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ISSN 2282-1694
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Editoriale

Welfare e impresa sociale di garanzia

Giorgio Fiorentini

Saggi brevi

Nuove geografie del valore e imprese coesive

Domenico Sturabotti, Paolo Venturi

Giovani, volontariato e nuova impresa sociale

Sandra Gallerini, Fabio Lenzi

Casi studio

Venture philanthropy: il caso di Fondazione CRT

Valter Cantino, Stefania Coni, Simona Fiandrino

Recensioni

Il capitale quotidiano

Flaviano Zandonai

Numero 7 / 2016

Saggi brevi

Nuove geografie del valore e imprese coesive

Domenico Sturabotti, Paolo Venturi

Abstract

La produzione e la redistribuzione del valore seguono percorsi sempre più diversi e complessi. Cambiano infatti gli attori e le modalità attraverso cui essi agiscono. Cambia, al fondo, la composizione della catena del valore e i contenuti che lo sostanziano. Una modalità che, in generale, prevede la ricombinazione di diversi fattori – economia, lavoro, ben-essere – all’interno di processi multidimensionali e di nuove forme organizzative, superando così i limiti strutturali del modello tradizionale che invece postula la separazione funzionale e istituzionale, demandando alle imprese la produzione di valore economico e allo Stato – con il supporto di fornitori non profit – quello di redistribuirlo. L’articolo si propone di aggiornare la mappa della produzione di nuove forme di “valore condiviso” in Italia, attingendo ai dati e alle esperienze della nuova edizione del rapporto “Coesione è Competizione. Nuove geografie della produzione del valore in Italia” realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere (Symbola, Unioncamere, 2016).


The production and the redistribution of value follow increasingly different and complex paths. Indeed the actors and the ways in which they act are fast changing. And the composition of the value chain and the content that substantiate it are changing too. This model, in general, involves the recombination of different factors - economy, work, well-being - within multidimensional processes and new organizational forms, thus overcoming the structural limits of the traditional model that instead postulates a functional and institutional separation by delegating the economic value production to enterprises and the economic value redistribution to the State (with the support of nonprofit providers). This article aims to update the map of the production of new forms of "shared value" in Italian with reference to data and experience of the new edition of the report ““Coesione è Competizione”, edited by Fondazione Symbola and Unioncamere.

Introduzione

Assistiamo oggi all’affermarsi di un nuovo paradigma che va al di là della tradizionale dicotomia for profit vs non profit, pubblico vs privato, secondo cui il valore sociale è frutto della produzione di organizzazioni non profit, il valore economico è frutto del valore aggiunto generato da imprese for profit e il valore in termini equità e giustizia sociale deriva unicamente dall’azione redistributriva dello Stato. In questo nuovo scenario tutti possono creare valore, contribuendo alla crescita economica e sociale della comunità.

Questo mutamento attiva dinamiche partecipative e collaborative trasversali che coinvolgono una pluralità di soggetti. Innanzitutto le imprese, che hanno ben chiaro come le performance del profitto siano sempre più dipendenti da valori e fattori non direttamente economici: il rispetto dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori, la valorizzazione delle proprie risorse umane, il sostegno alle comunità, la promozione culturale. Sempre di più, a livello globale, la sostenibilità sociale ed ambientale sta diventando un fattore competitivo di grande importanza, in grado di posizionare le aziende rispetto a quei mercati dove cresce l’attenzione a questi temi da parte dei consumatori.

Oggi le imprese for profit stanno cambiando la loro modalità di produzione di beni e servizi, spingendosi oltre la responsabilità sociale d’impresa, in direzione della creazione di valore condiviso (Porter, Kramer, 2011); la condivisione diventa la base su cui costruire una strategia di sistema sulla sostenibilità, di cui le imprese siano co-protagoniste, insieme alle istituzioni e ai cittadini (Zamagni, 2013b). Si diffondono anche modalità di co-creazione che puntano a generare un valore aziendale condiviso con il cliente, attraverso nuove forme di interazione, servizio e metodologie di apprendimento. In questo complesso panorama, hanno un ruolo centrale i media digitali nel facilitare la comunicazione tra consumatore e brand, e tra gli utenti, favorendo e rendendo accessibili ad un vasto pubblico le attività di co-creazione. C’è anche un passaggio successivo: la sostenibilità, che entra a far parte degli obiettivi di business. Nel 2007 è nato il movimento globale delle B Corp, con la visione di innescare una competizione positiva tra tutte le imprese, perché siano misurate e valutate nel loro operato secondo il beneficio da loro prodotto per la società. Il protocollo di misura sviluppato dalle B Corp – B Impact Assessment (BIA) – oggi è usato da oltre 40mila imprese e 150 tra fondi, investor e advisor nel mondo. Il movimento delle B Corp ha anche promosso nuove forme giuridiche di impresa, come le Benefit Corporation, già introdotte in 31 stati USA, e le Società Benefit in Italia.

