993). Il profilo anagrafico dei rispondenti conferma questa sensibilità. La fascia più rappresentata è quella tra i 66 e i 75 anni (16,1%), seguita da quella tra i 56 e i 65 anni (14,2%) e da un’ampia presenza tra i 36 e i 55 anni (oltre il 36% complessivo). Gli under 35 restano marginali (11,8%), così come gli under 25. La componente femminile è leggermente prevalente (52,7%), e la condizione lavorativa riflette una popolazione matura e in transizione verso l’uscita dalla sfera produttiva: il 23,9% è pensionato, il 55,9% occupato, mentre le altre condizioni restano residuali. Questa configurazione suggerisce la presenza di soggetti con biografie compiute, che guardano allo spazio urbano reclamando un orizzonte di stabilità più che di cambiamento. Il titolo di studio si colloca su livelli intermedi (prevalenza di diplomi e lauree triennali), e le origini familiari mostrano un capitale culturale contenuto, con forte incidenza della licenza media, a indicare percorsi formativi stabili ma poco discontinui rispetto alle generazioni precedenti. Anche l’orientamento politico si concentra nelle aree centrali dello spettro ideologico, con prevalenza di centro e centro-sinistra e bassa radicalizzazione. L’ubicazione spaziale riflette questa posizione sociale mediana. I soggetti del cluster risiedono prevalentemente in quartieri stabili e infrastrutturati, né centrali né marginali, dove le funzioni della cura e della riproduzione sociale trovano dispositivi locali di supporto materiale e simbolico.
La partecipazione associativa si colloca anch’essa su livelli intermedi. Il cluster non è disimpegnato, ma le forme dell’impegno sono prevalentemente solidaristiche e prossimali, articolate in pratiche di vicinanza e appartenenze locali. Più che attivismo conflittuale o trasformativo, prevalgono modalità di partecipazione “calda”, orientate al presidio delle relazioni piuttosto che alla loro contestazione o rinegoziazione (Pizzorno, 1993). L’associazionismo è inteso come pratica di sostegno quotidiano, capace di garantire sicurezza relazionale e riconoscimento informale, senza strutturarsi in una piattaforma rivendicativa.
Nel complesso, il cluster restituisce l’immagine del futuro urbano rassicurante e regolato del “regime di giustificazione domestico” (Boltanski, Thévenot, 1991), dove la legittimità non dipende dalla giustizia universale (come nel civico), né dalla performance (come nel regime industriale), ma dalla stabilità delle relazioni affettive, dalla fiducia intergenerazionale e dal rispetto delle gerarchie familiari. All’interno di questo regime, la città non è tanto un campo da trasformare quanto una casa da preservare: è uno spazio da abitare senza esposizione, un contenitore protettivo dove la protezione non è solo una funzione istituzionale, ma precondizione per la convivenza.
Se nel primo cluster le aspettative urbane erano desideranti e trasformative, qui prevalgono “aspettative conservative” (Beckert, 2016): il futuro non è immaginato come superamento del presente, ma come proiezione rassicurante di ciò che funziona nel quotidiano.
Il futuro auspicato, dunque, è quello di una città che custodisce, più che una città che cambia. Questa visione urbana rifiuta implicitamente le logiche della crescita competitiva, ma non arriva a contestarle; piuttosto, le “disattiva” attraverso un’urbanità calda e fatta di prossimità, protezione, familiarità e riconoscimento silenzioso. Il conflitto non viene tematizzato né negato, ma neutralizzato attraverso la figura della cura.
Il terzo cluster configura la città come un’infrastruttura di crescita, valorizzazione economica e ottimizzazione delle performance. Le priorità espresse – imprese, commercianti, turisti – si inseriscono coerentemente nel perimetro del regime industriale di giustificazione (Boltanski, Thévenot, 1991), dove la legittimità dell’ordine dipende dalla produttività, dalla capacità di contribuire al funzionamento efficiente del sistema e dall’investimento razionale nelle competenze.
La visione urbana proposta non tematizza direttamente la disuguaglianza, né nega il conflitto, ma lo derubrica a inefficienza o “devianza” del sistema: ciò che conta è che questo funzioni, che si creino opportunità di crescita, che i soggetti sappiano attivarsi in modo autonomo. L’ordine auspicato è quello che premia chi si muove bene, chi sa posizionarsi in modo strategico in un contesto competitivo. La città, in questo senso, è una piattaforma abilitante: produce valore se consente di fare impresa, attrarre risorse, circolare liberamente.
