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Numero 3 / 2023

Saggi brevi

“Siamo sicuri ne valga veramente la pena?” Amministrazione condivisa e terzo settore in Italia

Luca Fazzi


In mezzo al guado

Gli istituti dell’amministrazione condivisa previsti dall’art 55 del Codice del terzo settore sono al centro di un forte interesse, sia teorico che pratico (Gori, 2022; De Ambrogio e Marocchi, 2023). Il numero crescente di procedure collaborative avviate dopo la pandemia da l’idea di un movimento, se non ancora tellurico, sicuramente importante dell’architettura del welfare mix nazionale (Vesan e colleghi, 2023). Negli ultimi venti anni, i rapporti tra pubbliche e amministrazioni e terzo settore hanno enfatizzato a lungo la concorrenza come principio cardine di una corretta esecuzione del procedimento amministrativo (Fazzi, 2014). L’idea che attraverso una valutazione competitiva si possa selezionare l’ente più idoneo a svolgere determinati servizi non è priva di buone argomentazioni. In presenza di informazioni complete sui problemi da risolvere, di una pluralità di offerta e di meccanismi idonei a effettuare una comparazione non ci sono ragioni per mettere in discussione la teoria dei vantaggi competitivi. Nella classica definizione di Porter (1979), il vantaggio competitivo è ciò che costituisce la base della superiore performance di un’impresa rispetto alle performances delle altre imprese operanti in uno stesso settore di riferimento. I vantaggi competitivi esistono, solo che in molti campi di intervento non è detto che i modelli concorrenziali portino effettivamente sempre alle decisioni più efficienti per problemi di ordine computazionale relativi alla scarsa disponibilità di informazioni atte a impostare un corretto processo decisionale, oppure per la necessità di utilizzare unità di misura (ore di lavoro, numero di prestazioni) che semplificano i problemi e non permettono di coglierne la complessità. Inoltre i mercati competitivi se operano in regimi di risorse scarse tendono a abbassare la qualità dell’offerta e a omologare i servizi imponendo alle imprese strategie di adattamento che ne impoveriscono nel medio periodo la progettualità e la capacità di iniziativa (Borzaga, 2018).

L’evoluzione del welfare mix italiano ha messo in luce con chiarezza i limiti dei modelli competitivi operanti in regimi di risorse scarse applicati a ambiti economici e produttivi non adeguati. Fino alla crisi economica del 2008 pur con diversa intensità la vocazione innovativa era ancora ben presente nel terzo settore nazionale e risultava almeno in parte ancora trainata da finanziamenti pubblici (Borzaga e Fazzi, 2011; Fazzi, 2012). Con l’aumento della pressione economica sugli enti locali, il ricorso agli appalti è andato sempre più in una direzione di attuazione di una politica di risparmio sul prezzo. Le gare ‘su misura’ che hanno contraddistinto il periodo antecedente la crisi del 2008 e che garantivano spesso un minimo di qualità dei servizi concordata tra pubblico e enti affidatari sono state rapidamente affiancate e poi sostituite con procedure che hanno premiato le economie di scala e i grandi fornitori a discapito delle piccole realtà locali (Bernardoni e Picciotti, 2019; Marocchi, 2020). Molte piccole organizzazioni sono state marginalizzate e in generale questo ha avuto un impatto negativo nel rapporto con la comunità. Il clima competitivo ha prodotto anche disincentivi alla condivisione di idee e risorse per il raggiungimento di fini comuni. In presenza di competitori aggressivi, molti enti tendono a costruire muri intorno a cosa essi sanno fare e a non socializzare idee e risorse per paura di essere derubati delle stesse. Avendo la necessità di essere più efficienti, diversi enti hanno investito anche su un incremento di managerialismo e l’introduzione di modelli di governance più gerarchici è andata non di rado a discapito dell’inclusione e della democraticità.

