Introduzione
La legge delega n. 106/2016 per la “Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile univerale", proponendo una revisione complessiva della regolamentazione delle forme organizzative che formano il Terzo settore, ha una portata così ampia da poter essere letta da punti di vista assai diversi. Essa ha inoltre una struttura unitaria e quindi le analisi riferite ad una parte della legge – in particolare quella sull’impresa sociale – non possono prescindere da una lettura allargata dell’intero provvedimento, in particolare per quanto riguarda le innovazioni e modifiche di carattere generale che esso introduce (e potrebbe introdurre, se il legislatore delegato saprà cogliere questa impostazione unitaria) e le possibili conseguenze sul posizionamento, le prospettive e le strategie delle diverse organizzazioni che formano il Terzo settore. Una lettura allargata consentirà da un lato di capire come le diverse parti e i singoli istituti che formano il settore dovranno d’ora in poi relazionarsi tra loro, dall’altro di individuare suggerimenti di policy che possono aiutare il settore a crescere. Ciò vale in particolare per l’impresa sociale e le sue prospettive di sviluppo, anche in ragione del fatto che l’opportunità di mantenerla o meno nel perimetro del Terzo settore è stata una delle questioni più discusse nel corso dell’iter legislativo. Come è noto, infatti, nel corso dei due anni intercorsi tra la presentazione del disegno di legge da parte del Governo e la sua approvazione definitiva, su questo istituto si sono scontrate almeno due visioni diverse se non opposte. E’ quindi importante capire se la legge nel suo complesso – e non solo l’articolo 6 relativo all’impresa sociale – abbia o meno chiarito i termini del dibattito. Solo dopo aver compreso come l’impresa sociale si posiziona – o riposiziona – rispetto al Terzo settore, sarà possibile riflettere su quali strategie possono favorirne lo sviluppo. Senza dimenticare, tuttavia, che si tratta di intervenire non per sbloccare una crescita insoddisfacente o sotto potenziale – come lasciano intendere alcuni sostenitori della necessità di “ibridare” imprese sociali con imprese for profit, o almeno con la logica sottostante a queste ultime – bensì per sostenere un settore che, come confermano sia i dati del Censimento delle Istituzioni Non Profit dell’Istat che quelli sulle cooperative sociali, ha mostrato una dinamica straordinaria durante tutti i primi anni del nuovo secolo e in particolare durante gli anni della crisi.
Le principali novità della legge delega
Per comprendere pienamente la portata innovativa della legge delega, occorre in primo luogo ricordare che essa chiude una lunga fase, iniziata nel 1991, durante la quale si è proceduto prevalentemente attraverso interventi di riconoscimento e regolamentazione di singole forme o di singoli modelli organizzativi (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative sociali, ecc.), se non addirittura del tipo di attività svolta (associazioni sportive), interventi che hanno marcato più le differenze tra organizzazioni che le somiglianze – favorendo più la competizione che non la collaborazione – e, in diversi casi, hanno bloccato l’evoluzione di molte organizzazioni verso forme più strutturate. Approvate in tempi diversi e con sensibilità diverse, queste leggi hanno finito per imporre limiti e concedere benefici differenziati e non sempre coerenti con la rilevanza sociale dell’attività, spesso senza giustificazioni (che non fossero le capacità di pressione delle organizzazioni interessate e le esigenze o le culture del momento).
Va inoltre ricordato che quello concluso con l’approvazione della legge 106 non è neppure il primo tentativo di procedere con una legge organica. E’ piuttosto quello coronato (per ora, in attesa dei decreti delegati) da successo. Il primo tentativo è stato quello della legge delega sulle Onlus e del relativo decreto legislativo. Partito con le migliori intenzioni ha prodotto un mezzo “pasticcio”: un nuovo soggetto, di fatto solo fiscale, ma spesso usato come se si trattasse di una forma giuridica diversa da quelle previste dal Codice Civile e dalle leggi speciali, tanto da essere impropriamente indicato come possibile soggetto titolato a presentare proposte in risposta a bandi. E’ comunque un provvedimento non privo di contraddizioni che ha spesso finito più per complicare che semplificare la vita delle organizzazioni interessate, specie quelle che non acquisiscono lo status di Onlus di diritto. Il secondo tentativo – quello di riforma del Codice Civile – non è arrivato neppure alla discussione parlamentare, nonostante il lavoro preparatorio di almeno tre commissioni.