Le priorità espresse – imprese (0,796), commercianti (0,793), turisti (0,677) – delineano un’immagine urbana centrata sulla crescita, sulla valorizzazione della produttività e sulla circolazione di capitale e persone. La giustizia urbana non è tematizzata: la città è valutata in base alla sua capacità di premiare il merito e ottimizzare le performance, non di redistribuire risorse o riconoscere soggettività marginali (Boltanski, Chiapello, 1999).
La composizione socio-demografica è coerente con questo impianto. Il gruppo è a prevalenza maschile (54,7%) e fortemente concentrato nelle fasce adulte e mature: il 61% ha tra i 36 e i 65 anni, con una netta prevalenza di soggetti inseriti e stabilizzati nelle traiettorie professionali e familiari. La presenza giovanile è marginale (12,5% tra i 26 e i 35 anni) e gli under 25 pressoché assenti. Il profilo occupazionale è attivo e consolidato: il 56,2% è occupato, il 12,5% è pensionato e il 9,4% è lavoratore autonomo. Gli studenti rappresentano solo l’1,6%, segnalando la rarefazione di soggettività in formazione. Il lavoro costituisce l’asse identitario dominante, ma è concepito come spazio di autorealizzazione individuale, non come arena collettiva o rivendicativa. Il capitale culturale appare polarizzato: accanto a laureati e diplomati si rileva una presenza non trascurabile di titoli medio-bassi. Le origini familiari indicano livelli educativi contenuti, suggerendo percorsi parziali di mobilità intergenerazionale, che legittimano un ethos meritocratico centrato sull’investimento soggettivo come leva di riconoscimento. L’orientamento politico si distribuisce su posizioni moderate e centriste, con aperture significative verso il centro-destra. I rispondenti si riconoscono in una cultura della performance, in cui l’efficienza prevale sull’eguaglianza e la libertà economica su vincoli solidaristici. La localizzazione residenziale rafforza questa lettura. Il cluster si distribuisce in aree semicentrali e quartieri di nuova urbanizzazione, raramente nei centri storici o nelle periferie marginali. Questi spazi intermedi a bassa conflittualità, segnati da stabilità infrastrutturale e valorizzazione immobiliare, costituiscono l’habitat privilegiato di soggetti che interpretano la città come bene da capitalizzare piuttosto che spazio da politicizzare.
Il tratto più distintivo è però il rapporto con la dimensione collettiva. Il 21,1% dei rispondenti dichiara di non partecipare ad alcuna attività associativa. Si rileva, quindi, un impegno civico minore rispetto agli altri cluster che sembra riflesso di una concezione maggiormente privatistica della cittadinanza, in cui la soggettività si legittima attraverso la capacità di produrre, investire e posizionarsi individualmente.
Nel complesso, il cluster rappresenta una soggettività urbana pragmatica, economicamente attiva, adulta e tendenzialmente maschile, che interpreta la città come strumento di realizzazione individuale. Questa traiettoria conferisce coerenza simbolica alla fiducia nell’individuo attivo e responsabile, che non attende redistribuzione, ma invoca libertà di azione e riconoscimento per ciò che sa produrre: il valore non sta nella cittadinanza come diritto, ma nell’efficienza come merito. La collettività è evocata solo in funzione dell’efficienza sistemica, mentre welfare, redistribuzione o partecipazione rimangono marginali. L’ordine urbano auspicato è dunque quello del “regime di giustificazione industriale” o progettuale, che abilita e premia chi compete, ma non protegge o riconosce necessariamente chi resta indietro. Questo profilo produce una cittadinanza atomizzata, in cui il riconoscimento si conquista attraverso la performance e il posizionamento strategico, non attraverso la solidarietà o la coesione. La città è il palcoscenico della valorizzazione individuale, non il campo della giustizia. In questa visione, l’urbanità è utile se genera capitale (sociale, simbolico, economico), non se produce legame. Il collettivo esiste solo in forma di sistema efficiente; non è mai orizzonte né progetto.
