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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2023

Saggi

La co-progettazione tra management amministrativo e politica sociale: un vademecum operativo

Luca Fazzi


Che cosa è la co-progettazione?

L’applicazione ormai diffusa degli strumenti previsti dall’art. 55 del Codice del Terzo settore è arrivata a una sorta di primo redde rationem. Il significato perentorio del termine redde rationem risale al Vangelo secondo Luca (16,2), in cui si racconta di un uomo ricco che essendo venuto a conoscenza di una gestione poco accorta del proprio patrimonio da parte dell’amministratore a cui ne era stata affidata la gestione, lo chiama a rapporto e gli chiede conto del suo operato: redde rationem villicationis tuae: iam enim non poteris villicare. Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare. La richiesta di rendere conto di come sta funzionando l’art. 55 è data dalla strisciante e crescente insoddisfazione rispetto al funzionamento della co-programmazione e in particolare della co-progettazione che dell’intero corpo normativo costituisce la parte più innovativa e rivoluzionaria.

La co-progettazione è una procedura che richiede che pubblico e terzo settore, in ragione di una comunanza di intenti, lavorino insieme per definire servizi e interventi che presuppongono una messa in comune di risorse nel rispetto delle rispettive specificità e punti di forza (Frediani, 2021). Rispetto alla classica procedura concorrenziale in cui il pubblico stabilisce obiettivi, contenuti e costi e acquista i servizi da parte di erogatori, la co-progettazione si propone come una sorta di “rivoluzione copernicana” che fa non solo proprio il principio di sussidiarietà inserito con l’art 118 in Costituzione, ma delinea anche una nuova concezione degli interventi del welfare locale (Gori, 2022). Mentre la competizione ha portato a privilegiare la scomposizione dei servizi in sottoinsiemi di prestazioni facilmente controllabili e prezzabili da parte del committente, la co-progettazione è uno strumento che si presta a essere utilizzato per affrontare problemi complessi in forza della collaborazione (Borzaga e colleghi, 2023).

La valenza della co-progettazione, prima ancora che tecnica, è dunque eminentemente politica e tale connotazione investe direttamente il ruolo sia del pubblico, sia del terzo settore. È inevitabile che un welfare locale schiacciato su prestazioni, burocratizzazione e concorrenza dia adito a effetti non solo di riduzione dell’efficacia, ma anche di forte depauperamento dell’immagine dei servizi e degli interventi a favore della collettività. Il perimetro in cui si collocano molti enti è diventato infatti nell’immaginario collettivo spesso una sorta di campo di calcio di serie C in cui operano attori modesti e vengono giocate partite considerate poco esaltanti dall’opinione pubblica. La co-progettazione, se intesa secondo il suo spirito costitutivo, è uno strumento per rilanciare un ruolo più impattante degli interventi sociali rispetto a bisogni e a problematiche che riguardano la vita quotidiana di ampie fasce di cittadinanza.

Questo passaggio da una dimensione tecnica e manageriale della co-progettazione verso una più politica, non sempre è stato fino a oggi ben colto e tematizzato. Sostanzialmente, esso significa che il campo di pensiero e di azione degli enti che si occupano di welfare locale diventa molto più ampio e inclusivo e permette di rilanciare una nuova stagione di protagonismo e mobilitazione nei confronti delle problematiche emergenti. Per esempio, se attraverso gli appalti i servizi rivolti agli anziani dovevano essere tendenzialmente protocollati e specializzati e restavano ancorati a un approccio riduzionistico ai problemi, con la co-progettazione il tema da affrontare può diventare una risposta ai processi di invecchiamento su un territorio oppure l’invecchiamento attivo, o la sperimentazione di forme di assistenza complesse che vanno oltre l’aggregazione funzionale degli enti erogatori di prestazioni tradizionali. Da questo punto di vista è chiaro che l’art. 55, con la sua logica di analisi partecipata dei bisogni da svolgersi nella fase propedeutica della co-programmazione e nella costruzione condivisa di interventi operativi da attuarsi in quella successiva della co-progettazione, non offre solo strumenti per un più efficace e efficiente management dei servizi a livello locale, ma rappresenta anche e soprattutto una diversa e innovativa prospettiva di politica sociale. La co-progettazione, nelle coordinate del Codice del terzo settore, diventa una procedura che espande gli interventi a campi più larghi dei servizi sociali socioeducativi e di inserimento lavorativo tradizionali e riconcettualizza in potenza il concetto di sociale ampliando sia il terreno di azione che il numero e la tipologia degli attori coinvolgibili. Per esempio, in un progetto a favore dell’invecchiamento, si può ragionare in termini sia di filiere socioassistenziali e sociosanitarie, sia di housing sociale, di servizi formativi e ricreativi, di sostegno alle famiglie eccetera.

Mentre, per quanto concerne la co-programmazione, la storia dei piani di zona, dei tavoli tematici e dei processi partecipati offre almeno sulla carta già diverse indicazioni su come operare (Polizzi, 2023), applicare lo strumento della co-progettazione significa, per gli enti pubblici e di terzo settore, intraprendere un viaggio in terre più incognite.

Cosa significa condividere le risorse? Come vanno costruiti gli avvisi? Che criteri si possono utilizzare per la selezione delle proposte? Come si distingue un capitolato da un documento posto a base della coprogettazione: sono tutti interrogativi destinati a trovare una risposta nella pratica. Non deve stupire che le diverse incertezze e criticità che si pongono lungo il tragitto siano così spesso affrontate nel più classico dei modi: ovvero ricorrendo agli schemi di pensiero e alle soluzioni già sperimentate (Fazzi, 2023). Ogni istituzione e ogni organizzazione, così come in realtà è tipico anche di ogni essere umano, quando si confronta con situazioni nuove o poco conosciute, utilizza, per decifrare il problema e trovare soluzioni, gli schemi mentali acquisiti e sperimentati in passato che sono fonte di sicurezza e riducono lo stress derivante dall’incontro con l’ignoto (Catino, 2012). In queste particolari situazioni, riconcettualizzare i problemi è molto più faticoso che non semplificarli con il richiamo all’esperienza e alle consuetudini.

Bisogna essere coscienti che, nel caso dell’esplorazione delle terre sconosciute della co-progettazione, gli schemi a cui molti fanno riferimento sono, per la storia del welfare mix nazionale, quelli contenuti in larga parte nella logica degli appalti. Diverse ricerche ed evidenze empiriche sottolineano gli effetti di dipendenza dal percorso che i nuovi strumenti collaborativi incontrano nella attuale fase di applicazione e individuano proprio nelle regole e nei valori, sia taciti che impliciti, che regolano la competizione il fardello più pesante da cui gli attori del welfare locale faticano a liberarsi (Euricse, 2023).

Il passaggio da sistemi competitivi verso ambienti collaborativi non può essere considerato dunque automatico, né scontato. La difficoltà di transitare da un modello all’altro apre una ulteriore questione che rischia di essere sottovalutata: quella delle cosiddette “policy windows”, ovvero le finestre temporali in cui una serie di elementi convergono per rendere possibile l’assunzione di decisioni politiche che in altri momenti non sarebbero state realizzabili (Kingdon, 2011). Ogni riforma per essere avviata ha bisogno di un “momento giusto”. Per l’art. 55 il momento giusto corrispondeva a un periodo storico caratterizzato da una leadership politica nazionale che ha scommesso su un ruolo diverso del terzo settore, dalle attese di un superamento di un sistema di regolazione degli appalti fortemente penalizzante per le ambizioni di protagonismo sia sociale che economico del terzo settore e dalla ricerca di fonti integrative e innovative di finanziamento per il welfare. Come tutte le finestre di policy, anche quella del welfare collaborativo non rimane però aperta all’infinito. Se le variabili che hanno consentito di approvare la riforma si modificano, il rischio è che la finestra si chiuda e questo è quello che potrebbe accadere molto velocemente con l’art. 55. Il clima politico nei confronti del terzo settore, rispetto al periodo che ha portato all’approvazione del Codice, è profondamente mutato e le attese riposte nei confronti del welfare collaborativo si stanno confrontando con una realtà più complicata del previsto. Restano le misure del PNNR (missione Inclusione e coesione, ecc.) che prevedono l’utilizzo dell’art. 55 e mobilitano parecchi investimenti, ma con una prospettiva temporale a termine, mentre i bilanci ordinari degli enti locali che finanziano la gran parte dei servizi del welfare locale sono in sofferenza e continuano a stressare la dimensione del risparmio e del taglio sui costi. In questo quadro cresce lo scetticismo e un accumulo di aspettative disattese può portare comprensibilmente a maturare posizioni di aperta avversione rispetto ai nuovi strumenti collaborativi.

