Trovare una soluzione, dar vita a un’innovazione, costruire un’opera dell’ingegno costituiscono pratiche ugualmente creative. Ma la dimensione collettiva e sociale in cui si realizza la trasmissione di idee originali è cruciale, sotto il profilo della creazione pura così come dell’innovazione industriale. Infatti, l’attitudine creativa - artistica o meno che sia - si sprigiona e muove dal piano individuale al piano inter-imprenditoriale. Per quanto fondamentale per innescare l’innovazione, tuttavia, la creatività non basta, dato che risulta comunque necessario il filtro del mercato affinché l’imprenditore realizzi appieno le potenzialità di un’opera dell’ingegno. In questo contributo si propone una mappatura preliminare delle fasi attraverso cui si sviluppa l’attività creativa imprenditoriale - sia artigianale che industriale - allo scopo di indirizzare la ricerca sulle politiche regolative che possano incentivarne la nascita e sostenerne la crescita.
Finding a solution, producing innovation, creating an original work represent equally creative practices. But the collective and social dimension in which the transmission of original ideas takes place is crucial, under the profile of pure creation as well as of industrial innovation. In fact, a creative attitude – either artistic or not – stems from an individual level and, then, moves towards the inter-entrepreneurial dimension. Nevertheless, though fundamental to trigger innovation, creativity is not sufficient because the filter of market is necessary for the entrepreneur to fully realize the potential of an art work. In this contribution we will suggest a preliminary mapping of the various development phases of entrepreneurial creative activity – both handmade and industrial – in order to narrow the focus of the research on regulative policies that can foster its development and support its growth.
Come nasce una nuova idea? E quale idea sta alla base di un’invenzione industriale, di una trovata scientifica o di un’opera d’arte? Un’idea nasce in due modi. Può scaturire dalla reiterazione meccanica di tentativi d’innovazione, alla ricerca di un bene ancora non esistente o per realizzare un incremento delle conoscenze già acquisite. Oppure può derivare da un’improvvisa e inattesa intuizione di soluzioni, di natura anche artistica, che prima non si possedevano. In entrambi i casi, come vedremo, si tratta di fenomeni non esclusivamente idiosincratici. Se così è, ci si può interrogare su quale sia la dinamica che favorisce l’innovazione industriale e l’avanzamento scientifico e quale favorisca, invece, la creazione artistica. Prima ancora, è inevitabile chiedersi se tali dinamiche abbiano gli stessi presupposti e presentino le stesse fattezze, quand’anche vengano poi diversamente indirizzate. Mi chiedo, cioè, se uguali meccanismi di elaborazione progettuale, per come essi prendono vita e si sviluppano nella mente del loro ideatore, possano avere sbocchi tra loro differenti e tuttavia analogamente inediti. La mia risposta è positiva. Non solo. Credo che tali forme di “avanzamento della conoscenza” contribuiscano sia alla realizzazione di eventi innovativi, sia alla realizzazione di eventi artistici. E ancora. Penso che l’avanzamento a cui mi riferisco si manifesti in forme non dissimili dal modo in cui, nei frangenti scientifici, si acquisiscono nuovi risultati pratici e teorici, grandi o piccole che siano tali rivoluzioni. Ciò accade, a mio modo di vedere, da due punti di vista. Innanzitutto dal punto di vista di come tende ad articolarsi il processo creativo. E poi dal punto di vista del ruolo che, in tale processo, suole essere svolto dalla comunità di ricerca alla quale il creatore appartiene.
Ritengo, insomma, che la creatività al servizio dell’innovazione e dell’arte, oggi, si esprima passando attraverso canali di ugual natura. I ritrovati innovativi e artistici rappresentano, letteralmente, la realizzazione dei processi e dei prodotti della mente dell’ideatore. Quest’ultimo, infatti, partorisce un’idea nuova assemblando in modo originale dati e prodotti preesistenti e contemporaneamente superando paradigmi conosciuti e consolidati. In tal senso si può dire che trovare una soluzione, dar vita a un’innovazione o costruire un’opera dell’ingegno costituiscono pratiche eminentemente creative, e perciò sostanzialmente dello stesso tipo. Ancora più precisamente possiamo affermare che la creatività innesca l’innovazione. E a questo dato aggiungo che la dimensione collettiva e sociale entro la quale si realizza tale trasmissione di idee originali risulta decisiva, guardando ad entrambi i versanti – quello proprio della creazione (per così dire) pura, così come quello proprio dell’innovazione (tipicamente industriale) – di buona parte dell’attività di un’impresa culturale. Infine si consideri che, pur fondamentale per innescare l’innovazione, la creatività non basta, dal momento che, nei due frangenti in esame, è comunque necessario il filtro del mercato, nel quale vengono a contatto, e contrattualmente si accordano, parti e istanze pubbliche e private, profit e nonprofit.
In questo saggio indago i nessi tra attività culturale e attività d’impresa al fine di fare emergere le cointeressenze non solo, per così dire, naturali e mimetiche, ma anche normative e tecniche, che le accomunano. Quel che segue costituisce, in estrema sintesi, la struttura del mio lavoro. L’analisi delle funzioni delle imprese culturali in epoca contemporanea tende a focalizzarsi su due profili di ordine generale: la valenza economica del sistema di produzione culturale e la valenza intellettuale dei beni creativi variamente realizzati in tale sistema. Su entrambi i versanti si ripercuotono le politiche del diritto e dell’economia che prendono in carico le sorti dello sviluppo delle imprese creative di ciascun Paese. Per poter contribuire al loro perfezionamento ritengo però imprescindibile mettere a fuoco la specificità giuridica dei concetti di creatività e di innovazione, le dimensioni entro le quali tali apporti scaturiscono e si ripercuotono, nonché i limiti attuali della protezione che l’ordinamento riserva alle opere dell’ingegno. Tale mappatura delle fasi secondo cui si sviluppa l’attività creativa imprenditoriale, sia artigianale che industriale, è funzionale allo scopo di indirizzare la ricerca sulle politiche regolative che possano incentivarne la nascita e sostenerne la crescita, tenendo conto delle risultanze parziali (che sintetizzo nelle mie considerazioni conclusive).
Il concetto di catena di cooperazione espresso da Howard Saul Becker ne “I mondi dell’arte” (Becker, 2004), tale per cui “una catena di cooperazione sussiste ogni qualvolta l’artista si trova a dipendere da altri individui”, conferma l’assunto riportato or ora, ossia l’omologia delle dinamiche artistiche e scientifiche quanto al modo in cui si materializza la creatività. Esattamente come l’impresa in cui si sviluppa l’innovazione costituisce un’entità per così dire “porosa”, interconnessa nei due sensi con l’ambiente esterno, la comunità entro la quale si esprime la creatività costituisce un sistema fluido, privo di confini (anche se non del tutto sprovvisto di barriere all’entrata, come vedremo). Sistema in cui il lavoro è suddiviso e imputato a seconda delle competenze, ove operano diverse categorie di soggetti molte delle quali partecipano, al pari degli artisti che ne sono riconosciuti come autori in senso proprio, alla realizzazione di un’opera d’arte.
Sul punto possiamo per il momento limitarci a tenere in considerazione il concetto di alta (o bassa) intensità di conoscenza delle imprese. Concetto che esprime un valore che è oggetto di misurazione costante da parte soprattutto degli economisti, mentre è pressoché tralasciato dai giuristi. Eppure l’attenzione dedicata a questo valore prova inequivocabilmente il rilievo assunto – anche sotto il profilo produttivo – dalla variabile organizzativa delle imprese culturali. Imprese che è possibile concepire alla stregua di miscelatori, sistemi di conoscenze collettivi, permeabili verso l’esterno, che devono essere organizzati adeguatamente per preservare tali caratteristiche. Dovrebbe allora risultare chiaramente perché e in quale misura “si tengano insieme” il concetto di pluralità del processo creativo, il ruolo della cooperazione e dell’organizzazione nello svolgimento dell’attività d’impresa al fine di produrre innovazione, nonché il modo in cui si declina il dilemma make or buy in rapporto al segmento del mercato culturale rilevante caso per caso.
D’altronde si tratta del medesimo concetto che si evoca, allorché si fa riferimento al ruolo progressivamente assunto, nei processi innovativi dell’epoca contemporanea, dalle tecnologie fisiche e sociali. Il cambiamento di paradigma è tale per cui, mentre nei secoli precedenti il Novecento prevalse il peso dell’investimento esclusivo nella tecnologia fisica – ossia nelle componenti, singolarmente prese, dei processi intesi alla trasformazione di risorse, energie e idee in progetti e prodotti – successivamente le politiche di sostegno all’innovazione necessariamente implementarono, non di meno e contestualmente, le variabili organizzative e di reciproco coordinamento che incidono sui medesimi processi, nella consapevolezza emergente che gli impulsi creativi si producono solo se esistono, sono riconosciute e rispettate regole di reciproca collaborazione e competizione tra operatori economici.
Se questo è evidente sul fronte industriale, lo è altrettanto su quello artistico. Si pensi alla business art, alla produzione seriale ma artistica, e così via. Oppure all’artista come soggetto che necessita dell’accademia d’arte quale struttura di sostegno, sotto diversi profili; nonché all’artista come soggetto che opera non isolatamente ma con collaborazione fattiva di assistenti. Infine, e contemporaneamente, al nesso indissolubile tra arte e artigianalità, e con questo alle sovrapposizioni tra concezioni diverse dell’imprenditore (dalla figura tradizionale a quella schumpeteriana), dell’impresa (dalla teoria neoclassica a quella relazionale), dell’attività produttiva (dalla dicotomia produzione artigianale/seriale alla personalizzazione della produzione industriale).
Ciò premesso, si converrà che risulta naturale chiedersi che cosa possa fare il legislatore, oggi, per migliorare l’assetto regolativo vigente nella prospettiva di favorire la produzione, la protezione e la remunerazione di opere sia innovative sia artistiche. Interrogativo a cui non è semplice rispondere, giacché “impresa culturale” è espressione che comprende un novero ampio e non omogeneo di realtà economiche: letterarie ed editoriali, musicali, teatrali e cinematografiche, museali e di tutela del patrimonio artistico nazionale, informatiche, architettoniche, di moda e di design. Nonostante l’eccellenza qualitativa di tali realtà, l’ordinamento italiano non contempla uno statuto giuridico né delle imprese culturali complessivamente intese, né dei singoli tipi imprenditoriali; così come, usualmente, non è messo a fuoco il concetto di attività imprenditoriale di carattere creativo. Allo stesso modo, è relativamente poco approfondito lo studio giuridico dei sistemi organizzativi e dei modelli manageriali idonei a favorire il consolidamento di queste iniziative produttive, a fronte della quantità maggiore dei contributi realizzati, nella medesima prospettiva, dalla dottrina economica e aziendale.