La riforma approvata arriva dopo l’evoluzione del diritto materiale che ha reso ampiamente permeabili i confini entro cui il legislatore del Codice Civile aveva costretto le forme organizzative non profit, in particolare facendo “saltare” di fatto tutti i limiti allo svolgimento di attività produttive (o come si usa dire “commerciali”) e quindi suggellando le possibilità di fare impresa (sociale ma non solo) con qualsiasi forma giuridica, senza necessariamente acquisire la qualifica prevista dalla legge 155.
A fronte di questa evoluzione più che trentennale, il fatto di essere arrivati comunque all’approvazione di una legge unitaria costituisce già di per sé un passo avanti molto importante. Elemento che è stato giustamente colto dalla maggioranza dei commentatori e dalle organizzazioni di rappresentanza. Ma credo che, finora, ci si sia soffermati più sull’opera di semplificazione o di armonizzazione operata dalla legge delega che non sulla sua portata generale – ideale, oltre che di innovazione istituzionale – e sulle conseguenze che ne possono derivare anche da un punto di vista strategico. Cercherò quindi, con tutti i limiti di una prima lettura, di provare a colmare questa lacuna, investigando sull’esistenza e sui contenuti di questa “portata generale”.
La prima innovazione introdotta con la riforma sta nella chiara e originale – indipendentemente se si concordi con essa oppure no – definizione di Terzo settore, delle organizzazioni incluse ed escluse a seguito di questa definizione e della finalità che le organizzazioni che lo compongono devono perseguire. Non basta infatti più la forma giuridica e neppure il vincolo formale alla distribuzione degli utili – in questo allontanando la definizione italiana da quella internazionalmente riconosciuta di settore non profit - per definire l’appartenenza di un’organizzazione al Terzo settore. Essa è infatti determinata soprattutto dal perseguimento
“senza scopo di lucro di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che […] promuovono e realizzano attività di interesse generale”
e dalla esplicita richiesta di
“garantire modalità di realizzazione dell’attività che prevedano le più ampie condizioni di accesso dei potenziali beneficiari”.
Richieste che diventano anche condizione per l’accesso alle agevolazioni previste.
La legge inoltre supera la vecchia (ed obsoleta) distinzione tra modalità – promozionali o produttive, solidaristiche o mutualistiche – di svolgimento di queste attività, mettendole di fatto tutte sullo stesso piano, quando aggiunge:
“mediante forme di azioni volontarie e gratuite o di mutualità o di produzione e di scambio di beni e servizi”.
Avendo definito il Terzo settore sulla base delle finalità perseguite piuttosto che sulle forme giuridiche e sulle attività svolte, la legge può includere nello stesso sia le fondazioni bancarie (cui riconosce di “concorrere al perseguimento delle finalità della legge”, pur non modificando la normativa che le regolamenta), che le imprese sociali (incluse le cooperative sociali cui è riconosciuto lo status di impresa sociale) esplicitamente dichiarate all’art. 6 come organizzazioni che rientrano “nel complesso degli enti del Terzo settore”, che le mutue e le società di mutuo soccorso. Può escludere invece le fondazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche (pur ricomprese, dalla letteratura internazionale tra i soggetti non profit).
Si può quindi affermare che con la legge delega 106/2016 nasce a tutti gli effetti il Terzo settore, come settore unitario e al contempo plurale, dove le diverse forme organizzative che si sono andate formando in questi trent’anni – incluse le cooperative e le imprese sociali – non vengono eliminate o superate, ma diventano dei “veicoli specializzati” che concorrono al raggiungimento di obiettivi comuni. E dove tutte le forme hanno la stessa rilevanza e, in generale, meritano quindi lo stesso trattamento, incluso quello fiscale.