In questo quadro non è da stupirsi come le principali spinte all’innovazione sono iniziate a arrivare principalmente da fondazioni o bandi particolari (Testi e colleghi 2017). Comportando finanziamenti temporalmente limitati, tali spinte fanno però fatica a incidere su un cambiamento strutturale dell’offerta e questo ha portato, pur con alcune eccezioni, a una diffusa perdita di radicale e duratura capacità innovativa. Al momento, nemmeno la spinta a imprenditorializzare il terzo settore sta dando i risultati da molti sperati. Parecchi enti cercano di sviluppare un’offerta di servizi rivolta ai privati cittadini o realtà associative come quelle del welfare aziendale ma con evidenti problemi organizzativi e economici. Per motivi culturali, mancanza di una legislazione di sostegno alla domanda, complessità di organizzazione dei servizi e scarsa concorrenzialità dell’offerta, l’auspicata crescita del cosiddetto ‘voto con il portafoglio’ (Becchetti e colleghi, 2008) nel campo del welfare è lungi dal prendere forma.

Questo scenario genera una comprensibile preoccupazione rispetto alla capacità di mantenere da parte degli enti di terzo settore elementi di distintività rispetto a stato e mercato. Gli stessi soggetti pubblici lamentano una mancanza di creatività e di capacità di mobilitazione del terzo settore. Inoltre, ci inizia a domandare in alcuni casi anche se i risparmi economici derivanti dall’introduzione della competizione siano effettivamente maggiori rispetto ai costi conseguenti alla omologazione del terzo settore a un comparto di mera fornitura di prestazioni.

L’approvazione del Codice del terzo settore e l’apertura della stagione dell’amministrazione condivisa sono su queste basi salutate con grande plauso. Parlare di collaborazione, e non più solo di competizione, ha aperto una porta su uno spazio poco conosciuto, ma agognato da parte di moltissimi attori. L’aspettativa è chiaramente di potere recuperare un approccio diverso alla regolazione e alla risposta ai problemi sociali basata su un riconoscimento di un ruolo progettuale e generativo, e non solo esecutivo da parte degli enti di terzo settore e sulla condivisione di responsabilità e intenti con il settore pubblico.

A seguito della sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale, che ha sancito definitivamente il fondamento costituzionale del principio collaborativo dopo alcune titubanze del Consiglio di stato, l’art. 55 del Codice è stato utilizzato in modo sempre più diffuso delle amministrazioni pubbliche, in particolare nell’ambito del welfare locale. Le esperienze sono molteplici e i loro esiti risentono di una molteplicità di fattori ancora in larga parte da approfondire. Nell’ultimo biennio, tuttavia, le reazioni di preoccupazione sono crescenti. Gli obiettivi collaborativi non sempre sono facili da raggiungere e i processi di condivisione di intenti e risorse risultano non di rado faticosi e complicati. La sensazione di molti è dunque che la ‘rivoluzione copernicana’ promessa dai fautori e dai supporter della nuova normativa non solo tarda a attuarsi, ma che anche i segnali di difficoltà e criticità tendono a moltiplicarsi e questo pone interrogativi e preoccupazioni di cui si deve tenere conto, pena l’inevitabile crisi della riforma.

Le preoccupazioni

L’applicazione della co-programmazione e della co-progettazione è molto variegata e rispecchia la pluralità e la differenziazione dei modelli del welfare locale nazionali (Euricse, 2023). A fianco di esperienze soddisfacenti e reputate positive dai partecipanti, se ne trovano altre più complicate e difficoltose. Sulla base delle evidenze disponibili, si può dire che la maggioranza delle nuove procedure sono caratterizzati da diversi elementi di criticità (Fazzi, 2023). Essendo la ricerca limitata ancora a pochi numeri, non è facile dire quanti esattamente sono in percentuale i casi che rilevano problemi. Le reazioni di scetticismo nei confronti delle procedure previste dall’art. 55 sono tuttavia diffuse, e da più di una parte sta prendendo forma la convinzione che, tutto sommato, viste le difficoltà che si stanno incontrando era meglio quando si stava peggio e un ritorno deciso agli appalti che peraltro sono ancora maggioritari come sistema di regolazione a livello nazionale sarebbe probabilmente una dignitosa e accettabile scorciatoia per uscire dall’empasse attuale.

Le ragioni alla base della richiesta di un ritorno a un sistema competitivo sono piuttosto semplici e sicuramente non prive di spunti di riflessione.

