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ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2020-capitalising-social-socializing-capital-le-narrative-accademiche-sulla-social-entrepreneurship-un-analisi-critica-dei-contenuti-politico-ideologici

Numero 1 / 2020

Saggi

Capitalising Social - Socializing Capital? Le narrative accademiche sulla Social Entrepreneurship: un’analisi critica dei contenuti politico-ideologici

Marco Guglielmo, Marco Libbi

Abstract

Questo paper analizza la carica politica-ideologica nelle principali linee di narrazione accademica sull’imprenditorialità sociale. Nell’ultimo decennio, infatti, si è sviluppato un campo di ricerca critica sulla Social Entrepreneurship tesa a disvelarne le relazioni di potere. Tuttavia, queste critiche hanno teso a contrapporre dicotomicamente ad una ideologia individuata come mainstream – il fondamentalismo di mercato - un’altra ideologia fondata sulla partecipazione comunitaria. Al contrario, in questo paper, queste chiavi di interpretazione sono ri-concettualizzate come elementi di una tensione ideologica intrinseca nel fenomeno stesso della Social Entrepreneurship (SE) e delle relative narrative accademiche: quella tra la funzione di “capitalizzazione del sociale” e di “socializzazione del capitale”. Attraverso un’analisi qualitativa delle principali definizioni nella letteratura accademica sull’imprenditorialità sociale sono stati quindi individuati quattro tipi di ideologia, riferiti agli obiettivi di riproduzione/trasformazione delle strutture economico-sociali e alla conservazione/innovazione dei processi attraverso cui queste strutture operano. L’analisi è stata condotta attraverso la Critical Discourse Analysis e intende contribuire all’apertura di progetti di ricerca per la comprensione delle relazioni (contro-) egemoniche tra attori del mondo accademico, policy-makers, imprenditori sociali, comunità locali. Gli assunti principali alla base di questa analisi sono (1) che una crescente trasparenza del sub-strato politico negli approcci alla ricerca sull’imprenditorialità sociale possa favorire un dialogo più ricco e interdisciplinare e (2) che questo dialogo possa arricchire la comprensione delle complesse relazioni alla base delle interrelazioni costitutive della SE.

Keywords: Social Entrepreneurship, imprenditorialità sociale, ideologia, critical discourse analysis, innovazione, welfare, imprenditorialità

DOI: 10.7425/IS.2020.01.03

Introduzione

La definizione della Social Entrepreneurship (SE) ha rappresentato, negli ultimi decenni, il terreno di un crescente dibattito tra centri di ricerca, policy-makers, attori sociali e imprenditoriali (Borzaga e Defourny, 2001; OECD 2010; OECD 2018; Commissione Europea 2011, 2016, 2020). Definire un fenomeno significa porre dei limiti tra ciò che esso contiene ed esclude. Tuttavia, la SE sembra costitutivamente caratterizzata dalla sua capacità di integrare azione economica e solidale (Raffini, 2015), sfumando i confini tra – e “dentro” – il sociale, l’economico ed il politico (Bosi e Zamponi, 2019). Proprio attorno a questa capacità di ibridare e combinare forme imprenditoriali dinamiche ed innovative con i miglioramenti sociali, si sono sviluppate le sue definizioni mainstream (ad es. Dees et al., 2001; Mair et al., 2006; Nicholls, 2006; Bornstein e Davis, 2010). Tuttavia, già dai primi anni 2000, si sono aperte diverse correnti di analisi critica della SE. Ad esempio, Raymond Dart (2004) ha affermato che la SE sia stata legittimata più sul piano morale che empirico: policy-makers e accademici ideologicamente schierati a favore dell’idea che solo le tecniche del business e del management potessero risolvere i problemi sociali ne avrebbero sospinto lo sviluppo. Albert Hyunbae Cho (2006) ha aggiunto che le concettualizzazioni mainstream della SE sarebbero affette da una visione monologica del sociale: la SE sarebbe stata interpretata come capace di produrre impatti positivi solo grazie ad una lettura ideologicamente distorta del “sociale” come dimensione a-conflittuale. La letteratura critica, da un lato, ha avuto il merito di teorizzare gli impatti della carica politico-ideologica – basata sul fondamentalismo di mercato – delle principali narrative e concettualizzazioni della SE (ad es. Teasdale, 2012; Lehner e Germak, 2014; Cieslik, 2018). Dall’altro, tuttavia, non ha affermato come politica e ideologica la propria – contrapposta – lettura della SE, principalmente fondata sul valore della partecipazione comunitaria come asse portante del bene sociale: di conseguenza, ha risposto ad una dichiarata – e problematica – “a-politicità” e “a-conflittualità” attraverso una riaffermazione della dialettica tra “economico” e “sociale”, senza esplorare fino in fondo la funzione politica della SE. L’obiettivo di questo paper è pertanto quello di contribuire alle analisi critiche della SE, attorno a tre principi guida: (1) l’affermazione della SE come fenomeno politico (2) il riconoscimento della rilevanza delle ideologie come substrato intrinseco ad ogni rappresentazione delle relazioni umane; (3) la conseguente necessità di concettualizzare le tensioni – politiche e ideologiche –costitutive della SE. Questa carica politico-ideologica può essere rintracciata su due livelli: le motivazioni degli attori (Jarrodi et al., 2019) e le narrative (Cieslik, 2018). Questo paper si concentrerà sul secondo livello, attraverso un’analisi delle definizioni accademiche della SE e una loro re-interpretazione in chiave politica e ideologica.

La dimensione politica della SE può essere rintracciata nel suo contributo ad – almeno – tre macrofenomeni: (1) la riarticolazione della partecipazione comunitaria; (2) la ristrutturazione dei confini e delle funzioni del welfare state; (3) la costruzione di sistemi ideologici tendenti alla ridefinizione dei confini tra l’economico e il sociale. Alla base di questa analisi assumiamo la politica intesa come:

La sfera dei rapporti sociali, delle azioni, delle associazioni e delle istituzioni che si strutturano e de-strutturano incessantemente (...), sia per dinamica propria, sia per la spinta di movimenti sociali e ideologie, avendo come riferimento l’acquisizione, il controllo e la distribuzione delle risorse considerate essenziali per l’esistenza umana e il governo dell’ordine sociale. (Gallino, 1978, p. 515).

In quanto interviene su fattori strutturali dell’ordine sociale e sul rapporto tra istituzioni e individui, dunque, la SE non può essere considerata come un fenomeno a-politico. Terzo settore e imprenditoria sociale sono le fondamenta di quell’economia sociale (Laville, 1998; Ciriec, 2017) posta fra il pubblico e il privato che ha rappresentato un nodo di trasformazione del welfare, ma anche di nuovi approcci alla dimensione lavorativa e solidale. Nati come elementi di sfida al sistema politico, sono stati concettualizzati come forme innovative di impegno politico rispetto alla tradizionale militanza partitica (Marcon, 2004; Evers e Essen, 2019). La spinta associazionista post-sessantottina si pose come obiettivo la realizzazione di valori universali attraverso l’intervento sui bisogni emergenti nella società (Evers e Laville, 2004). In questo nuovo clima culturale, in particolar modo in Italia (Borzaga e Ianes, 2006; Borzaga e Depedri, 2012), molte realtà impegnate nel contrasto al disagio socio-economico iniziarono a strutturarsi in organizzazioni al fine di dare continuità ad azioni che sarebbero rimaste altrimenti occasionali. L’intento - di fatto estremamente politico - era anticipare e stimolare l’intervento dello Stato (Borzaga e Fazzi, 2011).