Questa più precisa definizione dei confini del Terzo settore ha consentito quindi al legislatore di prevedere anche una serie di ulteriori passaggi, finalizzati a superare la divisione troppo netta tra forme organizzative e ad esaltare gli elementi identitari comuni. Vanno infatti in questa direzione la previsione di predisporre un codice legislativo comune a tutte le organizzazioni di Terzo settore, privilegiando “disposizioni generali e comuni a tutti gli enti”; l’unificazione dei registri e degli obblighi di rendicontazione; la semplificazione delle procedure per il riconoscimento della personalità giuridica facendo maggior affidamento sulla responsabilità dei proponenti, compensata da precisi obblighi di trasparenza; la creazione della consulta del Terzo settore e la sua assunzione a organo consultivo del governo; la previsione di regole fiscali comuni (con possibile superamento della distinzione tra enti commerciali e non).
Questa miglior definizione del settore ha anche consentito di ampliare e uniformare i settori di attività, oggi diversi a seconda della forma giuridica o della qualificazione, e ciò non solo per l’impresa sociale. Per quest’ultima il legislatore ha previsto non solo di assegnare all’esecutivo la possibilità di individuare i nuovi settori di attività, ma al Governo il potere di aggiungerli qualora in futuro ne rilevasse la necessità, con la conseguenza che, almeno in teoria, non ci sono limiti al riconoscimento come impresa sociale di tutte quelle iniziative che stanno emergendo o emergeranno dalle diverse forme di civismo e di azione collettiva. Infine la definizione unitaria di Terzo settore ha permesso di ribadire e rafforzare il ruolo dello stesso – e non solo delle singole organizzazioni – come interlocutore delle politiche pubbliche, sia negli ambiti in cui tale ruolo era già previsto (servizi sociali) che in ambiti nuovi (cultura).
Ovviamente il risultato non è perfetto: alcuni passaggi del testo legislativo presentano ancora delle ambiguità; non mancano i riferimenti volti a salvaguardare alcune specificità delle organizzazioni esistenti (soprattutto per le organizzazioni di volontariato) e permangono vincoli anacronistici (in particolare quello della possibilità, per le imprese sociali, di avere un qualsivoglia numero di soci volontari). Ma sono limiti che non inficiano l’indiscutibile inversione di rotta operata dalla nuova legge.
Le novità per l’impresa sociale
Nonostante diversi commentatori sostengano che la legge delega – e in particolare l’art.6 – abbia quasi rivoluzionato il concetto e l’esperienza dell’impresa sociale e aperto spazi inaspettati di sviluppo, ad una analisi attenta del testo risulta abbastanza evidente che i cambiamenti sono invece piuttosto limitati. Si tratta più di “aggiustamenti al margine” che di interventi incisivi. Infatti il legislatore si è sostanzialmente limitato a correggere alcuni errori della legge del 2005/6 – già segnalati al momento dell’approvazione della legge delega e del decreto legislativo e confermati dalla riflessione e dall’esperienza degli anni successivi – senza modificare nella sostanza l’istituto.