In primo luogo, il prevalere della coprogettazione sulla co-programmazione fornisce sostegno all’idea che l’applicazione dell’art. 55 sia un’operazione di facciata che non incide sul problema di una diversa definizione delle policies per rispondere ai bisogni. L’attesa di molti enti è di portare a avere cittadinanza anche nuovi bisogni che si sono manifestati negli ultimi anni e che segnano le trasformazioni della società sotto il profilo sociale, demografico e economico. Non attivare i processi di co-programmazione significa che un ragionamento su come cambia la società e cosa è importante fare per rispondere alle nuove domande è chiaramente offuscato dai problemi di gestione dell’esistente. Assumendo per scontati i bisogni molte coprogettazioni riducono così il campo di gioco della collaborazione, definendo regole di ingaggio e di pensiero sia esplicite che implicite su cosa è il focus degli interventi, come si deve approcciare al tema, e quali sono i comportamenti ammessi e quali non adeguati. In questo modo a essere rinforzati sono i ragionamenti convenzionali sui bisogni e le risposte mentre è disincentivato il pensiero e la stessa partecipazione di soggetti che potrebbero alimentare innovazione. Inoltre, rischiano di venire meno le differenze tra strumenti collaborativi e affidamenti attraverso gare. Se non c’è ragionamento sui bisogni precedente alla pubblicazione degli avvisi, le logiche che guidano la definizione di questi ultimi rischiano di non essere distanti da quelle della scrittura di un appalto, soprattutto se non è lasciato spazio nelle procedure a elementi programmatori, e in effetti, come facile desumere da una rapida ricerca in rete, un numero non marginale di avvisi riporta la specificazione dettagliata dei servizi lasciando poco o nullo spazio alla progettazione condivisa tra pubblico e terzo settore.

In secondo luogo, le preoccupazioni che motivano la richiesta di un ritorno a sistemi di regolazione più consolidati sono relative all’ambiguità interpretativa delle finalità della nuova normativa: l’amministrazione condivisa che tipo di welfare di propone di costruire? E con che attori e quali ruoli? La coprogettazione in particolare si basa sul principio della condivisione di risorse e del rimborso al posto del pagamento di corrispettivi. È questa sua particolare natura non mercantile che, a detta dello stesso legislatore, conferisce ad essa la legittimazione di strumento a cui le pubbliche amministrazioni possono ricorrere in via ordinaria in alternativa al Codice degli appalti. I significati attribuiti al concetto di condivisione come a quello di rimborso sono però estremamente contraddittori. Per alcune amministrazioni le richieste rivolte al terzo settore sono coerenti con la natura di tali organizzazioni e quindi sono valorizzate l’expertise, le informazioni date da una eventuale vicinanza ai bisogni, il capitale sociale, la messa in comune di beni già di proprietà, il ruolo attivo del volontariato, eccetera. In altri casi, condivisione di risorse significa essere legittimati a richiedere al terzo settore una partecipazione economica al finanziamento degli interventi. Questo è naturalmente possibile e ragionevole laddove, costruito un progetto che allinea gli obiettivi e le mission dei diversi enti, il terzo settore è incentivato a massimizzare la propria capacità di attivazione di risorse attraverso campagne di raccolta fondi o donazioni per aggiungere risorse rispetto a quelle disponibili per svolgere in modo più efficace gli interventi. Più problematico invece è il caso in cui il pubblico espressamente pone come condizione per partecipare a una coprogettazione un contributo economico da parte degli enti di terzo settore. In alcune situazioni, si tratta di costi virtuali, ma in altri si arriva a vere e proprie richieste economiche che poi possono diventare facilmente domande di riduzione del costo dei servizi. Gli enti di terzo settore accettano di partecipare egualmente alle coprogettazioni obtorto collo con la speranza di garantire una stabilizzazione dei rapporti con le pubbliche amministrazioni, ma gli effetti sulla loro motivazione a partecipare e sulla tenuta economica e organizzativa sono chiaramente negativi. Analoghe ambiguità e scarsa comprensione delle problematiche in campo si riscontrano quando si parla di rimborsi. La gran parte degli enti che partecipano alle coprogettazioni apportano competenze, progettualità e capacità di azione in forza di costi sia diretti (forza lavoro impegnata nell’erogazione dei servizi), sia indiretti (per es. tecnostrutture, segreterie, uffici di progettazione). Ciò è particolarmente vero per gli enti di terzo settore che adottano forme di impresa come le cooperative sociali. Diverse amministrazioni interpretano la normativa sulla coprogettazione come se i costi diretti fossero sufficienti a remunerare lo sforzo profuso dai singoli enti. Se questo è forse vero per alcune associazioni di volontariato, certamente rischia di essere un enorme problema per gli enti più strutturati, che una volta entrati in un regime di coprogettazione si vedrebbero disconosciute tutte le spese necessarie a organizzare forza lavoro per svolgere i servizi e con essa la stessa natura di impresa sociale capace di approntare progettualità ai nuovi interventi. ‘In che tipo di scenario andiamo a finire di questo passo?’ è dunque un interrogativo pienamente legittimo da parte di enti che vedono nell’avvento della amministrazione condivisa così impostata non un salto di qualità per consentire a tutti di concorrere al meglio alla produzione di interventi di interesse collettivo, ma una ulteriore trappola per lo sviluppo di una prospettiva di reale autonomia progettuale e imprenditoriale.