Ci sono poi i cittadini, che scoprono un nuovo protagonismo. Il consumatore è ormai non più solo un consumattore, ma – grazie anche alle nuove tecnologie e al web che fungono da acceleratori – il protagonista, o co-protagonista, della produzione di valore. Sono gli stessi cittadini ad auto-organizzarsi per affrontare insieme disagi comuni o promuovere l’agio diffuso nelle comunità. Ne è un esempio il successo della sharing economy. Secondo alcune stime, il settore potrebbe arrivare a fatturare 335 miliardi di dollari a livello globale entro il 2025 e le opportunità di ampliare l’orizzonte geografico appaiono enormi[1].

Cambiano le istituzioni che devono cessare la loro tradizionale funzione “paternalistica” (Zamagni, 2013a) e vestire sempre più i panni del facilitatore, di un’infrastruttura per la sussidiarietà e la co-produzione di servizi di welfare (co-produzione che va al di là di un rapporto di mera collaborazione tra i soggetti e si fonda piuttosto sulla co-operazione quale principio che vede una partecipazione dei cittadini sia in termini di mezzi che di fini) (Zamagni, 2013c).

Accanto alle aziende, cambia pelle anche il settore non profit che si attrezza a rispondere ai tanti bisogni emergenti (cui lo Stato non dà soddisfazione) e alla crescente differenziazione della domanda di beni e servizi anche con strumenti organizzativi tipicamente for profit. La principale tendenza in atto nel settore, infatti, è legata al marketization dell’erogazione dei servizi: l’incremento, cioè, della percentuale di beni e servizi venduti al mercato e, quindi, della componente produttiva (Ambrosio, Venturi, 2012) del Not-for-Profit. Si diffondono sempre più le imprese ibride, realtà nate spesso come evoluzione o filiazione di soggetti non profit esistenti, che per rispondere adeguatamente ai bisogni sociali si danno una struttura di natura economico-commerciale (Venturi, Zandonai, 2014a). La riforma del Terzo settore va in questa direzione, promuovendo il processo di ibridazione delle imprese non profit. Per poter meglio perseguire le proprie finalità (ed attrarre investitori), tali imprese potranno distribuire utili (seppure in maniera limitata nelle misure riservate alle cooperative a mutualità prevalente), nominare nei propri consigli di amministrazione imprese private e amministrazioni pubbliche e uno o più sindaci all’interno degli organi di controllo.

Lo sfondo che dà unità a tutte queste mutazioni è il superamento della netta – e ormai obsoleta – divisione di attribuzione delle competenze in capo a Stato, mercato e non profit: questi soggetti, invece, procedono e sempre più procederanno insieme, interagendo e influenzandosi vicendevolmente.

Percorsi di produzione di valore

Il cambio di paradigma a cui stiamo assistendo si traduce, nella pratica, in nuove e molteplici modalità di produzione del valore da parte delle istituzioni che organizzano e gestiscono economie e società: imprese di capitali, organizzazioni non profit e amministrazioni pubbliche. Il concetto di valore va però “arricchito” includendo diverse prospettive:

  • economica, per cui il valore consiste nell’apporto in termini di aumento (o non consumo) di ricchezza materiale e finanziaria (investimento, risparmio) che un’organizzazione produce attraverso la sua attività specifica;
  • sociale, ovvero il contributo in termini di produzione di beni relazionali e creazione di capitale sociale;
  • istituzionale, cioè la capacità di fornire un apporto in termini di rafforzamento della sussidiarietà orizzontale, dei rapporti intra-istituzionali e inter-istituzionali (Zamagni, 2013b).