A questo esito si è tuttavia arrivati dopo un confronto, a momenti anche aspro, tra due diverse posizioni. Da una parte vi era – dentro e fuori il settore – chi riteneva che la legislazione sull’impresa sociale così come si era venuta formando fino a quel momento (inclusa quella sulle cooperative sociali) ne limitasse ormai lo sviluppo perché alcune delle caratteristiche imposte dal legislatore – e tra esse soprattutto il vincolo alla distribuzione di utili – impedivano l’accesso alla finanza, scoraggiavano un più deciso orientamento verso la domanda privata e verso rapporti più stretti con le imprese convenzionali, da cui avrebbero potuto venire idee e soluzioni innovative, con l’ulteriore vantaggio di potersi così smarcare dall’eccessiva dipendenza dai finanziamenti pubblici. Si proponeva quindi di allentare i vincoli e, più in generale, di modificare radicalmente la definizione di impresa sociale, passando da una definizione basata sul possesso di precise caratteristiche ad una basata sull’esito o sull’impatto sociale della sua attività, opportunamente misurato. Finendo per reclamare la necessità di collocare l’impresa sociale fuori del Terzo settore, tra questo e il mercato. A questa posizione si opponeva chi invece riteneva che non si dovesse confondere l’insuccesso della legislazione del 2005/6 con la realtà dell’impresa sociale che, invece, aveva continuato nel suo sentiero di crescita vivace anche durante tutta la prima parte del secolo, inclusi gli anni della crisi, benché seguendo strade diverse da quelle indicate dalla legge sull’impresa sociale. Secondo i sostenitori di questa posizione il fallimento della legislazione del 2005/6 era dovuto non ai vincoli in sé e tanto meno al vincolo alla distribuzione di utili, ma ad un insieme di fattori, tra cui il modo in cui i vincoli erano stati disegnati, e al fatto che la legge imponeva alle organizzazioni che volessero assumere la qualifica di impresa sociale una serie di costi senza compensarle in nessun modo con opportuni benefici. Di conseguenza ciò che i sostenitori di questa posizione chiedevano al legislatore era di mantenere una definizione di impresa sociale che ne garantisse la natura solidaristica e quindi la permanenza entro i confini del Terzo settore, limitandosi a rivedere i vincoli che si erano rilevati eccessivi e a compensarli con benefici di natura soprattutto fiscale. Nella convinzione che questo fosse anche il modo più sicuro per attrare le risorse necessarie al suo sviluppo.
Nonostante dalla consultazione lanciata dal Presidente del Consiglio risultasse una chiara preferenza delle organizzazioni che avevano risposto per la seconda posizione (basti ricordare che oltre il 70% si era dichiarato contrario ad un eccessivo allentamento del vincolo alla distribuzione di utili), il Governo scelse – senza indicarne la ragione – di formulare una proposta del tutto in linea con le prima posizione. Infatti l’articolo 4 del testo governativo proponeva una definizione di impresa sociale essenzialmente basata non tanto sulle sue finalità solidaristiche e sulle sue caratteristiche, ma sull’esito dell’attività (“qualificazione dell’impresa sociale quale impresa privata a finalità d’interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili”) e allentava il vincolo alla distribuzione di utili, lasciandone la quantificazione precisa al legislatore delegato, cioè al Governo stesso, senza precisare a quali obiettivi sociali gli utili così accantonati dovessero essere indirizzati (“utilizzando prioritariamente i propri utili - ripartibili nel rispetto di condizioni e limiti prefissati - per il conseguimento di obiettivi sociali”). Il dibattito seguito alla proposta del Governo ha portato a modifiche sostanziali della stessa, soprattutto grazie all’intervento del Senato, che hanno di fatto allineato il testo finale con quanto proposto dalla seconda delle posizioni in campo.
Infatti, il testo definitivo della legge definisce innanzitutto l’impresa sociale in base agli obiettivi perseguiti, che individua peraltro negli stessi che devono caratterizzare tutte le organizzazioni di Terzo Settore (“qualificazione dell’impresa sociale quale organizzazione che svolge attività di impresa per le finalità di cui all’art. 1 comma 1”, cioè il “perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”). In coerenza con questi obiettivi il testo della delega prevede non solo che l’impresa sociale “destini i propri utili prioritariamente al conseguimento dell’oggetto sociale” (cioè non a un qualsiasi oggetto sociale ma a quello proprio dell’impresa sociale stessa), ma indica chiaramente i limiti entro i quali è possibile distribuire gli utili. Essa consente cioè “forme di remunerazione del capitale sociale che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale, da assoggettare a condizioni e comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente”.
In coerenza con la logica complessiva che ha ispirato la legge si definiscono così in modo chiaro i caratteri dell’impresa sociale. Sono imprese sociali solo le organizzazioni che, perseguono le stesse finalità delle organizzazioni di Terzo settore (civiche, solidaristiche e di utilità sociale), senza scopo di lucro, che destinano utili e patrimonio al rafforzamento della stessa impresa e quindi del tipo di servizi erogati – e non a generici obiettivi sociali – e adottano forme di governance trasparenti e inclusive.