La ricerca dedicata alle pratiche creative è tuttora disorganica, tanto quant’è variegato l’insieme delle attività astrattamente riconducibili alle imprese culturali, al punto che le uniche analisi utili sono perlopiù microsettoriali. Queste analisi servono, senz’altro, per affrontare aspetti problematici di natura eminentemente gestionale, certamente ineludibili da parte di chiunque si occupi di regolazione dei sistemi di produzione delle idee (un approccio del genere ha però condotto a trascurare profili letteralmente prioritari, sui quali, individualmente considerati, dirò qualcosa a breve). Questo approccio ha però avuto, più in generale, il prevedibile effetto di impoverire l’analisi nel suo complesso, e di disperdere in partenza la possibilità che ricerche di tal genere, dedicate a tipologie specifiche di imprese culturali, fossero in condizione di giovarsi della sempre proficua contaminazione dagli stimoli intellettuali dei cultori di ambiti settoriali contigui ma differenti, laddove non addirittura di contributi propriamente interdisciplinari, e di sfruttarne l’eterogenesi dei fini. D’altronde, anche gli studi che si occupano dei modi in cui si esprime la creatività umana non riescono a integrare i propri (pur fondamentali) assunti epistemologici con un’analisi altrettanto esaustiva, ed empiricamente fruibile, delle ricadute imprenditoriali delle realtà prese in esame. Eppure si pensi, tanto per fare un esempio, alle evidenti relazioni tra la condizione di autoinganno cognitivo circa la condizione di autonomia e indipendenza tipica di ogni soggetto agente, anche economico, e la dinamica di “prova ed errore” che ogni innovatore sperimenta e sopporta nello svolgimento della propria attività.
Si sarà capito che muovo da presupposti di demitizzazione dell’attività artistica e di deartisticizzazione dei prodotti creativi. Dei cui percorribili sviluppi, e dei cui esiti riscontrabili sul piano regolativo, non si è forse tenuto conto adeguatamente, soprattutto sotto il profilo giuscommercialista. Secondo una perdurante concezione dell’impresa culturale, tradizionale e per così dire statica, si affrontano tipicamente questioni quali: la difficoltà di monetizzare lo scambio di prodotti creativi già realizzati e come tali immessi sul mercato; il finanziamento della produzione di beni culturali di per sé non remunerativi; o la gestione degli enti di tutela dei beni culturali. I limiti di questo approccio mi appaiono evidenti e possono essere sintetizzati nei termini del suo descrittivismo, derivativismo e relativismo. Ma perché è invece necessario occuparsi contemporaneamente di cultura ed economia, di attività creativa e attività d’impresa, di scopi e modalità di esercizio delle iniziative produttive? È presto detto: tale riflessione congiunta serve per verificare se e come l’attività creativa possa autosostenersi. Ciò è a dire, se l’impresa culturale, che concretizza capitalisticamente un’attività di tipo creativo, sia in condizione di essere libera e di perdurare in questa condizione.
Credo che, per prima cosa, occorra risolvere i problemi di inefficienza del meccanismo di scambio per come esso si realizza. Come si realizza? In buona sostanza, e mi si passi questa brutale semplificazione, tramite la compravendita di prodotti creativi preconfezionati, a condizioni spesso penalizzanti per il consumatore, o tramite l’offerta di prodotti ugualmente fatti e finiti a prezzi non di mercato, in modi che, dal punto di vista sia realizzativo che distributivo, finiscono per compromettere il produttore. A mio modo di vedere i versanti da approfondire sono anzitutto tre:
Il primo versante di analisi coincide con l’obiettivo di sostenere la creatività, sotto due profili: individuale, oltre il sussidio; collettivo, oltre la competizione. Il secondo versante coincide con il diffondere il prodotto creativo in modi autosostenibili, andando oltre il marketing e plausibilmente adottando meccanismi di proposta preventiva dei prodotti e di conseguente sponsorizzazione, con risultati di disintermediazione e affrancamento dalla variabile prezzo, oltre che di co-realizzazione del prodotto creativo. Il terzo versante coincide con il tutelare il prodotto creativo oltre i diritti di privativa.
In astratto esistono almeno tre approcci alternativi per regolare le attività imprenditoriali di carattere creativo. Da un lato si possono elaborare strutture aggregative di natura non societaria (bensì proprietaria, contrattuale, organizzativa), utili affinché gli operatori culturali possano costituirsi e fare rete a costi relativamente contenuti. D’altro lato si possono realizzare fattispecie inedite con attenzione alle esigenze organizzative e operative delle imprese culturali, evitando però di costringerle ad avvalersi necessariamente di tali nuove forme giuridiche. D’altro lato ancora, si può stilare uno statuto di diritto speciale, i.e. una disciplina esaustiva e autosufficiente a cui le imprese creative possano ed eventualmente debbano aderire.
È dunque ragionevole immaginare di prefigurare e applicare uno statuto giuridico destinato all’impresa culturale? Non si tratta di una domanda retorica e non è semplice rispondervi dal momento che per farlo occorre esaminare una pluralità di versanti problematici (Bosi, 2014). La domanda dev’essere scomposta in una serie di quesiti più puntuali tra loro interconnessi. Soprattutto, mi sembra necessario indicare quale disciplina normativa si adatti meglio all’impresa culturale, ammesso (e non concesso) che sia possibile individuarne una in particolare – date le tecniche regolative contemplate dall’ordinamento giuridico italiano – e con ciò chiarire se sia opportuno che il legislatore riservi alle attività culturali un insieme di regole autonomo rispetto alla disciplina codicistica del diritto dell’impresa, specialmente rispetto al diritto societario. Quale che sia la risposta a tale secondo quesito, occorre però conoscere, appunto, gli istituti che si prestano a servire le esigenze economiche di chi svolge un’attività basata in misura consistente sull’attivazione di processi creativi e sulla realizzazione di prodotti innovativi. L’ordinamento del diritto dell’impresa italiano annovera soluzioni regolative riconducibili a tutti e tre gli approcci citati, ma tali scelte sono state concretizzate in modi e misure differenti. Bisogna perciò prestare attenzione ai modelli di governo dell’impresa culturale che, conformemente alle teorie normative di reflexive governance, prevedono il ricorso a strumenti di autoregolazione da parte di autori e operatori in genere, in forme sia individuali che collettive (Bosi, 2009).
L’economista David Throsby, in “Economics and Culture” (Throsby, 2001), ha elaborato la classificazione tra imprese culturali forse più nota in assoluto, conosciuta come modello dei cerchi concentrici. Nei quattro anelli che costituiscono il modello sono collocate attività dal contenuto culturale meno spiccato, e perciò meno “pure”, mano a mano che si procede dal cerchio interno a quello esterno, laddove risiedono le attività più compenetrate da venature in senso lato commerciali.
Diversamente il britannico “Creative Industries Mapping Document” (Ministerial Industries Strategy Creative Group, 2001), ha valorizzato il benessere aggregato ricavabile dalle imprese culturali (riconducibili a ben tredici settori: architettura, arte e mercato dell’antiquariato, arti dello spettacolo, artigianato, design, editoria, film e video, moda, musica, prodotti e programmi informatici, pubblicità, software e prodotti di intrattenimento per computer, televisione e radio), come emergerebbe dalla misura delle entrate, del livello occupazionale e delle esportazioni del Regno Unito ascrivibili a tali attività. Approccio che fa capire che può rivelarsi utile riconoscere, in particolare, il vantaggio competitivo delle imprese innovative e il loro incentivo a una maggiore concorrenzialità dell’economia nazionale.
Anche studiosi italiani hanno offerto contributi nella medesima prospettiva metodologica. Per Santagata (2009) si potrebbe operare una distinzione a seconda che s’intenda la creatività funzionale allo sviluppo dell’innovazione, per un verso, e allo sviluppo culturale e sociale, per l’altro verso. Se questo è il discrimine, la classificazione delle imprese creative dovrebbe bipartire le imprese dello spettacolo, del settore audiovisivo, cinematografiche, musicali, editoriali, per un verso (ossia il verso connesso allo sviluppo dell’innovazione), e imprese ed enti di valorizzazione del patrimonio culturale in senso lato – in forma di musei, biblioteche, archivi, siti monumentali – oltre a imprese dello spettacolo, cinematografiche, editoriali, musicali, per altro verso (ossia il verso connesso allo sviluppo culturale e sociale).
Vi è poi chi, come Valentino (2013), ha contribuito a dare rilievo al grado maggiore o minore di autosufficienza economica delle imprese creative e al frequente loro bisogno di avvalersi di sovvenzioni pubbliche. La scelta di occuparsi specialmente di subsidized muses, in effetti, si può giustificare per via che tali attività posseggono caratteristiche omologhe e comuni. Non casualmente facciamo riferimento ad attività la cui nascita è storicamente risalente, la cui pratica si è però nello stesso tempo mantenuta costante e sostanzialmente immutata; si tratta inoltre di attività primigenie, dalle quali altre attività, pure culturali, si sono sviluppate per derivazione e dalle quali continuano a trarre input per la realizzazione di nuovi prodotti culturali; infine tali attività pongono problemi di disciplina giuridica di particolare complessità, per più motivi: sono attività tendenzialmente realizzate da imprese nonprofit, guidate spesso da gestioni non manageriali, e fisiologicamente cointeressate da collaborazioni di carattere consortile e/o reticolare.