La formazione di particolari forme di azione collettiva tra cui il Forum del Terzo settore, ma anche la realizzazione di riviste e coordinamenti sui temi d’interesse (Polizzi e Vitale, 2017) hanno contribuito alla creazione di una idea perlopiù condivisa del ruolo della SE e del Terzo settore. L’affermazione del welfare mix (Ascoli e Pasquinelli, 1993; Ascoli e Ranci, 2003) a partire dagli anni duemila ha incrementato l’espansione delle funzioni organizzative del Terzo settore accompagnando la sua trasformazione da agente di lotta politico-ideologica “sfidante” le istituzioni ad un ruolo di erogatore di servizi per conto di queste. Le ristrettezze economiche degli enti locali (Fazzi, 2017) dal 2008 ad oggi hanno portato ad un ripensamento di questo modello ed è anche in tal senso[1], che il legislatore attraverso la riforma del Terzo settore (specie nei D. Lgs. 117/17 e D. Lgs. 112/17) ha introdotto nuovi strumenti con l’intento di incentivare la ricerca di risorse autonome nei capitali privati ed una maggiore imprenditorialità (Fici, Rossi et al., 2020). All’interno del Titolo VII del Codice del Terzo settore - attuando il principio di sussidiarietà (Scalvini, 2018) - ha introdotto una disposizione che consente forme di co-programmazione a livello territoriale dei servizi (Borzaga, 2019; Marocchi, 2019), che aprono potenziali spazi di evoluzione e trasformazione sul piano del rapporto tra enti pubblici, SE e Terzo settore[2]. Per motivi di spazio i tratti del cambiamento in Italia del Terzo settore presentati sono parziali ma utili a titolo di esempio per evidenziare come le spinte e le contraddizioni delle nuove forme dell’imprenditoria sociale si sono manifestate nello spazio pubblico attraverso la sovrapposizione tra l’agire sociale e l’agire imprenditoriale. Ed è proprio la potenziale dialogicità tra questi elementi, la contemporanea tendenza alla “socializzazione” della sfera economica e alla “economicizzazione” della sfera sociale, a ridefinirne continuamente i confini politico-ideologici. In questa chiave, pertanto, il passaggio da challenger a service provider degli attori della SE (Della Porta e Diani, 2006) non ne rappresenterebbe una riduzione del ruolo politico, ma una sua evoluzione. La SE, dunque, viene intesa in questo paper come fenomeno in cui attori (gli imprenditori sociali) e strutture (mercato, istituzioni politiche e culturali) interagiscono dentro e tra le dimensioni economiche e sociali ridefinendo, con ciò, gli spazi del “politico”, o meglio, adottando il concetto che Ulrich Beck (2005) utilizza per indicare una fuoriuscita della politica dai suoi argini, del subpolitico. Con questo termine il sociologo tedesco vuole definire il processo di svuotamento delle forme classiche della politica e la contemporanea, spesso quasi non percettibile e involontaria, (sub)politicizzazione di ambiti e pratiche considerati tradizionalmente impolitici. Alla luce di questo concetto si può evidenziare come la SE ha, ed ha avuto, un ruolo non secondario nello sfidare e, in un certo senso guidare, la politica nel rispondere ai bisogni emergenti avvicinando il cittadino alle istituzioni, delineandosi come strumento di “orizzontalizzazione” (Pirni e Raffini, 2016) nei rapporti tra istituzioni e cittadini.

In che senso, dunque, le stesse concettualizzazioni scientifiche della SE rappresentano un fenomeno politico? La nostra tesi è che le difficoltà concettuali risultanti in innumerevoli – e spesso contrastanti – definizioni della SE (Alter, 2007) siano – anche – frutto del mancato – o celato – riconoscimento del substrato politico-ideologico sulla cui base vengono teorizzati gli elementi costitutivi della SE, l’agire sociale e l’agire imprenditoriale. La concettualizzazione di questo substrato, pertanto, è necessaria per definire i contorni di un dibattito che si arricchisca disvelando come diversi attori rispondono ad una domanda essenziale: come si definisce il cambiamento sociale desiderato cui la SE contribuirebbe e come si articola questo potenziale contributo?

Adottando le categorie utilizzate da Jenny Andersson (2007) per descrivere il passaggio all’economia della conoscenza tra gli anni ’90 e i primi anni 2000, la dimensione normativa della SE sarebbe interpretabile sulla base di due poli ideologici: la capitalizzazione del sociale o la socializzazione del capitale. Questi due poli rappresenterebbero la trasposizione normativa – l’obiettivo desiderato - della dimensione sostantiva della SE, l’agire imprenditoriale e l’agire sociale. Questa polarizzazione riflette due distinti campi di analisi sulla SE. Nel primo campo rientrano le teorie mainstream che vedono la competizione tra imprenditori come driver nell’individuazione di soluzioni “di mercato” capaci di risolvere specifici problemi sociali. Queste teorie assumono che lo Stato e il Terzo settore abbiano fallito nel contrasto dell’esclusione sociale e che proprio la ridefinizione dei confini tra questi ambiti e il mercato sia la chiave del cambiamento sociale. Nel secondo campo, rientrano invece le teorie critiche che assumono che il benessere sociale non sia riducibile alla sommatoria delle utilità individuali e che il capitalismo sia una determinante dei fenomeni di esclusione sociale: di conseguenza, il cambiamento sociale si può realizzare solo modificando le relazioni di potere esistenti e “democratizzando” i processi economici (ad es. Eikenberry, 2009, 2018; Teasdale et al., 2013). Le analisi critiche della SE, tuttavia, tendono a sovrapporre due distinti piani di analisi: (1) la “lettura” delle attuali strutture di potere economico e delle corrispondenti articolazioni politico - ideologiche; (2) la definizione di teorie normative tendenti al superamento di quelle strutture attraverso un’articolazione contro-egemonica. Questa sovrapposizione genera due problemi: (1) l’analisi della SE come riproposizione statica della dialettica tra capitale e sociale rischia di non cogliere differenti articolazioni derivanti dalla tensione tra questi due poli e di negare, quindi, le potenzialità politiche di questa dialettica; (2) si critica un’ideologia – il fondamentalismo di mercato –, con un’altra – la socializzazione del mercato – caricando la prima di valore negativo e nascondendo la natura ideologica della seconda (Dey e Lehner, 2017). Al fine di superare questi limiti, e di contribuire allo sviluppo delle analisi critiche della SE, questo paper si articola attorno a tre presupposti: (1) le costruzioni ideologiche non sono, in sé, negative o positive, ma il riflesso degli obiettivi intrinseci alla rappresentazione di ogni fenomeno sociale; (2) le tendenze alla capitalizzazione del sociale o alla socializzazione del capitale non sono, necessariamente, poli di contrapposizione ma elementi di tensione costitutivi della SE; (3) la definizione del sub-strato ideologico delle concettualizzazioni di queste tensioni permette di sciogliere nodi concettuali irrisolti connettendo ciascuna definizione della SE a differenti orizzonti politici di riferimento.

L’analisi sulla carica politica ideologica della SE s’inserisce nel dibattito sul rapporto tra imprenditorialità e socialità. Nella tesi di Mintzberg (2015), l’imprenditorialità sociale, le iniziative che partono dalla comunità e i movimenti sociali assumono un ruolo centrale nella trasformazione del mercato, permettendo di superare la visione di un “capitalismo aggettivato” (Mintzberg, 2015, p. 11) attraverso una maggiore sinergia fra Stato, mercato e quella che l’autore definisce plural society. Gli attori della società civile portano con loro una visione che trasforma, silenziosamente o meno, gli elementi della nostra società, non ultimo il mercato (Porter e Kramer 2011). Per questo la nostra proposta considera la SE come un fenomeno sociale il cui elemento costitutivo è l’interazione tra agire imprenditoriale e agire solidale in termini di tensione reciproca. Consci che il conflitto nella sua accezione sociologica sia una proprietà che appartiene ai soggetti individuali e collettivi (Smelser, 1995), l’uso del termine non ci pare inappropriato per sottolineare la tensione, o rievocando Simmel (1908) il contrasto[3], nel rapporto tra le dimensioni su cui si muove la SE. Questa tensione non ha una valenza patologica ma l’agire imprenditoriale – in cui centrale è il carattere della sostenibilità – e l’agire solidale nei confronti della collettività “convivono” nella SE; al venire meno di questa tensione, attraverso la sottomissione di un elemento all’altro, muterebbe la natura dell’oggetto. É proprio partendo da questa connotazione del termine conflitto, che si può assumere che la tensione tra agire sociale e agire imprenditoriale sia costitutivo della SE; e che pensare a questa tensione come la base di ogni interpretazione ed esperienza ascrivibile alla Social Entrepreneurship renda possibile di comprenderne il pluralismo e i poli di confronto (Beyes e Steyaert, 2011). Oltretutto, intendiamo contribuire all’appello di quegli autori che sottolineano la necessità di una maggiore interdisciplinarietà nella ricerca sulla SE (Dey e Steyaert, 2012; Cieslik, 2018).