La legge chiarisce in particolare la natura, al contempo imprenditoriale e solidaristica, che deve avere l’impresa sociale. Lo dimostra la previsione secondo cui l’attività dell’impresa sociale deve garantire le più ampie condizioni di accesso dei potenziali beneficiari. Previsione che allontana ancora più nettamente del vincolo di distribuzione di utili l’impresa sociale dalle varie forme di imprenditorialità sociale di cui tanto si parla (benché a fronte di poche realizzazioni certificate da ricerche convincenti), incluse le benefit corporation di nuova invenzione, perché esclude di fatto la possibilità di ricorso sistematico ed esclusivo alle modalità tipiche del mercato che, per definizione, consentono l’accesso solo alla domanda – direttamente o indirettamente – pagante.
Questa previsione rende infine l’impresa sociale parte integrante del Terzo settore non solo perché lo dice la legge, ma in quanto deve condividere gli obiettivi solidaristici che distinguono tutte le altre organizzazioni che lo compongono. L’impresa sociale è così chiamata anche a contribuire alla concreta costruzione del settore e al suo sviluppo e a mettere a disposizione di questi obiettivi le proprie risorse organizzative.
Le sfide
Il nuovo assetto legislativo del Terzo settore e dell’impresa sociale deve anche spingere ad avviare la riflessione su come le diverse organizzazioni dovrebbero reagire alle innovazioni che la legge contiene: non per difendere posizioni acquisite – una tentazione sempre forte – ma per capire come esse possono collaborare per consolidare e rafforzare l’azione del settore. Assumendo questa prospettiva, due sono le principali sfide che a mio parere si prospettano: da come esse saranno affrontate dipenderà molto del futuro del settore e delle sue componenti.
La prima sfida riguarda il Terzo settore nella sua interezza e quindi tutte le sue componenti. E la tradurrei in questo modo: se con la legge nasce formalmente il Terzo settore, tocca ora alle organizzazioni che lo compongono coglierne lo spirito – o almeno quello che ho cercato di dimostrare essere lo spirito della legge – e impegnarsi a farlo crescere, cioè a farlo diventare a tutti gli effetti un settore con dignità pari agli altri due (Stato e Mercato). In concreto ciò significa:
- porsi come obiettivo condiviso il superamento delle ragioni che dividono le diverse forme organizzative a favore di quelle che le uniscono e quindi ricercare e sviluppare non aree protette ma forme di collaborazione, pur nel rispetto della specializzazione che caratterizza ognuna di esse;
- ricercare non solo il dialogo, ma anche la permeabilità tra forme organizzative, nella convinzione che il passaggio da forme meno strutturate a forme più strutturate non rappresenti una perdita, ma è nella natura delle cose; in ogni caso si resta sempre dentro un settore dove prevalgono gli aspetti comuni;
- rendere il settore “più profondo” ricercando e favorendo lo sviluppo di aree di attività o di istituti che oggi mancano o sono carenti – in particolare la finanza – ma secondo modalità coerenti con le finalità e le caratteristiche del settore;
- operare per realizzare una rappresentanza veramente unitaria e bilanciata che rispetti le diverse componenti, anche quelle di minori dimensioni e più legate alle comunità di riferimento.
Non sarà un processo facile soprattutto perché in questi anni – inclusi quelli durante i quali si è svolto l’iter legislativo – sono state spesso marcate soprattutto le differenze, i vari gruppi di organizzazioni hanno chiesto benefici separatamente e si è cercato di creare ambiti di intervento protetti dall’ingresso di organizzazioni diverse. Ma è un passaggio necessario se si vuole far crescere il settore: senza questo sforzo anche la nuova legge perderà molta della sua carica innovativa.
Da queste stesse considerazioni discende anche una sfida specifica per le imprese sociali: esse devono decidere se per svolgere al meglio le funzioni loro assegnate dalla legge e perseguire gli obiettivi di equità e sostenibilità – e quindi crescere di numero e di importanza – dovranno cercare alleanze e relazioni fuori oppure dentro il perimetro del Terzo settore.