L’interrogativo centrale dell’attuale fase di applicazione della riforma dunque è: come si può fare per accelerare il processo di cambiamento? In che modo va affrontato il problema della dipendenza dal percorso e del supporto per introdurre una vera innovazione nell’ambito dei procedimenti amministrativi che regolano i rapporti tra pubblico e terzo settore?

Le linee guida: le impalcature di un cantiere in costruzione

È naturale che una riforma radicale come quella dell’art. 55 incontri difficoltà di applicazione. La storia è sempre un peso, e quanto più l’innovazione porta con sé elementi di cesura con il passato, tanto maggiori sono le resistenze e gli ostacoli da superare.

Nella consapevolezza che il cambiamento va supportato, diversi enti, tra cui l’Anci - l’Associazione nazionale dei Comuni Italiani - hanno proceduto ad avviare percorsi di formazione e informazione sui nuovi strumenti collaborativi. Centinaia di funzionari e dirigenti hanno avuto la possibilità di conoscere la nuova normativa e gli aspetti legislativi dell’art. 55. La formazione è un naturalmente prerequisito fondamentale per sostenere il cambiamento, ma da sola rischia di essere una soluzione non sufficiente a risolvere i problemi. Nel confronto con la miriade di situazioni pratiche e contestuali in cui si trova a operare, la co-progettazione incontra logicamente ostacoli, dilemmi applicativi e problemi da risolvere che un programma formativo antecedente alla sua applicazione semplicemente non è in grado di prevedere. Le evidenze empiriche mostrano inoltre come due decenni di regolazione basata su principi come la concorrenza, il controllo e il New Public Management, inevitabilmente hanno radicato, sia nei funzionari pubblici che negli enti di terzo settore, modelli di comportamento e di pensiero che frizionano con forza con lo spirito delle nuove agende collaborative.

Quello che in questa fase è fondamentale mettere a fuoco è, dunque, non tanto come la riforma si sarebbe dovrebbe applicare, ma come realmente sta venendo applicata per individuare quali sono le criticità e come eventualmente esse possono essere risolte. È come se l’art 55 fosse un grande cantiere da poco avviato. È piuttosto normale che emergano difficoltà e problemi in opere in costruzione. Se però il cantiere avanza senza che vengano posti correttivi agli eventuali errori o eventi non contemplati in fase di progettazione, il rischio è che l’edificio che verrà realizzato incorpori difetti strutturali che a un certo punto non sono più correggibili e possono portare nel caso estremo a fare vacillare e implodere l’intera struttura. Più semplice e ovvio è intervenire dunque in tempo reale man mano che i lavori procedono, identificando gli aspetti problematici e fornendo agli addetti al cantiere indicazioni coerenti su come procedere.

Le indicazioni più efficaci che si possono sviluppare nell’ambito dell’applicazione della co-progettazione sono quelle che assumono la forma tecnica di linee guida. Le linee guida sono insiemi di indicazioni sviluppate sulla base di conoscenze aggiornate, basate su evidenze empiriche e costruite e rese disponibili per rendere appropriati i comportamenti desiderati. Le linee guida sono particolarmente importanti come strumenti per accompagnare una riforma perché non solo indirizzano i responsabili dei provvedimenti e i partner, ma perché forniscono anche elementi di progressiva chiarificazione dei problemi. Tali elementi allentano i meccanismi psicologici e cognitivi di reazione messi in atto di fronte all’incertezza che frenano il processo di cambiamento. Inoltre, le linee guida contribuiscono a modificare le culture consolidate fornendo segnali istituzionali di innovazione. 

In quanto strumenti pensati come esplicito supporto al processo decisionale, le linee guida, per essere efficaci, devono: i) basarsi su evidenze empiriche, ii) avere caratteristiche di sufficiente flessibilità per adattarsi alle diverse problematiche e situazioni contestuali, iii) rendere visibili i loro effetti sui risultati e iv) essere improntate sul principio di applicabilità. Esse offrono dunque una definizione di buone pratiche alle quali aggiungono relativamente pochi dettagli operativi, lasciando la discrezionalità tecnica della loro applicazione ai responsabili dei provvedimenti.

Provando a fare sintesi del corpo ancora magmatico e in divenire di evidenze empiriche relative all’implementazione della co-progettazione, e in generale dell’art. 55, una serie di punti di criticità da trasformare in oggetti di riflessione e in linee di indirizzo sono identificabili piuttosto chiaramente. La tab. 1 ne riporta una sintesi mentre di seguito ciascun aspetto è analizzato in dettaglio e tradotto in indicazione operativa.

Tab. 1 Principali punti critici da affrontare per supportare l’applicazione della co-progettazione in modo conforme allo spirito della riforma e relative indicazioni di chiarificazione

Dimensioni

Fattori critici

Principi per le linee guida

1. Il senso della co-progettazione

Non sempre è chiaro quale è il senso della co-progettazione, che viene utilizzata spesso in modo improprio o per affrontare problemi che potrebbero essere risolti con altri strumenti

Definire criteri per orientare la scelta dei procedimenti verso la collaborazione

2. Il collegamento con i bisogni

In molti casi le coprogettazioni sono avviate senza una analisi dei bisogni e con analisi dei bisogni stereotipate e frutto della proiezione dell’organizzazione dei servizi esistenti

Rendere vincolanti le analisi propedeutiche dei bisogni alla realizzazione delle co-progettazioni

3. Comunicazione promozione

La comunicazione degli avvisi spesso è solo burocratica e non consente di sviluppare i processi di preparazione e confronto necessari per costruire cordate non strumentali e orientate al compito

Sviluppare strumenti e processi di promozione degli avvisi per permettere la costituzione di coalizioni basate sulla comunanza di intenti

4. Contenuti degli avvisi 

 

Molti avvisi sono formulati in forma di capitolato e non prevedono e consentono la co-progettazione reale degli interventi

 

Definire gli avvisi in forma tale da permettere la co-progettazione reale il dialogo e l’individuazione di progetti condivisi

5. Previsioni di spesa 

 

Le previsioni di spesa sono incentrate al risparmio e prevedono richieste irrealistiche di compartecipazione da parte de terzo settore

Stabilire limiti precisi ai finanziamenti sotto i quali non è possibile avviare le co-progettazioni e sviluppare un approccio multidimensionale al tema delle risorse

6. Le risorse

Le risorse considerate per valutare la compartecipazione al budget di progetto sono spesso solo quelle economiche con una svalutazione del ruolo del terzo settore  

Sviluppare un approccio multidimensionale alla valutazione delle risorse che comprenda i fattori distintivi del terzo settore 

7. Selezione

I criteri di selezione utilizzati premiano gli enti di terzo settore secondo logiche competitive

Utilizzare criteri di selezione che valorizzano i punti di forza degli enti coinvolti

8. Inclusività del processo

 

La partecipazione è limitata enti di terzo settore iscritti al registro unico gli altri attori della comunità rischiano di essere estromessi

Favorire il coinvolgimento degli enti del territorio in forma compatibili con la norma e il procedimento amministrativo

9. La gestione dei tavoli 

 

 

I processi di lavoro sono gestiti con modalità amministrative, le interazioni sono complicate e le agende di lavoro difficili da governare a causa della mancanza o carenza di competenze

