Anche se ciò costituisce un’anomalia rispetto alle consuetudini della Rivista, si è ritenuto di ripubblicare in apertura un articolo scritto nel 2009 da Carlo Borzaga sul numero 4/2009 di Impresa Sociale e disponibile all’indirizzo https://rivistaimpresasociale.s3.eu-central-1.amazonaws.com/archivio-rivista/Impresa-Sociale-2009-4.pdf. Lo si ripropone oggi sia come testimonianza di un percorso di riflessione che si è snodato nella Rivista in questi anni, sia perché utile a fornire un quadro complessivo entro cui inserire i contenuti di questo numero. In questa riproduzione sono stati omessi alcuni riferimenti a dati di ricerche realizzate in quegli anni, perché di minore interesse per il lettore di oggi, salvo che nel significato generale; il lettore interessato alla ricostruzione storica li potrà comunque recuperare nell’edizione originale.
I rapporti tra volontariato e impresa sociale possono assumere forme e intensità molto diverse a seconda dei contesti presi a riferimento, di come i due fenomeni sono definiti, delle culture sottostanti e del loro grado di istituzionalizzazione. Se, ad esempio, per volontariato si intende soprattutto lavoro gratuito prestato anche, ma non esclusivamente, per fini di solidarietà, e per impresa sociale qualsiasi organizzazione che si prefigge di migliorare le condizioni di vita di gruppi di persone svantaggiate attraverso la produzione di un bene o di un servizio (Borzaga, Defourny, 2001), si può sostenere che molte imprese sociali, a cominciare dalla maggior parte delle cooperative, sono nate e si sono sviluppate solo grazie ad un rilevante impegno a titolo volontario dei loro membri o dei loro promotori. O se, come fanno ancora le organizzazioni internazionali, in particolare ILO e ONU, si definisse volontariato ogni prestazione a salari inferiori a quelli “di mercato”, di nuovo si avrebbe una quasi perfetta integrazione tra volontariato e gran parte di quelle che oggi si definiscono imprese sociali. Se, invece, con il termine volontariato si intendono solo le forme organizzative create e gestite in via esclusiva o prevalente da volontari, con funzioni soprattutto di advocacy e di pioneering, è chiaro che esse costituiscono un universo separato da quello delle imprese sociali che invece esistono al fine di erogare servizi anche attraverso l’impiego di forza lavoro remunerata. Un ragionamento simile vale con riferimento ai livelli di istituzionalizzazione delle due realtà: mentre per dar vita ad un’organizzazione di volontariato è sufficiente che vi sia un gruppo di persone che condivide la scelta di lavorare per la soluzione di un problema sociale, senza bisogno “né di un mecenate, né di un diploma, né di una licenza, né di uno Statuto, né di alcuna autorizzazione ufficiale” (Beck, 2000), un’impresa sociale richiede, in qualsiasi contesto, livelli maggiori di istituzionalizzazione e deve assoggettarsi ad alcune regole che garantiscono la trasparenza del suo operato. Ma se, come è avvenuto in Italia, anche il volontariato viene istituzionalizzato, i suoi rapporti con le imprese sociali possono diventare più complessi e possono sorgere problemi di competizione. Da queste osservazioni risulta evidente che non è né utile né possibile, specie in un breve articolo, affrontare il tema in termini generali. Può invece essere utile contestualizzare l’analisi, assumendo in particolare a riferimento la situazione italiana e la sua evoluzione a partire dagli anni in cui si è iniziato ad utilizzare i concetti di “volontariato” e di “impresa sociale”, individuando le culture sottostanti e seguendo l’evoluzione normativa che ha portato all’istituzionalizzazione di ambedue i fenomeni. A questo fine si cercherà innanzitutto di proporre una ricostruzione di come i due fenomeni si sono evoluti nel tempo, cercando soprattutto di mettere in luce come sono cambiati i rapporti tra di essi (par. 1). Di seguito (par. 2) si verificherà quali sono oggi nella realtà i rapporti tra questi due mondi. Per concludere con una breve riflessione sull’evoluzione possibile, soprattutto dopo l’approvazione della legge sull’impresa sociale.