Se fino agli anni ‘90 del secolo scorso le imprese sociali sono cresciute e si sono sviluppate fianco a fianco con l’associazionismo e il volontariato – e quindi all’interno del Terzo settore – dalla fine del secolo hanno intensificato soprattutto i legami con i soggetti esterni – pubbliche amministrazioni – diventando via via sempre più dipendenti dalle scelte oltre che dai finanziamenti di queste ultime. Al punto che, in diversi casi, le risorse pubbliche da mezzo per raggiungere l’obiettivo sociale, sono diventate esse stesse l’obiettivo da perseguire per garante la sopravvivenza dell’impresa. Negli ultimi anni, invece, soprattutto nei due che hanno preceduto l’approvazione della legge di riforma, sono stati in molti a tentare di spingere le imprese sociali a sostituire questa dipendenza con la ricerca di alleanze con le istituzioni del mercato – con la finanza tradizionale, con le imprese a scopo di lucro, con la domanda privata pagante, ecc. – sostenendo che, in una situazione di carenza di risorse pubbliche – peraltro più ipotizzata che dimostrata visto che le sole cooperative sociali dal 2008 hanno accresciuto il loro fatturato di quasi tre miliardi – questa fosse la condizione per continuare a crescere e per ritornare innovative.
La nuova legge sembra ora mettere in discussione questa ricerca di alleanze esterne, sia con il primo che con il secondo settore, e sembra proporre invece un ritorno alle origini. Sostenendo l’unitarietà del settore e chiedendo anche alle imprese sociali di garantire non tanto di servire la domanda pagante, quanto piuttosto di garantire le più ampie condizioni di accesso ai servizi di tutti i potenziali beneficiari, e quindi esaltandone la natura solidaristica, propone di fatto alle imprese sociali di tornare a “guardare dentro il Terzo settore”. In concreto, essa propone alle imprese sociali di ricercare sinergie e alleanze soprattutto con gli altri soggetti che compongono il settore, di contare maggiormente sulle risorse che essi sono in grado di mettere a disposizione e di sviluppare progetti condivisi con questi soggetti organizzativi piuttosto che con il Mercato. Ad esempio, tornando ad allearsi con il volontariato e le sue organizzazioni per avviare nuovi progetti, tornando a contare sulla sensibilità sociale del volontariato nell’individuare i bisogni e nel tutelare i bisognosi e sulle capacità innovative che spesso lo stesso è in grado di esprimere – come ha dimostrato in un passato non lontano. Oppure cercando alleanze con l’associazionismo per portare avanti iniziative di recupero e produzione di “beni comuni”, visto che molti di questi beni vedono già ora una consistente presenza di associazioni spesso ben strutturate e organizzate.
In generale, per le imprese sociali più che per gli altri soggetti “guardare dentro” il Terzo settore significa impegnarsi a collaborare con – e a far collaborare tra loro, sia dentro la stessa impresa che in altra forma, come quella della rete – una pluralità di realtà, ognuna con le proprie specializzazioni e le proprie risorse. L’impresa sociale è cioè chiamata a diventare un vero e proprio autonomo “meccanismo di coordinamento” non solo di individui e risorse finanziarie, ma anche di altri soggetti istituzionali. In questo modo può, nello stesso tempo, favorire il completamento del settore, facendosi in particolare promotrice di nuove modalità di organizzazione dell’offerta di servizi e della creazione di nuovi soggetti che aiutino il settore a raggiungere una autonomia più piena e definitiva.
Poiché non è possibile in questa sede affrontare in modo compiuto questi compiti, mi limiterò a citare i due che al momento mi sembrano più importanti.