Il paper è articolato come segue: nel prossimo paragrafo verrà presentata una review dei principali filoni di letteratura critica sulla SE; successivamente saranno illustrate le ragioni dell’adozione della Critical Discourse Analysis come metodologia per classificare il contenuto ideologico delle principali narrazioni accademiche sulla SE; nel quarto paragrafo saranno presentati i risultati dell’analisi di 62 definizioni della Social Entrepreneurship generando una classificazione delle ideologie sulla base di due principali assi di analisi: la trasformazione/riproduzione delle strutture economico-sociali, la conservazione/innovazione dei processi che le guidano; si discuterà quindi di come questi risultati contribuiscono allo sviluppo della letteratura critica sulla SE e, conclusivamente, si analizzeranno i possibili rischi e benefici dei risultati di questa ricerca e i suoi possibili sviluppi futuri.

Critiche della Social Entrepreneurship: una review

É possibile individuare tre filoni di analisi critica della SE. Il primo si focalizza sugli oggetti del discorso accademico, contrapponendo alle grandi narrazioni il valore delle piccole narrative per disvelare le asimmetrie di potere incluse nelle prime. Il secondo gruppo problematizza la prevalenza della ricerca sull’imprenditoria sociale attorno a scuole di pensiero radicate nei campi del business e del management (Social Enterprise, Social Innovation): la critica, di conseguenza, è esercitata attraverso lo sviluppo di una più pronunciata multidisciplinarietà per rompere la mono-logicità del discorso sulla SE. Il terzo campo costituisce una critica ‘neo-Polanyiana’ della SE: in questo caso, il problema principale viene individuato sui risultati dei processi dell’imprenditorialità sociale. La riflessione critica è dunque rivolta alla necessità di comprendere le condizioni necessarie affinché la SE si traduca in un “contro-movimento” che riconnetta la dimensione sociale con quella economica.

Il discorso delle grandi narrative produrrebbe, secondo Simon Teasdale (2012) una relazione di equivalenza dell’imprenditorialità sociale con i principi del neoliberismo, propagando una visione ottimistica e performativa delle sue capacità di trasformazione attraverso modalità efficienti di intervento basate sulla razionalità, il perseguimento dell’utilità e l’individualismo. La SE, dunque, sintetizzerebbe il fare “bene” (economico) con fare “il bene” (sociale), perseguendo una double bottom line (Conway Dato-on e Kalakay, 2016). La ricerca accademica mainstream, dunque, promuoverebbe una de-politicizzazione del cambiamento sociale (Teasdale et al., 2013), riducendo il focus dell’analisi agli effetti prodotti dagli individui protagonisti dell’imprenditorialità sociale, ad esempio, nei campi della sanità (Drayton et al., 2006), dell’istruzione (Sperandio, 2005), dell’integrazione occupazionale dei soggetti svantaggiati (Nyssens, 2006). Pascal Dey e Chris Steyaert (2012) hanno individuato quattro aree di criticità in questo tipo di narrative: (1) la possibilità del cambiamento sociale sarebbe sconnessa dalle tensioni strutturali che esso comporta; (2) la SE sarebbe ridotta ad un oggetto dipendente dalle abilità manageriali dei suoi protagonisti, dunque oscurando l’analisi della sua utilità sociale; (3) le tecniche di management applicate dagli imprenditori sociali rappresenterebbero, di per sé, un segno di progresso positivo in contrapposizione alle inefficienze regressive legate alla dipendenza finanziaria dal settore pubblico (Dees et al., 2001); (4) le grandi narrative sarebbero viziate dall’assumere a-criticamente una visione individualista della trasformazione sociale. Secondo gli stessi autori (Dey e Steyaert, 2010) le grandi narrative si fanno promotrici di una visione messianica – ed uniformata – dell’imprenditore sociale: una figura orientata al mercato, ma allo stesso tempo altruista e interessato alla trasformazione sociale (ad es. Leadbeater, 1997; Mair e Noboa, 2006), riflettendo, in questo modo, una posizione ideologica che dividerebbe il mondo in un polo positivo (gli imprenditori sociali) e in uno negativo (gli esclusi da queste abilità) (ad es. Nicholls, 2006). Al contrario, diverrebbero fondamentali le narrative costruite sul racconto delle micro-esperienze dell’imprenditorialità sociale, come strumento per affermare una visione polimorfa del fenomeno, che ne esprima sia le potenzialità che i problemi[4]. Altri esempi di piccole narrative nella letteratura sono focalizzati su casi di studio in quei paesi europei caratterizzati da una forte narrazione dei policy-makers sull’imprenditorialità sociale, come ad esempio la Svezia e il Regno Unito (ad es. Mason, 2012; Seanor et al., 2013). Karin Berglund e Caroline Wigren (2012), ad esempio, hanno dimostrato che mentre nelle grandi narrative l’imprenditorialità sociale è descritta come agente razionale e mitigatore del capitalismo, nelle piccole narrative il focus sarebbe spostato su valori non economici, come la capacità di costruire legami comunitari. Malin Gawell (2013) ha invece individuato una tensione nei protagonisti dell’imprenditorialità sociale, che avrebbero sviluppato capacità innovative, sia sfidanti delle strutture di potere politico e economico, che embedded all’interno delle strutture istituzionali.

La prospettiva economica-manageriale si è sviluppata dalla combinazione di frame teorici precedenti (Poledrini e Tortia, 2018) intorno alla crescita della rilevanza del Terzo settore nelle economie del Nord del mondo e dalla difficoltà di rispondere ai nuovi bisogni di natura sociale e occupazionale nascenti da parte dei sistemi di welfare (Defourny e Nyssens, 2008; Galera e Borzaga, 2009; Borzaga et al., 2014). Katarzyna Cieslik (2018) ha recentemente condotto una review della letteratura sulla SE al fine di evidenziare un (quasi-) monopolio metodologico da parte delle scuole di pensiero sviluppatesi nei Dipartimenti di Business e Management in Europa e Nord-America. Questi approcci ridurrebbero la complessità della SE dando ampio spazio a test quantitativi sulle performances delle imprese sociali, sottovalutando le analisi qualitative in grado di rappresentare la profondità dei processi e delle tensioni coinvolte dal fenomeno. Paul Charles Light (2008) aveva evidenziato un gap nella capacità delle scuole di pensiero più forti di esercitare un potere di selezione nella definizione della SE. Sarebbe possibile individuare due scuole di pensiero in grado di esercitare questo potere. La prima, la “Social Enterprise School” (rappresentata, ad esempio, dalle ricerche di Leadbeater, 1997; Austin et al., 2006; Boschee, 2006), è concentrata sulla capacità della SE di coniugare la sostenibilità finanziaria con la realizzazione di impatti sociali positivi: si tratterebbe, dunque di una produzione accademica che in nome di una ostentata a-politicità, contribuirebbe in realtà a svolgere un ruolo di advocacy che favorirebbe la “mercatizzazione” dei settori del volontariato e del non-profit (De Leonardis e Vitale, 2001; Eikenberry e Kluver, 2004). La seconda, la “Social Innovation School” (si vedano, ad esempio, le opere di Mulgan, 2006; Bornstein, 2007; Nicholls, 2010), descrive la SE come un attore all’interno del più generale concetto di innovazione sociale capace di attivare processi creativi e generativi di valore sociale contribuendo, così, a rompere le barriere tra Stato, mercato, e Terzo settore. In questo caso, dunque, la capacità di attivazione dei processi dell’imprenditorialità sociale non sarebbero limitati ai settori del non-profit, ma alla capacità, trasversale agli operatori pubblici e di mercato, di implementare modelli di innovazione nella gestione e distribuzione di beni di valore pubblico (Nicholls, 2006)[5]. Secondo questo filone di critica questi approcci assumerebbero, ideologicamente, una superiorità dell’imprenditorialità rispetto alla sua dimensione sociale (Hjorth, 2013) e produrrebbero una riduzione del concetto di innovazione, presentato come capace, di per sé, di portare ad una trasformazione sociale positiva, attraverso l’azione di individui di cui si presuppone la razionalità e una capacità creativa orientata al bene comune (Cieslik, 2018). Nell’ultimo decennio, si è dunque sviluppata una produzione accademica che afferma la necessità di una maggiore multidisciplinarietà negli studi sulla SE al fine di migliorare la comprensione del fenomeno (ad es. Steyaert e Hjorth, 2006). Altri studi hanno sottolineato la necessità di un’analisi nell’ambito della critica sociologica, in quanto proprio la partecipazione attiva dei cittadini sarebbe un elemento di distinzione dell’imprenditorialità “sociale” rispetto a quella commerciale e orientata alla massimizzazione del valore economico (Hjorth, 2013; Dey e Teasdale, 2015). Nella stessa linea teorica, altri autori hanno sottolineato come proprio l’elemento della partecipazione comunitaria sia l’unico elemento in grado di portare ad una concettualizzazione della SE come agente di un cambiamento sociale delle strutture esistenti (Roberts e Woods, 2005), e in grado di determinare nuovi equilibri tra le sfere del mercato, dello Stato e della società civile (Martin e Osberg, 2007). Su questa linea critica possiamo anche trovare le elaborazioni di Ota De Leonardis (1998) per cui il “mercato sociale” nato dalle ceneri del welfare state, viene letto non solo come un rischio di “mercatizzazione” del sociale ma anche come uno spazio di creazione di rapporti e relazioni generativi di legami sociali.