Vincolare le co-progettazioni alla presenza di personale formato alla gestione dei tavoli di lavoro

10. La tempistica degli accordi

 

La durata degli accordi contrattuali tende a riprodurre la tendenza all’accorciamento dei tempi di svolgimento dei servizi degli appalti e rischia di minare la dinamica della costruzione della fiducia necessaria per sostenere i processi collaborativi 

Definire accordi di durata tale da consentire lo sviluppo degli approcci collaborativi

11. La valutazione

La valutazione è sostanzialmente assente per cui diventa difficile sia rinforzare la dinamica del processo collaborativo, sia giustificare la scelta della coprogettazione

Introdurre forme di valutazione dei processi e degli esiti delle co-progettazioni

12. La rendicontazione

Le procedure di rendicontazione sono spesso molto farraginose e pesanti e mettono in crisi gli enti che devono gestire le rendicontazioni

Introdurre forme di rendicontazione gestibili ed efficaci

 

1. Management amministrativo o decisione politica consapevole?

Il primo aspetto critico dell’applicazione della co-progettazione che le ricerche mettono in luce è che non è sempre chiaro il motivo per cui questa procedura viene adottata. Spesso si sente parlare di servizi a gara che, una volta terminati, sono messi in coprogettazione senza fondamentalmente alcuna ratio che permetta di capire quali sono eventualmente i vantaggi (e i limiti) di una procedura collaborativa. Un esempio eclatante della difficoltà di spostare la riflessione su un piano di ragionamento diverso da quello della mera gestione di problemi contingenti è rappresentato da un recente bando di coprogettazione per i trasporti dei disabili. A bando sono stati messi tragitti, numero di disabili da trasportare, costi del carburante come se si trattasse di un normale capitolato di gara. Perché tra le procedure di co-progettazione si ritrovano casi paradossali come questo o altri in cui più banalmente le coprogettazioni sono equivalenti di normali procedimenti competitivi è una questione che ha molte ragioni. Ci possono essere esigenze contingenti, come la disponibilità di un finanziamento ministeriale che impone l’uso dell’art. 55, a spingere gli enti locali a adottare le procedure collaborative, oppure si tratta di decisioni tese a garantire una continuità di servizio che gli obblighi di rotazione degli appalti rischiano di mettere in discussione. Più in generale, tuttavia, l’impressione è che non sia ancora maturata la consapevolezza che per introdurre strumenti collaborativi come le coprogettazioni è necessaria la presenza di condizioni e valutazioni ben precise. La letteratura sui processi collaborativi nella ideazione e produzione di servizi di pubblico interesse ha ampiamente evidenziato come il suffisso co- che va attualmente per la maggiore (co-progettazione, co-produzione, co-creazione, eccetera) è utilizzato quasi come una ‘parola magica’, mentre si dovrebbe tenere sempre presente che la decisione di collaborare e di come collaborare dipende sempre dal tipo di problemi che si intendono affrontare, dagli attori coinvolti (o coinvolgibili), dalle caratteristiche dei servizi eccetera (Dudau e colleghi, 2019).  

Innanzitutto, i problemi che si vogliono affrontare attraverso la collaborazione devono essere complessi e plurali e richiedere per la loro soluzione l’intervento di più attori. La distinzione che deve essere applicata non è tanto quella tra ambiti nuovi o consolidati come ogni tanto si sente dire, anche perché la normativa e le linee guida ministeriali presentano a questo riguardo una posizione molto chiara. Piuttosto, si tratta di definire se un problema può essere affrontato meglio da più attori che da uno solo. Per esempio, un intervento per promuovere iniziative di educazione finanziaria sul territorio in un periodo di crisi economica e di inflazione galoppante che rischia di travolgere le parti più deboli del ceto medio, non può essere affrontato da un unico ente che offre personale specialistico come potrebbero essere educatori appositamente formati. Si tratta piuttosto di comprendere che molte persone cosiddette normali faticherebbero a entrare in contatto con servizi specialistici per timore di stigmatizzazione e va costruita di conseguenza una rete di punti di accesso facilitanti come potrebbero essere i patronati o le associazioni per poi mettere in collegamento gli esperti con le persone che necessitano di un sostegno per gestire i mutui, i debiti o i piani di spesa mensili. In questo caso, l’oggetto degli interventi è per sua stessa natura collaborativo, perché si può affrontare solo in presenza di una rete di attori che lavorano in collaborazione gli uni con gli altri e mettono in condivisione risorse che prese singolarmente non riuscirebbero a dare risposte efficaci alla problematica.

Oltre a definire i problemi per la loro natura articolata, la scelta della coprogettazione richiede anche di valutare se esistono più attori disponibili e interessati a contribuire alla loro soluzione. Potrebbe essere che si sia di fronte a un problema complesso, ma che non esistano i soggetti sul territorio capaci di rapportarsi alla tematica. L’idea di collaborazione verrebbe di conseguenza a cadere per mancanza dei soggetti da coinvolgere nei processi collaborativi.

La decisione di procedere con l’avvio di procedure di coprogettazione deve tenere dunque a mente due condizioni: il tipo di problema e la presenza di più attori che possono lavorare insieme per dare risposte efficaci. Se tali condizioni mancano la coprogettazione non è lo strumento più indicato e andrà valutata l’opportunità di utilizzare altri strumenti.


Indicazione 1
La coprogettazione è uno strumento che va scelto in relazione alla funzionalità del suo uso. In particolare, la coprogettazione si attiva i) in presenza di problemi che richiedono per essere affrontati in modo efficace dell’intervento congiunto di più attori e ii) in base alla esistenza e all’interesse di tali attori a intervenire con una comunanza generale di intenti.

 

2. Orientamento ai servizi o ai bisogni?

La centralità della valutazione e la natura strategica della coprogettazione rimandano come secondo punto al dilemma classico del welfare locale tra l’orientamento ai servizi e l’orientamento ai bisogni. Se manca l’analisi dei bisogni è inevitabile che le co-progettazioni rischino di trascinarsi dietro la logica dei servizi specialistici e dello spezzettamento delle prestazioni che ha accompagnato l’ultimo ventennio di politiche del welfare locale in Italia. Con la pressione verso la classificazione amministrativa e il controllo della spesa, i servizi e gli interventi più destrutturati e complessi degli anni Novanta sono stati progressivamente razionalizzati e parcellizzati. La specializzazione ha come vantaggio un aumento di professionalizzazione degli interventi. La frammentazione e parcellizzazione dei servizi tendono d’altro canto a produrre in parallelo un effetto sminuzzamento che ha più punti di ricaduta problematici. Da un lato, esso è ben visibile nelle paradossali e purtroppo diffuse situazioni in cui un'unica persona fruisce contemporaneamente dei servizi di più enti chiamati a erogare singole prestazioni fornite senza la preoccupazione o il tempo di confrontarsi con gli altri erogatori. Gli interventi così rischiano di essere scoordinati, o persino non allineati negli intenti. Dall’altro, sono di frequente gli stessi enti a interiorizzare nelle loro strutture produttive e di pensiero i mandati istituzionali parcellizzati. In questo modo, si riduce la capacità a percepire e l’interesse a leggere i bisogni con schemi diversi da quelli dei capitolati di gara o dagli accreditamenti dei servizi e il focus del pensiero rischia di essere quello dei servizi e non delle persone o dei gruppi sociali che esprimono i bisogni. Se si vuole valorizzare le potenzialità del welfare collaborativo il cosiddetto ‘punto di partenza’ assume una fondamentale rilevanza. Più i bisogni sono collocati su un piano di ecologia delle persone, sono ricomposti nei percorsi di vita reali e inseriti nell’ecologia delle relazioni sociali, minori sono i condizionamenti del pensiero frammentato delle istituzioni e dei servizi consolidati e maggiore la possibilità di ottenere una visione olistica e multidimensionale dei problemi in campo che costituisce l’elemento propedeutico essenziale per l’avvio di processi collaborativi (Trischler e colleghi, 2019). Per permettere alla coprogettazione di raggiungere risultati coerenti con lo spirito istitutivo dello strumento è dunque indispensabile considerare come ineludibile il presupposto di una analisi dei bisogni che non sia solo la proiezione del modo con cui i servizi e i professionisti delle istituzioni vedono i problemi. Questo passaggio ha delle importanti implicazioni metodologiche.