Un ultimo criterio che merita di essere ricordato, è stato utilizzato da ESS-net Culture (European Statistical System Network on Culture, 2012), un working group che ha riconosciuto l’attività creativa come variabile indifferentemente strumentale alla realizzazione di opere culturali e artistiche, nonché di prodotti di settori quali il design, la moda e la pubblicità, indipendentemente dal fatto che si trattasse di iniziative di mercato o non di mercato, dalle valenze commerciali o non commerciali, e da chiunque intraprese (ossia da singoli individui o enti collettivi, da dilettanti o professionisti, da soggetti privati o pubblici). In quella sede si è cioè integrata ogni componente considerata in termini discretivi dalle classificazioni su citate: culturali e commerciali (Throsby), artigianali e industriali (MISCG, 2001), creative e innovative (Santagata, 2009), profit e nonprofit (Valentino, 2013). Quest’ultimo approccio metodologico, aperto e inclusivo, ha segnato il superamento del precedente, a sua volta di fonte istituzionale comunitaria, espresso nel rapporto della società KEA (2006) elaborato per conto della Commissione europea, che invece bipartiva settore culturale (arti visive, dello spettacolo, patrimonio culturale) e industrie culturali (cinematografia, televisione, musica, editoria), per un verso; e settore creativo-industriale (moda, design, architettura, pubblicità) e industrie connesse (computer, telefonia mobile, MP3, etc.), per altro verso. Con ciò assecondando una prospettiva che contemplava, sì, la componente creativa “non anche culturale”, ma distingueva ancora i due settori (e, forse, nobilitava pur sempre il primo rispetto al secondo).
Alla luce di quanto scritto in principio, nonché degli esiti classificatori richiamati da ultimo, ritengo che non abbia senso distinguere tra creazione “alta” e fattura “bassa”, tra iniziative culturali e pratiche innovative, tra lavorazione artigianale e produzione industriale. Avendo aggiunto qualche elemento idoneo a stimolare ulteriori riflessioni, e citato la non prescindibile opinione di alcuni studiosi, è necessario riprendere e rivisitare le parziali considerazioni espresse proprio all’inizio, introducendo i tratti della relazione tra attività creative e imprese culturali. Ricomincio, dunque, rendendo espresse alcune domande della ricerca.
Sostengo che la produzione artistica e la realizzazione dell’innovazione siano fenomeni creativi non dissimili. Questo però non significa che la loro regolazione debba seguire le stesse direttrici. Storicamente furono protette ugualmente per volontà politica e opportunistica: considerarle uguali significava poter lucrare sulle opere dell’ingegno, così come si faceva sulle invenzioni industriali. Ma questa impostazione è forse sorpassata e si possono individuare altri e differenti discrimini. D’altronde le opere d’arte sono infungibili e improduttive, e la produzione artistica è soggetta a vincoli di scarsità del tutto particolari. L’innovazione è solo in parte nella medesima condizione: l’estro è merce rara, e ugualmente costa; tuttavia i prodotti brevettati sono fungibili e produttivi. Ci si può dunque chiedere quali soluzioni si diano, in via alternativa, rispetto alla disciplina di proprietà intellettuale e industriale; penso ad esempio al ricorso a licenze obbligatorie, a sovvenzioni pubbliche, al riconoscimento di ricompense, a convenzioni informali, e in limine al totale liberismo. Ma oltre a essere ugualmente paternalistiche tra loro, non sono le uniche soluzioni immaginabili. Merita chiedersi, infatti, se il meccanismo degli incentivi sia tuttora accettabile, o incongruente in partenza. Più in generale andrebbe messo meglio a fuoco il ruolo del diritto nella regolazione della produzione culturale e della proprietà intellettuale, previamente interrogandosi, più di quanto non si sia fatto sino a oggi, se esso debba essere di mera incentivazione o di più consistente governo e controllo.
D’altronde occorre prestare attenzione ai tipi di sostegno che possono essere dati ai soggetti creativi per favorirne la produttività e l’autonomia, e alle correlate fasi di produzione culturale. Tra costoro si annoverano soggetti quali l’artista (il cosiddetto “personale creativo primario”), anzitutto. Ma anche i manager creativi, intermediari tra gli interessi della proprietà e della dirigenza, ai quali si aggiungono il “personale creativo secondario” (ossia gli assistenti del creatore primario e il personale tecnico), il personale del marketing, proprietari e dirigenti, nonché la forza lavoro di semiqualificata (Hesmoldhalgh, 2013). Occorre perciò indagare meglio la struttura (gerarchica/orizzontale) dell’industria culturale, mentre in parallelo è necessario tener conto delle specificità delle fasi della produzione culturale, caratterizzate com’è noto da gradi di autonomia differenti: si pensi soprattutto alle fasi di creazione (ideazione, esecuzione, registrazione), di riproduzione, nonché di circolazione (marketing, promozione, distribuzione e vendita all’ingrosso, vendita al dettaglio) delle opere dell’ingegno. Infine, sempre in parallelo, occorre formulare giuridicamente gli istituti e le fattispecie delle principali tipologie di organizzazioni creative esistenti, tra coordinamento e controllo, reti e burocrazie, meccanismi impliciti e taciti e meccanismi espliciti ed espressi; profilo al quale faccio riferimento nel seguito.
L’analisi deve poi tener conto delle differenze che corrono tra l’impresa culturale (cinema, tv) conformista, tale in quanto insegue i gusti del consumatore (si pensi al fenomeno del socialing culturale), rispetto ad arte e innovazione, di certo anticonformiste. La prima è produzione assimilabile alla produzione di beni di massa, la seconda di nicchia. Eppure anche la produzione di nicchia può autosostenersi senza sussidi pubblici (se ad esempio l’artista vende a caro prezzo, o se i costi della produzione sono tarati sul target dei fruitori della medesima). Si distingue ancora tra settori nei quali l’intermediazione è fondamentale (per l’arte si pensi ai mecenati e ai commercianti d’arte) e settori in cui mancano del tutto (qual è quello dell’innovazione, generalmente inteso). Qui la garanzia del sostegno è data dai brevetti, ossia dal diritto: sicché è possibile chiedersi se sia migliore un sistema intermediato (da mecenati sovventori, finanziatori a fondo perduto, o classi più o meno organizzate di fruitori e destinatari), rispetto a uno giuridicamente protettivo.
Infine il legislatore dovrebbe approfondire preliminarmente se i processi di produzione e di consumo culturale influenzano la qualità della cultura prodotta, rendendola più o meno conformista, domandandosi quali politiche regolative, applicate all’intermediazione e/o alla tutela dei diritti sulle idee, possano condizionare tali esiti relativi specificamente al contenuto dei prodotti culturali. È certo, infatti, che vi sono conseguenze altresì sugli assetti del potere culturale che risultano da tali differenti politiche regolative, sicché non si può prescindere dall’accertare se il diritto possa alcunché nel merito del dibattito sul populismo culturale acritico e il democratainment, se si ritenga che le tecnologia digitali, in misura particolare, posseggano capacità di democratizzazione. Ancora: mi pare indubbio che le politiche regolative possano e debbano mutare a seconda che si considerino le industrie culturali alla stregua, rispettivamente, di sistemi economici di produzione e produttori di contenuti culturali, sicché è inevitabile domandarsi se sia opportuno che tali politiche sostengano la crescita dimensionale (e di potere di mercato) delle imprese culturali. Si tratta di questioni che momentaneamente rimangono aperte, come tali trasmessi alla prosecuzione della ricerca sulle politiche di regolazione dell’impresa culturale italiana (Bosi, 2017).
Quando si pensa all’attività creativa del soggetto che ha e realizza una nuova idea, è probabile che si metta a fuoco un processo di pensieri e azioni che tale soggetto sviluppa in una condizione di solitudine e autonomia, almeno in principio. Una condizione di solitudine e autonomia che, in alcuni casi, può essere subita, ma che in altri può ben essere ricercata e gelosamente custodita. Siamo indotti a ritenere fisiologico, e quasi inevitabile, un atteggiamento di idiosincrasia creativa per più motivi, dei quali tre in particolare mi paiono meritevoli di considerazione:
Tuttavia trovo che sia necessario rivisitare, o forse addirittura abbandonare, assunti di questo genere, che sono comprensibilmente spontanei quanto parzialmente criticabili. Proverò dunque ad analizzarli, perché ho idea che, così facendo, si approcci efficacemente il tema relativo alla natura delle iniziative creative e innovative che prendono corpo in ambito imprenditoriale; iniziative tra le quali rientrano evidentemente quelle di carattere culturale.
Devo però premettere un paio di precisazioni. Trascuro, in primissima battuta, il fatto che l’autore di un’opera creativa articoli o meno la propria attività in forma imprenditoriale societaria, se la struttura societaria, come perlopiù avviene, costituisca il veicolo organizzativo di cui egli si serva per realizzare il bene ideato con capacità di mezzi (aziendali, personali, finanziari) superiore rispetto a quella di cui disporrebbe avvalendosi delle sole proprie forze fisiche. Interesserà se mai verificare se l’autore sia o meno alle dipendenze di un’impresa (in tal caso plausibilmente una società) che della sua prestazione si serve per progettare nuovi prodotti. Infatti terrò conto di questa evenienza, e allora risulterà più chiara la ragione stessa di questa precisazione iniziale.
La seconda precisazione è interconnessa alla prima e riguarda il perché, come sarà presto evidente, nel fare riferimento al soggetto “creatore” richiamerò più volte la fattispecie specifica dell’artigiano. Non vi è dubbio sul fatto che la produzione di innovazione, all’interno di un’impresa, possa darsi a prescindere dal fatto che il titolare dell’impresa sia un artigiano, ossia, ex art. 2083 c.c., un piccolo imprenditore. Ciononostante, una serie di questioni, che il ragionamento che sto seguendo impone di considerare preliminarmente, riguarda la circostanza nella quale l’autore sia al contempo l’inventore e il creatore materiale del bene in cui si sostanzia l’innovazione. Anche in questa seconda ipotesi, peraltro, in astratto non saremmo necessariamente al cospetto di un soggetto artigiano secondo i crismi civilistici. Tuttavia questa è un’ipotesi frequente, ed è senz’altro un frangente diffuso nel contesto economico italiano. D’altronde creatività e innovazione, come ho anticipato nell’introduzione, costituiscono fenomeni della medesima natura, così com’è corretto affermare che, evidentemente, la creatività è fonte di innovazione. Orbene, tanto l’una quanto l’altra, nella storia dell’imprenditoria italiana, affondano le proprie radici nella tradizione eminentemente artigianale del nostro Paese, sicché è pressoché inevitabile, ora, interloquire anche con la fattispecie dell’imprenditore artigiano, a costo di ammettere temporaneamente qualche sfasatura concettuale. I termini risulteranno più a fuoco, e saranno tecnicamente più corretti, via via che procederemo nell’analisi.