L’implementazione di nuovi modelli di produzione del valore porta necessariamente ad una profonda rilettura delle istituzioni economico-sociali che costituiscono la nostra società. Una nuova geografia di organizzazioni di natura imprenditoriale che opera per l’attuazione di nuove catene di produzione del valore e che, all’interno di una prospettiva di co-evoluzione, si confronta sul piano sia della competizione che della cooperazione (Venturi, Zandonai, 2013). Sul primo, perché l’arena competitiva è il naturale metro di giudizio dell’operato di realtà imprenditoriali (sia for profit che non profit), l’elemento che sprona tali soggetti ad introdurre elementi di innovazione. Sul secondo, perché oggi, coerentemente con l’adozione del paradigma socio-economico dello “sviluppo umano”, non possono continuare a esistere forme di impresa che, attraverso il proprio agire sul piano economico, non tengano conto del ruolo che hanno all’interno della società, in termini di capacità di riduzione delle disuguaglianze di reddito e territoriali e di aumento dei livelli di benessere e di coesione sociale.

Processi di ibridazione come esito del cambiamento

Le sfide che attendono questo nuovo modo di produrre valore sono di notevole portata (Venturi, Zandonai, 2016). Riguardano, in primo luogo, la capacità di includere le persone attraverso la propria attività lavorativa e imprenditoriale, generando occupazione per scongiurare la crescente vulnerabilità e, al tempo stesso, per soddisfare motivazioni intrinseche legate al lavoro come veicolo di autorealizzazione di sé e generativo di cambiamento sociale. Il valore, inoltre, si riconnette alle comunità e alla combinazione delle diverse tipologie di risorse che le contraddistinguono. Si tratta di produzioni spesso non delocalizzabili, poiché cambiando i luoghi di produzione cambiano i valori prodotti. Assumono così un ruolo cruciale i significati che ridefiniscono le qualità attribuite a elementi materiali e immateriali localizzati, che in questo modo diventano risorse collettive intorno alle quali ridisegnare le politiche di sviluppo dal basso (bottom up). Queste ultime, inoltre, sono sempre più esito di un’azione di indirizzo messa in campo attraverso la rigenerazione di spazi a fini sociali, un terreno estremamente fertile per sperimentare processi di ibridazione organizzativa che danno vita a nuove istituzioni con l’obiettivo di “rilanciare prospettive di sviluppo all’interno delle quali si possano inscrivere azioni innovative” (Cottino, Zandonai, 2012). Infine, per poter generare valore è necessario orientare l’economia reale verso modelli che ne valorizzino in modo efficace e sostenibile le diverse componenti. Per fare ciò, emergono sempre più diverse modalità di gestione imprenditoriale dove il valore economico è legato al carattere need-driven (legato cioè alla risposta a bisogni altrettanto reali) e di radicamento territoriale (imprese sociali, comunitarie, coesive, ecc.).

In estrema sintesi, “la dimensione sociale non è più relegata a essere un output del processo di ridistribuzione messo in atto dalle istituzioni pubbliche, bensì diventa un meccanismo generativo, un input, all’interno di un modello di sviluppo umano integrale” (Mulgan, 2006). Questi processi di ibridazione investono diversi soggetti, tra cui:

  • le organizzazioni non profit, che sviluppano una sempre più visibile dimensione imprenditoriale;
  • le startup innovative, la cui componente tecnologica spesso intercetta la produzione e lo scambio di beni di interesse collettivo svelando così la loro “vocazione sociale”;
  • le imprese for profit, soprattutto PMI, che competono su mercati locali e internazionali grazie alla capacità di “mettere a valore” risorse sociali, culturali, ambientali;
  • le imprese comunitarie, che incarnano il rinascimento del cooperare operando ai margini dei sistemi economici e dell’economia sociale classicamente intesa, ma sono comunque in grado di suggerire un modello di governance autenticamente sociale.

Nuova geografia del valore

All’interno del panorama imprenditoriale italiano è possibile osservare diverse sfumature organizzative volte alla produzione di valore. Alcune categorie sono riprese dall’edizione 2014 del Rapporto “Coesione è Competizione” (Symbola, Uniocamere, 2014), altre sono nuove ed emergenti rispetto agli sviluppi dell’ultimo biennio. La loro mappatura permette di classificare le diverse tipologie come segue (Figura 1):

Figura 1. La nuova geografia del valore: classificazione delle diverse tipologie di forme organizzative.