La prima è che la coprogettazione deve essere preceduta per risultare efficace da una analisi dei bisogni aggiornata e non limitata a individuare output predefiniti dal modo con cui i servizi sono già pensati e organizzati. L’orientamento ai bisogni implica che lente attraverso la quale osservare i bisogni abbia una base fenomenologica legata all’esperienza di vita delle persone degli ambienti di riferimento. Il punto di vista da considerare è dunque più vasto di quello compreso nel perimetro dove si collocano i servizi più specialistici e parcellizzati e richiede il coinvolgimento di una pluralità di attori non solo specializzati e professionali (Vargo, 2016). Un approccio interattivo e collaborativo con soggetti plurali abilita i processi di analisi a individuare nuove combinazioni di risorse da attivare, a scoprire nuove sfaccettature dei problemi e a sperimentare interazioni complesse tra il sistema dei servizi e l’ambiente più ampio in cui essi si collocano (Eriksson, 2019). La seconda implicazione è che per rappresentare i bisogni nella loro interezza e consentire di individuare combinazioni di interventi tra più attori è essenziale coinvolgere nell’analisi il più possibile anche i soggetti direttamente interessati. Questo va fatto in modo non ideologico, sempre tenendo conto delle caratteristiche dei beneficiari e della loro possibilità di interazione e attivazione. Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che oggi la partecipazione dei beneficiari nell’applicazione del nuovo welfare collaborativo rimane sostanzialmente ancora largamente assente. La collaborazione avviene dunque al di sopra delle loro teste e questo rischia di avere conseguenze negative sulla possibilità di delineare i bisogni in un modo tale da farne vedere tutte le diverse sfumature in relazione all’ambiente di riferimento (famigliare, sociale, istituzionale, ecc.) e non solo gli aspetti più tradizionalmente considerati dai servizi professionali e specialistici.


Indicazione 2
La coprogettazione va utilizzata previa una analisi dei bisogni e delle problematiche che si intendono affrontare e deve essere basata sul coinvolgimento attivo di più attori, favorendo interazioni virtuose nella rappresentazione organica dei bisogni e nella ricerca di combinazioni di risorse da attivare per rispondere agli stessi.

Indicazione 3
L’analisi dei bisogni propedeutica alla coprogettazione deve nella misura in cui ciò è possibile privilegiare il coinvolgimento attivo dei beneficiari.

 

3. Informazione o promozione?

Dopo avere scelto e fondato la decisione della co-progettazione sull’analisi dei bisogni da affrontare, il procedimento assume una forma concreta con la pubblicazione degli avvisi che devono indicare le finalità del lavoro comune, le attività coerenti e i diversi criteri e requisiti per la partecipazione. Un elemento di tensione si registra spesso rispetto alle modalità di informazione degli avvisi di coprogettazione e ai tempi richiesti per la presentazione delle proposte. La ratio dell’informazione degli avvisi di co-progettazione consiste nel permettere agli attori del territorio interessati di prepararsi per tempo per presentare una proposta efficace. Può essere, naturalmente, che precedentemente all’avvio della procedura di co-progettazione siano state svolte attività di confronto che hanno permesso di predisporre un terreno fertile per la collaborazione, o che siano gli stessi enti di terzo settore a avere avanzato la proposta di indire una procedura di coprogettazione per affrontare determinate tematiche. In questi casi, tempi ristretti di presentazione delle proposte rischiamo di escludere eventualmente gli enti interessati che non hanno preso parte alle attività di discussione precedenti. Se tali attività sono state svolte in modo inclusivo e trasparente, il rischio ovviamente è molto basso e sicuramente più che accettabile. Nel caso gli avvisi siano esito di decisioni prese al di fuori di un processo di confronto e partecipazione allargata precedente, i tempi stretti e le modalità burocratiche di informazione come la pubblicazione sui soli albi pretori dei comuni rischiano di creare un effetto boomerang. Costretti a elaborare proposte in tempi eccessivamente contingentati - si ha il caso di alcune coprogettazioni che lasciano una settimana di tempo per presentare le proposte - gli enti di terzo settore tenderanno in queste evenienze ad aggregarsi più per motivi di interesse contingente, o per ragioni di affinità produttiva, che non in nome di una elaborazione condivisa dei bisogni e delle strategie per fornire a essi risposta. Allo stesso tempo, informative molto formali come quelle degli avvisi pubblicati solo sugli albi pretori rischiano di favorire soprattutto processi di selezione avversa degli enti interessati a presentare proposte, favorendo quelli più specializzati e di medio grandi dimensioni, abituati a controllare la pubblicazione dei bandi di gara a discapito degli enti più piccoli e di volontariato, magari più informali, ma non di rado maggiormente orientati all’innovazione. Il punto da affrontare è che quando si parla di co-progettazioni, la comunicazione non è solo forma, ma anche sostanza. Per promuovere la partecipazione e la collaborazione è necessario che sia fatto un lavoro propedeutico di ingaggio, coinvolgimento e capacitazione degli enti interessati a operare insieme per un obiettivo comune. Più che di informazione si dovrebbe parlare e pensare a un’azione di promozione delle condizioni affinché prendano forma cordate consapevoli di enti disponibili a collaborare e non forzati o improvvisati a adottare stili di comportamento che non sono loro propri.


Indicazione 4
Gli avvisi devono essere preceduti da adeguate attività di promozione e non esaurirsi in comunicazioni burocratiche che impongono tempi eccessivamente stretti per la costruzione delle reti di partenariato e l’elaborazione delle proposte da sottoporre alla selezione pubblica.

 

4. Capitolati o progetti?

La cultura degli appalti ha favorito la convinzione che i processi di produzione dei servizi debbano essere resi compatibili con la logica del controllo ex ante e della rendicontazione ex post. Il terzo settore rappresentato come un fornitore invece che un partner deve eseguire attività definite in modo dettagliato in modo da consentire una verifica contabile e amministrativa del lavoro svolto. Questa cultura naturalmente non è stata mai interamente omogenea, nemmeno nel periodo più recente, e la fase di pre-contrattazione informale dei contenuti degli appalti sicuramente ha costituito uno spazio di negoziazione capace di mitigare una divisione completamente asimmetrica del potere tra pubblico e terzo settore. Tuttavia, l’idea del bando e del capitolato sono entrate a fare parte del modus operandi e del pensiero dei dirigenti e dei funzionari pubblici e in parte anche degli enti di terzo settore. La diffusione delle culture dei capitolati si riscontra su ampia scala non solo a livello di piccoli Comuni, ma anche di enti più grandi, che in teoria dovrebbero avere consapevolezza della differenza tra un processo collaborativo necessariamente da costruirsi attraverso l’interazione e un capitolato a seguito del quale non si può avere più una fase di ideazione e approfondimento condivisa. Un recente bando per i minori stranieri non accompagnati promosso dall’Anci con il finanziamento del 5 x 1000, per esempio, dettagliava le attività da svolgere al punto da richiedere agli enti output molto precisi come “preparare i minori per il conseguimento della patente”, con il paradosso di rendere impossibile il raggiungimento del risultato per i minori spostati nei Comuni in cui non veniva concessa la residenza da parte degli uffici dell’anagrafe per motivi politici. In altri casi, la specificazione dei profili dei servizi risulta tale che i tavoli di coprogettazione sono convocati una sola volta per certificare gli adempimenti dei singoli partner. La giurisprudenza si è espressa anche di recente chiaramente (sentenza del Consiglio di Stato nr. 5271 del 26/5/2023) rispetto al fatto che i profili dettagliati dei servizi tradiscono lo spirito dell’art. 55 e la logica cooperativa, ovvero la componente ideativa e collaborativa, il che rende incerta la qualificazione della fattispecie e illegittimo dalle procedure di appalto di un servizio. Ciononostante, malgrado l’emanazione di queste recenti sentenze, la tendenza a scivolare nella logica del capitolato resta ancora marcata per via di consuetudini che non sono facili da smantellare. Il deterrente dei contenziosi da parte del terzo settore di fronte a violazioni dell’uso appropriato della co-progettazione è sicuramente una strada da seguire per ridurre il fenomeno ai minimi termini. Tuttavia, è logico che per molti enti contestare il proprio committente storico possa risultare molto faticoso. Di conseguenza, è importante che anche a livello regionale e locale sia ribadita con forza l’indicazione secondo cui gli avvisi di coprogettazione non possono contenere elementi di dettaglio dei profili dei servizi e essi possono prendere forma solo dopo che sono stati avviati i tavoli di co-progettazione. Qualora ci si trovi di fronte a problemi che possono essere affrontati nei rapporti tra pubblico e terzo settore in modo più efficiente ed efficace attraverso la logica dei capitolati dovrebbe essere chiaramente indicato che la co-progettazione non è lo strumento adatto ad affrontare i problemi e ad essa andrebbero preferiti altri schemi di affidamento dei servizi.