In Italia il termine “volontariato” è stato usato per la prima volta nel corso degli anni ’70 del secolo scorso essenzialmente per “dare un nome” alle sempre più numerose iniziative solidaristiche avviate e gestite spontaneamente da gruppi di cittadini, diversamente ispirati, al fine di affrontare, soprattutto attraverso l’erogazione di servizi sociali, quelle “nuove povertà” (Censis, 1979) che il sistema di welfare italiano, largamente a carattere redistributivo non era in grado di affrontare, pur avendo in parte contribuito a crearle attraverso i processi di deistituzionalizzazione (Borzaga, Ianes, 2006). Poiché, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo, queste nuove iniziative erano non solo avviate spontaneamente, ma anche gestite grazie al lavoro volontario e gratuito dei loro membri, con il termine “volontariato” si finì per definire sia questo particolare impegno individuale di cittadinanza, sia l’insieme dei gruppi di cittadini impegnati nella realizzazione di attività di interesse sociale. Fu tuttavia questa seconda accezione a prevalere, al punto che si può affermare che fino alla fine degli anni Settanta si chiamò volontariato quello che oggi siamo ormai abituati a chiamare Terzo settore o settore non-profit. Il concetto di “impresa sociale” è stato invece usato per la prima volta solo diversi anni dopo, verso la fine dagli anni Ottanta, poco prima dell’approvazione della legge sulla cooperazione sociale, e il suo utilizzo si è quindi diffuso parallelamente all’affermarsi di questa nuova forma organizzativa. I due concetti sono comunque nati dallo stesso ceppo di esperienze che si sono andate differenziando solo a partire dagli anni Novanta. Per questo motivo, per capire come si sono venute configurando fino ad oggi le relazioni tra volontariato e impresa sociale è necessario ripercorrere la storia di ambedue i fenomeni. A questo fine è utile una periodizzazione così articolata: a) il periodo della “simbiosi” che va dall’inizio fino alla fine degli anni Ottanta; b) la fase della “separazione” coincidente con l’approvazione nel 1991 delle due leggi sul volontariato (266) e sulla cooperazione sociale (381); c) la fase dell’“incomprensione” ricomprendente tutti gli anni successivi fino ad oggi.
Per tutti gli anni Settanta e Ottanta non solo i concetti di Terzo settore, di non-profit o di impresa sociale non vennero utilizzati, ma erano considerati come appartenenti al mondo del volontariato tutte le nuove organizzazioni con volontari, ivi comprese quelle con un’offerta di servizi più strutturata e quindi a vocazione più produttiva e che contavano anche su forza lavoro remunerata. I rapporti tra le diverse organizzazioni erano stretti e non presentavano particolari problemi. Comune era anche la riflessione sul ruolo e sulle potenzialità di queste nuove esperienze. L’obiettivo perseguito dai promotori era quello di consentire la specializzazione e quindi la distinzione tra organizzazioni con funzioni diverse, ma sottolineandone la complementarità. La stessa idea di utilizzare la forma cooperativa e di adattarla alla cultura partecipativa e solidale del volontariato (ad esempio, attraverso l’ammissione di soci volontari) - formalizzata nel disegno di legge Salvi presentato in Parlamento nel 1981 - era frutto di questa strategia e si proponeva di consentire alle esperienze più mature di impegno sociale di consolidare la propria attività, superando le limitazioni imposte sia dalla forma associativa che da quella fondazionale (Borzaga, Ianes, 2006). Questa simbiosi tra i due modelli organizzativi è confermata dai risultati della prima ricerca sulle cooperative impegnate nell’erogazione di servizi sociosanitari realizzata nel 1987 su dati del 1986 (Borzaga, 1987). Delle 253 cooperative rilevate il 26,7% era stato costituito da una preesistente organizzazione di volontariato e il 15,8% da un’associazione. Solo 32 cooperative non avevano soci volontari e la forza lavoro era costituita da una media di 10 soci volontari, di 10,6 volontari non soci, di 10,1 soci lavoratori e di 5,1 dipendenti non soci. Quasi un quarto delle ore di lavoro risultavano erogate da volontari. Solo verso la fine degli anni Ottanta si iniziò a prendere coscienza che non era più possibile continuare a tenere insieme, sotto l’unica definizione di volontariato, fenomeni che si stavano progressivamente differenziando. Di ciò fu preso esplicitamente atto nel 1987 nel corso di un seminario della Fondazione Zancan (Fondazione Zancan, 1988) dove, per la prima volta in Italia, fu utilizzato - riprendendolo da un saggio di Ruffolo del 1985 - il concetto di “terzo sistema” (poi diventato Terzo settore), entro il quale far confluire, in coerenza con la strategia della distinzione nella complementarità, organizzazioni di volontariato, associazionismo e cooperazione sociale. Non solo: in quella sede venne anche deciso di chiedere ai parlamentari che l’avevano proposta di fermare l’iter della legge sul volontariato perché essa non sembrava più in grado di cogliere la complessità del fenomeno. La richiesta non venne accolta e, come noto, nel 1991 vennero approvate sia la legge sul volontariato che quella sulla cooperazione sociale. La volontà prevalente sia tra i promotori del volontariato, sia della cooperazione sociale era ancora quella di tenere i due fenomeni strettamente collegati e in questo senso vanno interpretati almeno due passaggi contenuti nelle due proposte di legge: quello della legge sul volontariato dove si esplicita che “le organizzazioni di volontariato possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro fini, salvo il limite di compatibilità con lo scopo solidaristico” e quello della proposta di legge sulla cooperazione di solidarietà sociale che prevedeva la possibilità di costituire cooperative di questo tipo anche con soci volontari, senza limiti di numero e di peso percentuale rispetto all’intera compagine sociale.