In terzo luogo, la richiesta di ritorno agli appalti si basa sull’esigenza di maggiore linearità e razionalità delle procedure e della gestione degli strumenti collaborativi. I processi collaborativi sono spesso poco chiari e estremamente discrezionali (Busso e colleghi, 2023). Ci si può trovare a esser coinvolti contemporaneamente in due o più procedure che funzionano in modo completamente diverso e questo per un ente di terzo settore è chiaramente fonte oltre che di comprensibile sconcerto, anche di grandi difficoltà organizzative. Quando il gioco a cui si partecipa non è chiaro perché le regole a seconda delle contingenze cambiano di continuo, anche il ruolo e lo status dei giocatori è inoltre messo in discussione. Tutto dipende dunque da fattori contingenti e dai modelli di pensiero e dalla preparazione dei dirigenti pubblici responsabili dei procedimenti e dagli amministratori che danno il via libera all’utilizzo della collaborazione. I criteri usati per selezionare le proposte agli avvisi di coprogettazione possono rispondere per esempio a logiche di cooptazione che presuppongono un livello di conoscenza e consenso tra pubblico e privato più alto oppure a logiche competitive che marcano maggiormente le asimmetrie di potere tra i partner (Rossi, 2023). La gestione dei tavoli di lavoro a sua volta può essere impostata su tempi cortissimi, con gli avvisi che contengono già praticamente tutti gli estremi per orientare la definizione del progetto, oppure su tempi lunghissimi con la partecipazione diventa caotica e è richiesto un sovraccarico di impegno al terzo settore. Sulla modalità di riconoscimento delle spese si è già detto: in alcuni casi i costi indiretti sono riconosciuti, in altri no, in alcuni ci sono contenziosi in essere. In generale grande è dunque la confusione sotto il sole e di fronte all’incertezza la tentazione di tornare a un passato problematico ma almeno chiaro è più che comprensibile.

Riconfigurare il discorso

La prima stagione di applicazione dell’art 55 è in effetti come non era difficile prevedere piuttosto ambigua e caotica. Ma ne vale davvero la pena? è una domanda che inevitabilmente sorge così spontanea da parte di molti soggetti direttamente coinvolti nelle nuove procedure collaborative.

Per rispondere a questo interrogativo in modo consapevole è probabilmente necessario uscire da una valutazione di episodi contingenti e affrontare la questione secondo altri termini.