A ben vedere nulla quaestio sotto il primo profilo – di cui al punto (a) – dal momento che l’imputabilità esclusiva dell’idea originale non può essere messa in discussione, a meno che l’idea medesima non sia stata elaborata da un’intelligenza artificiale dei cui frutti cognitivi possano dirsi proprietari più soggetti. Per inciso, sia detto, che quest’ultimo costituisce uno scenario tutt’altro che futuristico (Gayford, 2016), mentre gli scettici sono convinti di non poter ravvisare, nelle espressioni di intelligenza artificiale, l’apporto di buon senso e creatività; ossia le doti che consentirebbero di risolvere problemi nuovi fornendo spiegazioni e/o indicazioni “assolute” e inedite quando non si possa ricorrere – unica strada disponibile un’intelligenza artificiale – al meccanismo di prova ed errore (Shanahan, 2015).
Sotto il secondo profilo invece – cioè riguardo al concetto di esclusività della paternità del nuovo prodotto, di cui al punto (b) – l’assunto di partenza si presta a qualche sfumatura che incrina la convinzione di ordine più generale secondo cui la creazione costituisce un’attività fisiologicamente solitaria. Le pratiche cosiddette di autoproduzione, ad esempio, che dagli economisti sono attestate come in via di crescente affermazione, dimostrano come il creatore di un oggetto sia spesso non solo il materiale realizzatore del bene, quanto anche chi progetta anzitutto quel bene, quindi chi lo costruisce (o fa costruire all’interno della propria impresa, che, come anticipato, per lo svolgimento di tale attività potrebbe assumere una forma societaria), chi associa l’uso del medesimo ad altre tipologie di beni, lo promuove e ne indirizza la distribuzione o direttamente lo vende. Si tratta di iniziative imprenditoriali che chiedono agli artigiani di svolgere il proprio lavoro non limitandosi a coltivare un’unica specializzazione produttiva, ma ad attivare e controllare una pluralità di pratiche. Viene dunque meno, o quantomeno si attenua, la citata condizione di idiosincrasia creativa, nella misura in cui è impossibile pensare che alla maggiore permeabilità del processo realizzativo, complessivamente inteso, a contributi esterni, non consegua anche una condivisione della titolarità dei risultati di tale collaborazione. Più che come anello di una catena – tipico dei formisti che lavorano intra moenia e che traghettano il prodotto dalla fase ideativa, di pertinenza altrui (in specie dei designer), alla sfera produttiva in serie e distributiva, di spettanza per così dire industriale – l’autore assomma in sé competenze molteplici e differenti, manuali e intellettuali, di intervento diretto sui materiali così come di organizzazione di lavoro anche altrui, sia pure subordinatamente alla propria attività di direzione e coordinamento.
Sotto il terzo profilo poi – cioè riguardo all’assunto riportato in (c), ossia che l’autore debba necessariamente ideare e produrre un oggetto in prima e unica persona (a prescindere dal fatto che si avvalga altresì di una struttura aziendale riconducibile a un’impresa costituita in forma societaria) – è ancora più evidente come non manchino tipologie di artigiani che, nella filiera cui appartengono, sottopongono i propri manufatti alle imprese industriali, affinché essi siano riprodotti in serie, sulla scorta di commesse che riconoscono loro gradi più o meno ampli, a seconda dei casi, di autonomia creativa. In questi casi l’artigiano si presenta ai nostri occhi né come mero anello interno di una catena, né come propulsore di nuovi oggetti in qualità di dominus di cui realizza serie limitate di beni che mantengono sostanzialmente la natura di pezzi unici (vedi sopra), sia pure destinati al mercato. Qui, invece, l’artigiano è al servizio dell’industria, ma non è necessariamente impiegato come designer o formista, né è un autoproduttore nel senso di cui s’è detto. Tuttavia non vi è dubbio che in questo caso non ricorre l’elemento della contestuale titolarità degli apporti sia di ideazione che di costruzione dei prodotti, ed è altrettanto certo che manca la condizione di realizzazione di pezzi necessariamente unici.
Si pensi alla figura dell’artigiano “adattatore”, descritta da Stefano Micelli (2011). E’ colui che interviene in una fase successiva a quella di realizzazione del prodotto finito, e che attiene ad attività disparate quali la migliore definizione dell’estetica del prodotto, al fine di renderlo più appetibile per date classi di consumatori idealmente destinatarie del medesimo; lo sforzo di rendere compatibile il prodotto con altri destinati a un uso congiunto o consecutivo rispetto a quello di riferimento; o ancora le attività di manutenzione e riparazione dei prodotti nel corso del tempo. Il primo frangente è anche il più frequente, e può essere descritto così: un’impresa industriale, che impiega al proprio interno designer e/o stilisti, incarica costoro di realizzare un bozzetto del prodotto, del quale siano delineati forma e dimensioni di massima, i materiali con cui costruirlo, una gamma di colori con cui decorarlo. Ma la definizione del prodotto è lasciata all’artigiano, che si avvale del proprio talento, della conoscenza e dell’esperienza acquisite nella propria vita professionale per dare un’identità precisa al prototipo incompleto che gli sia sottoposto, in altri termini apportando il contributo creativo che conferisce originalità al prodotto. In tal modo, questo non costituisce un bene unico, in quanto destinato comunque a produzione in serie, e tuttavia incorpora un valore aggiunto inestimabile. Inestimabile davvero? Quali diritti, al di là del compenso per la prestazione eseguita secondo contratto, potrà vantare l’artigiano sulla scorta dell’attuale disciplina italiana delle opere dell’ingegno? Si tratta di un assetto regolativo equo ed efficiente, o sono pensabili correttivi in grado di premiare e incentivare ulteriormente lo sforzo dell’artigiano, e con questo favorire la sopravvivenza di competenze, queste sì, inestimabili? Sono queste domande tuttora inevase. Certo è che abbiamo a che vedere con pratiche che non consentono all’artigiano di smarcarsi dalle direttive, o quantomeno dai protocolli produttivi e/o distributivi, di chi immette sul mercato il bene primario, bensì di conformarsi ad essi e frequentemente di sottomettersi ad accordi negoziali intesi a salvaguardare i diritti di titolarità organizzativa, ed entro certi limiti di riservatezza commerciale, dell’imprenditore principale. Anche da questo punto di vista, pertanto, constatiamo quanto venga contaminata la purezza originaria della solitudine artigianale.
Alla figura tradizionale dell’artigiano possiamo affiancare identità di più recente affermazione che incidono sulla fisionomia economica di tale soggetto, senza peraltro discostarsi o comunque esorbitare rispetto alla fattispecie giuridica contemplata dal nostro ordinamento. È infatti importante ribadire, ricollegandoci alla premessa iniziale, che ci riferiamo a fenomeni di compartecipazione al processo creativo differenti rispetto alla possibilità, riconosciuta dalla legislazione commercialista, che l’artigiano articoli e gestisca la propria attività in forma anche societaria, ossia come imprenditoriale pluripersonale. Assetto contemplato già dalla metà del secolo scorso, allorché si riconobbe la necessità di dare tutela a modalità organizzative più strutturate e consistenti sotto il profilo dimensionale, occupazionale e finanziario rispetto a quelle ricavabili dalla fattispecie civilistica. Ricordiamo infatti che la legge n. 860/1956 attestò che fosse artigiana l’impresa che avesse per scopo la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica o usuale, che fosse organizzata od operasse con il lavoro professionale anche manuale del titolare ed eventualmente con quello dei suoi familiari, impresa nella quale il titolare avesse la piena responsabilità dell’azienda e assumesse tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e gestione. Ai sensi dell’art. 3 di quella legge era considerata artigiana l’impresa costituita in forma di cooperativa o di società, escluse le società per azioni, a responsabilità limitata e in accomandita semplice e per azioni, purché la maggioranza dei soci partecipasse personalmente al lavoro, e purché nell’impresa il lavoro avesse funzione preminente sul capitale. La legge quadro sull’artigianato, n. 443/1985 (modificata nel 1977 proprio sotto il profilo della società artigiana), ammetteva la natura artigiana delle imprese costituite in forma di società cooperativa o in nome collettivo, a condizione che la maggioranza dei soci, o uno nel caso di due soci, svolgesse in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo, e che nell’impresa il lavoro avesse funzione preminente sul capitale; con la legge n. 133/1997 si consentì poi l’esercizio dell’impresa artigiana anche in forma di società unipersonale a responsabilità limitata e di società in accomandita semplice, purché l’unico quotista o tutti gli accomandatari fossero in possesso dei requisiti previsti per l’imprenditore artigiano e non rivestissero al contempo la qualifica di socio unico di altra s.r.l. o di socio di altra accomandita semplice. La prospettiva regolativa adottata dalla legge quadro sull’artigianato è nota: essa prese atto della crescita del settore artigiano nel senso detto, per un verso, e dispose incentivi finanziari e fiscali al fine di sostenerne l’attività, per altro verso. D’altro canto non sono venute meno le difficoltà a valorizzarne la specificità sotto il profilo eminentemente economico, in ragione del fatto che, come sottolinea ancora Micelli, la competenza artigianale è, anzitutto, solo parzialmente codificabile, dato il complesso di manualità e tecnicismo da cui per sua natura è permeata; è inoltre una competenza di non scontata riproducibilità, in quanto è di per se stessa soggettiva e declinabile solo individualmente; in terzo luogo, quand’anche le pratiche in esame siano messe per iscritto, diffuse e condivise, e l’esecutore sia personalmente dotato di talento, si tratta comunque di una competenza che si acquisisce non solo e non tanto accademicamente, quanto per trasmissione da parte di maestri artigiani, grazie a processi di coltivazione e apprendimento dell’arte non meno essenziali della conoscenza astratta dei principi operativi e della capacità tecnica in senso stretto. Tali fattori hanno prodotto a loro volta una condizione di ritardo giuridico, alla quale vanno aggiunte alcune pregresse distonie, nella disciplina della proprietà intellettuale, che tuttora penalizza i medesimi soggetti (questione che affronto oltre).
D’altronde, come anticipato, è l’imprenditore in quanto tale, grande o piccolo, a realizzare in prima persona e/o creare le condizioni per la produzione di opere dell’ingegno e di innovazione in genere. Questo fenomeno di diffusione della creatività può riscontrarsi in almeno due ambiti di sviluppo dell’attività imprenditoriale, nonché contemporaneamente nell’uno e nell’altro.