La scelta di regolare il nascente Terzo settore non in modo unitario, ma creando forme giuridiche distinte in base al modo in cui esse perseguivano una mission in gran parte simile, insieme al dibattito parlamentare e alle mediazioni tra forze politiche e sociali che accompagnarono l’approvazione, nel 1991, della legge quadro sul volontariato (266) e della legge sulla cooperazione sociale (381) avviarono, forse in modo non del tutto consapevole, il processo di separazione del volontariato dall’impresa sociale. Ciò che era chiaro per i promotori della legge sul volontariato, e cioè non solo che l’attività volontaria doveva essere gratuita, ma che l’organizzazione di volontariato che evolvesse in senso imprenditoriale doveva anche diventare qualcosa di diverso - nello specifico una cooperativa di solidarietà sociale - non risultò altrettanto chiaro al legislatore. Esso infatti, da una parte, ribadì la totale gratuità dell’azione volontaria, ma, dall’altra, ammise che l’organizzazione di volontariato potesse avvalersi anche di lavoro remunerato senza specificare con precisione in quale quantità e che potesse stipulare convenzioni con le pubbliche amministrazioni, senza precisare se esse possono riguardare anche la prestazione di servizi in via continuativa. In altri termini, il legislatore lasciò alle organizzazioni di volontariato la possibilità di agire a tutti gli effetti come imprese senza modificare né Statuto né forma giuridica. Inoltre, un’interpretazione restrittiva adottata dal Ministero di Grazia e Giustizia immediatamente dopo l’approvazione della 266 della norma che prevede che la forma giuridica assunta dalle organizzazioni di volontariato debba essere compatibile con “lo scopo solidaristico”, impedì a queste organizzazioni di assumere la forma della cooperativa sociale, di fatto o costringendole a privilegiare quella dell’associazione. La legge sulla cooperazione sociale, a sua volta, accentuò la separazione limitando l’apporto dei volontari nelle cooperative sociali in due modi: prevedendo che i soci volontari non possano superare il 50% della base sociale e impedendo che il lavoro dei volontari possa essere utilizzato per ridurre i costi dei servizi svolti in convenzione con la pubblica amministrazione. È evidente che la combinazione tra queste norme, da una parte, rendeva più difficile l’assunzione della forma cooperativa sociale da parte di organizzazioni di volontariato con un elevato numero di volontari e un limitato numero di lavoratori remunerati e, dall’altra, rendeva meno pressante l’esigenza di passare dalla forma associativa a quella cooperativa per le organizzazioni di volontariato impegnate nell’erogazione in modo professionale e continuativo di servizi sociali. Essa finiva quindi per bloccare un’evoluzione da un tipo di organizzazione all’altro che fino a quel momento era risultata quasi naturale. Ciononostante, la separazione non fu immediata: molte cooperative sociali che avevano tra i soci una percentuale di volontari superiore a quella consentita dalla legge crearono associazioni di volontariato collegate con la cooperativa o mantennero i soci volontari sotto altra veste, in particolare come soci sovventori. Alcune associazioni di volontariato accelerarono il passaggio alla forma della cooperativa sociale includendo i volontari nella base sociale. Ma la separazione era ormai stata istituzionalizzata ed era destinata a consolidarsi.