Il terzo filone di indagine critica si riferisce alle analisi sugli impatti dell’imprenditorialità sociale in un’ottica neo-Polanyiana. Infatti, secondo Karl Polanyi (1957), il capitalismo liberista, durante il diciannovesimo e il ventesimo secolo, si è caratterizzato come un sistema che sconnette la dimensione economica da quella sociale, individuando nelle organizzazioni di lotta per il welfare e i diritti democratici un contro-movimento che avrebbe dovuto portare al collasso del sistema economico capitalistico. La questione è dunque se l’imprenditorialità sociale possa essere analizzata come un processo del movimento di sconnessione del campo economico da quello sociale o se invece possa rappresentare un contro-movimento di riconnessione di questi mondi (Roy e Hackett, 2017). Con riferimento alla prima possibilità, è stato osservato come l’onnipresenza del discorso sull’impresa ri-definirebbe il “sociale” come una specifica forma del mondo economico, trasformando così i cittadini in meri consumatori e contribuendo alla perdita del valore della partecipazione civica (Eikenberry e Kluver, 2004; Steyaert e Hjorth, 2006). In tal senso, Johanisova et al. (2013) riprendono il concetto polanyiano di mercificazione, sostenendo che l’identificazione del mercato con l’economia imporrebbe i concetti di performance ed efficienza economica alla vita degli individui sottomettendo a questa logica tutti gli aspetti del vivere (Ibid.). Al contrario la SE dovrebbe avere un ruolo alternativo al sistema economico dominante (Amin et al., 2002) dunque le narrative sulla SE sono accusate di non partire da una critica dell’economia mainstream ma di svilupparsi intorno al paradigma della crescita economica (Johanisova et al., 2013; Johanisova e Fraňková, 2017). L’imprenditoria sociale, se non pensata in termini radicali e alternativi, risulterebbe un mezzo per i policy maker per generare impieghi per i soggetti svantaggiati e per mercificare servizi, legittimando politiche neoliberiste di esternalizzazione e privatizzazione (Clark e Johansson, 2016) come unica via per rispondere efficacemente alla crisi del welfare state. Secondo Beth Cook et al. (2003) questa tendenza sarebbe in realtà fondata sulle false premesse che una politica economica keynesiana sia la causa di una crescente inefficienza[6]. Al contrario, Jacques Defourny e Marthe Nyssens (2008) hanno affermato che l’imprenditorialità sociale è un agente del contro-movimento in termini neo-Polanyiani, in quanto capace di ‘ibridare’ i principi economici della competizione nel mercato con quelli della reciprocità degli scambi comunitari e della redistribuzione di valore (sia economico che sociale). Altri autori hanno affermato che quella della SE come protagonista di un contro-movimento sociale è al momento una potenzialità inespressa: infatti, se da un lato essa sfida i confini tra mercato e terzo settore, confini che sarebbero tali in quanto determinati dai valori del neoliberismo, dall’altro la mancanza di una piena riflessività sulle determinanti dei problemi sociali che l’imprenditorialità sociale intende affrontare ne limita le possibilità di cambiamento (Roy e Hackett, 2017).

Questi filoni di ricerca critica, pertanto, condividono la medesima analisi nei confronti delle narrazioni mainstream. Queste ultime sarebbero infatti pre-determinate: (1) da una visione ideologica che attribuisce ai meccanismi di impresa e di mercato una superiore capacità di affrontare il miglioramento sociale (es. Dart, 2004); (2) dalla riduzione della complessità dialogica delle relazioni sociali ad un pragmatismo del cambiamento che oscura le asimmetrie di potere (es. Dey e Lehner, 2017); (3) da una focalizzazione sui processi dell’imprenditorialità sociale che restringerebbe la sua valutazione (anche in termini di impatto) su singole metriche incapaci di cogliere la complessità dei sistemi sociali (es. Dey e Steyaert, 2012). Tuttavia, nello sforzo di svelare le relazioni di potere al lavoro negli attori della produzione del discorso sulla SE e nei contenuti di tali narrative, queste analisi critiche sembrano anche condividere un analogo problema. Quello cioè di attribuire una valenza negativa tout court alla carica ideologica delle narrative sotto esame. Con questo paper, al contrario, si parte da una valutazione neutrale del concetto di ‘ideologia’ (Joseph, 1998), al fine di potenziare la complessità dell’analisi della produzione accademica sulla SE. Questo tipo di analisi implica la possibilità che un’ideologia funzioni, contemporaneamente e/o alternativamente: (1) come una distorsione discorsiva utilizzata per coprire la volontà di riprodurre determinate relazioni di potere (Althusser, 2008); (2) come un’articolazione di diversi concetti tale per cui ognuno di essi (ad es. l’imprenditorialità, il cambiamento sociale) assume significati differenti in diversi costrutti ideologici (Laclau, 2014); (3) come il fenomeno emergente dalle interazioni tra diversi gruppi sociali nel loro tentativo di stabilire relazioni (contro-) egemoniche al fine di conservare o trasformare le strutture economiche e sociali (Gramsci, 2014). Dunque, analizzare la complessità delle funzioni svolte dalle diverse ideologie, le tensioni che essa include, serve lo scopo di migliorare la comprensione su un fenomeno di rilevante importanza come l’imprenditorialità sociale: rimane infatti da chiarire quali sono le caratteristiche che definiscono, nelle diverse analisi, la positività del cambiamento sociale cui la SE dovrebbe contribuire.

Metodologia

Per rispondere alla domanda alla base di questo paper, abbiamo condotto un’analisi dei testi riferiti alla definizione dei concetti di ‘social entrepreneurship’, ‘social enterprise’, e ‘social entrepreneurship organization’, così come riportati nelle più recenti review della letteratura (Bacq e Janssen, 2011; Conway Dato-on e Kalakay, 2016). La metodologia adottata rientra nel contesto della ‘Critical Discourse Analaysis’ (CDA): essa si caratterizza come un insieme di metodi e tecniche, finalizzati a demistificare le relazioni di potere e gli aspetti ideologici contenuti nei testi (Wodak, 2004; van Dijk, 2015). Il linguaggio, secondo questo approccio, è considerato una pratica sociale, sia costitutiva delle- che costituita dalle relazioni sociali ed in esso è possibile individuare dei costrutti che possono avere degli effetti ideologici, ovvero essere riferiti (esplicitamente o implicitamente) alla riproduzione o trasformazione delle relazioni di potere (Fairclough et al., 2011). Proprio la natura del potere è essenziale nella CDA, sostanziandosi nelle relazioni di differenza che possono essere identificate e disvelate in diversi costrutti discorsivi (Fairclough, 2003). Il potere, dunque, è il controllo esercitato da certi attori sociali nei propri ambiti e nelle relazioni sociali in cui sono immersi: la possibilità del controllo del discorso accademico da parte degli attori della ricerca scientifica è uno degli ambiti riconosciuti come propri della ricerca oggetto della CDA (es. Bizzell, 1992).