Indicazione 5
Gli avvisi non possono contenere i profili dei servizi dettagliati e richiedono di lasciare spazi verificabili per la co-progettazione tra i partner.

 

5. Risparmio o investimento?

Gli avvisi sono sempre accompagnati da previsioni di spesa. La spesa per finanziare le co-progettazioni può essere intesa in due modi: in una prospettiva di risparmio o di investimento. L’idea del risparmio è insita in una tradizione diffusa delle relazioni tra pubblico e terzo settore e si rileva in molti avvisi che presentano finanziamenti del tutto inadatti a sostenere la realizzazione degli interventi, oppure che richiedono compartecipazioni economiche dirette come criterio per la selezione dei partner o, ancora, che cercano di risparmiare sui costi indiretti. Per esempio, si hanno situazioni in cui l’avviso di co-progettazione sostituisce un precedente bando di gara con marcate riduzioni del finanziamento pubblico con l’attesa che il mancato budget sia compensato da un contributo da parte del terzo settore. In un recente bando per attività di giustizia riparativa del Ministero della Giustizia era prevista per esempio per la selezione del partner privato, l’attribuzione di un punteggio fino a 30 punti su 100 per il cofinanziamento della attività da parte del terzo settore. La co-progettazione in questo caso non di discosta come logica dalla pratica ormai diffusa nelle gare dell’attribuzione di punteggi a servizi aggiuntivi erogati gratuitamente per la selezione dei fornitori con l’obiettivo del mero risparmio dei costi. Addirittura, usando una metafora un po' radicale, si potrebbe parlare in alcuni casi di una sorta di “caporalato” che prevede il soggetto reclutatore richieda una percentuale di guadagno all’assoldato per potere lavorare.

Gli effetti di una contrazione voluta del finanziamento pubblico possono essere naturalmente variegati e fungere in teoria anche da stimolo per un’attivazione del terzo settore a ricercare fonti di finanziamento aggiuntive in modo indipendente. Se questo è possibile per alcune tipologie di enti a carattere filantropico o caritativo, per la gran parte delle organizzazioni che si caratterizzano come produttori di servizi, un taglio di budget si può configurare però come una riduzione netta del finanziamento per l’ente e può comportare la necessità di tagli e ridimensionamenti organizzativi e occupazionali non voluti. I rischi connaturati a un approccio che vede nella coprogettazione un’occasione di risparmio per la spesa pubblica sono visibili anche nel frequente mancato riconoscimento dei costi indiretti. I costi indiretti sono relativi a tutte le attività non direttamente connesse con l’erogazione di ore lavoro per lo svolgimento dei servizi. Costi indiretti sono quelli di segreteria, di amministrazione contabile, di organizzazione del lavoro che devono essere svolti per fare funzionare il modo corretto le organizzazioni. L’art. 18 del decreto legislativo 201 sui servizi pubblici locali chiarisce che l’unico limite per l’applicazione dei partenariati previsti all’art. 55 del codice del terzo settore è che le risorse pubbliche messe a disposizione degli enti non siano superiori al rimborso dei costi, variabili, fissi e durevoli previsti ai fini dell’esecuzione del rapporto di partenariato. In altri termini può essere considerato costo tutto ciò che è rendicontabile come tale e che è inerente alle attività specifiche oggetto della futura convenzione, a condizione che ciò non generi un incremento patrimoniale dell’ente di terzo settore. Se questo criterio non viene applicato, è chiaro che per gli enti di terzo settore l’introduzione della coprogettazione equivale a un gioco a perdere perché i costi indiretti vanno direttamente a carico delle singole organizzazioni. Oltre al rischio di impoverimento degli enti, il problema della strumentalizzazione economica della co-progettazione è che nell’innovazione istituzionale e organizzativa il consenso o il dissenso dei diversi attori coinvolti è fortemente condizionato dalla percezione di equità (Ford e colleghi, 2008). Se i soggetti implicati valutano che il cambiamento ingenera ingiuste redistribuzioni di risorse, o mette in difficoltà alcune posizioni a discapito di altre, gli atteggiamenti di contrarietà e le resistenze aumentano. In caso contrario, tende a crescere invece il consenso verso l’innovazione e la disponibilità e l’interesse ad affrontare insieme le difficoltà connaturate al cambiamento. È evidente in questa prospettiva che la logica del risparmio non è in grado di sostenere nel medio periodo una riforma incentrata su una collaborazione reale e tende a riprodurre piuttosto collaborazioni fittizie o di facciata.

La prospettiva dell’investimento si colloca in una posizione diversa rispetto a quella del risparmio, e parte dall’assunto che contraddistingue la logica della co-progettazione è di mettere i partner in condizione di offrire il migliore contributo possibile al raggiungimento degli obiettivi comuni e quindi vanno trovati e spesi i soldi per raggiungere questo scopo. Questo secondo approccio ha diverse implicazioni. La prima è che va valutato con cura quale contributo può essere offerto dai diversi enti e questo significa che non è possibile richiedere impegni che eccedono le possibilità delle singole organizzazioni, o che dietro la coprogettazione si celino scambi nascosti di affidamento di servizi in cambio di ribassi forzati del costo del lavoro. I costi supportati dai diversi enti devono essere dunque coperti, e solo dopo si può valutare il contributo aggiuntivo che ciascuno può portare alla costruzione e realizzazione dei progetti. In secondo luogo, le previsioni di spesa dovrebbero tenere in considerazione il fatto che solo alimentando politiche di welfare espansive è possibile costruire progetti virtuosi di lungo periodo. Le co-progettazioni trasformate in strumenti per risparmiare risorse creano effetti deleteri sulla fiducia, la tenuta degli enti e la qualità dei servizi. Non consentendo l’acquisizione di utile, le co-progettazioni, anche se virtuose, non consentono di conseguenza agli enti più strutturati di investire su un progetto di impresa realmente sostenibile. Se l’intero sistema dei rapporti pubblico – terzo settore fosse basato sui contributi, con cosa potrebbero alimentare per esempio le cooperative sociali le proprie esigenze di investimenti, formazione e sviluppo? Le co-progettazioni andrebbero pensate e inserite pertanto all’interno di disegni più ampi di politica sociale territoriale capaci di alimentare ulteriori possibilità di intervento integrando gli interventi regolati dall’art. 55 con l’insieme degli altri investimenti e procedure di sostegno al sistema dei servizi e degli interventi locale.


Indicazione 6
La contribuzione richiesta non può abbassare il costo del lavoro sotto i contratti di lavoro nazionali.

Indicazione 7
I costi indiretti e i costi fissi vanno computati e va fissata una soglia minima compatibile con il finanziamento delle attività da parte degli enti che la erogano.