Nel quadro delle aspettative (Beckert, 2016), il futuro auspicato da questo cluster è prevedibile e desiderato nella forma della crescita. Si tratta di “aspettative incrementali” e performative, ancorate a una narrazione razionale e lineare: investire oggi per valorizzare domani, costruire reti, aumentare l’attrattività. Il futuro non è trasformazione strutturale, ma proiezione ottimista del presente potenziato; la discontinuità non è auspicabile ma disturbante: ciò che va evitato non è l’ingiustizia, ma l’instabilità.
Questo perché la città è pensata come ecosistema di opportunità, non come spazio di coesione o di riparazione. Ogni intervento che rallenta, redistribuisce, protegge o cura è letto come interferenza o, al limite, come costo. Le forme urbane che contano sono quelle che abilitano la circolazione: di capitale, turisti, investimenti, competenze.
Tre città, dunque, emergono dai dati: una città della giustizia e del conflitto, una città della cura e della stabilità, una città della performance e della competizione. Ognuna è portatrice di una peculiare idea di futuro – da costruire collettivamente, da proteggere e preservare, da ottimizzare – che si intreccia con un distinto regime di giustificazione e con una propria logica valoriale. Allo stesso modo, queste configurazioni possono essere lette come articolazioni di differenti orientamenti dell’aspettativa verso il futuro, entro i quali si delineano paradossi e tensioni che ne rivelano le ambivalenze interne. Tali elementi, oggetto di riflessione interpretativa a partire dai risultati empirici, sono sintetizzati nella Tabella 2, che ne riassume le principali coerenze e contraddizioni.
Tabella 2 - Regimi di giustificazione, logiche valoriali, aspettative sul futuro, rischi e paradossi interni.
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Regime di giustificazione |
Logica valoriale prevalente |
Orientamento dell’aspettativa |
Paradosso interno |
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Città dell’equità |
Regime civico |
Giustizia redistributiva, uguaglianza, impegno collettivo |
Aspettativa trasformativa: apertura, rottura, dislocamento |
Paternalismo o ritualizzazione dell’inclusione da posizioni di privilegio relativo |
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Città della cura |
Regime domestico |
Stabilità affettiva, prossimità, coesione relazionale |
Aspettativa conservativa: riproduzione, continuità |
Naturalizzazione delle fragilità e depoliticizzazione del conflitto |
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Città della performance |
Regime industriale/progettuale |
Merito, efficienza, autonomia individuale |
Aspettativa incrementale: ottimizzazione, valorizzazione |
Legittimazione del privilegio come merito e oscuramento delle condizioni di vulnerabilità |
La “città dell’equità” si configura come una città da rifondare a partire dal margine. Il cluster che esprime questa visione fa leva sul “regime civico”: la legittimità deriva dalla capacità di articolare un interesse comune, ancorato alla giustizia sociale, alla riduzione delle disuguaglianze, al riconoscimento dei soggetti subalterni. La città è immaginata come un dispositivo redistributivo e trasformativo, uno spazio da politicizzare attivamente attraverso pratiche partecipative e dispositivi collettivi di riconoscimento. Il futuro urbano auspicato è un futuro più giusto, dove la cittadinanza non si esaurisce nella titolarità di diritti formali, ma si attualizza nella capacità di contare, essere visibili, trasformare. È una cittadinanza “militante” (Polletta, 2002), in cui l’attesa del futuro si coniuga con la volontà di agire sul presente.
La “città della cura”, espressa dal secondo cluster, si struttura attorno al “regime domestico”: qui la legittimità sociale si fonda sulla stabilità dei ruoli, sul riconoscimento dell’esperienza, sulla continuità affettiva. Gli anziani e i bambini – figure chiave del cluster – sono simboli di una città che deve proteggere, custodire, rassicurare. La funzione del futuro, in questo quadro, non è emancipare o competere, ma preservare: il tempo che verrà deve garantire la riproduzione del legame sociale e la manutenzione della convivenza. Il valore dominante non è la giustizia redistributiva, ma la sicurezza relazionale. La soggettività che vi corrisponde è intergenerazionale, femminilizzata, parzialmente in uscita dalla sfera produttiva, e portatrice di una cittadinanza calda, ma non antagonista (Tronto, 1993).