Al fine di applicare la CDA al nostro ambito di ricerca, ci riferiamo all’ideologia come la base assiomatica delle rappresentazioni sociali di un gruppo, costituendone, quindi, le attitudini condivise (van Dijk, 2000, p. 9). Più specificatamente, dunque, l’obiettivo del paper è disvelare il contenuto ideologico alla base del discorso accademico sulla SE, rendendone evidenti i contenuti normativi. Attraverso una verifica degli assunti alla base delle principali definizioni della SE, si costruirà una tipologia delle ideologie sottostanti alle principali narrative accademiche: esse rappresenteranno ideal-tipi (Gerring, 2012) che potranno aprire alla possibilità di ulteriori valutazioni empiriche su discorsi più complessi sia all’interno del mondo accademico che degli stakeholder afferenti al mondo dell’imprenditoria sociale. Come evidenziato da Norman Fairclough (2003), gli assunti alla base di un testo rappresentano i segnali della presenza di determinati assiomi, che una volta assemblati in catene concettuali, denotano il contenuto ideologico di un discorso.

I dati alla base di questo paper sono pertanto 62 definizioni afferenti alla SE. Rispetto alle fonti di questa ricerca (Bacq e Janssen, 2011; Conway Dato-on e Kalakay, 2016), abbiamo ridotto il campo delle definizioni a quelle derivanti da autori di paesi dell’area OCSE, poiché l’oggetto delle analisi critiche è rivolto principalmente alle narrative sulla SE nei paesi del ‘Nord globale’ (Dey e Steyaert, 2012). Dato che nelle review della letteratura alla base di questo paper vi era una sottovalutazione della scuola Europea EMES[7] (si vedano, ad esempio Borzaga e Defourny, 2001; Nyssens, 2006; Defourny e Nyssens, 2010), abbiamo aggiunto alla lista delle definizioni analizzate quella di Jacques Defourny e Marthe Nyssens (2008). La logica di inferenza della CDA è adduttiva, poiché i dati vengono analizzati a partire da categorie dedotte da teorie esistenti, per poi ri-assemblare i concetti fondamentali, con un processo induttivo, dai dati alla teoria (Wodak, 2004; Creswell, 2013).

Come visto in precedenza, il punto di partenza teorico sono quelle analisi che criticano la narrazione accademica mainstream sulla SE come driver di una “capitalizzazione del sociale”, contrapponendo ad essa la possibilità di contro-narrative che evidenzino a quali condizioni la SE possa agire con il fine di “socializzare il capitale”. Abbiamo pertanto dedotto da queste teorie (Cho, 2006; Teasdale, 2012) una struttura di codici attraverso cui analizzare i dati, separati a partire dalla ricerca di frasi alla cui base vi erano – logicamente – assunti il cui oggetto normativo è “capitalising social” oppure “socialising capital”. Questo processo ha portato all’individuazione di 28 codici di secondo e 14 codici di terzo livello. In molti casi, si verificava una possibile duplicazione degli stessi codici, fatto che rappresenta un bias nella ricerca qualitativa in quanto attribuisce gli stessi concetti a diverse categorie analitiche (Patton, 2015). Questo processo ha dunque permesso di rielaborare l’analisi dei dati su base tematica (Gioia et al., 2013): è stato possibile individuare dei pattern concettuali ricorrenti attorno a 3 macro-categorie tematiche: imprenditorialità, innovazione e welfare. Abbiamo quindi identificato, per ciascuno di questi nuovi codici di primo livello, due sottocategorie tematiche ricorrenti al livello della singola definizione. Questo risultato conferma l’ipotesi iniziale che un modello dicotomico che contrappone l’obiettivo della capitalizzazione del sociale o della socializzazione del capitale non spieghi sufficientemente quella che in realtà è una tensione ideologica presente nel discorso accademico sulla SE. La Figura 1 rappresenta gli elementi costitutivi di questa tensione. La Figura 2 raffigura invece la struttura dei codici per l’analisi dei dati. Come si può vedere, sotto il macro-tema imprenditorialità, troviamo quegli assunti che si riferiscono a questo fenomeno come al prodotto di agenti (principalmente individui) razionali e in grado di realizzare l’ottimo sociale ed economico, in tensione con quelli che invece limitano la qualifica sociale dell’imprenditorialità a quelle forme organizzative guidate da ragioni diverse dalla massimizzazione del profitto. Con riferimento all’innovazione, essa è caratterizzata come un’a-priori proprio degli imprenditori, con riferimento alla loro capacità di inventare nuovi processi, o invece alla possibilità di generare salti di paradigma nelle strutture economiche e sociali. Rispetto al welfare, è possibile individuare una tensione tra quelle affermazioni che assumono una concezione unitaria del benessere (e del cambiamento) economico e sociale, e quelle che invece affermano una tensione tra questi due ambiti, specificando gli elementi che caratterizzano l’oggetto del cambiamento sociale coinvolto nei processi della SE.

La combinazione degli assunti individuati per ciascuna definizione risulta pertanto nell’articolazione ideologica sottostante (Fairclough et al., 2011). Le ideologie sono state quindi classificate su due assi connessi ai poli di tensione “capitalising social”/“socialising capital”: quello della trasformazione / riproduzione delle attuali strutture socio-economiche capitalistiche (Piketty, 2020); quello della conservazione / innovazione con riferimento ai processi di combinazione delle risorse che caratterizzano i paradigmi di funzionamento delle relazioni sociali (Mintzberg 2015).

Figura 1. Capitalising Social – Socialising Capital. Elementi di tensione ideologica

Fonte: rielaborazione degli autori.

Figura 2. Mappa concettuale dei temi costitutivi delle ideologie sulla SE

Fonte: rielaborazione degli autori.

Risultati

L’analisi del discorso accademico ha permesso di individuare quattro tipologie prevalenti di ideologie sottostanti il discorso accademico sulla SE, sulla base del modello definito nel precedente paragrafo[8].

Il primo tipo si caratterizza come un discorso ideologico riproduttivo/conservativo. In questa categoria rientrano quelle narrative che assumono la possibilità della SE come mitigazione dei fenomeni di esclusione sociale delle attuali strutture economiche, adottando i processi esistenti per sostanziare la specificità della SE.

Un primo esempio è rappresentato dalla definizione di Jeff Boschee e Jim McClurgh, con riferimento alle organizzazioni della SE (2003):

‘Non-profits that emphasize earned income, sustainability and self-sufficiency instead of charitable contributions, government subsidies and eternal dependency’

Le imprese sociali, in questa definizione, sono assunte come diverse modalità organizzative dentro le strutture esistenti. L’assunto teorico risiede nella teoria della dipendenza dalle risorse (pubbliche e donazioni) secondo la quale, in virtù della loro riduzione, le organizzazioni non-profit avrebbero subito una spinta per la ricerca di nuove modalità di azione, dentro i processi esistenti. Infatti, questa definizione assume che la vendita di beni e servizi, e le modalità commerciali siano la forma attraverso cui le organizzazioni non-profit devono realizzare le proprie missioni sociali.

Un secondo esempio è rappresentato dalla definizione di Paul Tracey e Owen Jarvis (2007):

The notion of trading for a social purpose is at the core of SE, requiring that social entrepreneurs identify and exploit market opportunities, and assemble the necessary resources, in order to develop products and/or services that allow them to generate 'entrepreneurial profit' for a given social project’

Anche in questo caso, si assume che le attuali strutture di mercato non vadano cambiate, in quanto esse offrono opportunità che, se sfruttate grazie alle abilità imprenditoriali, possono risolvere i problemi sociali. Le imprese sociali, dunque, devono semplicemente utilizzare le modalità tipiche del mercato per mitigare i problemi sociali.