Imprese coesive

Si tratta di imprese la cui attività principale non è di natura sociale, ma che, a fronte della necessità di incrementare la propria capacità imprenditoriale e di innovazione, hanno messo in campo strategie e strumenti volti a potenziare le relazioni con i propri lavoratori nonché con i soggetti che fanno parte del loro ecosistema (altre imprese, pubbliche amministrazioni, istituti di credito, organizzazioni non profit, etc.). Attualmente in Italia sono oltre 9mila le imprese che rispondono a questi requisiti (Venturi, Zandonai, 2016), ossia aziende legate alle comunità di appartenenza e al territorio in cui operano, che investono nel benessere economico e sociale, nelle competenze e cura dei propri lavoratori, nella sostenibilità, nella qualità e bellezza, e sono radicate nella filiera territoriale.

For profit che produce beni e servizi sociali

Si conferma in crescita la tendenza che vede le imprese for profit operare nei diversi ambiti sociali che si possono annoverare sotto il nome di “servizi alla persona”, soprattutto in quelli a più elevata rilevanza economica (come la sanità), ma presenti sempre più anche in comparti come i servizi ricreativi e culturali. Secondo i dati del terzo Rapporto Iris Network sull’impresa sociale in Italia (Venturi, Zandonai, 2014b), le imprese di capitali operative nei settori di attività previsti dalla legge n. 118/2005 sull’impresa sociale a fine 2011 erano 61.776, con oltre 400mila addetti.

Benefit corporation

Le Benefit Corporation – introdotte in Italia dalla Legge di Stabilità 2016 – sono società che nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Per essere tali, le società benefit dovranno modificare il proprio atto costitutivo o statuto, redigere una relazione annuale sull’attività di beneficio comune ed essere sottoposte alla valutazione, da parte di soggetti terzi (non ancora individuati), relativamente a quattro aree: la governance, i lavoratori, la comunità di riferimento, l’ambiente (Venturi, Rago, 2015). A luglio 2016 le società benefit in Italia erano 28[2], a cui si aggiungono 12 organizzazioni che hanno ottenuto la certificazione di B-Lab, ente non profit statunitense[3].

Startup innovative a vocazione sociale (SIAVS)

Le startup innovative sono società di capitali con sede principale in Italia, costituite anche in forma cooperativa da non più di 5 anni, non quotate, con meno di 5 milioni di fatturato annuo, che non possono distribuire gli utili e che devono produrre, sviluppare e commercializzare beni e servizi innovativi a livello tecnologico. Un aspetto importante riguardante le startup innovative a vocazione sociale è quello della misurazione del loro impatto come prerequisito per determinare il contenuto della loro missione. In una prima fase di implementazione di questa forma imprenditoriale, infatti, quest’ultima era collegata dall’appartenenza o meno ai settori di attività previsti dalla normativa sull’impresa sociale (D.lgs. n. 155/2006). Tale scelta iniziale è stata successivamente sostituita da una modalità tale per cui una startup innovativa a vocazione sociale può appartenere anche ad altri settori innovativi a elevato contenuto tecnologico che possono impattare sul benessere della collettività. Per tale ragione, le startup a vocazione sociale sono obbligate a redigere e trasmettere annualmente al sistema camerale un “Documento di descrizione dell’impatto sociale” generato. La modifica ha portato un incremento delle SIAVS del 160% tra la fine del 2015 e luglio 2016, portandole oggi a 99 (1,6% del totale delle startup innovative).

Ibridi organizzativi a matrice cooperativa

Le imprese ibride sono soggetti che perseguono una mission sociale, come le organizzazioni non profit, ma producono al contempo reddito da attività commerciale per poter perseguire i propri obiettivi, al pari di imprese for profit (Rago, Venturi, 2014). In Italia, il tema è stato in particolar modo analizzato guardando alle organizzazioni che appartengono alla rete di cooperative sociali del Gruppo Cooperativo CGM, che al 2014 registrava 70 ibridi cooperativi (Venturi, Zandonai, 2014a). A fronte della capacità degli ibridi organizzativi di assumere le più svariate forme giuridiche, è comunque possibile osservare i processi di ibridazione attraverso sette “marcatori”: innovazione, governance, partnership, mercati beneficiari, finanza e competenze delle risorse umane.

Imprese sociali e cooperative sociali

Consultando i dati camerali, a fine 2013, le organizzazioni che avevano assunto la qualifica di impresa sociale (secondo la legge 118 del 2005) erano 774, a cui andrebbero aggiunte 574 organizzazioni che nella ragione sociale riportano la dizione “impresa sociale” pur non essendo iscritte nell’apposita sezione del Registro Imprese. Alle imprese sociali ex lege inoltre si possono assimilare anche le 12.570 cooperative sociali che, nei fatti, presentano le stesse caratteristiche costitutive, tanto che la riforma del Terzo settore intende riconoscere in automatico a tali imprese la qualifica (Venturi, Zandonai, 2014b).