(a) In primo luogo all’interno dell’impresa, che adesso e d’ora innanzi considereremo come organizzata in forma societaria indipendentemente dal fatto che sia grande o piccola; ossia in una dimensione che possiamo dire endosocietaria. Ben inteso: che l’apporto creativo abbia o meno carattere artigianale, e che eventualmente l’artigiano operi come imprenditore individuale, rappresenta un discrimine non trascurabile, sicché nel prosieguo occorrerà tenere conto separato di tali differenti frangenti. Ma sin da ora va precisato che, affinché assuma un rilievo significativo per la nostra analisi, per ragioni che vedremo si tratterà preferibilmente dell’apporto creativo che sia profuso per produrre in quantità non irrisorie beni destinati al mercato, perché s’intende farli conoscere, valorizzarli e scambiarli, prospettiva che giustifica la costituzione di una società, più che se essi siano realizzati dall’imprenditore, come pure accade, su scala ridotta e sostanzialmente irrilevante sotto il profilo economico.
(b) In secondo luogo si dà diffusione della creatività sulla scorta delle relazioni interimprenditoriali intrattenute, ad esempio, nell’ambito di una filiera produttiva, o di un distretto industriale o culturale, o più in generale di una rete commerciale, indifferentemente verticale od orizzontale, più o meno ampia, sia essa strutturata e manifesta, o flessibile e non riconoscibile dall’esterno; ossia in una dimensione che possiamo dire esosocietaria. Entro questo secondo contesto la produzione e la diffusione di creatività e innovazione può avvenire in due modi: per così dire consapevolmente e intenzionalmente, o in termini meno programmati e controllati da parte dell’imprenditore. Occorrerà quindi, come faremo nel prossimo paragrafo, prendere in esame queste modalità di trasmissione e condivisione della conoscenza, sia tacita che esplicita, e con riguardo a ognuna verificare se si dia luogo o meno a forme di contitolarità dei diritti sui beni realizzati, al fine di dimostrare come il diritto commerciale possa servire (al) meglio, nei due casi, le necessità e le aspettative imprenditoriali degli operatori culturali (profilo che indagheremo nel paragrafo successivo).
Dopo avere sovrapposto temporaneamente i concetti di autorialità manuale e intellettuale, procediamo distinguendo i settori nei quali la creatività imprenditoriale trova il proprio sbocco e proviamo a individuare meglio le forme e le modalità in cui essa si realizza e si diffonde. Sulla base di quanto s’è detto sin qui riconosciamo tappe progressive di evoluzione dell’attitudine creativa, specialmente artigianale, che si sviluppano dal piano individuale al piano interimprenditoriale.
Sul piano individuale ha luogo un fenomeno di rivisitazione della tradizione da parte del soggetto creatore (artista, artigiano o produttore che sia). L’apporto creativo nasce sempre da conoscenze pregresse, sulla base di meccanismi propulsivi quali l’insoddisfazione e la curiosità verso il nuovo; il cervello umano è propenso a calcolare sistematicamente quali attività consentano di acquisire il massimo della conoscenza nel minor tempo possibile, bilanciando apporti e sforzi; ed è altrettanto certo che l’insoddisfazione ingenera curiosità. Inoltre, specie negli ambiti di sviluppo dell’innovazione, l’intraprendenza – nel senso di acquisire nuove conoscenze al fine di colmare lacune – si manifesta in particolare laddove siano già in possesso dell’ideatore informazioni e abilità pregresse. La propensione ad acquisire ciò che non è ancora alla nostra portata intellettiva – utilitaristica o meno che sia tale propensione, cioè a prescindere dal fatto che si tratti di una pulsione artistica o di un calcolo strumentale – richiede necessariamente di poggiare su una base cognitiva che, consciamente o meno, ci interessi replicare, incrementare, riparare o ricostruire. Il lavoro dell’artigiano è sotteso esattamente da queste dinamiche, entro le quali giocano un ruolo decisivo gli strumenti di cui l’artigiano si avvalga quotidianamente.
Richard Sennett ha definito eventi del genere come salti intuitivi (Sennett, 2008). L’intuizione che conduce alla creazione di un prodotto nuovo scaturisce frequentemente dall’insoddisfazione relativa al modo d’uso di un dato strumento di lavoro: o perché esso presenta limiti tecnici che occorre superare, o perché i risultati ottenuti servendosi dell’attrezzo non sono quelli attesi. L’inadeguatezza strumentale, a fronte di un assetto cognitivo consolidato ma parziale, fungerebbe da detonatore dell’esplosione inventiva che, nella mente dell’artigiano, conduce a immaginare, a partire da ciò che già si conosce e si ha, qualcosa di nuovo. Letteralmente “ritrovato”, il prodotto di nuovo conio costituisce il frutto di un’attività di riparazione dinamica – l’espressione è ancora di Sennett – che rivisita i beni a disposizione previamente prodotti sulla scorta di un’attitudine tradizionale, pregevole ma statica e giunta al limite delle proprie potenzialità creative.
(a.1) La prima fase di tale attività – e a ben vedere la riparazione rappresenta al contempo mezzo e fine dello sforzo creativo – è detta di riformattazione, e si risolve nella consapevolezza della possibilità di migliorare il funzionamento di un attrezzo, o di una tecnica lavorativa, per ottenere risultati produttivi inediti e più soddisfacenti rispetto allo stato dell’arte.
(a.2) La seconda fase dell’attività di riparazione dinamica consiste nell’affiancare e raffrontare idealmente due condizioni, così da favorire la rappresentazione, nella mente dell’artigiano, dello scarto esistente tra ciò che c’è e ciò che manca. Anche in questo caso procediamo immaginando che l’ideatore sia un artigiano, ma è evidente che si tratta di un processo comune a ogni evento creativo, inteso a sfociare sia nella realizzazione di un’opera d’arte, sia nella costruzione di un bene strumentale. In altri termini abbiamo a che fare con il passaggio da una mera rielaborazione delle conoscenze tradizionali a una produzione culturale in senso proprio, dal momento che in questa fase il parterre di conoscenze acquisite viene vivificato dall’estro individuale per tramite della competenza e dell’esperienza del soggetto creatore.
(a.3) Nella terza fase, che rappresenta l’esito immediato della fase precedente, si realizza la presa di coscienza delle potenzialità sottese all’attività riparatrice; in questo senso si è infatti parlato di riparazione dinamica. Per descrivere questo momento potremmo sbrigativamente utilizzare l’icastico termine “illuminazione”, o ancor meglio evocare il concetto, forse più corretto, di intuizione (dalla letteratura gestaltista riportato come “Einsicht”, in inglese “insight”; i.e., letteralmente: “guardare dentro”), purché sia chiaro che l’effetto sorprendente consiste nell’eterogenesi dei fini che in questo frangente può darsi. La polivalenza dei mezzi a disposizione, a partire da una condizione di insoddisfazione, favorirebbe il manifestarsi di una curiosità che muove non linearmente ma liberamente, e che perciò non si limita a risolvere problemi uno via l’altro, per così dire meccanicamente, ma spicca, appunto, salti intuitivi. Qui occorre intendersi, perché il punto è dirimente: è proprio sotto questo profilo, infatti, che si dice possibile individuare ancora lo scarto tra l’approccio cognitivo dell’intelligenza rispettivamente umana e artificiale. Laddove questa seconda procede per tentativi, per quanto rapidamente e al netto degli sbagli dovuti alla distrazione, all’imprudenza o all’imperizia (ossia quelli che non casualmente si definiscono “errori umani”), l’intelligenza umana ha modo di intravvedere soluzioni creative, artistiche o scientifiche che siano, anche senza dover seguire passo per passo il percorso graduale di apprendimento per prove ed errori, tipico dell’avanzamento cognitivo per come tradizionalmente è stato formalizzato dalla scuola psicologica comportamentista. Come ebbe a dire Pablo Picasso: “io non cerco, io trovo”. Peraltro il superamento dello stallo, lo sprigionarsi dell’intuizione e l’aprirsi di un ventaglio di soluzioni non preordinate non è mai indolore; per citare un altro sommo innovatore, Albert Einstein, “la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere ‘superato’”.
(a.4) La quarta fase è data dall’accettazione dei limiti che tuttavia occorre rispettare e che risultano momentaneamente insuperabili. Infatti il prodotto dell’attività creativa deve comunque soddisfare il gusto personale dell’autore, oltre a corrispondere a commesse, sottostare a vincoli di bilancio e, inevitabilmente, a fronteggiare difficoltà di realizzazione, utilizzazione o destinazione nuove tanto quanto lo è esso stesso. Detto altrimenti abbiamo a che fare con un processo non deduttivo ma induttivo che, lungi dal raggiungere gli esiti rasserenanti e definitivi propri di ogni percorso sillogistico, pone il creatore in una condizione inedita ma imperfetta, comunque migliorabile e foriera di applicazioni ulteriori. La presa di coscienza della perdurante esistenza di problemi comunque invalicabili – nemmeno saltando – discende spesso quale conseguenza della comunicazione e del confronto con collaboratori e competitori, fuori e dentro l’impresa; frangenti ai quali faccio riferimento qui di seguito.
L’attitudine creativa non si rileva solo a livello individuale, ma è destinata a diffondersi nell’ambito dell’impresa dell’innovatore: ci riferiamo ora al piano endosocietario. Affinché si dia diffusione e condivisione della creatività su questo piano, occorre anzitutto, evidentemente, che il lavoro dell’artista, dell’artigiano o del produttore che realizza innovazione sia resa oggetto di un’attività d’impresa per come questa è riconosciuta dal codice civile italiano, ossia bisogna che, ex art. 2082, l’imprenditore eserciti professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (e, se piccolo imprenditore, ex art. 2083 eserciti un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia). L’inventore imprenditore è figura che storicamente – si pensi solo a Guglielmo Marconi, Thomas Edison, Carl Zeiss, Werner von Siemens, Henry Ford, Camillo Olivetti, Steve Jobs, per fare qualche esempio – si è distinta per la poliedricità delle competenze (ideative, realizzative, organizzative della produzione seriale, promozionali) del titolare. Soggetto che, nella maggior parte dei casi, ha teso a prediligere le ricadute pratiche della propria ricerca rispetto alla speculazione teorica ad essa sottesa, quando necessario ha temporaneamente protetto la segretezza delle proprie invenzioni a discapito della piena conoscibilità accademica dei nuovi apporti cognitivi e, sempre, ha promosso l’industrializzazione e lo sfruttamento commerciale dei propri ritrovati.