Le principali tensioni coinvolte in questa tipologia ideologica riguardano: (1) la relazione tra una concezione della SE come esclusiva delle organizzazioni non-profit e una visione unitaria del cambiamento sociale, tale per cui il welfare e la generazione di valore economico non sono mai in conflitto; (2) la necessità di adottare le tecniche del business proprio delle ventures commerciali con la specifica natura non-profit delle imprese sociali.

Il secondo tipo si caratterizza come un’ideologia riproduttiva/innovativa. In questo caso, si assume che le strutture del mercato capitalistico offrano le possibilità di mitigazione dei fenomeni di esclusione sociale, e che l’innovazione, assunta come un a-priori proprio dell’imprenditore, sia capace di per sé di realizzare gli obiettivi sociali di un’impresa. I processi della SE possono essere attivati indifferentemente dal tipo di organizzazione; piuttosto, l’ibridazione delle realtà for- e non-profit e il superamento delle barriere tra stato, mercato e società civile sono assunti come innovazioni di per sé positive.

Un primo esempio è rappresentato dalla definizione di Francesco Perrini e Claudio Vurro (2006):

‘We define Social Entrepreneurship as a dynamic process created and managed by an individual or team (the innovative social entrepreneur), which strives to exploit social innovation with an entrepreneurial mindset and a strong need for achievement, in order to create new social value in the market and community at large’

Il valore sociale su cui l’impresa deve far leva, secondo questa definizione, va individuato prima nel mercato e poi nella comunità. L’imprenditore è assunto, nella sua forma più pura, come un attore razionale e unitario guidato dalla voglia di successo e da un innato dinamismo che, applicando questa mentalità ai problemi sociali, è in grado di combinare risorse, nelle strutture esistenti, in forma innovativa.

Un secondo esempio è rappresentato dalla definizione di Alex Nicholls (2010):

A set of innovative and effective activities that focus strategically on resolving social market failures and creating new opportunities to add social value systematically using a range of resources and organization formats to maximize social impact and bring about change. Simply put, SE is defined by its two constituent elements: a prime strategic focus on social impact and innovative approach to achieving its mission

Anche in questo caso, è possibile individuare nel testo l’assunzione di una concezione dell’innovazione come un a-priori in grado di combinare diversamente le risorse esistenti producendo, di per sé, impatti sociali positivi. Nuovamente, i fallimenti e le opportunità di cambiamento sociale sono descritti in termini di mercato. I problemi sociali, dunque, sono assunti come indipendenti dalle strutture di proprietà e dalle attuali relazioni economico- sociali.

Le principali tensioni che attraversano questo tipo ideologico sono: (1) quella tra una concezione unitaria ed a-conflittuale del benessere sociale e l’obiettivo di creare impatto sociale attraverso i processi della SE; (2) una concezione dell’innovazione attribuita esclusivamente agli imprenditori e l’obiettivo di determinare cambiamento sociale positivo. Rimane infatti non chiarito, in quale senso l’innovazione non dovrebbe essere un attributo anche di soggetti non imprenditoriali.

Il terzo tipo si configura come un’ideologia trasformativa/conservativa. Come nel caso precedente, questa associazione potrebbe sembrare ossimorica. Eppure, essa si riferisce alla individuazione di caratteri strutturali che rappresenterebbero un ostacolo (e al tempo stesso la soluzione) per i fenomeni di esclusione sociale, e alla combinazione di processi sostanzialmente conservativi di quelli esistenti. Un primo esempio è l’elenco dei criteri di definizione della SE del gruppo di ricerca EMES (Defourny, 2001):

‘SE combine four economic and entrepreneurial factors (continuous activity producing goods and/or selling services, high degree of autonomy, significant level of economic risk, minimum amount of paid work) with five social dimensions (initiative launched by a group of citizens, decision-making power not based on capital ownership, participatory nature, which involves the persons affected by the activity, limited profit distribution, explicit aim to benefit the community)’

L’assunto principale in questa definizione è che i fini sociali sono incompatibili con quelli della massimizzazione del profitto, o, detta altrimenti, che le asimmetrie di potere relative alla disponibilità di capitale limitano il benessere sociale. Il cambiamento delle strutture ai livelli della proprietà e della gestione di impresa, dunque, sono le chiavi attraverso cui si realizza il cambiamento sociale. Tuttavia, non vengono individuate possibili innovazioni nei processi che guidano la combinazione di risorse: il mondo ‘economico’ e quello ‘sociale’ rimangono entità distinte.

Il secondo esempio è la definizione delle imprese sociali di Jacques Defourny e Marthe Nyssens (2008):

‘Social enterprises are not-for-profit private organizations providing goods or services directly related to their explicit aim to benefit the community. They generally rely on a collective dynamics involving various types of stakeholders in their governing bodies, they place a high value on their autonomy and they bear economic risks related to their activity’

L’attivazione di dinamiche collettive, indipendenti dalle strutture della proprietà delle risorse, è assunta come la premessa necessaria perché possa realizzarsi un beneficio per la comunità. Anche in questo caso, tuttavia, i processi di interazione tra gli attori operanti nel campo economico e in quello sociale rimangono distinti: similarmente alle prime due tipologie ideologiche, si assume che la modalità prevalente della SE sia quella di incorporare alcune delle tecniche di business e management proprie delle imprese commerciali in quelle non-profit e gestite secondo principi democratici, al fine di realizzare la propria missione sociale.

Le tensioni che attraversano questa ideologia possono essere riassunte in due aspetti principali: (1) tra la priorità assegnata al valore sociale come missione dell’impresa e la necessità di adottare tecniche proprie delle imprese commerciali, la cui natura sarebbe costitutivamente diversa; (2) rispetto alla natura della partecipazione dei cittadini nelle attività di impresa, rimanendo non chiarito se essa rappresenti un fine in sé o invece il mezzo privilegiato per incidere sui cambiamenti desiderati al livello delle strutture economiche.

Il quarto tipo si caratterizza come un discorso ideologico trasformativo/innovativo. L’innovazione è considerata, prevalentemente, come quell’insieme di processi tesi alla combinazione di risorse in grado di determinare un salto di paradigma in grado di trasformare le strutture esistenti. La SE si configura come un insieme di attività che oltre ad offrire soluzioni innovative tende all’abilitazione delle comunità per creare nuove forme di inclusione sociale. Un primo esempio è individuabile nella definizione della SE di Johanna Mair e Ignasi Martì (2006):

‘First, we view SE as a process of creating value by combining resources in new ways. Second, these resource combinations are intended primarily to explore and exploit opportunities to create social value by stimulating social change or meeting social needs. And third, when viewed as a process, SE involves the offering of services and products but can also refer to the creation of new organisations

Si assume, in questo caso, che l’innovazione non sia una combinazione di risorse dentro le strutture esistenti per mitigare fenomeni di esclusione sociale. L’innovazione è piuttosto il driver della creazione e generazione di risorse precedentemente inesistenti e questo processo generativo è informato dalla priorità della creazione di valore sociale. La struttura economica deve dunque essere modificata attraverso nuove organizzazioni, assumendo implicitamente che quelle esistenti sono generatrici di fenomeni di esclusione.

Un secondo esempio per questa ideologia è la definizione di Roger L. Martin e Sally Osberg (2007):

We define Social Entrepreneurhip as having the following three components: (1) identifying a stable but inherently unjust equilibrium that causes the exclusion, marginalization, or suffering of a segment of humanity that lacks the financial means or political clout to achieve any transformative benefit on its own; (2) identifying an opportunity in this unjust equilibrium, developing a social value proposition, and bringing to bear inspiration, creativity, direct action, courage, and fortitude, thereby challenging the stable state's hegemony; and (3) forging a new, stable equilibrium that releases trapped potential or alleviates the suffering of the targeted group, and through imitation and creation of a stable ecosystem around the new equilibrium ensuring a better future for the targeted group and even society at large’

In questa definizione si assume che le attuali strutture rappresentino una situazione di equilibrio stabile ma allo stesso tempo che esse causino esclusione, marginalizzazione e sofferenza. Inoltre, si assume che la causa principale di questo stato dell’arte risieda nelle disuguaglianze di disponibilità di mezzi finanziari e influenza politica. Dunque, la SE è tale se e solo se si pone l’obiettivo di determinare un salto di paradigma verso un nuovo equilibrio. L’innovazione, che si assume sostanziata nelle doti individuali della creatività, del coraggio e della propensione al rischio (qui però non ristretto al rischio economico di impresa) è la chiave per attivare la creazione di valore sociale e per liberare le potenzialità inespresse presenti tra i marginalizzati delle attuali strutture.

