Una foglia di fico. E’ il rischio che corre la riforma del terzo settore e in particolare dell’impresa sociale. Una toppa, invece che uno strumento di sviluppo calato in un contesto vitale e legittimato presso i principali stakeholder e la pubblica opinione. Uno scenario ben diverso da quello dei primi anni ’90, quando la legge sulla cooperazione sociale fece da catalizzatore per energie diffuse, in primis nel terzo settore, ma anche nella Pubblica Amministrazione e nella società civile che riconosceva in modo molto chiaro il carattere meritorio dei beni e dei servizi prodotti da queste imprese allo stato nascente. Sarebbe quindi un errore preoccuparsi solo di implementare la norma in senso strettamente tecnico. La legge delega, in sé, è importante – e naturalmente anche i suoi decreti attuativi – ma senza una più ampia agenda di politiche e una campagna informativa e culturale che ricerchi un dialogo ad ampio raggio con la cittadinanza, non riuscirà a generare quell’impatto che la stessa norma attribuisce alle attività e iniziative dei soggetti di terzo settore e d’impresa sociale.
“Separare il grano dall’oglio”, lo slogan che ha avviato il progetto di riforma, richiede di certo regole ferme, che semplifichino e insieme controllino meglio le attività di natura associativa senza fini di lucro e per finalità di interesse collettivo. Ma è proprio il riconoscimento di cosa è “materialmente” la finalità pubblica ad essere in discussione nelle sue componenti fondamentali. Accoglienza dei migranti, inserimento lavorativo dei carcerati, lotta alla povertà, ecc. rappresentano sfide non solo in termini di copertura dei bisogni – attraverso l’erogazione di servizi da parte di associazioni, cooperative, fondazioni – ma anche di legittimazione rispetto al fatto che sia giusto che la società nel suo complesso si faccia carico di queste finalità, riconoscendole, appunto, come un bisogno a cui dare risposta mobilitando risorse, a prescindere dal fatto che i beneficiari siano in qualche modo “solvibili”.
La riforma è in tal senso una buona “costituzione formale”, ma che richiede un lavoro complementare sui presupposti politico-culturali che restituiscono quei caratteri variamente nominati – bene comune, sostenibilità ambientale, sicurezza sociale – che, guardando ai sondaggi di opinione e soprattutto alle pratiche dal basso, sono sempre più riconosciuti come “espressioni del futuro”, ma che appaiono anche sempre più sganciati da forme istituzionali, in primis quelle di natura nonprofit, in grado di incarnarli in modelli organizzativi e di governance coerenti.
Per questo il tema dell’impatto sociale che attraversa l’intero impianto della riforma diventandone il caposaldo è particolarmente rilevante. Dopo decenni dove l’azione del terzo settore si è misurata quasi esclusivamente sulla capacità di generare benefici per “l’utente finale” – con al massimo qualche incursione sporadica nelle sue reti di prossimità – ora si tratta di valutare in senso quali-qualitativo e sul breve medio e lungo periodo “gli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Un approccio meno centrato sul welfare dei servizi e più sullo sviluppo di comunità, legittimando così la produzione di valore sociale perché proprio la comunità ne prende attivamente parte e perché ne riconosce i benefici ad ampio raggio, e non solo perché singole componenti sono più o meno soddisfatte per determinate “prestazione di servizio”.
E’ un passaggio cruciale che non si risolverà nel breve periodo, considerando anche l’amplificazione esercitata da scandali che coinvolgono soggetti di terzo settore e che non fanno altro che accelerare il fenomeno di erosione della base fiduciaria su cui questi soggetti sono nati e hanno prosperato.
Se la riforma è quindi la nuova casa del terzo settore occorre preoccuparsi non solo che sia confortevole per le diverse espressioni organizzative che hanno contribuito a edificare questo edificio in epoca non sospetta, ma anche e soprattutto che poggi su fondamenta solide, consentendo così di attrarre quel potenziale di nuova socialità ed imprenditoria che oggi è sempre più visibile, ma che il terzo settore nelle sue forme attuali fa fatica ad intercettare.