La creatività nasce individuale, ma non si sviluppa se non grazie alla condivisione plurilaterale, come anticipato nell’introduzione. Lì evocavo il concetto di omologia delle dinamiche artistiche e scientifiche quanto al modo in cui si materializza la creatività, e rilevavo come l’impresa in cui si sviluppa l’innovazione costituisca un’entità interconnessa nei due sensi con l’ambiente esterno, sì che la comunità entro la quale si esprime la creatività costituisce un sistema fluido, privo di confini: per questo le imprese culturali possono essere intese come sistemi di conoscenze collettivi, permeabili verso l’esterno, la cui organizzazione deve consentire di preservare tali caratteristiche.
Ora ci misuriamo esattamente con l’elemento della pluripersonalità del processo creativo, con il ruolo che può assumere la collaborazione interimprenditoriale nello svolgimento di un’attività culturale e con il modo in cui si declina il dilemma make or buy a seconda del contesto di riferimento. Se caliamo queste conclusioni parziali in ambito imprenditoriale, infatti, siamo in grado di individuare una pluralità di soluzioni organizzative a disposizione degli autori di opere dell’ingegno. A costo di richiamare quanto già scritto, merita fare presente che lo svolgimento di un’attività imprenditoriale a elevata componente di creatività può ben essere propria di un unico soggetto, che operi quale imprenditore individuale. Ma per le ragioni già considerate sappiamo che solo dalla condivisione della conoscenza si produce un avanzamento della medesima, quand’anche si abbia a che fare con attività apparentemente idiosincratiche. Consideriamo dunque alcuni tra gli assetti che di fatto si producono, e che il diritto può rendere oggetto di regolazione specifica.
L’imprenditore individuale può stabilire interconnessioni utilizzando lo strumento contrattuale, ossia sostanzialmente effettuando scambi di beni materiali e immateriali con altri soggetti (imprenditori e non). Inoltre, ugualmente utilizzando lo strumento contrattuale, l’imprenditore individuale può associarsi a un consorzio, e condividere così con altri imprenditori una fase della propria attività, o può più modestamente avvalersi di un’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis del codice civile. Si tratta di soluzioni ampiamente praticate ma limitanti, alcune delle quali sono discusse nel punto (c) (a cui rimando). Diverso è se l’imprenditore organizzi in senso pluripersonale la propria attività utilizzando uno strumento proprietario, ossia costituendo una società: in tal caso il ventaglio delle possibilità di interscambio cognitivo si amplia, oltre a essere più consistente la dotazione strumentale – personale, aziendale, patrimoniale – di cui l’imprenditore può avvalersi per sviluppare attività creative. Soprattutto, però, aumentano i canali di diffusione della conoscenza di nuova acquisizione, sia pure entro un’area circoscritta (la società e le proprie constituencies). Ma a cosa facciamo riferimento, per essere più precisi, quando parliamo di conoscenza endosocietaria?
Va anzitutto premesso che quando la letteratura economica teorizza nel merito dell’impresa knowledge-based non fa riferimento espresso e necessario alle imprese culturali. È dato per scontato, infatti, che qualsivoglia società, indipendentemente dal settore economico entro il quale essa collochi il proprio oggetto, si avvalga di apporti di conoscenza, oltre che di dati e informazioni di varia natura, per ideare, realizzare e distribuire i beni di propria produzione. Non a caso le teorie economiche delle imprese, che prestano un’attenzione particolare agli enti pluripersonali costituiti in forma societaria, rappresentano paradigmi intesi a enfatizzare la pluralità astratta dei meccanismi di funzionamento aziendale, nonché la maggiore visibilità di date dinamiche organizzative rispetto ad altre a seconda della prospettiva dalla quale si osservi la società, a prescindere dall’oggetto delle medesime. Tuttavia è evidente che laddove l’impresa ricorra alla conoscenza quale materia prima della propria attività, e faccia della conoscenza l’essenza stessa della propria produzione – come tipicamente accade alle imprese culturali – è lecito immaginare che gli esiti di un’analisi economica knowledge-based risultino peculiari, ed è per questo che trovo opportuno precisare, appunto, cosa intendo quando evoco il concetto di conoscenza endosocietaria.
Secondo classificazioni invalse nell’uso (Alavi, Leidner, 2001) la conoscenza in senso lato può attenere, a seconda dei casi:
Si è poi soliti distinguere tra conoscenza tacita, cioè puramente mentale (qual è una rappresentazione cerebrale, una convinzione, un’idea), od esplicita, cioè codificata (come una qualsivoglia espressione linguistica o simbolica); e tra conoscenza individuale (i.e. monosoggettiva ed egoistica) o sociale (i.e. plurisoggettiva e condivisa). Infine ogni apporto di conoscenza può identificare le caratteristiche di base, le modalità d’uso, la ragion d’essere, il tempo di servizio e le possibili relazioni funzionali di, rispettivamente, un oggetto, un processo o un’abilità.
Ma qui interessano soprattutto i processi di gestione delle serie di conoscenze così classificate (vi si riferisce come ai knowledge-management systems): la conoscenza può essere stimolata e creata, archiviata, trasferita e applicata. Per un’impresa produttrice non meglio definita, la cui attività non dipenda crucialmente dall’apporto creativo del proprio titolare, sono rilevanti soprattutto i processi di archiviazione e di applicazione della conoscenza, dal momento che ivi si richiede di immagazzinare e di custodire informazioni essenziali per l’organizzazione e lo sviluppo dell’impresa, e di convogliare dette informazioni in una produzione commerciale di beni o di servizi che integri i requisiti civilistici di economicità e di professionalità. Diversamente per un’impresa culturale, creativa per definizione e bisognosa per natura di interrelazioni cognitive, hanno rilievo soprattutto i processi di stimolo, da un lato, e di trasferimento – così come di comunicazione e/o condivisione - della conoscenza d’altro lato. Sono dunque questi secondi i piani ai quali il legislatore dovrebbe prestare attenzione particolare nell’apportare opzioni regolative intese a servire le esigenze delle imprese creative e culturali.
La creatività diffusa sul piano interimprenditoriale, o esosocietario, è un buon esempio di intelligenza distribuita (detta anche intelligenza di sciame - swarm intelligence), concetto tramite il quale s’intende la proprietà di un sistema in cui il comportamento collettivo di agenti non sofisticati, che interagiscono localmente con la propria comunità di riferimento, produce pattern funzionali alla diffusione di innovazione nel sistema globalmente inteso (Temporelli, 2015). Secondo alcuni autori tale forma di intelligenza rileverebbe meno per favorire la produzione di natura artistica e, più in generale, le espressioni di creatività individuale, mentre aiuterebbe la connettività di soggetti, parti di una medesima rete, che necessitino di strutture di auto-organizzazione agili e non costose, preferibilmente di carattere virtuale, al fine di scambiare informazioni e coordinare la progettazione e lo svolgimento di lavori comuni prescindendo dal ricorso a strutture gerarchiche e burocratiche. È un opinione ragionevole ma, per come pare, smentita da pratiche creative condivise sperimentate da tempo. Nei distretti culturali italiani, ad esempio, quella che viene anche definita “mente alveare” sprigiona i propri effetti di social networking consentendo ai diversi nodi della rete di intrattenere e consolidare commercialmente relazioni interimprenditoriali tanto al fine di fidelizzare la clientela dei prodotti d’arte con beni realizzati su misura, quanto e soprattutto per avvalersi di feedback di conoscenza da parte dei soggetti, interni ed esterni alla rete, coi quali si condividano, a vario titolo, i frutti dell’attività creativa.
A queste componenti, che avremo occasione per indagare più approfonditamente, va aggiunto un corollario. Mi riferisco al ruolo giocato dall’appagamento personale, quale carattere tipico dell’attività produttiva specialmente artigianale. Il lavoro manuale, fatto prendendosi il tempo che serve (di rado compatibile con gli automatismi disinteressati e sbrigativi propri della produzione seriale), teso verso il raggiungimento di un’ideale estetico soggettivo e cangiante anziché standardizzato, insensibile alle sirene di un’arte necessariamente “alta”, permeabile alle suggestioni creative offerte dalla quotidianità ben più che da quelle dei trend globali, nonostante la fatica fisica richiesta e l’apprensione indotta dalla precarietà economica di molte delle figure professionali di cui si tratta, darebbe, soprattutto, una soddisfazione per quanto realizzato, o in corso d’opera, che si è forse smarrita in altri frangenti produttivi. Non solo: il lavoro manuale di carattere artigianale (uso questo aggettivo in senso generico, ora) risulterebbe, secondo le testimonianze dei creatori in primis, meno provinciale e meno arroccato a difesa dei dettami della moda, aperto alla condivisione sociale degli stimoli reciproci, incline alla contaminazione dei gusti e dei gesti, disposto ad accettare sfide competitive di carattere anche personale, oltre che commerciale. La ragione per cui tutto ciò avverrebbe pare da ricercare nella sensazione di piacere che dà, a chi produce opere dell’ingegno, profondere il proprio impegno e la propria competenza avvalendosi anzitutto di intelligenza emotiva, più o meno consciamente coltivando la curiosità come chiave per la soluzione dei problemi tecnici che si ripropongono senza soluzione di continuità, provando empatia verso chi naviga nelle stesse acque al fine, egoistico e altruistico al contempo, di condividere e alleviare l’ansietà data dagli insuccessi parziali, sottoponendo gli esiti anche solo provvisori dei propri sforzi al più affidabile giudizio dei pari, o dei superiori maestri d’arte, prima ancora che ai fruitori – letteralmente, consumatori – dei beni finali, stimolando la provocazione intellettuale in senso funzionale a innescare il meccanismo “prova ed errore”, nella speranza di riuscire a compiere un salto intuitivo. Tanto che della stessa creatività si è offerta una definizione – ben inteso non tecnico-giuridica, e tuttavia meritevole di considerazione – quale “processo che mette in relazione almeno una mente umana attiva con il mondo materiale o digitale, nell’attività di fare qualcosa che è nuovo in quel contesto, (…) che evoca una sensazione di gioia” (Gauntlett, 2011). In fondo si tratta del medesimo concetto, sia pure espresso con una punta di romanticismo in meno, da Michele Salvati (1992) secondo il quale, se è indubbio che occorra misurarsi con il mercato per favorire la migliore distribuzione di beni e servizi a vantaggio dei consumatori, tuttavia la qualità dei ritrovati da commercializzare dipende crucialmente, a monte, dall’esistenza di “un’incessante tensione innovativa nei partecipanti alla gara concorrenziale”.