Le trasformazioni che caratterizzarono il volontariato e la cooperazione sociale negli anni successivi all’approvazione delle due leggi accelerarono e resero sempre più netta la separazione. La legge sul volontariato finì per interessare da subito un vasto mondo di organizzazioni che non avevano, se non marginalmente, partecipato alla riflessione che aveva preceduto le due leggi e quindi non erano a conoscenza della strategia fino a quel momento perseguita, ma che avevano tutte o molte delle caratteristiche richieste dalla stessa e trovavano in essa un’occasione di riconoscimento giuridico e sociale. Le indicazioni fornite dall’Osservatorio sul volontariato e i registri del volontariato attivati dalle Regioni che, in diversi casi, stabilirono criteri per l’iscrizione più ampi di quelli previsti dalla legge, si popolarono di organizzazioni diverse, tradizionali e nuove, diversamente attrezzate nell’erogazione di servizi, in taluni casi già operanti a tutti gli effetti come imprese sociali (anche se con ampie basi di volontariato, come le Misericordie) o formate più che da volontari in senso stretto da utenti che vi operavano gratuitamente (come l’Anfas). Nello stesso tempo la previsione contenuta nella legge secondo cui per essere riconosciuta dal volontariato l’organizzazione doveva caratterizzarsi per la “democraticità della struttura” (art. 3) finì per lasciare fuori molte realtà di volontariato operanti nelle parrocchie o collegate ad organizzazioni religiose fortemente orientate in senso sociale, ma governate secondo principi diversi da quello di “una testa, un voto”. Il volontariato iscritto agli albi divenne così un fenomeno sempre più disomogeneo negli obiettivi perseguiti, nelle attività svolte, nella strutturazione organizzativa e nelle culture sottostanti e, nello stesso tempo, non del tutto rappresentativo della realtà del volontariato stesso. Ciò contribuì ad influenzare anche la cultura sottostante, finendo per esaltare una delle poche caratteristiche che sembravano accomunare le organizzazioni iscritte ai registri: la gratuità delle prestazioni, intesa peraltro in modo piuttosto semplicistico come assenza di remunerazione. La legge sulla cooperazione sociale, oltre a costringere non poche cooperative sociali a ridimensionare la presenza di volontari nella base sociale e a rendere più complicato l’utilizzo degli stessi quando l’attività era realizzata in convenzione con pubbliche amministrazioni, rese molto più semplice che nel passato la creazione di nuove cooperative. E ciò proprio nel momento in cui le amministrazioni locali iniziavano a porsi il problema di come garantire ai propri cittadini alcuni servizi socioassistenziali di cui proprio lo sviluppo del volontariato e della cooperazione sociale nel corso degli anni Ottanta avevano dimostrato la necessità e quindi erano sempre più disponibili a finanziare la loro erogazione. La possibilità di contare da subito su risorse pubbliche rese meno necessaria la presenza di volontari anche nelle fasi di start-up. Molte delle cooperative nate dopo l’approvazione della legge, infatti, non hanno mai contato sull’apporto di volontari. Si svilupparono così due modelli di cooperazione sociale, quello con e quello senza soci volontari (Borzaga, Fazzi, 2000). Una dicotomia che venne accentuata dall’evoluzione dei rapporti con le pubbliche amministrazioni e, in particolare, con il sempre più ampio ricorso alle gare, soprattutto al massimo ribasso, nell’assegnazione dei contratti di fornitura dei servizi. Le cooperative sociali già in partenza poco interessate al volontariato, in alcuni casi anche per ragioni ideologiche, vennero così spinte o si posero alla ricerca di una sempre maggiore efficienza gestionale, dove i volontari finivano per essere considerati più un peso che una risorsa. L’evoluzione interessò anche le culture sottostanti: la tendenza a ritenere che la caratteristica fondante del volontariato non fosse tanto la sua capacità di far emergere e soddisfare bisogni sociali, ma la gratuità delle prestazioni e l’accentuazione da parte delle cooperative sociali e degli studiosi del fenomeno della loro natura imprenditoriale, contribuirono ad allontanare sempre più i due mondi. Passare da volontari a lavoratori remunerati dentro la cooperativa finì per essere considerato quasi un “tradimento” della mission originaria, invece che una scelta di vita coerente e socialmente responsabile. Una parte del volontariato lanciò l’idea di marcare la separazione rifiutando anche l’appartenenza al “terzo settore” e reclamando la costituzione di un “quarto settore”. Anche le collaborazioni tra i due mondi divennero sempre più rare, aumentarono le occasioni di concorrenza soprattutto a causa della tendenza di alcune pubbliche amministrazioni ad orientare i contributi sulla base dell’attività svolta, indipendentemente dalla natura delle organizzazioni interessate, e ad ammettere alle gare per i servizi anche le organizzazioni di volontariato. I passaggi da organizzazione di volontariato a cooperativa sociale che avevano caratterizzato gli anni Ottanta divennero sempre più rari. La separazione divenne così progressivamente sempre più netta: la distinzione operata dal legislatore nel 1991, invece che favorire un’armonica complementarità, determinò incomprensioni e competizione. Infine, l’approvazione della legge sulle Onlus che attribuì ipso facto a tutte le organizzazioni di volontariato comunque iscritte ai registri questa particolare natura, rese ancora più marcata la separazione e bloccò del tutto ogni evoluzione da una forma all’altra.