 

6. Risorse solo economiche o anche di altra natura?

Un altro aspetto da evidenziare è che la cosiddetta condivisione di risorse tra pubblico e terzo settore che caratterizza l’istituto della co-progettazione assume di principio un’accezione ampia del termine “risorsa”. Seguendo l’argomentazione della sentenza della Corte costituzionale 131 del 2020, gli enti del terzo settore sono titolati ad accedere alle procedure non competitive in virtù di alcune caratteristiche specifiche, come la conoscenza dei bisogni, la capacità di lettura degli stessi, l’inserimento nelle reti del tessuto comunitario locale, eccetera. Le risorse che il terzo settore può apportare alla co-progettazione sono dunque variegate e specifiche: conoscenze, professionalità, capitale sociale, messa in comune di mezzi o spazi, eventuali recuperi di risorse da aggiungere (non da sottrarre) ai finanziamenti necessari a fare funzionare i servizi attraverso la raccolta di donazioni, ingaggi di nuovi finanziatori, eccetera. Accade non di rado che le risorse considerate da parte degli enti pubblici per valutare proposte e ruolo del terzo settore siano però solo, o in netta prevalenza, di natura economica. Questo atteggiamento rischia di produrre come effetto un grave impoverimento del contributo che gli enti di terzo settore possono portare alla co-progettazione e a cascata sull’efficacia stessa dell’istituto previsto dall’art. 55. Se, per esempio, non è dato valore alle relazioni di capitale sociale attivabili sul territorio, viene a cadere la capacità di mobilitare e coordinare risorse comunitarie da indirizzare verso obiettivi condivisi con i diversi soggetti del welfare locale. L’idea che purtroppo si è insinuata spesso nell’immaginario comune è che gli enti di terzo settore più strutturati e produttivi non siano particolarmente diversi dalle imprese commerciali. In questo modo si perde di vista però quali sono gli elementi distintivi e la capacità di produzione di vantaggi competitivi da parte del terzo settore (Enjolras, 2009). È essenziale, dunque, che nella valutazione dei contributi dei diversi partner si abbia cognizione che parlare di risorse significa fare riferimento a qualcosa di più ampio della sola dimensione economica e che ciò che distingue il terzo settore dovrebbe essere il primo fattore da promuovere e su cui investire per ottenere un beneficio condiviso attraverso le relazioni collaborative.


Indicazione 8
Le risorse con cui il terzo settore contribuisce alla coprogettazione devono essere valutate tenendo conto la specificità del valore che esso può apportare quindi non solo la partecipazione economica, ma anche la capacità di leggere i bisogni, la conoscenza, i legami di capitale sociale, la capacità di mobilitare risorse aggiuntive rispetto a quelle necessarie a finanziare il costo del lavoro.

 

7. Criteri di selezione o di valorizzazione?

La selezione è una ulteriore fase in cui si giocano le ambiguità e le contraddizioni dell’incontro della nuova normativa con le vecchie consuetudini degli appalti. Nei modelli competitivi, la selezione ha come obiettivo premiare la migliore offerta, massimizzando l’interesse di breve periodo del soggetto appaltatore. Quello che conta è avere il servizio migliore a minore prezzo. Le conseguenze sui fornitori delle richieste dell’affidatario non costituiscono in genere un motivo di particolare preoccupazione. Questo accade per il fatto che per molti servizi a elevato livello di standardizzazione si registra una forte intercambiabilità dei gestori. La corda per ottenere prestazioni a basso costo può essere dunque tirata, se non all’infinito, quasi all’infinito, perché esaurita la capacità di fornitura delle prestazioni a basso costo di un ente, non è difficile sostituirlo con uno più grande e capace di valorizzare migliori economie di scala. Con questa filosofia, la geografia dei servizi del welfare locale in Italia però si è pesantemente modificata. Non valutare gli effetti delle politiche di affidamento dei servizi sugli enti di terzo settore ha portato a un forte incremento di grandi enti produttori di prestazioni poco radicati sul territorio, il più delle volte incapaci di valorizzare le reti sociali locali e a un indebolimento diffuso delle piccole e medie organizzazioni a base comunitaria che sono state travolte dalle logiche del minor costo.

Questa sorta di “miopia istituzionale” che è arrivata a premiare alcune tipologie di enti a sfavore di altri ha contribuito a indebolire il ruolo di molti enti proprio nello svolgimento delle funzioni maggiormente enfatizzate dalla logica della collaborazione come la vicinanza ai bisogni la capacità di fare rete, la capacità di mobilitazione del volontariato e della comunità. Con l’introduzione dell’istituto della co-progettazione è essenziale non ripetere questi errori e l’approccio dell’individuazione dei partner per costruire i progetti in modo collaborativo dovrebbe essere improntato in modo consapevole sul principio della valorizzazione delle potenzialità in modo da consentire ai singoli enti di crescere e rinforzarsi in modo coerente con i propri punti di forza distintivi.

La valorizzazione è un principio diverso dalla selezione. Mentre la selezione si occupa solo di massimizzare le preferenze dell’affidatario dei servizi per il tempo necessario all’esecuzione degli stessi, la valorizzazione presuppone il riconoscimento delle caratteristiche che permettono agli enti di terzo settore di operare al meglio in relazione alle loro caratteristiche e potenzialità. Ciascun partner va messo in condizione di massimizzare il proprio ruolo e contributo e questo deve essere fatto sia valutando i punti di forza in modo coerente con lo spirito della normativa, sia evitando di introdurre meccanismi distorsivi che portano a un impoverimento degli elementi di distintività. Quindi, per esempio, siccome la giurisprudenza fonda la legittimità delle procedure collaborative sulla natura istitutiva degli enti di terzo settore e in particolare sul radicamento degli stessi nelle reti sociali territoriali e sulla loro capacità di lettura dei bisogni, è quanto mai opportuno enfatizzare nell’individuazione dei partner privati criteri come la capacità di lettura e approfondimento dei bisogni, o quella di fare rete rispetto a altri indicatori più convenzionali e adatti a regolare procedure di natura non collaborativa.


Indicazione 9
I criteri da adottare per individuare le proposte di co-progettazione devono essere coerenti con le motivazioni che indicano nel terzo settore un partner che per sue caratteristiche quali la vicinanza ai bisogni, l’inserimento nelle reti territoriali o la capacità di attivazione di reti di capitale sociale è titolato a godere di un trattamento diverso da quello previsto dalla normativa sugli appalti.

 