Innanzitutto, bisogna avere in mente che cosa sono le riforme e come esse agiscono nella realtà. Intorno alla realizzazione delle riforme si incontrano e confrontano attori con interessi, valori e logiche di azione diverse, che rendono ogni processo di cambiamento incrementale e connotato da aggiustamenti continui e non di rado contraddittori. L’oggetto dell’apprendimento derivante da questi processi è influenzato non solo dalla natura più o meno lineare del processo stesso, ma anche dall’esistenza e dall’acquisizione di linguaggi comuni, che sono tutto fuorché scontati e vanno continuamente negoziati e rinegoziati nella pratica (Gualmini, 1995). Inoltre le riforme incorporano sempre una sorta di ‘patrimonio genetico’ e si devono relazionare con elementi impliciti e espliciti antecedenti come le tradizioni amministrative, le culture organizzative, i vincoli economici e giuridici del sistema in cui esse sono approntate. Questo significa che entrano in gioco nell’attuazione delle nuove misure non solo elementi tecnici, ma anche complessi sistemi di credenze che rendono il percorso di cambiamento molto complesso da attuare. Incertezza, ambivalenza e dipendenza dal percorso rappresentano in questa prospettiva elementi costitutivi proprio di ogni riforma. Le aspettative anche per l’applicazione della proclamata ‘rivoluzione copernicana’ dell’art. 55 devono essere di conseguenza realistiche e, se pur è comprensibile che siano messi in campo elementi ideologici e retorici per stimolare e accompagnare l’innovazione, è indispensabile essere ben consci che modificare a fondo l’architettura di un sistema di welfare tutto è meno che veloce e automatico.

Una seconda considerazione per rispondere alla domanda se valga veramente la pena proseguire con la introduzione di un nuovo modello collaborativo di welfare riguarda le cause delle attuali difficoltà di implementazione della riforma dell’amministrazione condivisa. Chi auspica un ritorno agli appalti si è mai chiesto quanto sia stato proprio il regime instauratosi con l’avvento della competizione a costituire una delle cause più importanti delle attuali difficoltà di passaggio a un sistema collaborativo? Lo sviluppo di un rapporto asimmetrico e gerarchico tra pubblico e terzo settore, con la conseguente difficoltà di costruire una relazione di confronto più paritaria sui tavoli della co-programmazione e della co-progettazione, è per esempio classicamente un effetto della competizione (Torfing e colleghi, 2020). In modo analogo, la difficoltà di ragionare sulle risorse contemplando come tali conoscenze, expertise, capacità di lettura dei bisogni del terzo settore e non solo risorse economiche, deriva in modo diretto da una cultura amministrativa plasmata dalle richieste continue di risparmio e dalla idealizzazione della concorrenza come strumento di razionalizzazione della spesa. Una conseguenza del radicamento della cultura degli appalti è anche la diffusa carenza di fiducia tra gli stessi enti di terzo settore che faticano a condividere idee e informazioni per timore di avvantaggiare i potenziali concorrenti, riproducendo comportamenti che si riscontrano tipicamente nei regimi competitivi in cui ogni soggetto cerca di usare le risorse a disposizione per massimizzare il proprio vantaggio competitivo.

Accusare l’amministrazione condivisa di non riuscire a raggiungere i suoi obiettivi programmatici senza comprendere che molti dei problemi attuali sono retaggi dell’istituzionalizzazione del sistema degli appalti al ribasso e degli assunti culturali dello stesso rischia di essere in questa prospettiva il classico ‘gatto che si morde la coda’. È essenziale non avere memoria breve su cosa abbia comportato e ancora comporti un sistema di regolazione basato sulla competizione al ribasso: non solo difficoltà di investimenti per la strutturazione degli enti, non solo impoverimento della qualità dei servizi, ma anche aumento della conflittualità tra enti, indebolimento della loro immagine e reputazione sociale e non da ultimo disincentivazione a investire in questo mondo da parte di molti giovani che trovano nel terzo settore poca idealità e bassi salari.