La “città della performance”, infine, trova espressione nel terzo cluster, dominato dal regime del mercato. La città è qui valutata come piattaforma abilitante: è un ambiente ottimizzato per favorire l’iniziativa economica individuale. Le priorità non riguardano soggetti in situazione di fragilità o esclusione, ma attori economici: imprese, commercianti, turisti. La legittimità si fonda sulla capacità di produrre, investire, posizionarsi. Non vi è tensione verso la redistribuzione, né attenzione alla dimensione collettiva. L’aspettativa sul futuro si iscrive in un immaginario meritocratico e selettivo: il futuro urbano auspicato è quello in cui il sistema funziona per chi sa “giocare” bene. L’adattabilità, la connessione e la valorizzazione individuale sostituiscono i legami solidali. Il profilo sociale che esprime questa visione è prevalentemente maschile, adulto, attivo, scarsamente politicizzato e fortemente orientato all’efficienza sistemica.
Queste grammatiche sociali attraversano i soggetti e li mettono in relazione con le strutture urbane, le istituzioni e le aspettative temporali; ed è in questa eterogeneità che si gioca la politicità del futuro urbano. Questi tre immaginari esprimono infatti forme distinte di proiezione temporale (Beckert, 2016) in quanto performance collettiva di possibilità o una costruzione del futuro che organizza l’agire presente e seleziona l’immaginabile. Nel primo cluster, orientato all’equità, il futuro è pensato come “dislocamento”: è un tempo di rottura, in cui le regole dell’ordine urbano vengono rifondate, le soggettività escluse rese visibili, e le disuguaglianze storiche attivamente riparate. È un futuro desiderato in quanto apertura piuttosto che continuità. Il secondo cluster, incentrato sulla cura, assume una “temporalità circolare” e conservativa. Il futuro è prosecuzione rassicurante del presente: uno spazio regolato in cui la sicurezza relazionale, la prossimità e l’equilibrio generazionale possano perdurare. Qui il tempo non trasforma, ma protegge. Il terzo cluster, segnato dalla valorizzazione economica, proietta un “futuro incrementale” in quanto potenziamento tecnico del presente: il tempo è vettore prestazionale e il futuro è crescita personale all’interno di un ecosistema meritocratico.
Queste città auspicate non sono neutrali poiché, in quanto immaginari sociali, esse emergono come dispositivi selettivi che, nel costruire legittimità, tracciano linee di esclusione. È proprio in queste delimitazioni che affiorano alcune tensioni: cortocircuiti semantici, contraddizioni normative, frizioni tra valori dichiarati e posizionamenti effettivi. Non sono distorsioni marginali, ma punti di emersione del politico.
Il primo cluster mobilita una grammatica civica fondata sull’uguaglianza e la riparazione per i dominati, ma lo fa da posizioni biografiche non marginali poiché spesso dotate di capitale culturale, esperienza associativa, stabilità urbana. Parlando per “il margine” senza necessariamente provenirne, questi soggetti rischiano dunque di trasformare il riconoscimento in gesto simbolico più che redistributivo. Il regime civico mostra così i suoi paradossi nel rischio di paternalismo o ritualizzazione del conflitto, nell’ambivalenza tra universalismo e posizionamento, tra impegno e rappresentanza, tra critica e legittimazione istituzionale. Il secondo cluster si organizza intorno al regime domestico: la città è casa, legame, presenza fidata. Ma nel chiedere sicurezza relazionale, si evita di nominare i dispositivi che generano insicurezza. Le fragilità diventano naturalizzate, mentre il conflitto viene depoliticizzato. La continuità potrebbe essere invocata non solo come valore, ma anche come difesa da un futuro percepito come minaccia. Il rischio è che la cura possa diventare manutenzione dell’ordine piuttosto che sua interrogazione. Il terzo cluster, infine, incarna un regime industriale ibridato dal nuovo spirito del capitalismo: centralità della performance, valorizzazione individuale, neutralizzazione del conflitto. Questa visione è spesso costruita a posteriori, da soggetti che hanno già sperimentato mobilità sociale: più che un progetto per il futuro, è una legittimazione del passato che rischia di nascondere il privilegio sotto la retorica del merito. In questo cortocircuito si chiede libertà d’azione a chi ha già vinto, in una città che premia l’adattabilità e non riconosce la vulnerabilità.
