Il passato pesa!
Vale per le persone, ma forse vale ancora di più per le organizzazioni. Soprattutto quando decenni e, talvolta, secoli hanno progressivamente definito assetti, modi di operare, culture e identità. Da ciò scaturiscono dinamiche complesse all’interno dei processi di cambiamento che inesorabilmente il procedere della storia determina, anche quelle particolari di singoli settori della società e dell’economia.
Di questo si dovrebbe tener conto nella lettura delle vicende di quella parte di Terzo settore che esisteva già prima che si avviasse il processo di istituzionalizzazione che oggi si sta compiendo, con la conclusiva attuazione del Codice.
Mi riferisco all’universo degli enti religiosi, alle Ipab, alle fondazioni che gestiscono attività educative e formative o sociosanitarie, a una parte significativa dell’universo dell’associazionismo. A tutte quelle realtà che già esistevano e operavano prima che, all’inizio degli anni Novanta si mettesse in moto il processo legislativo che, lungo un percorso articolato e tortuoso, è approdato al Codice.
Soffermiamoci qui sull’associazionismo, oggetto di questo numero della Rivista, rinviando ad altro momento e, forse ad altri contesti, la riflessione sulle altre realtà, anche se in conclusione verrà ripresa, con qualche considerazione, una prospettiva generale.
Il dato da cui partire è che l’associazionismo con finalità o comunque componenti di socialità ha radici antiche. Sia che si tratti di un associazionismo fondato su una dimensione mutualistica e finalizzato alla risposta a bisogni collettivi, come le Misericordie e le Pubbliche assistenze, con radici nei secoli passati, sia che si fondi su legami ideologici, maturati nel Novecento, che per la loro intensità e pervasività non potevano esaurirsi solamente nell’associazionismo politico (partiti) e in quello sindacale, ma giungevano ad innervare anche le relazioni della quotidianità, del tempo libero e degli interessi culturali. Si pensi all’esperienza di Arci e Acli coi loro “circoli”.
Tutto ciò aveva una propria routine fondata su principi e su statuti associativi, ma caratterizzata, sin dagli anni Sessanta, da una strisciante, ma sempre più rilevante irruzione della dimensione economica. Per chi operava sul fronte socioassistenziale crescevano le strutture e le attività, con conseguente espansione delle entrate correlate alle prestazioni rese sulla base di accordi con le pubbliche amministrazioni o direttamente ai privati, anche non associati. Nel frattempo, anche i circoli si sviluppavano in attività e prestazioni, non più limitate al caffè e al bicchier di vino e al cineforum con dibattito, ma orientate ad offrire una gamma sempre più ampia e impegnativa di servizi.
Questo variegato mondo, dal punto di vista legale regolato dalla manciata di articoli che il Libro primo del Codice civile dedica alle persone giuridiche, si trova, nel 1991 a confrontarsi con l’apparizione di due nuovi soggetti, identificati da due leggi specifiche: le organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali. Due soggetti che costituiscono una netta discontinuità con gli originali istituti di riferimento: le associazioni e le cooperative. In ambedue i casi la vincolante finalizzazione sociale rompe lo schema associativo autoreferenziale (orientato principalmente verso i membri dell’organizzazione) e impone che la proiezione dell’attività abbia caratteristiche solidaristiche e, quindi, guardi all’esterno della base associativa, sia in assenza di attività economiche rilevanti (OdV) sia che si tratti di esercizio d’impresa (cooperative sociali). Con, in ambedue i casi, il volontariato altruistico come elemento qualificante e di garanzia, anche se soltanto (purtroppo!) opzionale per le cooperative.
Per ambedue questi nuovi soggetti le leggi istitutive definivano oltre ai profili identitari anche riconoscimenti istituzionali e regimi fiscali specifici sicuramente interessanti.
L’associazionismo tradizionale, posto a confronto con questo nuovo quadro, si mosse lungo due direzioni. Quello socioassistenziale scelse tendenzialmente di incasellarsi tra le organizzazioni di volontariato, sviluppando un’azione di pressione politica volta ad allentare i vincoli di predominanza delle attività dei volontari e di marginalità delle attività economiche. Ricordo, nei primi anni dopo la legge 266, i confronti all’interno dell’Osservatorio nazionale del Volontariato circa la possibilità o meno di riconoscere lo status di OdV a realtà con un elevato numero di volontari, ma anche con un consistente organico di personale retribuito dedito allo svolgimento dei servizi e con conseguenti, consistenti fatturati. La tendenza fu per interpretazioni che allentassero i vincoli di predominanza del volontariato presenti nella legge. Ciò concorse a creare la situazione per cui, negli anni a venire, si sarebbero avute medesime attività svolte in modo identico da parte sia di soggetti imprenditoriali (cooperative sociali) sia da soggetti non imprenditoriali (organizzazioni di volontariato) grazie anche alla “decommercializzazione” garantita a queste ultime dalla legislazione fiscale.