Questa contraddizione porta a una terza considerazione che può essere riassunta nella seguente domanda: invece che tornare indietro a una fase storica estremamente pericolosa per il terzo settore, non avrebbe più senso provare a ragionare se e come sia possibile migliorare l’applicazione dell’art. 55 magari partendo da una valorizzazione delle esperienze e dei progressi che comunque in questi ultimi anni si sono registrati sul territorio nazionale? La sfiducia e lo scetticismo nei confronti dei nuovi strumenti collaborativi si collocano all’interno di una lunga storia di delusioni e mancate attese, che parte da lontano. La stagione collaborativa inaugurata con l’approvazione della legge 328/00 ha prodotto alterni risultati e nell’ultimo decennio è stata caratterizzata da un utilizzo residuale della partecipazione e da processi di confronto reale spesso di breve durata, legati alla presenza di amministratori e dirigenti particolarmente illuminati e alla disponibilità temporanea di risorse specifiche (Fazzi, 2009; Polizzi, 2018). Quindi, la paura che si possa ripetere un medesimo esito anche con l’art 55 è più che comprensibile. Tuttavia, bisogna stare molto attenti a evitare un atteggiamento che si è diffuso largamente negli ultimi anni tra gli enti di terzo settore e che si può etichettare come ‘sindrome dell’attesa’ che contribuisce in modo determinate a frenare i processi di innovazione del welfare.

La sindrome di attesa è raccontata nella famosa opera teatrale Aspettando Godot scritta da Samuel Beckett negli anni Quaranta. I protagonisti dell’opera sono Vladimiro e Estragone, due uomini vestiti come barboni che aspettano lungo una strada desolata di campagna l’arrivo di un certo signor Godot. Sulla scena c’è un albero che, perdendo le foglie, mostra lo scandire del tempo e dell’attesa che si protrae all’infinito giorno dopo giorno. Vladimiro e Estragone si lamentano di continuo del loro stato esistenziale, del tempo e della fame, litigano tra loro e arrivano a pensare di mettere fine alla loro disgraziata vita. Alla fine, restano però immobili l’uno dipendente dall’altro senza fare niente per modificare la loro condizione.

Alle volte, l’impressione relativa alle attese rispetto al futuro del welfare può approssimare molto pericolosamente la sindrome dell’attesa di Godot. Le nuove norme, così come i nuovi slogan calati dall’alto, svolgono una funzione di calmieramento temporaneo delle preoccupazioni sulla situazione reale e spingono a immaginare la possibilità di risolvere i problemi attraverso soluzioni semplificate e veloci da applicare che rischiano di deresponsabilizzare i singoli attori e a demandare a altri la responsabilità di tradurre i nuovi obiettivi programmatici in pratica. In realtà, l’attuazione di una riforma è - e non può che essere - uno sforzo collettivo, animato dalla volontà di mettersi in discussione, di imparare dagli errori e di svolgere un ruolo costruttivo e attivo nella individuazione delle soluzioni che consentono di avanzare nella sua realizzazione. Partendo da questo atteggiamento le criticità dell’implementazione dell’art. 55 non devono essere sottovalutate, ma vanno collocate su un piano di analisi e intervento finalizzato a fare dei passi avanti attraverso l’assunzione di una responsabilità condivisa tra tutte le parti in gioco.

Scommettere sul futuro

La breve storia del nuovo welfare collaborativo introdotto dal Codice del Terzo Settore permette di individuare, oltre a punti di inevitabile criticità, anche elementi che indicano percorsi concreti per cercare di accompagnare in modo costruttivo e propositivo il nuovo modo di intendere i rapporti con le amministrazioni pubbliche.