Specialmente nei contesti ad alto tasso di innovazione, integrati e interconnessi, la competizione indurrebbe una sorta di perdurante “sfida collaborativa” tra soggetti creatori e, più in generale, tra operatori contigui (artigiani, ingegneri, ricercatori, designer, esperti di comunicazione, e così via) nell’ambito della medesima comunità imprenditoriale (distretto, filiera o rete che sia). Si tratta di un gioco complesso, come dovrebbe essere emerso (Legrenzi, 2005): non di coppia ma di gruppo, e tale per cui ciascun concorrente non è chiamato solo a prevedere strategicamente le mosse avversarie. Egli deve altresì, sulla base della conoscenza che ha dei propri competitori – che per conoscere deve però aver già frequentato, tipicamente contrattando, sulla base di una negoziazione continuativa, onesta e reciprocamente soddisfacente – prevedere quanti concorrenti sappiano comprendere che si tratta di una partita competitiva che coinvolge più giocatori e perciò basare le proprie mosse sulla previsioni di quelle attese dagli altri (cosiddetto “gioco a specchio”); tenere in considerazione le opzioni a disposizione di chi tra costoro non intuisca la natura a specchio del gioco; cercare di prevedere come chi abbia raggiunto l’insight, nel senso detto, sarà propenso a calcolare le scelte di chi non abbia raggiunto tale condizione di illuminazione; e così via.
È impresa vana, come ho anticipato, provare a individuare una nozione di attività creativa come se fosse una peculiare ed esclusiva attività d’impresa: la categoria è idealmente onnicomprensiva, dal momento che non si dà attività d’impresa senza apporti innovativi. Altro è, invece, se si considera importante enucleare tale nozione per perimetrare un settore di intervento giuridico ed economico e giustificare la corresponsione da parte del settore pubblico di agevolazioni di varia natura a favore delle imprese che realizzano opere dell’ingegno.
La definizione della fisionomia della fattispecie ha conseguenze pratiche di tutto rilievo ed è perciò che della sua maggiore o minore portata, sotto profili quantitativi e qualitativi, si continua a discutere. Un conto è se nel novero rientrino solo le già citate subsidized muses, altro è se vi si collochino anche le attività for profit che si ritenga debbano autosostenersi; un conto è se si ammettano le produzioni artigianali e non si vada oltre, altro è se si annoveri altresì, ad esempio, la produzione di servizi connessi al turismo e al tempo libero. Come dirimere la perdurante controversia sul punto? Forse il modo corretto è ammettere che, per una volta almeno, le considerazioni di ordine scientifico e politico possono collidere, o quantomeno non combaciare esattamente, e vanno tenute separate. In astratto infatti nulla impedisce di enucleare un bacino d’intervento agevolativo, sulla scorta di valutazioni di politica economica, all’interno di una fattispecie giuridica anche più estesa, o differenziata al proprio interno. D’altra parte la letteratura specialmente economica ha avuto il merito di ampliare lo spettro nei termini della sua dimensione astrattamente individuabile, ma ha giovato meno nell’indirizzare l’individuazione di una tassonomia essendosi fatta carico vieppiù, e forse oltre la giusta misura, di sforzi di compromesso di natura precipuamente regolativa. Se si condivida questa posizione si può allora sentirsi liberi di procedere a una fattispecie delle attività creative sulla base di criteri al ricorso dei quali non faccia eccessivamente velo il timore delle ricadute economiche della più o meno ampia classificazione a cui si pervenga.
È poi utile esplicitare un’ulteriore precisazione metodologica, il cui risvolto pratico dovrebbe essere già emerso. L’accostamento espresso della valenza creativa all’espressione “impresa culturale” non presuppone né implica la maggior portata della medesima dal punto di vista delle citate ripercussioni empiriche. Al fine di ampliare al massimo grado il ventaglio di ciò che si tenga a considerare impresa culturale il metodo più semplice sarebbe – ed effettivamente è stato – di non integrare l’espressione originaria, e ricondurvi un numero elevato di attività innovative. Viceversa, affiancare a tale dicitura l’aggettivo “creativa” manifesta l’intendimento di (in realtà) distinguere le attività rispettivamente culturali e creative, sotto il profilo anzitutto nominalistico ma, ancor più, sotto quello regolativo.
Non bisogna però pensare che i cambiamenti introdotti nel corso del tempo al novero delle attività culturali siano stati determinati univocamente da valutazioni del genere. Il mutamento più rilevante è pur sempre ricondotto al passaggio da una condizione di attenzione esclusiva per arti e mestieri nonprofit, all’inclusione nella tassonomia in esame dei beni prodotti da organizzazioni for profit, oltre che dei servizi strumentali alle attività culturali. Dal complesso di questi elementi e della loro organicità, da valutarsi come unicum concettuale nel segno della multicriterialità necessaria per poter riconoscere l’esistenza di un’impresa culturale, oltre che per mettere a fuoco le sue esigenze organizzative e strumentali, credo sia indispensabile partire per rinnovare il dibattito giuridico sul settore creativo del nostro Paese.
Viene spontaneo chiedersi se i passaggi di stato ai quali si è assistito nel merito di ciò che può dirsi attività creativa, e perciò stesso impresa culturale, si siano limitati a inseguire un cambiamento spontaneamente in atto, o se lo abbiano in qualche modo e misura indotto e/o preconizzato. Se ci si concentra sui contenuti si può avere l’impressione che l’approccio sia stato poco intraprendente, per quanto concettualmente raffinato. A ben vedere però è importante soprattutto la presa d’atto del mutamento qualitativo delle forme di offerta di beni e attività culturali, secondo una prospettiva che si concentra sul valore anzitutto simbolico di tale produzione. In altri termini oggi può dirsi pacifico che tale offerta avvenga da parte di soggetti differenti – individuali e collettivi, profit e nonprofit, istituzionalmente strutturati o meno, e così via – sicché le classificazioni più recenti risultano impostate in termini meno individualmente identitari e più marcatamente oggettivi. Affrancatosi dal retaggio di una classificazione soggettiva-solipsistica il regolatore appare perciò in grado, almeno in teoria, non solo di seguire l’evoluzione della pratica economica di carattere culturale, ma anche di precostituirla e indirizzarla.
La valenza organizzativa nonprofit di una filiera cognitiva appare però adeguata a sopperire ad alcuni almeno dei problemi di tutela ricorrenti nei frangenti in esame. Mi limito, in conclusione, a fornire qualche input in vista dei futuri sviluppi della ricerca giuridica dedicata alle attività delle imprese creative. A tale proposito è usuale enfatizzare, ad esempio, il limite di non distribuzione delle risorse culturali (Trimarchi, 2012), in specie allorché si tratti di beni artigianali la cui proprietà intellettuale risulti di per sé tutelata solo parzialmente o non efficacemente. Data l’insuperabilità della barriera informativa che consente ai fruitori dei beni culturali di compiere scelte di consumo adeguate alle proprie aspettative, un organismo preposto al coordinamento di attività di filiera anche non lucrative consente di sopperire ai difetti connessi alla trasmissione della reputazione di una produzione interimprenditoriale di carattere creativo. Non dissimilmente, e con riguardo poi alle produzioni artigianali in particolare, è di rilievo il ruolo del nonprofit al fine di corrispondere a una domanda di beni creativi che, in ragione della natura anche pubblica che li connota (sulla scorta delle esternalità positive alle quali la loro realizzazione può dare luogo), il pubblico dei potenziali interessati ritenga non adeguatamente soddisfatta dall’offerta di mercato (Throsby, 2005). Non dimentichiamo infatti che con l’emersione dei fenomeni di socialing culturale si è affermato un carattere di reciprocità nella realizzazione di opere dell’ingegno del cui consumo beneficino sono solo acquirenti singolarmente considerati, ma aree di fruitori più ampie. Ho già avuto occasione di annotare (Bosi, 2016) che in conseguenza a questo ribaltamento del paradigma, che ha sancito una sorta di ritorno al pubblico – sia pure a scopi non lucrativi ma relazionali – la valenza cognitiva della promozione si è imposta non limitandosi a vivificare le fasi di informazione del pubblico, bensì incidendo sulla stessa dimensione organizzativa delle imprese creative. In questa prospettiva non solo il consumatore dei prodotti culturali è inteso come controparte attiva di uno scambio bilaterale a prestazioni corrispettive, proprio di una negoziazione continuativa e paritaria, ma diviene ragion d’essere stessa dell’apporto creativo. Perché possa realizzarsi un esito del genere occorre, appunto, che la struttura dell’impresa creativa sia previamente orientata in questo senso e l’interscambio sia non esclusivamente ma essenzialmente di carattere non mercantile, ma cognitivo.
In virtù dei citati processi di disintermediazione si possono realizzare modelli di coordinamento dell’attività creativa reciprocamente comunicanti e solidali. Questo risultato è particolarmente importante in un contesto, quale quello del nonprofit che come tale prescinde dalla distribuzione degli utili, per il fatto di favorire il mantenimento di adeguate condizioni di equilibrio economico-finanziario dell’organizzazione complessivamente intesa (mutualistica o ibrido organizzativo – Rago, Venturi, 2014). Se poi sia costituita un’impresa sociale allo scopo specifico del coordinamento dei diversi attori coinvolti, ossia pensando ad un sistema strutturato che consenta ai singoli imprenditori di mantenere dati gradi di autonomia, sia pure nello svolgimento di attività interconnesse da un progetto creativo comune, alle funzioni informative e promozionali di cui ho detto se ne aggiungono altre, non meno significative, di supporto organizzativo al progetto di riferimento. La natura mutualistica dell’organizzazione non lucrativa può ulteriormente aiutare a raggiungere gli obiettivi menzionati (Bosi, 2008). È oggetto di constatazioni sostanzialmente pacifiche, infatti, che il modello cooperativo risulta premiante laddove tra i fattori di vantaggio competitivo rilevino soprattutto la qualità e l’elasticità dei contributi creativi. Le cooperative godrebbero di tale vantaggio allorché, in particolare, l’ambito produttivo sia tale per cui il contenuto e la complessità delle operazioni svolte dagli autori rendano difficile il monitoraggio della diligenza e dello sforzo esercitati. Questo vale in particolare nei settori economici, quale quello culturale, caratterizzati da segmentazione del mercato e da variabilità della domanda, in special modo se essi si distinguano per la bassa incidenza del capitale fisico e, dunque, per il minor peso delle attività tangibili.