Alcune ricerche recenti consentono di effettuare due importanti verifiche su come l’evoluzione culturale, legislativa e organizzativa descritta nei paragrafi precedenti abbia concretamente strutturato i rapporti tra volontariato e impresa sociale. Le analisi che i dati consentono di effettuare, pur a livelli di approfondimento diversi, riguardano: l’emergere di forme di imprenditorialità sociale tra le organizzazioni di volontariato, l’evoluzione del volontariato e dei suoi ruoli all’interno della forma più consolidata di impresa sociale, quella della cooperativa sociale e, infine, alcuni aspetti dell’evoluzione delle culture e dei rapporti tra i due tipi di organizzazioni.
L’articolo prosegue riportando i dati di ricerche dell’epoca dai quali si evidenzia che, malgrado la separazione, i due fenomeni mantengono significativi punti di contatto, dal momento che le organizzazioni di volontariato evidenziano un crescente ricorso a manodopera remunerata e le cooperative sociali mantengono una persistente quota di volontari, anche protagonisti nell’ambito della governance della cooperativa – Leggi l’articolo originale sul numero 4/2009 di Impresa Sociale disponibile all’indirizzo https://rivistaimpresasociale.s3.eu-central-1.amazonaws.com/archivio-rivista/Impresa-Sociale-2009-4.pdf a pagina 61 e seguenti. Si riporta infine una sintesi della parte finale dell’articolo.
Volontariato e cooperazione sociale si sono evoluti diversamente da quanto previsto dai loro promotori: una separazione sempre più netta ha sostituito la strategia della differenziazione nella complementarità. Tuttavia, i dati di realtà non confermano del tutto questa separazione. Nel volontariato sono infatti sempre più presenti organizzazioni strutturate e orientate alla gestione di servizi, mentre sono ancora molte le cooperative sociali che contano, in modo anche significativo, sul volontariato. Emerge quindi la necessità di ripensare gli assetti scaturiti dalla 266/91 e dalla 381/91 nonché dalle norme e dalle prassi che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni. Vi è innanzitutto l’esigenza di sbloccare l’evoluzione di una parte del volontariato verso più precise forme imprenditoriali senza che ciò incida sulla reputazione garantita dall’appartenenza, ancorché formale, ad un preciso e riconosciuto universo di organizzazioni. […] In secondo luogo, i dati sul ruolo dei volontari dentro le cooperative sociali sembra dimostrare che questa presenza continua ad essere importante, non più tanto nel garantire forza lavoro gratuita, ormai rilevante quasi solo nelle fasi di start-up, quanto nel mantenere la mission sociale e il legame con la comunità di riferimento e nel contenere la deriva mercantilistica che ha caratterizzato spesso i rapporti tra cooperazione sociale e pubbliche amministrazioni. Ciò dimostra che sono anche maturi i tempi per il pieno riconoscimento del volontariato individuale soprattutto dentro le imprese sociali in generale e, in particolare, dentro le cooperative sociali anche superando i limiti, ormai anacronistici, imposti dalla 381/91.
Riferimenti bibliografici
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