Innanzitutto, la riforma è in una fase ancora preliminare per cui molti aspetti che dovessero risultare non solo poco chiari, ma anche problematici possono essere oggetto di richieste di chiarimenti giuridici per rendere maggiormente coerenti le prassi adottate con le finalità della nuova normativa. Tali richieste possono essere naturalmente strumentali e ostacolare il corretto svolgimento delle procedure, si pensi per esempio ai ricorsi continui che bloccano il procedere di molti progetti, ma anche chiarificatrici di eventuali deviazioni delle pratiche applicative dallo spirito originario della riforma. Per esempio, il Consiglio di stato ha pronunciato due recenti sentenze (5217/23 e 5218/2023) rispetto a una procedura nella regione Lazio che aiutano a dirimere due importanti ostacoli spesso rilevati nella pratica nell’attuazione dei nuovi strumenti collaborativi (Gori, 2023). Il primo contributo giurisprudenziale riguarda il divieto per gli avvisi di coprogettazione di contenere allegati e indicazioni stringenti, assimilabili a un capitolato di appalto, che non consentono al terzo settore di apportate un contributo attivo nell’ideazione degli interventi. Questo significa che tutte le procedure in cui la specificazione dei servizi da coprogettare approssima quella di un appalto sono da considerarsi illegittime e ciò ridefinisce in modo corretto il perimetro di lavoro delle coprogettazioni. Il secondo contributo è relativo invece all’allentamento di una concezione rigida della gratuità affermando che è esclusa la possibilità di rimborsare forfetariamente spese o costi diretti o indiretti, ma senza più affermare che determinate voci di costo sopportate dagli enti di terzo settore non risultano in linea di principio ammissibili al rimborso. Favorire e promuovere quesiti che aiutano a chiarire giuridicamente applicazioni contraddittorie dell’art. 55 in una fase in cui vanno ancora prese le misure della riforma è una responsabilità che tutti i diversi attori impegnati nella costruzione di un nuovo welfare dovrebbero assumere senza la paura di toccare rendite di posizione o assetti di potere eccessivamente incistati.

Un secondo passaggio che evidenzia l’importanza di adottare un approccio costruttivo e propositivo nei confronti della riforma è relativo alla promozione e realizzazione di linee guida e regolamenti (Pesaresi, 2022). Linee guida e regolamenti sono essenziali per un duplice ordine di ragioni. Il primo è che tali strumenti servono a uniformare il comportamento delle diverse amministrazioni evitando che prolifichino modelli di gestione delle procedure contraddittori e confusivi. Inoltre costruire linee guida e regolamenti implica che i diversi attori istituzionali si possano confrontare sui reciproci vincoli, bisogni e aspettative. In diversi comuni come Roma e Milano i lavori per la definizione dei regolamenti hanno costituito un’occasione per riflettere sui quesiti aperti e le esperienze svolte e sono andati a costituire di conseguenza il primo vero solido mattone posto sulle fondamenta del nuovo edificio dell’amministrazione condivisa.  

In terzo luogo, per accompagnare l’applicazione dei nuovi strumenti previsti dall’art 55 è importante si sviluppi un’attenzione alla costruzione di tool kit (cassette degli attrezzi) collaborativi (Borzaga e colleghi, 2023). Molti problemi pratici possono essere risolti lavorando su elementi di concretezza. Per esempio, cosa significa ragionare sul contributo che ciascun partner apporta a una coprogettazione implica avere in mente uno schema che classifica le risorse secondo criteri non solo economici. Oppure: per promuovere selezioni che non siano cooptazioni dei ‘soliti noti’, né competizioni mascherate quali sono i criteri e le strategie operative da utilizzare? È da sottolineare come una parte dei problemi che si rilevano nella pratica del nuovo welfare collaborativo sono esito di una serie di micro-decisioni non appropriate. Il cambiamento di una cultura amministrativa può avvenire dunque sia attraverso una riflessione più ampia sul significato della collaborazione ma anche fornendo strumenti operativi per impostare e gestire le procedure e le micro-decisioni ad esse associate in modo coerente con le finalità della riforma.

In quarto luogo, per sostenere una riforma è indispensabile fare ricerca, e studiare. Una parte del dibattito attuale sulla coprogrammazione e sulla coprogettazione ha preso forma incredibilmente con il suo carico di aspettative come se prima dell’art 55 non ci fosse stata alcuna esperienza di costruzione delle politiche di tipo partecipativo e collaborativo. Quindi una serie di problemi che un analista esperto avrebbe individuato subito come critici per l’applicazione della riforma, come la frammentazione del welfare locale, il ruolo dei contesti locali, o l’influenza delle culture amministrative e organizzative sono stati ampiamente sottovalutati. Allo stesso tempo la ricerca è fondamentale per togliere al dibattito la sua veste retorica. In Italia, l’ideologizzazione della discussione sul terzo settore e sul welfare mix è stata storicamente sempre molto elevata (Busso e Gargiulo, 2016). Questo atteggiamento - che va inevitabilmente a discapito di una riflessione più razionale e oggettiva della realtà - poteva avere un significato nel periodo pionieristico della discussione quando andavano definiti contorni ampi al tema. L’attuale fase storica, tuttavi,a costituisce per diversi aspetti un bivio epocale nel modo di concepire il welfare mix e è pertanto assolutamente necessario disporre di informazioni e dati attendibili e aggiornati sui processi di cambiamento in atto che comprendano gli effetti sia sugli enti pubblici che di terzo settore, da un lato, e sull’efficacia, delle politiche e degli interventi, dall’altro.