Cooperative di comunità

Le cooperative di comunità sono società cooperative che hanno come fine ultimo del proprio agire la produzione e/o gestione di beni comuni. Il rinascimento di organizzazioni che riconoscono nella comunità non solo un interlocutore – per quanto rilevante – ma l’obiettivo che sostanzia la missione dell’impresa rappresenta una risposta alla crisi del sistema dei servizi pubblici locali che è causa, soprattutto in aree marginali (quali, ad esempio, le aree interne) di fenomeni di spopolamento e disgregazione sociale (Venturi, Zandonai, 2016). Sono circa 50 le realtà di questo tipo nel nostro Paese, la maggior parte in aree ultra-periferiche, ma se sono presenti anche in aree urbane o nel bordo metropolitano.

Non profit market oriented

All’interno del mondo delle organizzazioni non profit è possibile individuare un sottogruppo che racchiude oltre 82mila unità, quello dei soggetti market oriented, ossia organizzazioni diverse dalle cooperative sociali – e quindi associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato, enti religiosi, ecc. – accomunate dal fatto di ricavare oltre la metà delle risorse economiche attraverso scambi di mercato, sia all’interno di arene pubbliche che private (Venturi, Zandonai, 2014b).

Facilitatori

La categoria dei cosiddetti facilitatori comprende tutte quelle organizzazioni che, attraverso diverse forme giuridiche ed organizzative, si caratterizzano per abilitare processi di innovazione aperta e comunitaria, facilitare la costruzione di ecosistemi propulsori di nuova imprenditorialità e supportare processi di scaling up. Esempi in tal senso sono le reti di secondo livello e le fondazioni di origine bancaria, come Fondazione Cariplo; quest’ultima, attraverso linee strategiche e bandi (ad esempio Welfare in azione, Attiv-Aree, Cariplo Factory etc.), abilita nuova progettualità imprenditoriali, in particolare in risposta ai problemi di vulnerabilità di persone e territori; piuttosto che, in ambito cooperativo, i fondi mutualistici (Coopfond, Fondosviluppo) o la finanza di sistema (CFI) attraverso, ad esempio, il sostegno a progetti di workers buyout. E ancora i cosiddetti community hub, strutture pluriservizio a sostegno della comunità allestiste per favorire codesign e cogestione con operatori, volontari e soprattutto cittadini; facendo convivere accesso ai servizi di welfare, orientamento alla creazione di impresa, coworking, fab-lab ecc., sono allo stesso tempo avvio, garanzia e presidio di processi di rigenerazione urbana.

Visionari

E infine i visionari; le “minoranze profetiche” che hanno la capacità di avviare e sviluppare percorsi di innovazione di rottura (disruptive innovation), o perché orientati da leader forti e carismatici, o perché fondati su modelli che rispondono al concetto di we rationality, la “razionalità del noi”, meccanismi comunitari – diversi da quelli tradizionalmente messi in atto – che in una prima fase di avvio possono anche non trovare sul mercato un riscontro in termini di pricing, ma non per questo non sono in grado di rispondere ad una domanda emergente. Si tratta di realtà che fanno del cambiamento sistemico il fine ultimo del proprio agire, che viene perseguito anche destrutturando la dimensione di servizio, come nel caso di Destinazione Umana, una piattaforma di turismo esperienziale che ribalta completamente la concezione del viaggio: a chi sta per partire non viene chiesto  dove vuole andare ma chi vuole conoscere.Rappresenta una esempio di vera economia della condivisione perché va a toccare e valorizzare il fattore cardine dell’economia collaborativa, ossia l’elemento relazionale.

I numeri delle imprese coesive

Il modello di economia sin qui descritto, tipico del nostro Paese, è ben rappresentato da tutte quelle organizzazioni che fanno della relazionalità uno dei driver del proprio “fare impresa”, attraverso relazioni che toccano vari aspetti della vita dell’impresa. A partire dai rapporti con i lavoratori, che si esplicano nella cura della qualità del lavoro e vedendo nel miglioramento delle competenze della forza lavoro il fattore prioritario di sostegno alla competitività del territorio. E arrivando sin dentro la catena di produzione del valore: la filiera (si pensi ai rapporti con altre imprese per gli acquisti e forniture in comune o per migliorare la logistica e distribuzione), l’innovazione (attraverso partnership con altre imprese o con università e centri di ricerca per attività di ricerca e sviluppo), l’internazionalizzazione (attraverso relazioni con altre imprese o enti per aumentare le attività d’import/export o direttamente con imprese estere).