8. Processi chiusi o aperti?

Una volta selezionati i partecipanti alle co-progettazioni, spesso prevale la convinzione che il processo di inclusione degli attori sociali sia terminato. In parte questo è vero, perché la normativa generale (ma non quella, più avanzata e declinata, delle leggi regionali di Toscana Molise e Umbria che non esclude che per giustificati motivi altri soggetti possano essere ammessi ai provvedimenti) stabilisce che alle coprogettazioni possano prendere parte solo enti di terzo settore regolarmente iscritti al Registro Unico Nazionale degli enti di terzo settore (il cosiddetto Runts) e che il procedimento amministrativo si basi su principi di trasparenza che definiscono in modo univoco chi, come e a quale titolo può partecipare alle procedure collaborative. Bisogna essere tuttavia consapevoli che gli obiettivi della co-progettazione sono di realizzare interventi di welfare locale che mobilitano la partecipazione di più attori per dare risposta a problemi che i singoli con le loro competenze e risorse non sono in grado di affrontare. Da questo punto di vista, una interpretazione troppo stringente della normativa non appare utile per perseguire gli scopi prefissati. Su 360.000 organizzazioni nonprofit (ONP) censite dall’Istat, per esempio, solo 114.000 risultavano iscritte al RUNTS a settembre 2023 (Marocchi, 2023). Questo significa che quasi due terzi delle organizzazioni nonprofit nazionali non possono prendere parte alle procedure amministrative della co-progettazione, eppure molte di esse potrebbero fornire indicazioni e mettere a disposizione conoscenze e capitale sociale molto importanti per rinforzare l’efficacia degli interventi. Se è opportuno che a stringere gli accordi di partenariato siano gli enti selezionati attraverso le procedure amministrative previste dalla normativa, niente vieta che possano essere attivati dai tavoli di lavoro processi di consultazione diretta o indiretta di altri attori che man mano che prosegue l’iter di progettazione risultano potenziali apportatori di conoscenze e risorse per integrare obiettivi, idee e ipotesi di attività. L’annotazione di non tenere rigidamente chiuso il processo di co-progettazione riguarda non solo enti di terzo settore non iscritti al Runts, ma anche altri attori della comunità che, se preventivamente consultati e coinvolti, possono contribuire in vario modo alla realizzazione di interventi collaborativi. Per esempio, una co-progettazione che si pone come obiettivo la realizzazione di interventi a favore dei cosiddetti Neet - i ragazzi che non lavorano, non si formano e non studiano - è difficile sortisca grandi effetti se si limita a coinvolgere solo enti di terzo settore. I percorsi di uscita dalla condizione di inattività possono essere sostenuti da processi di accompagnamento psicologico e socioeducativo, ma anche da tirocini e opportunità di occupazione che per essere efficaci devono coinvolgere anche aziende e datori di lavoro. Le cooperative di inserimento lavorativo possono avere un ruolo nel sostenere percorsi di socializzazione al lavoro, ma da sole rischiano di non offrire sbocchi reali a chi si trova in condizione di inoccupazione. Coinvolgere a titolo consultivo anche le categorie economiche in coprogettazioni complesse è dunque una opportunità che non va sottovalutata, a maggior ragione se si pensa che nell’attuale fase storica tra pubblico e terzo settore le risorse economiche sono comunque ridotte e la coperta rischia di essere corta.

Questo significa che le co-progettazioni vanno pensate come processi coerenti con la normativa, ma anche il più possibile inclusivi e aperti per fare convergere eventuali idee e risorse integrative per la realizzazione dei progetti o per attivare percorsi paralleli di perseguimento degli obiettivi delle coprogettazioni che diano respiro pluriennale all’attuazione di politiche territoriali.


Indicazione 10
I processi di co-progettazione vanno intesi in modo il più possibile inclusivo in funzione degli obiettivi che si intendono raggiungere; pratiche di consultazione di portatori di interesse e soggetti diversi dagli Enti di terzo settore formalmente coinvolti nel procedimento amministrativo vanno dunque favorite e rese possibili attraverso gli strumenti della consultazione e del coinvolgimento coerenti con lo spirito della normativa.

 

9. Gestione amministrativa o governo dei tavoli di lavoro?

I tavoli di lavoro sono il luogo privilegiato della co-progettazione, anche se molte attività accessorie possono essere svolte in back office o in altri luoghi ed essere ricondotte successivamente nella plenaria del tavolo. Sui tavoli sono svolte le attività di progettazione e i diversi partner devono essere messi in condizione di partecipare attivamente, esprimersi, dialogare reciprocamente ed essere parte di un percorso di apprendimento collettivo (Trischler e colleghi, 2018). L’efficacia dei tavoli di lavoro dipende in via diretta, oltre che dalle motivazioni e dalle competenze dei partecipanti, anche dalle modalità di progettazione e conduzione dei gruppi. Per funzionare bene, un tavolo necessita di capacità di leadership, di valorizzazione dei partecipanti, di gestione della comunicazione, di cura della percezione di equità dei contributi e degli impegni assunti da ciascuno dei partner (De Ambrogio e Marocchi, 2023). Questo significa che deve sussistere una capacità di cura delle relazioni, di progettazione di percorsi sostenibili e accessibili per i diversi partecipanti e di gestione di problemi che insorgono inevitabilmente quando si incontrano soggetti con storie, competenze e identità eterogenee. È inevitabile che gestioni basate sulla logica burocratica o sul presupporre una asimmetria congenita dei rapporti tra pubblico e terzo settore siano molto problematiche e possano ingenerare incomprensioni, conflitti o emarginazione di posizioni utili per il raggiungimento degli obiettivi della collaborazione. Le evidenze mostrano come molti dirigenti o funzionari pubblici non abbiano a oggi sufficienti capacità per programmare e condurre in modo efficace dei tavoli di lavoro. Se la formazione di queste figure ha, per esempio, un taglio spiccatamente amministrativo, la gestione delle relazioni rischia di essere improntata pertanto sull’applicazione della norma più che sul governo di processi di interazione complessi. È evidente che tavoli di co-progettazione in cui il funzionario pubblico decide per tutti l’allocazione delle risorse sono forieri di esiti molto diversi da tavoli in cui si discute, si argomenta e si permette a tutti i partecipanti di prendere parte a un’elaborazione congiunta di idee e progettualità. Allo stesso modo, anche i rappresentanti del terzo settore possono portare sui tavoli logiche di lavoro non collaborative ed elementi di incomprensione e questo aumenta la difficoltà di gestione dei gruppi. Non è un caso che le coprogettazioni tendono a funzionare meglio nelle situazioni in cui tra pubblico e terzo settore esistono dinamiche ed esperienze collaborative antecedenti alle coprogettazioni previste dall’art. 55 durante le quali ci si è “allenati” a dialogare, comprendersi e superare in modo costruttivo i problemi (Euricse, 2023b). Siccome nelle coprogettazioni che - bisogna continuare a ricordare, non sono esecuzioni di capitolati, ma processi di collaborazione tra partner - la dimensione del dialogo e del confronto è centrale, è dunque essenziale che sia messo a disposizione personale qualificato e adeguato allo svolgimento del compito.


Indicazione 11
La conduzione dei tavoli di co-progettazione deve essere affidata a personale formato per svolgere il compito.

 

10. Tempi brevi o tempo lunghi?

Infine, uno degli aspetti da considerare per costruire processi efficaci di co-progettazione riguarda la tempistica degli accordi di partenariato. Anche in questo caso le evidenze empiriche mettono in luce l’esistenza di una situazione piuttosto eterogenea. Alcune coprogettazioni replicano la tendenza registrata negli ultimi anni di accorciamento delle tempistiche contrattuali. L’idea che i tempi stretti possano aumentare le garanzie di controllo amministrativo dei servizi si è diffusa per motivi in larga parte contingenti e strumentali. Non esiste infatti nessuna ragione logica di efficienza o efficacia che giustifichi la prassi di ridurre i tempi dei contratti nel settore del welfare locale. Tempi medio lunghi sono essenziali per garantire la continuità educativa e assistenziale, da un lato, e per permettere una programmazione degli enti e quindi un loro consolidamento strutturale e professionale, dall’altro. Un regime di intensa precarietà contrattuale può forse aumentare la pressione sui costi, ma in settori ad alta intensità lavorativa esiste un limite fisiologico sotto il quale è inevitabile che la qualità e le garanzie di sicurezza sono destinate a sprofondare. Se queste considerazioni sono valide nel sistema degli appalti, la logica dei tempi contingentati risulta ancora più disfunzionale e dannosa nelle coprogettazioni. Come ogni forma di collaborazione, anche le co-progettazioni si basano su un impegno reciproco che implica la fiducia che il contributo di ciascuno entri in un circolo virtuoso di cui ogni partner può trarre una qualche forma di riconoscimento e giovamento. Per esempio, se un ente di terzo settore decide di dedicare le sue risorse per la formazione per rinforzare competenze di suoi operatori impegnati in un progetto condiviso, l’attesa è che l’investimento venga ripagato e quindi che il lavoro da svolgere abbia una durata tale da giustificare l’allocazione delle risorse. Una tempistica degli accordi di breve periodo costituisce chiaramente un disincentivo per effettuare investimenti condivisi. Inoltre, i tempi contingentati degli accordi non sono coerenti con la logica della collaborazione che è un processo che si rinforza nel tempo, in base a feedback successivi che cementano la fiducia tra i partner e aumentano la conoscenza reciproca e la disponibilità a assumere rischi congiunti. Ne consegue che la co-progettazione debba essere improntata su una tempistica di medio periodo sottoponibile a steps di valutazione ma con una prospettiva di sviluppo tendenzialmente pluriennale.  