Queste tre visioni urbane, benché espresse da un campione di attivisti sociali, sono cornici rilevanti anche per le esperienze di economia sociale nelle città. Le imprese sociali, in quanto forme organizzative che integrano finalità economiche e obiettivi sociali, non si limitano a fornire beni e servizi, ma producono significati, valori e aspettative collettive, contribuendo alla costruzione di immaginari sociali condivisi (Defourny, Nyssens, 2010). Esse agiscono pertanto come attori ibridi, situati all’incrocio tra logiche di mercato, solidarietà comunitaria e finalità civiche (Borzaga, Defourny, 2001).
Per questo motivo, le tre configurazioni individuate possono trovare corrispondenza in altrettante traiettorie che attraversano il campo dell’impresa sociale.
Questi tre orizzonti non rappresentano percorsi alternativi, ma poli in tensione che convivono nelle pratiche dell’impresa sociale, costituendo una fonte costante di ambivalenza e negoziazione. Come evidenziato da Boltanski e Thévenot (1991), la vita sociale è attraversata da molteplici regimi di giustificazione: l’impresa sociale, proprio come gli immaginari urbani, deve legittimarsi simultaneamente su piani diversi – civico, domestico e industriale/progettuale – bilanciando esigenze di solidarietà, prossimità e sostenibilità. Infine, il riferimento all’economia delle aspettative (Beckert, 2016) consente di interpretare l’impresa sociale come laboratorio nel quale sperimentare assetti futuri per le città. Le pratiche che essa mette in campo non si esauriscono nel presente, ma anticipano soluzioni a bisogni emergenti e prefigurano nuove forme di welfare, di economia solidale e di rigenerazione comunitaria. Così come gli immaginari urbani degli attivisti, anche l’impresa sociale svolge la funzione di “mantenere aperto” lo spazio del possibile (Amsler, Facer, 2017), trattenendo futuri che eccedono il presente e che si configurano come anticipazioni di trasformazioni più ampie. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che l’economia sociale non è esente dai paradossi politici evidenziati in precedenza. Il paternalismo, la naturalizzazione delle fragilità e l’oscuramento delle condizioni di vulnerabilità sono rischi che vanno presi sul serio, non come inefficienze di un modello, conseguenze inattese o esternalità da compensare. I paradossi politici sono conseguenze del regime di giustificazione adottato, incardinati in logiche valoriali e orientamenti di aspettative. Per questo motivo sono molto difficili da riconoscere e risolvere. Non si prestano a soluzioni tecniche “a valle”, ma necessitano di un ripensamento “a monte” delle forme di imprenditorialità sociale.
L’analisi ha mostrato come le visioni urbane espresse da attori della società civile non si configurino come semplici preferenze individuali, ma come forme collettive e situate di orientamento, giustificazione e anticipazione. I tre cluster emersi configurano, quindi, un repertorio di futuri possibili, ciascuno radicato in regimi morali distinti e articolato attorno a specifiche aspettative temporali.
Gli immaginari urbani, da questo punto di vista, non rappresentano il futuro ma piuttosto lo ospitano, mantenendolo aperto e non predeterminato, ossia tengono aperto uno spazio per ciò che “ancora non può essere immaginato e che è sempre ancora-a-venire” (Amsler, Facer, 2017: 4). Le visioni urbane che sono state ricostruite nel corso dell’analisi non si danno mai come compiute, non sono progetti in atto che vanno avanti, per accumulazione, ma si manifestano cominciando a dare forma a ciò che ancora non è stato ancora nominato. Gli immaginari urbani svolgono pertanto una funzione politica decisiva: ampliano l’orizzonte del possibile, articolano un’“etica della possibilità” (Appadurai, 2013) in grado di sostenere visioni non ancora compiute, progetti non ancora formulati, desideri non ancora autorizzati. Essi trattengono il futuro nella forma della frizione e dell’ambivalenza, mantenendo aperto un campo semantico e simbolico in cui sia ancora possibile disallinearsi dal già detto, dal già visibile, dal già legittimato. È in questa funzione – performativa, anticipante, disallineante – che risiede la loro rilevanza per interrogare il presente non come destino, ma come campo di possibilità aperte.