Sul fronte dei circoli la scelta fu diversa e si tradusse nell’avvio di una riflessione circa l’opportunità di una specifica legge di riconoscimento giuridico. Legge che giunse in porto nel 2000 e sancì la nascita di un soggetto ibrido, le Associazioni di Promozione Sociale (APS), orientato ai servizi ai soci, ma al contempo aperto anche a terzi; dedito ad attività non commerciali, ma con la possibilità di cedere in vendita beni e servizi; fondato sul volontariato degli associati, ma legittimato “in caso di particolari necessità” ad assumere lavoratori e ingaggiare collaboratori anche associati.
In sostanza l’associazionismo tradizionale si trovò di fronte alla nuova polarizzazione determinata, da una parte, dal riconoscimento della possibile finalità sociale dell’attività d’impresa di natura commerciale, caratteristica della cooperazione sociale e, dall’altra, dalla qualificazione in forma altruistica ed erogativa, con attività di natura non commerciale, propria delle OdV. La reazione fu un arroccamento intorno ai profili storici della propria esperienza, riuscendo a creare uno spazio normativo grazie al quale le distinzioni relative all’attività – se commerciale e non commerciale – e alla natura dell’ente – se imprenditoriale o erogativo – potessero diventare irrilevanti per la sua caratterizzazione.
Il tutto favorito anche dall’ampia e confortevole coperta fiscale che nel frattempo la legge istitutiva delle Onlus, combinata con la definizione di non commercialità contenuta nel Testo unico delle imposte dirette (per le Onlus, ai sensi dell’art. 150 TUIR, ancora per poco vigente, da un lato, “non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali”, dall’altro lato, “i proventi derivanti dall’esercizio delle attività direttamente connesse non concorrono alla formazione del reddito imponibile”) aveva steso su un’ampia area del non profit. Anche se, come sempre capita, i porti franchi diventano un rifugio anche per soggetti poco raccomandabili e, di conseguenza, per quanto riguarda i circoli, le principali organizzazioni di rappresentanza hanno spesso dovuto impegnarsi per distinguere i propri aderenti da altre esperienze di abuso e distorsione dello strumento.
Così siamo giunti alla stagione del Codice nel quale il profilo civilistico non ha sostanzialmente subito modifiche rispetto al quadro preesistente, mentre il quadro fiscale è rimasto sino ad oggi in uno stato di sospensione per i noti motivi legati alla presunta necessità di una qualche forma di autorizzazione comunitaria.
In questa situazione di limbo del quale non si intravedeva l’esito si è verificata una strana dinamica: le APS sono numericamente esplose, risultando in questi anni la forma giuridica più gettonata in sede di nuova costituzione di enti di Terzo settore.
Si è trattata di una nuova e rigogliosa stagione dello spirito associativo? In realtà, è forse possibile azzardare una diversa ipotesi, suffragata da alcune evidenze. L'APS, anche per i consigli di professionisti e centri di consulenza per il Terzo settore, è risultata essere la forma giuridica scelta da piccoli gruppi di persone per avviare attività economiche nei settori indicati dall’art. 5 del Codice, ed in particolare per le attività culturali, di animazione e educative.
Ciò perché, nella valutazione comparata, tra le diverse opzioni nell’ambito dei soggetti individuati nel Codice, la cooperativa sociale o l’impresa sociale apparivano impegnative e costose e perché, per le imprese sociali, il quadro fiscale risultava ancora non favorevole. Peraltro, con lo sviluppo delle attività e la crescita della dimensione organizzativa ed economica, e soprattutto con l’aumento dei collaboratori retribuiti, senza la reale possibilità di ampliamento della base di associati volontari, spesso queste realtà hanno dovuto, dopo qualche tempo, procedere a trasformazioni.
Oggi, con all’orizzonte il compimento, anche sul piano fiscale e dei controlli, della messa a regime della normativa del Codice, per il variegato mondo delle APS, è probabilmente giunto il tempo delle scelte. Tanto per quelle con remote radici nella storia delle comunità locali, quanto per quelle nate opportunisticamente nel corso degli ultimi anni, come frutto di una mera scelta orientata alla semplificazione, in un quadro in cui non sussistevano benefici specifici per le imprese sociali.
Dagli ovvi arbitraggi tra le convenienze organizzative, economiche e fiscali delle diverse forme giuridiche, l’impresa sociale, con l’entrata a regime della intassabilità degli utili d’esercizio (e le annunciate modifiche sotto il profilo dell’IVA, tra esenzioni e regime agevolato al 5%), non risulterà più perdente. Soprattutto di fronte alla modifica del riconoscimento della decommercializzazione, non più frutto semplicemente della caratteristica finalistica degli enti, bensì legata a precisi criteri di carattere economico e reddituale.
Si tratta di valutazioni che non riguarderanno solamente il comparto delle APS, ma investiranno anche gli enti religiosi e il variegato mondo delle fondazioni di carattere operativo, in particolare quelle già iscritte all’Anagrafe delle Onlus.
Credo che ne deriveranno trasformazioni, scissioni, costruzioni di sistemi proprietari e di controllo complessi, dai quali risulterà più definita la distinzione tra dimensione associativa e volontaristica e dimensione imprenditoriale e commerciale. Personalmente, sono convinto, un importante passo in avanti per il mondo dell’associazionismo e per tutto il Terzo settore.
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