Indicazione 12
Gli accordi di partenariato salvo eccezioni motivate vanno pensati su periodi medio lunghi.

 

11. Controllo o valutazione?

Un ulteriore dilemma da sciogliere è quello del controllo o della valutazione. L’esperienza del welfare locale e del welfare mix in Italia hanno messo storicamente in luce un grande assente: la valutazione (Bertin e Fazzi, 2010). L’idea implicita che ha mosso la gran parte dei servizi e delle politiche del welfare locale è stata che rispondere a determinati bisogni fosse una questione di rispetto dei diritti più che di qualità ed efficacia degli interventi. Negli ultimi anni, si è spesso confusa la crescente pressione sui controlli amministrativi con la valutazione, lasciando sostanzialmente inevaso l’interrogativo di come capire se un intervento o un servizio abbiano raggiunto dei risultati positivi e se le risorse impegnate siano state spese per un buon fine. Il controllo ha infatti una natura formalistica e mira a verificare se le attività e gli obiettivi stabiliti ex ante sono stati raggiunti alla fine; la valutazione si pone al contrario diversi altri interrogativi: per esempio, a cosa è servito un certo intervento, quali sono stati i motivi per cui qualcosa non ha funzionato, quali sono i margini di miglioramento per raggiungere un certo risultato (Bezzi, 2022).

La letteratura mostra chiaramente come le pratiche collaborative possano produrre vantaggi, ma anche degenerare in conflitti e stati di inerzia e produrre costi più alti dei benefici (Kalu, 2013). L’introduzione della co-progettazione ripropone con urgenza la questione di capire cosa il procedimento produce, e mette in aggiunta in luce la necessità di individuare degli strumenti e dei criteri per stabilire se avere scelto una procedura collaborativa vale o meno la pena, se tale scelta è stata più efficace e efficiente rispetto all’utilizzo di altri schemi di affidamento dei servizi e se sorgono durante il processo di realizzazione degli interventi elementi di miglioramento che possono essere appresi in modo collaborativo e valorizzando le competenze dei diversi partner. Il problema di motivare la scelta di una procedura è centrale per i funzionari pubblici per garantire anche la trasparenza e la correttezza dell’agire amministrativo. Nel caso degli istituti collaborativi previsti dall’art. 55, ciò è oggi più che mai importante a seguito dell’approvazione del nuovo Codice degli appalti che all’art. 6 prevede che i modelli organizzativi dell’amministrazione condivisa sono fatti salvi se contribuiscono al perseguimento di finalità sociali «in condizioni di pari trattamento, in modo effettivo e trasparente e in base al principio del risultato».

In assenza di una riflessione e di una valutazione su cosa la co-progettazione porta di più e di diverso rispetto ad altri strumenti di regolazione del welfare locale e di come gli interventi possano essere migliorati in corso di opera valorizzando la dimensione dell’interazione, è assai probabile, dunque, che la stagione di questo nuovo strumento collaborativo rischi di essere breve, soprattutto se gli elementi di criticità e le difficoltà di applicazione non saranno debitamente affrontate e risolte. A fronte di un impegno molto importante in termini di relazioni, tempo, coordinamento tra enti la domanda cosa ci ha dato in più la procedura di co-progettazione diventa dirimente.


Indicazione 13
Introdurre negli accordi di partenariato dispositivi di valutazione per evidenziare i vantaggi della co-progettazione con relativi indicatori sia quanti che qualitativi.

 

12. Burocratizzazione o buon senso?

Infine, l’applicazione della co-progettazione deve confrontarsi con il problema non secondario della rendicontazione. Molte procedure richiedono una contabilità analitica molto farraginosa con decine e decine di cedolini per certificare le ore svolte dai singoli operatori e le attività svolte. È da ricordare che tra le attese dell’introduzione degli schemi collaborativi un ruolo preminente era ricoperto non solo dal superamento della logica degli appalti al ribasso, ma anche di un sistema di controlli e rapporti amministrativi molto gerarchico e burocratico. La cosiddetta “burocrazia difensiva”, in particolare, applicata per limitare al massimo i rischi per i funzionari responsabili dei provvedimenti a discapito dell’efficacia dei servizi, costituisce da tempo un tratto caratteristico della pubblica amministrazione italiana (Bottino, 2020). Molte norme e regolamenti come, per esempio, tipicamente accade con i controlli dei requisiti degli accreditamenti, sono considerate in sé misure del corretto funzionamento dei processi amministrativi e produttivi senza considerare il loro impatto sulla pratica come l’irrigidimento dei servizi, gli eccessi di formalizzazione, eccetera.  

Una rendicontazione eccessivamente onerosa delle co-progettazioni si colloca in perfetta linea di continuità con queste tendenze. Richiedere rendicontazioni eccessivamente dettagliate significa sottoporre molti enti di terzo settore a un lavoro che può risultare gravemente controproducente, sia perché non modifica la capacità di controllo reale delle pubbliche amministrazioni, sia per il sovraccarico che si ingenera per tecnostrutture spesso composte da poco personale già appesantito da un livello molto elevato di burocrazia. Gli stessi enti di grandi dimensioni peraltro possono incontrare difficoltà perché la particolarità della rendicontazione analitica richiesta per liquidare i contributi delle co-progettazioni rischia di interferire con altri modelli contabili e creare complicazioni di cui volentieri si farebbe a meno.

Il rischio di “ingrippare” il motore già affaticato della co-progettazione e di promuovere reazioni di frustrazione e insoddisfazione appare anche su questo versante di conseguenza alto. È pertanto essenziale individuare forme di rendicontazione più gestibili, per esempio, attraverso la presentazione autocertificata di spese dettagliate in un unico modulo da sottoporre eventualmente a controlli a campione (evitando magari che la presenza di elementi errati possa essere, se causata da buona fede o errori materiali, corretta senza diventare reato penale).


Indicazione 14
Introdurre forme di rendicontazioni che non aggravano gli enti e che consentono un controllo effettivo e non solo formalistico per la liquidazione dei costi delle attività svolte.

 

Conclusioni

Il termine scaffolding è utilizzato nelle scienze sociali per indicare il supporto fornito per svolgere un compito. La parola deriva del termine inglese scaffold che significa impalcatura o ponteggio e rimanda al ruolo che i sostegni consentono agli artigiani e agli operai di svolgere lavori di costruzione o ristrutturazione in campo edilizio. Anche la riforma dell’art. 55 può essere vista come un grande cantiere che per procedere ha bisogno di continui sostegni. Lo sviluppo di linee guida costituisce oggi probabilmente una delle urgenze più strategiche per consentire al disegno dell’amministrazione condivisa di avanzare su un terreno che non è affatto lineare o privo di asperità. In particolare, la co-progettazione che costituisce il cuore pulsante dell’art. 55 necessita di una continua opera di monitoraggio e infrastrutturazione per evitare che la sua applicazione si scontri con schemi e modelli di regolazione e con culture amministrative e organizzative che faticano a coglierne a pieno sia lo scopo che i meccanismi di funzionamento. Le indicazioni presentate sono quelle che allo stato attuale mirano a correggere alcune delle più evidenti disfunzioni e problematicità dell’utilizzo della co-progettazione nel welfare locale. Nel prossimo futuro è essenziale che l’implementazione della riforma sia ulteriormente monitorata al fine di valutare l’emergere di altre problematiche, di verificare se l’evoluzione della giurisprudenza consentirà di introdurre ulteriori miglioramenti e correttivi e di osservare gli effetti e l’impatto delle nuove procedure sulle pratiche e le culture dei rapporti tra pubblico ed enti di terzo settore nel tempo.

 

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