Quand’anche si tratti, infine, di ente lucrativo, l’ordinamento offre modelli organizzativi disponibili per quanto tuttora non sovente utilizzati. Rinviando a un mio lavoro dedicato all’argomento (Bosi, 2014) mi limito a segnalare l’esistenza di taluni tipi societari di recente introduzione (s.r.l. semplificata, start-up innovativa) e di talaltri forse meno conosciuti (società unipersonali). Qui ricordo solo che tramite il primo tipo l’Italia ha intrapreso il medesimo percorso regolamentare già sperimentato in altri Paesi europei al fine di dotare il sistema di un tipo societario a suo modo speciale ma ricompreso nella disciplina della s.r.l., rivisitando gli obblighi relativi al minimo del capitale richiesto per la costituzione e standardizzando il modello organizzativo della società. Tramite il secondo tipo l’Italia si è invece discostata dalle opzioni più battute negli ordinamenti nei quali il favore per la fase di start-up non ha trovato la sua espressione più peculiare nella creazione di un tipo societario ad hoc, bensì attraverso la predisposizione di incentivi di natura economica e fiscale, oltre che offrendo agli operatori forme specifiche di consulenza e di supporto in genere. Tramite il terzo tipo, in Italia come altrove, si possono perseguire obiettivi imprenditoriali peculiari ai quali non sono esclusi quelli di natura precipuamente culturale.
A ciò si aggiunga il possibile e proficuo ricorso a strumenti di autoregolazione, quali codici di autoregolazione della singola impresa con funzioni di razionalizzazione organizzativa; codici di autoregolazione etica con funzioni di integrazione della disciplina di sistema; codici di autoregolazione di rete con funzioni di coordinamento della filiera cognitiva (Bosi, 2012). Nel loro complesso essi indirettamente assolvono a rilevanti funzioni di precisazione dell’identità organizzativa dell’ente, riducendo i rischi di isomorfismo tipici degli enti nonprofit: tali strumenti consentono infatti di integrare le strutture di governance degli enti che li adottino e che formalizzano sistemi di accountability dell’organizzazione verso i propri stakeholders, avvalendosi di fattispecie e istituti tipici del diritto specialmente societario. Gli strumenti di autoregolazione societaria sono di rilievo, in particolare se solo si considera che la trasmissione sul piano interimprenditoriale della conoscenza acquisita in ambito endosocietario rappresenta un fattore di potenziale vantaggio competitivo, della singola impresa e della filiera nel suo complesso, ma non è altresì una strategia valida universalmente e in ogni tempo. A seconda del mercato in cui l’impresa creativa operi infatti, nonché della congiuntura macroeconomica, può convenire dare luogo a forme di mera condivisione, o di più estesa socializzazione cognitiva.
Sino a ora ho utilizzato i due verbi quali sinonimi, e continuerò a farlo per semplicità; ma merita aprire una breve parentesi e distinguerne il significato tecnico-economico (Rullani, 2004). Socializzazione è termine che evoca il processo di diffusione della notorietà di un’opera dell’ingegno che si produce per effetto dell’aumento della conoscenza della medesima per via della sua commercializzazione, e della conseguente concorrenza esercitata dai produttori competitori nel segmento di mercato di riferimento specifico, sicché essa, nonostante il vigore di un regime giuridico protettivo (comunque temporalmente limitato, nei termini e per le ragioni che discuterò oltre nel testo), smarrisca progressivamente, e inevitabilmente, la segretezza della propria fattura, struttura, funzione e peculiarità. Per condivisione, invece, deve correttamente intendersi l’effetto degli accordi con cui le imprese stabiliscano le modalità di una parziale, e più o meno ampia, collettivizzazione dello sfruttamento di una risorsa resa comune o dei suoi frutti. Dette strategie possono essere diversamente combinate, ma le soluzioni congiunte in effetti sono poche: in particolare, come perlopiù accade, se l’obiettivo dell’impresa creativa risiede principalmente nell’estrazione del valore intrinseco a un dato bene innovativo, allora ad essa converrà aumentare la diffusione della conoscenza, agendo al fine di moltiplicare l’uso che di tale patrimonio cognitivo si fa all’interno della filiera, in modo da realizzare economie di scala e conseguire vantaggi competitivi aggregati, e al contempo ridurre la socializzazione della medesima, al fine di guadagnarvi il più possibile dal punto di vista individuale. Mano a mano che la socializzazione del patrimonio cognitivo aumenta, diminuisce il prezzo dell’opera dell’ingegno, e con ciò la possibilità di estrarre valore dal suo sfruttamento. Prezzi più bassi favoriscono distributori e consumatori a danno (relativo) dei produttori, mentre prezzi più elevati consentono a questi ultimi di realizzare rendite maggiori ma possono disincentivare la concorrenza e, al limite, danneggiare le prospettive di collaborazione interimprenditoriale, con una perdita economica per l’intera filiera cognitiva. I codici di autoregolazione che ho citato possono utilmente assolvere a funzioni del genere di definizione strategica e disciplina giuridica del vantaggio competitivo di una pluralità interconnessa di imprese creative.
Vi è infine un versante specifico riguardo al quale la natura anche non lucrativa dell’organismo di coordinamento di una filiera cognitiva può risultare efficace, e mi riferisco alla tutela della proprietà intellettuale dei beni realizzati negli ambiti in esame. Stante l’attuale regime giuridico italiano, non ogni quid apportato da un autore, per quanto nuovo, consente a costui di avvalersi della protezione giuridica propria della disciplina del copyright (a cominciare dal riconoscimento dei diritti di privativa e di conseguente uso monopolistico dell’opera), dal momento che in caso di controversia è valutato solo caso per caso, secondo giurisprudenza, se l’apporto sia consistente al punto da poter ottenere un giudizio di meritevolezza; giudizio che parte della dottrina industrialista ritiene debba essere rilasciato alla condizione che sia raggiunta una condizione di “creatività qualificata”. Quest’ultimo profilo, sia chiaro, è tanto dirimente quanto controverso: un’altra parte della dottrina reputa invece sufficiente, al fine del riconoscimento della tutela giuridica, l’attestazione dell’esistenza di una qualche forma espressiva artistica, oltre alla possibilità di includere l’opera in una delle categorie tipizzate; analogamente si segnala l’orientamento giurisprudenziale per cui, ai fini in parola, sarebbe sufficiente poter ravvisare la presenza di un atto creativo, per quanto minimo, ossia nuovo nel senso detto, mentre non dovrebbero essere applicati filtri di meritevolezza minima sotto il profilo etico ed estetico (a meno che non si sconfinasse in una produzione talmente minimale, quanto ad apporto personale, da non raggiungersi nemmeno una condizione di originalità).
Ci avviciniamo così a frangenti forieri di stimoli per la ricerca giuridica ma lo stato dell’arte, a questo punto, si esaurisce in poche e ultime considerazioni. Alberto Musso (2008) segnala infatti come in materia di disegni e modelli, dove il carattere individuale implica ormai un’originalità meno che minimale, sarebbe la conseguente maggiore probabilità di effettivi “incontri fortuiti”, ossia di coincidenze creative tra opere indipendenti, ad aver indotto il legislatore ad attenuare la valutazione stessa dell’originalità e della novità, questa seconda costituendo, come sappiamo, un requisito legislativamente richiesto (in via concomitante al carattere di individualità). Tuttavia la disciplina offerta ad esempio dai marchi di provenienza – qual è ad esempio il “Made in Italy” (Gregori, 2016) – sopperisce e giova alla causa di un’equa ed efficiente tutela dell’attività creativa, in chiave sia consumerista sia produttiva (Micelli, 2011; 2016), e in tale prospettiva l’apporto organizzativo di enti nonprofit espressamente contemplati per fare fronte alle esigenze accennate, sulla scorta delle citate valenze informative e di tutela reputazionale, pare appropriato al fine precipuo di fornire al consumatore di beni creativi una protezione che più consolidati meccanismi di mercato tuttora non offrono.
L’obiettivo per il giurista è, insomma, coniugare la disciplina delle forme di produzione culturale riguardo alle quali risulti consistente la componente della condivisione peer-to-peer, connettendo i piani della loro realizzazione e fruizione, come, secondo prassi al momento non regolate ad hoc, sta cominciando ad avvenire in taluni frangenti di artigianalità digitale (Manzo, Ramella, 2016). Concludo auspicando che da più punti di questa mappatura preliminare sia emersa la necessità di compiere valutazioni regolative, nel merito di un futuribile statuto giuridico delle imprese creative italiane, da svilupparsi in chiave anche di psicologia economica e di politica del diritto commerciale, con attenzione prioritaria da dedicarsi alla tutela della proprietà intellettuale dei beni in esame, non trascurando le indicazioni ricavabili dall’analisi comparata dello scenario culturale dei principali Stati europei (HKU, 2010; European Statistical System Network on Culture, 2012), che conferma l’opportunità di procedere in questa stessa direzione.
Riassumo in conclusione alcuni punti fermi, che considero come assunti della mia ricerca, di cui credo necessario tenere conto sotto il profilo della disciplina delle attività culturali:
De jure condendo non può dirsi, dunque, che rilevi solo la questione giuridica relativa agli assetti gestionali delle singole imprese culturali, e nemmeno è possibile ritenere sufficiente, a definire la specialità e determinare l’efficacia della disciplina, il ricorso a sovvenzioni, finanziarie o fiscali; sussidi necessari ma che probabilmente devono essere ricalibrati, rispetto a come sono stati tradizionalmente utilizzati. Dunque cos’altro può e deve fare il diritto dell’impresa per prendere seriamente in carico le esigenze e gli interessi di cui ho riferito? Tanto per cominciare, ma non è poco, può affidarsi a tre principi: a monte, dando seguito pratico al principio di riflessività regolativa; a valle, consentendo e favorendo l’autoregolazione imprenditoriale e societaria di autori e creatori; in mezzo, per così dire, appuntandosi in modo inequivoco al principio di neutralità delle forme giuridiche. Così facendo, a mio modo di vedere, si pongono altresì le giuste premesse per prendere le distanze dalla dialettica, inutilmente manichea, sulla regolazione dei settori profit e nonprofit in punto di disciplina delle attività culturali.
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