In queste costruzioni ideologiche è possibile individuare due tensioni principali: (1) tra l’assunto che la creazione di valore (e impatto) sociale sia prioritario e una concezione piuttosto unitaria del benessere sociale, che in quanto tale sarebbe perseguibile attraverso l’ibridazione di diverse strutture (pubbliche e private, for o non-profit); (2) nel riferimento allo stato dell’arte come determinato da particolari egemonie, senza però definire i soggetti sociali che le guidano, e lasciando quindi irrisolta la questione di quali attori sociali dovrebbero rappresentare le forze contro-egemoniche.

Discussione e riflessioni conclusive

La Tabella 1 sintetizza i risultati dell’analisi, evidenziando la sequenza dei concetti costitutivi dei tipi di ideologia sulla Social Entrepreneurship ed evidenziando gli ambiti di tensione tra la capitalizzazione del sociale e la socializzazione del capitale insiti in ciascun “ideal-tipo”. L’analisi dei dati sembra confermare l’ipotesi che ogni ideologia sia un’articolazione di concetti tale da assegnare a ciascuno di essi un significato diverso nella misura in cui esso è collegato ad altre idee costitutive (Freeden e Stears, 2013, Laclau, 2014). In questo paragrafo presentiamo: (1) una concettualizzazione della carica politica-ideologica articolata secondo le nostre categorie interpretative; (2) le implicazioni derivanti dalla nostra analisi e come esse contribuiscono alla letteratura critica analizzata nel secondo paragrafo; (3) le riflessioni conclusive del paper nella forma di una valutazione dei potenziali rischi e benefici dell’approccio politico-ideologico all’analisi della SE e come esso possa contribuire allo sviluppo di nuove agende di ricerca.

Tabella 1. Classificazione ideologica delle narrative accademiche sulla Social Entrepreneurship

Fonte: rielaborazione degli autori.

La Social Entrepreneurship è pertanto ri-concettualizzata come quell’insieme di relazioni e organizzazioni tese a ri-combinare azioni “imprenditoriali” e “sociali” finalizzate, sulla base della propria carica politica-ideologica:

  1. Alla riproduzione delle strutture di proprietà ed estrazione di valore delle economie capitalistiche, attraverso la mitigazione dei fenomeni di esclusione sociale e l’inclusione sistemica dei gruppi marginalizzati rese possibili dall’applicazione delle tecniche di management alle organizzazioni che operano al di fuori del paradigma for-profit, replicandone i modelli di sostenibilità economico-finanziaria. (Tipologia Ideologica: Riproduzione/Conservazione).
  2. Alla riproduzione delle strutture di proprietà ed estrazione di valore delle economie capitalistiche, attraverso la mitigazione dei fenomeni di esclusione sociale e l’inclusione sistemica dei gruppi marginalizzati rese possibili dalla generazione di articolazioni innovative dei processi di distribuzione del valore economico e delle responsabilità sociali, ibridando organizzazioni pubbliche e private, for- e non-profit, generazione favorita dalla dinamicità e propensione all’innovazione degli imprenditori. (Tipologica ideologica: Riproduzione/Innovazione).
  3. Alla – parziale o radicale – trasformazione delle strutture delle economie capitalistiche, attraverso la de-mercificazione di ambiti di azione che, per la propria rilevanza nella determinazione o limitazione di fenomeni di esclusione sociale, richiedono la presenza di specifiche modalità organizzative di impresa not-for-profit fondate sulla partecipazione comunitaria e su forme di governance ispirate alla democrazia paritaria. (Tipologia ideologica: Trasformazione/Conservazione).
  4. Alla – parziale o radicale – trasformazione delle strutture delle economie capitalistiche, attraverso ri-articolazioni innovative delle modalità di generazione di valore tali che le sue dimensioni “sociali” diventino prioritarie rispetto a quelle “economiche”, determinando così un salto di paradigma nelle forme di governance, estrazione e ridistribuzione delle risorse. (Tipologia ideologica: Trasformazione/Innovazione).

Tali tipologie, è bene specificare, non rappresentano campi separati, ma polarità in continua comunicazione e ridefinizione. La definizione del concetto di SE da parte dei soggetti che fanno ricerca, a nostro avviso, non rappresenta un punto di osservazione “neutra” di queste polarità, ma partecipa a queste relazioni dialogiche, co-determinandone gli sviluppi. Far emergere la dimensione politico-ideologica della SE e analizzarne criticamente le relazioni di potere tra attori coinvolti, è necessario a rendere più trasparente la dimensione normativa – le finalità desiderate – del fenomeno. Da questa analisi deriviamo tre principali implicazioni che possono contribuire ad arricchire i campi di ricerca critica sulla SE.

Un primo punto riguarda le maggiori possibilità di analisi oltre la pura dicotomia tra ricerca mainstream e critica con riferimento alla distinzione tra grandi e piccole narrative: come evitare, cioè una infruttuosa contrapposizione tra la funzione dei “grandi imprenditori” – come necessariamente “riproduttori” di relazioni di potere esistenti - e “piccoli operatori”, in quanto tali soggetti passivi di tali relazioni (Dey e Steyaert, 2010). Per comprendere questa linea di ragionamento, si guardi, ad esempio, al concetto di innovazione. Esso assume due significati diversi – come proprietà individuale degli imprenditori sociali o come driver dei cambiamenti di paradigma – quando è associato – attraverso la combinazione con diverse concettualizzazioni dell’imprenditorialità – a finalità di riproduzione o trasformazione delle attuali strutture economiche e politiche. Oppure, come rilevato, la sua assenza denota la presenza di un significato nella produzione di narrative che concettualizzano il miglioramento sociale in maniera dicotomica, dentro o fuori le strutture delle economie capitalistiche. Da questo punto di vista, si apre alla necessità di ulteriori verifiche empiriche, che rispondano, per esempio, alla seguente domanda: in quali condizioni, gli operatori responsabili di iniziative rientranti nella SE – ‘grandi’ e ‘piccoli’ –, adottano modelli organizzativi innovativi sulla base di un substrato ideologico che identifica l’innovazione con l’efficienza manageriale o invece con la ricombinazione di risorse generativa di nuove relazioni sociali.

La seconda implicazione riguarda la necessità di un’analisi della dimensione politica della SE per dare compiutezza alla letteratura critica che ha sottolineato le asimmetrie di potere tra differenti discipline accademiche nel determinare i suoi sviluppi (Cieslik, 2018). Come abbiamo visto nel secondo paragrafo, infatti, questo obiettivo è perseguito soprattutto attraverso una dialettica tra le discipline “economiche” e quelle “critico-sociologiche”, laddove le prime imporrebbero una visione della SE come equivalente all’adozione delle tecniche del business e del management alla sfera del welfare, e le seconde permetterebbero di disvelare la loro mono-logicità contrapponendovi una visione “riformata” della SE fondata sul principio della partecipazione comunitaria. Secondo il nostro contributo, la dimensione politico-ideologica è una chiave essenziale per migliorare la comprensione dell’articolazione tra questi due ambiti. Si veda, ad esempio, il concetto della partecipazione alle scelte imprenditoriali: esso può essere articolato come condizione “normativa” per la definizione di un diverso modello economico-sociale, che esclude la possibilità cioè che un modello imprenditoriale basato sulla proprietà di quote di capitale sia compatibile con il perseguimento di finalità di miglioramento sociale (per es. Bornstein e Davis, 2010), o come il processo generativo di un’innovazione che si caratterizza come il ‘salto’ da una condizione egemonica produttrice di marginalizzazione e disagio ad uno stato contro-egemonico dettato da nuovi paradigmi (per es. Martin e Osberg, 2007). Attraverso un’analisi della dimensione politica, per esempio, è possibile comprendere come queste dialettiche sulla partecipazione ‘costruiscono’ le relazioni sociali tra policy-makers, centri di ricerca, imprenditori sociali, comunità locali. Esistono, cioè, delle direzioni principali nella produzione dei discorsi e delle pratiche partecipative e come queste direzioni danno forma a dei processi, per esempio, di rielaborazione e rappresentazione del benessere sociale? Solo un’analisi che tenga conto delle interazioni tra diversi attori basate – anche – sulle tensioni tra le dimensioni politiche ideologiche, cioè, può compiutamente spiegare la dialettica tra agire imprenditoriale/agire sociale e tra capitalizzazione del sociale/socializzazione del capitale. In tal senso, questa prospettiva può aprire anche percorsi di analisi mirate ad osservare le trasformazioni del sociale e del politico partendo dal significato attribuito dagli individui al loro impegno nell’imprenditoria sociale.