Questa apertura alla possibilità si concretizza nel fatto che l’azione organizzata degli attivisti sociali segue percorsi non lineari che di volta in volta possono corrispondere a diverse immagini di città. Non si tratta di incoerenza o di assenza di autoriflessione. Le città sono ambienti complessi, campi di forze e interessi privi di una struttura data una volta per tutte. Ogni città è caratterizzata da una molteplicità di attori individuali e collettivi, politiche stratificate, giurisdizioni sovrapposte: l’azione sociale deve necessariamente passare per operazioni di bricolage tra cittadini, istituzioni locali e sovralocali, autorità, portatori di interesse evitando la paralisi dei veti incrociati. In questo senso, le configurazioni simboliche non restano sul piano discorsivo, ma si confrontano con strutture istituzionali che, come mostrato da Artioli e Le Galès (2025) nel caso della regione parigina, operano secondo logiche di “anarchia organizzata”. In tale prospettiva, la produzione del futuro urbano non è mai il risultato lineare di un progetto condiviso, ma prende forma dall’incontro contingente di attori, strumenti, coalizioni e veti, che selezionano, implementano, traducono o neutralizzano le visioni provenienti dalla società civile.
Quando le visioni urbane entrano in arene di governance frammentate e caotiche, sempre seguendo Artioli e Le Galès (2025: 12-14), si danno quattro possibili esiti. In una prima forma di “coordinamento contingente”, alcune visioni si trasformano in pratiche quando riescono a inserirsi in finestre di opportunità – crisi ambientali, mutamenti politici, disponibilità improvvisa di risorse. È il caso di immaginari trasformativi che, pur restando a lungo marginali, riescono a farsi ascoltare quando il contesto istituzionale diventa ricettivo. In questo scenario il ruolo dell’impresa sociale può essere quello di favorire in modo rapido lo scaling up delle innovazioni sociali. Un secondo esito implica un coordinamento tramite strumenti e dati e mette in luce un’altra dimensione cruciale: per incidere, le rappresentazioni urbane devono tradursi in metriche, dispositivi tecnici e strumenti di policy. Le aspettative sul futuro si trasformano così in linguaggi performativi che alimentano pratiche di pianificazione e governance. Qui l’impresa sociale svolge spesso un ruolo di mediazione, traducendo in progettualità concreta istanze di equità o di cura e rendendole compatibili con i linguaggi istituzionali della programmazione urbana. Un terzo esito caratterizzato dalla creazione e istituzionalizzazione di coalizioni di politica pubblica, evidenzia che gli immaginari urbani non possono radicarsi senza alleanze trasversali, capaci di dare forza istituzionale a progetti collettivi. Le visioni di città dell’equità o della cura hanno bisogno di reti di associazioni, amministratori, attori economici e imprese sociali che, pur partendo da valori differenti, trovino un terreno comune per sostenere priorità condivise. Al contrario, il quarto esito nel quale prevale l’esercizio del potere di veto e il coordinamento negativo illumina i limiti strutturali della compartecipazione alla definizione dei futuri urbani: in questo scenario le aspettative urbane vengono ridotte a compromessi minimi o bloccate dal potere di veto esercitato da attori consolidati. Anche qui l’impresa sociale, per quanto innovativa, si trova a negoziare con vincoli che riducono la portata trasformativa delle sue pratiche, traducendo immaginari ambiziosi in soluzioni parziali.
È in questa tensione tra trasformazione e conservazione, tra assenso e veto, apertura e riduzione, che si determina la politicità del futuro urbano: un campo instabile, in cui le città si costruiscono non come progetti unitari, ma come esiti provvisori di conflitti simbolici e forme frammentarie di coordinamento.
DOI 10.7425/IS.2025.04.03
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[1] Per un’analisi approfondita delle cooperative di comunità si veda Bianchi, 2023.
[2] Il testo della domanda rivolta agli attivisti associativi era il seguente: “Nelle scelte sul futuro della sua città, gli interessi di quali categorie dovrebbero avere uno spazio maggiore rispetto a quello che hanno attualmente?”. Le alternative di risposta erano: Imprese, Commercianti, Turisti, Donne, Studenti, Operai, Lavoratori, Bambini, Residenti delle periferie, Migranti, Anziani. Il questionario completo è disponibile in www.rapportoassociazionismo.org.
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