L’argomento dell’efficacia apre, infine, un ultimo passaggio da presidiare per provare a dare gambe alla riforma del welfare collaborativo. La collaborazione è nel discorso dominante prima di tutto un costrutto retorico che rimanda a modelli di comportamento reputati a prescindere migliori di altri. Ci sono validissime ragioni che spingono a reputare il modello collaborativo più efficace in molte situazioni di quello competitivo. Tuttavia, fino a che non si va a vedere i risultati concreti della collaborazione e difficile fissare dei paletti che possano giustificare un investimento di risorse e energie che non può essere regressivo pena il rischio di strumentalizzazione dei rapporti tra le parti e l’innesto di guerre tra poveri per l’acquisizione di risorse scarse. Questo significa che la prossima urgente sfida dell’applicazione dell’art. 55 è rappresentata dallo sviluppo di modelli, strategie e strumenti atti a valutare cosa in più e cosa di diverso si può produrre attraverso uno schema collaborativo rispetto a un tradizionale affidamento di servizi tramite gara.

Conclusioni

Il contributo che il terzo settore può dare all’innovazione del welfare locale è molto ampio (Fazzi, 2010). Per potere esprimere al meglio le proprie potenzialità, gli enti di terzo settore necessitano tuttavia di politiche coerenti. Il Codice del terzo settore e l’art. 55 costituiscono dei tentativi importanti di costruire un contesto giuridico adatto a supportare e valorizzare il terzo settore. 

In Italia le riforme sono però spesso problematiche. Le opere di ristrutturazione finanziate con la misura del 110%, per esempio, prima sponsorizzate come strumento della rivoluzione economica e ecologica, si sono rivelate in seguito fallimentari avvantaggiando i più ricchi, incentivando uno aumento straordinario dei costi delle componenti delle ristrutturazioni e creando le condizioni per il dilagare di corruzione e brogli. La riforma dell’amministrazione condivisa per fortuna non ha raggiunto e non pare destinata nemmeno a avvicinarsi ai picchi di criticità del 110%. Ma è abbastanza chiaro che non tutto sta andando come doveva andare e non è detto che sia il semplice proseguo dell’applicazione dei nuovi strumenti a consentire di individuare e risolvere le questioni aperte. Probabilmente alcuni passaggi problematici sono destinati a essere affrontati, ma come saranno risolti dipende soprattutto dal grado di consapevolezza relativo alle soluzioni, da un lato, e alla rilevanza e gravità del problema, dall’altro.

L’evoluzione del welfare mix in Italia è dalla metà degli anni 90 un caso emblematico di come l’inerzia interpretativa e la difficoltà di tematizzare i problemi abbia generato situazioni sfuggite poi ampiamente di controllo (Fazzi, 1996). Oggi è fondamentale non ripetere gli stessi errori, perché l’attuale fase di introduzione di un nuovo modello di governo del welfare locale è una finestra che deve essere colta in tempo se non si vuole che i fallimenti e le insoddisfazioni la chiudano definitivamente. Per accettare la sfida della collaborazione serve soprattutto pragmatismo, e consapevolezza che ogni processo di cambiamento richiede impegni, tensione verso l’apprendimento attraverso prove e errori e che, comunque sia, se si guarda avanti è sempre meglio che tornare alla situazione di partenza. Che almeno per quanto riguarda il welfare mix negli ultimi anni non ha rappresentato sicuramente il punto più alto di espressione delle potenzialità del terzo settore, né l’apice di un welfare che deve continuamente innovarsi per garantire chi ha davvero bisogno.

 

DOI 10.7425/IS.2023.03.01

 

Riferimenti bibliografici

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