La relazionalità va anche oltre il sistema “azienda” e comprende collaborazioni con le istituzioni (ad esempio nella realizzazione di progetti per lo sviluppo del territorio), il sistema bancario (da cui nasce quella fiducia di “prossimità” tra finanziatore e finanziato che produce effetti positivi sul circolo finanziamenti-investimenti), il mondo associativo (costituito da tutti quei corpi intermedi portatori di esigenze e informazioni per la migliore definizione delle politiche economiche e l’attuazione delle stesse sul territorio). Questa coesione sociale che nasce dalla relazionalità e che “forma” la comunità è anche frutto della vita civile. E così diventano importanti le relazioni con il non profit (che si manifestano quando le imprese, ad esempio, contribuiscono finanziariamente a iniziative culturali, artistiche, di natura sociale e solidaristica o le realizzano direttamente in proprio).

Non da ultimo vanno considerate le relazioni con i consumatori, per le quali - nell’era della digitalizzazione – vanno instaurati canali virtuali di comunicazione finalizzati allo sviluppo di innovazioni connesse alla taylor made production (customer-based innovation), al marketing & branding ecc. (grazie a cui le imprese possono contemporaneamente minimizzare i costi e massimizzare gli standard qualitativi).

Possiamo quindi definire imprese coesive tutte quelle imprese che si caratterizzano per un elevato grado di relazionalità. La loro individuazione si è basata, a partire dai risultati dell’indagine Unioncamere sulle PMI manifatturiere (20-499 addetti)[4], sulla costruzione di un indicatore sintetico di coesività che misura le relazioni delle imprese rispetto ai soggetti individuati: lavoratori, componenti della catena del valore, istituzioni, sistema bancario, mondo associativo, non profit, consumatori[5] (Figura 2).

Questo modello di economia fondato sul capitale relazionale si dimostra piuttosto pervasivo all’interno del sistema produttivo italiano. Si tratta di imprese che hanno nel proprio dna un importante senso “valoriale”, perché vedono nell’attività imprenditoriale una missione che va oltre la mera logica del profitto. Infatti, proprio tra le imprese coesive rispetto a quelle non coesive, sono più diffusi gli imprenditori orientati al social investment, ossia alla soddisfazione degli interessi degli stakeholder, alla creazione di occupazione e di benessere sociale oltre che economico, e che investono in qualità (81% contro 76%).

Figura 2.La rete delle relazioni delle imprese coesive.

Figura 3. La caratterizzazione sociale e green delle imprese coesive, anno 2015 (valori percentuali) - Fonte: Unioncamere, Fondazione Symbola, 2016 (Symbola, Unioncamere, 2016) - * Quota percentuale di imprese orientate al social investment (che hanno come mission aziendale la soddisfazione degli interessi degli stakeholder, la creazione di occupazione e di benessere economico e sociale e che investono in qualità). ** Quota percentuale di imprese orientate al green investment (che investono in prodotti e tecnologie green).

Le imprese coesive perseguono sia la sostenibilità sociale che ambientale, poiché vantano al proprio interno, non solo una maggiore diffusione di aziende value driven, ma anche di quelle che investono nell’eco-efficienza: infatti ben il 53% di esse investe in tecnologie green contro il più ridotto 38% registrato dalle imprese non coesive[6].

Basta pensare alla storia economica del nostro Paese per rendersi conto che le imprese coesive sono parte di quel capitalismo diffuso che ci ha contraddistinto nel mondo, a partire dai distretti alle imprese familiari, fino a quel modo di produrre “cose che piacciono al mondo” che ci ha resi unici. Non a caso, sono le aziende coesive a riconoscersi maggiormente in un modo di fare impresa tipicamente italiano rispetto a quelle non coesive (ben l’87% di esse contro l’81%). Infatti, questa cultura del produrre tipicamente italiana, dove competizione e coesione trovano la giusta coniugazione, è ampiamente riconosciuta all’interno dell’intera società. Basta scoprire che, di fronte all’affermazione di Milton Friedman “La responsabilità sociale dell’impresa è di aumentare i suoi profitti”, in Italia la quota di popolazione che si trova d’accordo è tra le più basse tra gli oltre 20 paesi avanzati o in via di sviluppo analizzati: solo il 33% (contro valori ben superiori di Stati Uniti (56%), Francia (49%) e Regno Unito (43%)) (Edelman, 2011).