Tra le nuove modalità di organizzazione dell’offerta mi sembra che sia urgente ridefinire le regole che governano i rapporti tra imprese sociali – e più in generale organizzazioni di terzo settore impegnate anche nell’erogazione di servizi e nella gestione di attività con qualche rilevanza economica – e pubbliche amministrazioni. L’evoluzione in senso concorrenziale di questi rapporti – voluta sia dalle regole europee che dalla ricerca di contenimento della spesa pubblica – sta mostrando tutti i suoi limiti e convince sempre meno. La concorrenza infatti funziona quando le transazioni tra domanda e offerta seguono le logiche tipiche del mercato (quando cioè ognuna delle parti cerca di fare solo il proprio tornaconto e chi consuma il bene o il servizio è anche colui che paga per averlo), ma non funziona o funziona male quando le transazioni avvengono tra organizzazioni mosse da obiettivi simili o identici, come sono le pubbliche amministrazioni e le organizzazioni di terzo settore. In questi casi più che alla concorrenza occorre ricorrere a forme di collaborazione: così era quando le relazioni tra organizzazioni di Terzo settore e pubbliche amministrazioni erano gestite attraverso confronti diretti che sono stati poi abbandonati perché ritenuti non in grado di minimizzare l’impiego di risorse pubbliche e soggetti a clientelismo e corruzione. Il cambio di modalità è tuttavia avvenuto senza un’adeguata riflessione e oggi si stanno pagando le conseguenze dell’aver preferito il ricorso esclusivo a pratiche concorrenziali e il totale abbandono di quelle collaborative. Di qui la necessità che siano proprio le imprese sociali, in quanto più spesso interessate a contratti con amministrazioni pubbliche, a riavviare la riflessione e a proporre procedure e regole nuove che riportino questi rapporti su modalità più collaborative. Anche facendo leva sui richiami al tema che sono contenuti nella legge di riforma, e in particolare sul passaggio dove si sostiene che gli affidamenti sia di beni che di servizi da parte delle pubbliche amministrazioni devono sì rispettare la normativa comunitaria e nazionale, ma vanno anche “improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione”.
Tra i nuovi soggetti necessari per completare il settore - e quindi evitare di dover fare eccessivo affidamento su aiuti esterni - quello di cui già oggi e ancor più in prospettiva ci sarà bisogno sono le istituzioni e le modalità con cui garantire un’offerta di mezzi finanziari non solo per, ma soprattutto del Terzo settore e dell’impresa sociale. Serve cioè progettare e realizzare un insieme di strumenti e di modalità di reperimento delle risorse finanziarie necessarie allo sviluppo il più possibile coerenti con la natura e gli obiettivi delle imprese sociali così come definiti dalla stessa legge di riforma, in grado cioè di procurare capitale paziente e che accetti livelli di remunerazione limitati. Solo così sarà possibile evitare di dover ricorrere a intermediari a finalità speculativa anche se si dichiarano disponibili a finanziare attività a carattere (o impatto) sociale. In altri termini, serve una finanza per l’impresa sciale e non un’impresa sociale per la finanza, come di fatto vorrebbero i sostenitori dei cosiddetti social impact bond. Diverse iniziative ed esperienze che vanno in questa direzione già sono in campo da anni: vanno potenziate e rinnovate, anche sfruttando i nuovi strumenti che la legge delega mette a disposizione (possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali di rischio tramite portali telematici, agevolazioni per la sottoscrizione di capitale, introduzione dei titoli di solidarietà sociale).
Conclusioni
Contrariamente a quanto affermato da diversi commentatori durante il dibattito che ha accompagnato l’iter di approvazione della nuova legge – il Terzo settore italiano come bloccato da una eccessiva dipendenza dai finanziamenti pubblici, incapace di innovazione e bisognoso di iniezioni di idee e risorse dall’esterno – tutte le indagini empiriche restituiscono l’immagine di un settore vivo e con molte iniziative e sperimentazioni in corso. Quello che ci si può ora aspettare dall’approvazione della legge e dei decreti legislativi è che essa riesca a dare nuovo impulso alla creatività e alla crescita non di una componete, sia essa quella del volontariato o dell’impresa sociale, ma del settore nel suo complesso e quindi in tutte le sua componenti. E questo perché è sempre più evidente che questo settore rappresenta già oggi – ed è destinato a rappresentare ancora di più nel futuro – un attore sociale ed economico fondamentale, non solo perché portatore di una cultura solidaristica e per i servizi che offre, ma anche per contrastare una crisi che si sta tramutando in stagnazione permanente a causa soprattutto del modo con cui il mercato (cioè l’insieme delle imprese a scopo di lucro) si è andato configurando, sotto la spinta della convinzione che scopo delle imprese sia la creazione di valore per gli azionisti (invece che per la società), e che lo Stato sociale così come concepito negli anni del dopoguerra non riesce più né a gestire né tantomeno a contrastare.