Il capitale relazionale produce benefici sul piano economico particolarmente evidenti (Figura 4): basti pensare che le imprese coesive segnalano più diffusamente aumenti di fatturato (il 47% contro il 38% tra quelle non coesive) così come di ordinativi esteri (50% contro 39%), oltre ad essere maggiormente presenti sui mercati internazionali (il 76% di esse sono esportatrici contro il 68% di quelle non coesive). Migliori performance economiche a cui si aggiunge anche una più intensa volontà di assumere (il 10% delle imprese coesive intende effettuare assunzioni contro il 6% fra quelle non coesive).

Del resto, per l’impresa sono molteplici gli effetti positivi prodotti dalla relazionalità: si pensi alla facilità di acquisizione e condivisione delle informazioni di mercato, sia per lo sviluppo di innovazioni di prodotto sia per l’ampliamento delle aree di sbocco; oppure al fatto che alleanze strategiche consentono di ridurre i fattori di rischio d’impresa rispetto a determinati investimenti o scelte innovative; o al fatto che dal rafforzamento dei rapporti con clienti che diventano abituali e deriva una maggiore stabilità di risultati economici nel tempo.

Figura 4. Performance delle imprese coesive a confronto con quelle non coesive (quote percentuali di imprese che dichiarano un aumento, per ciascuna variabile, salvo diversa indicazione) - Fonte: Unioncamere, Fondazione Symbola, 2016 (Symbola, Unioncamere, 2016) - *Quota percentuale di imprese che hanno programmato assunzioni nel corso del 2015.

Conclusioni

Risulta sempre più evidente come il perimetro del “sociale” nelle imprese si stia dilatando a tal punto da diventare un asset strategico, superando così la dicotomia tra dimensione economica e sociale. L’impresa, oggi, per essere competitiva si “nutre” della socialità, delle relazioni, del capitale sociale presente nei territori e attraverso la propria attività core lo rigenera e alimenta affinché sia “linfa vitale” di imprenditorialità, già esistente piuttosto che nuova. Al contempo, le imprese “sociali per mission” sono sempre più legate alla comunità e ai territori come perno imprescindibile del proprio agire. Cioè a dire che la comunità e i territori sono non solo i beneficiari dell’offerta delle imprese sociali ma diventano co-produttori della stessa. Ed è così che il mercato, da mera arena competitiva, diventa anche luogo di coesione.

Bibliografia

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Note

  1. ^ Fonte dati: Collaboriamo.
  2. ^ Fonte dati: Infocamere.
  3. ^ http://bcorporation.eu/community/find-a-b-corp?field_country=Italy
  4. ^ Indagine Unioncamere sulle PMI manifatturiere (20-499 addetti) rivolta a un campione significativo dell’universo delle circa 22mila imprese manifatturiere attive appartenenti ai settori delle tre A del made in Italy (Alimentare/Abbigliamento/Arredamento) e della Meccanica che abbiano un numero di addetti compreso tra le 20 e le 499 unità. La fonte è costituita dal Registro Imprese integrato con i dati occupazionali INPS.
  5. ^ Ciascuna tipologia di relazione è stata opportunamente ponderata, ai fini del calcolo dell’indicatore di “coesività”, sulla base del grado di significatività che lega l’essere relazionata con il determinato soggetto e l’orientamento al social investment dell’attività imprenditoriale. Le imprese coesive sono state individuate in tutte quelle che presentano un valore dell’indicatore di “coesività” superiore alla media.
  6. ^ Anche da questo punto di vista, oggi, qualcosa è già cambiato e molto altro sta velocemente cambiando. A settembre del 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite hanno approvato la nuova Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile e i relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals - SDGs) da raggiungere entro il 2030. Ad aprile 2016, a Parigi, 196 Paesi hanno firmato l’accordo COP21 sulla riduzione dei cambiamenti climatici, impegnandosi a limitare l'incremento del riscaldamento globale a meno di due gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. A giugno 2015, dal canto suo, Papa Francesco ha pubblicato l’Enciclica “Laudato sì”, appellandosi a tutti per salvaguardare la “casa comune”.
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