Questa ultima riflessione ci porta al terzo contributo della nostra analisi, con riguardo alle analisi neo-Polanyane della SE (Roy e Hackett, 2017), che si sono interrogate sulla possibilità che essa abbia rappresentato un’accelerazione “dentro” il paradigma neo-liberista, tendente alla commodification delle dimensioni sociale e comunitaria, oppure l’emergenza di un contro-movimento che riconnettendo l’’economico’ e il ‘sociale’ possa favorire l’affermazione di modelli di sviluppo ‘fuori’ dal paradigma egemonico. Come analizzato nel secondo paragrafo, tuttavia, la SE sembra incarnare principalmente un elemento di tensione tra questi due ‘movimenti’. Pertanto, la ‘mappatura’ dei contenuti ideologici, e delle direzioni a cui essi sono associati, è fondamentale per tracciare i percorsi della SE in differenti contesti storici e geografici. É bene specificare, infatti, che la nostra analisi rimane limitata alla definizione della SE come fenomeno prioritariamente tipico delle fasi storiche post-fordiste nell’emisfero Nord-Occidentale, e che diversi processi potrebbero essere individuati con riferimento a diverse regioni globali.

Si può dunque affermare che l’analisi critica delle ideologie contenute nelle narrazioni sulla Social Entrepreneurship consenta di arricchire la comprensione del tipo di cambiamento sociale desiderato intrinseco in ciascuna narrativa, e che questa analisi possa rappresentarsi come una premessa logica per articolare più compiutamente la ‘critica’ delle potenziali finalità di riproduzione di asimmetrie nel potere politico ed economico, in quanto definisce gli strumenti concettuali per collocare ciascun attore rispetto agli assunti che rispondono alle finalità sociali che si prefiggono (Risjord, 2014).

Il principale beneficio di questo tipo di analisi risiede nel fatto che la produzione accademica, non è concepita, in questa chiave, come separata dagli oggetti della sua ricerca, ponendosi piuttosto in un confronto costante in grado di costituirne nuove forme. La trasparenza e la comprensione delle ideologie alla base del discorso accademico sulla SE sono pertanto importanti nella misura in cui esse determinano degli impatti sui modi in cui gli attori dell’imprenditorialità sociale si organizzano e agiscono nella società (Dey e Lehner, 2017). È possibile individuare due rischi potenzialmente derivanti dai risultati di questa ricerca. Il primo è connesso alla frammentazione teorica che riguarda il concetto di ideologia: quando esso venga inteso come produttore di distorsioni discorsive al fine di riprodurre delle relazioni di potere, sarà naturalmente associato ad una interpretazione peggiorativa delle posizioni classificate come ideologiche. Il secondo, conseguente, è il rischio di imporre una frammentazione aprioristica ad un campo di ricerca scientifica, contrapponendo visioni “ideologiche” che potrebbero finire per oscurare l’avanzamento della conoscenza di fenomeni reali.

Tuttavia, proprio la scarsità di analisi empiriche dedicate ad una comprensione del contenuto ideologico della Social Entrepreneurship rischia di amplificare questi rischi. Le ideologie alle fondamenta delle narrative accademiche, rimanendo inesplorate e inespresse, contribuiscono a creare analisi dicotomiche o semplificanti che limitano la comprensione della ricchezza, delle complessità, delle tensioni necessariamente inerenti all’imprenditorialità sociale. Dunque, questo paper, nella sua natura esplorativa, vuole contribuire a proporre una nuova agenda di ricerca sulla SE, che a nostro avviso può articolarsi attorno a tre assi principali.

Il primo è un’estensione della critica della letteratura accademica, per comparare, ad esempio: (1) gli elementi comuni e le differenze presenti nelle analisi empiriche su casi di studio differenti per ambiti geografici e di intervento; (2) le narrative accademiche emergenti dalle analisi empiriche delle azioni dei policy-makers e come queste vengono re-interpretate dagli stessi attori eventualmente contribuendo a ri-orientarne i processi decisionali. Il secondo è finalizzato ad una mappatura delle relazioni di potere tra gli stakeholders coinvolti nei processi di imprenditorialità sociale – imprenditori e lavoratori, centri di ricerca, policy-makers, utenti-clienti, comunità. L’analisi di queste relazioni è fondamentale per comprendere la natura dei movimenti tra i diversi significati associati con ciascun concetto così come articolati in questo paper. Per non fare che un esempio, si potrebbe ipotizzare che in presenza di una convergenza tra centri di ricerca e policy-makers su una concezione a-conflittuale del benessere sociale come determinato dalla dinamicità delle iniziative delle figure imprenditoriali, tale processo attivi: (1) lo scontro con quelle fasce della comunità che concettualizzano il benessere sociale come realizzabile solo fuori dalle dinamiche del mercato; (2) il dialogo con quelle fasce della comunità direttamente operanti nella soddisfazione di bisogni emergenti, al di fuori di aggregazioni che possano determinare critiche radicali e strutturali; (3) la co-progettazione di forme innovative di partecipazione per ri-combinare forme di azione ‘imprenditoriali’ e ‘sociali’; (4) nuove chiavi di interpretazioni derivanti per lo sviluppo dei centri di ricerca e conseguente attivazione di nuovi cicli in rapporto agli imprenditori sociali. Dalla descrizione di questi movimenti ciclici, sarà possibile comprendere e confrontare –attraverso differenti framework teorici- i pesi relativi nella co-determinazione degli sviluppi della SE in specifici contesti storico e geografici. Di conseguenza, e infine, sarà possibile analizzare le dimensioni politico-ideologiche alla base delle relazioni di potere sottostanti la determinazione di strumenti emergenti – ad esempio i Social Impact Bond (Mulgan et al., 2011; McHugh, Sinclair, Roy et al., 2013) – per la valutazione degli impatti sociali (Perrini e Vurro, 2013) delle iniziative della SE. Definire i possibili modelli di collaborazione tra agenzie pubbliche e private, e le interazioni tra gli stakeholder, sulla base dell’esplicitazione delle finalità politiche desiderate, infatti, consentirebbe di articolare con maggiore pluralità la definizione degli strumenti di valutazione degli impatti.


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Appendice 1

Note

  1. ^ Le motivazioni antistanti la decisione del legislatore di creare un’unica normativa di riferimento per il Terzo settore non sono legate solo alla crisi dei fondi pubblici ma anche alla necessità di ricomporre un quadro giuridico particolarmente frammentato (Gori e Zandonai, 2018) e di seguire l’evoluzione che in questi anni ha contraddistinto gli enti del Terzo settore (Fici, 2018).
  2. ^ Per quanto concerne la co-programmazione si potrebbe parlare di un ‘ritorno’, in quanto le prime collaborazione in Italia fra Terzo settore ed enti pubblici manifestavano questa tendenza, per trasformarsi con l’affermazione del welfare mix. Sottolineare questo aspetto ci pare centrale in quanto, la possibilità di muoversi di concerto con gli enti pubblici attraverso la propria professionalità nello spazio pubblico può modificare il rapporto tra cittadini e istituzioni riducendo, potenzialmente, la distanza.
  3. ^ Georg Simmel nella sua Soziologie (1908) non utilizza direttamente il termine Konflikt ma utilizza i termini Streit e Kampf, più simili all’accezione di tensione o contrasto. Il conflitto in tal senso è una forma di associazione fra individui o gruppi che governa il processo interattivo tra questi, producendo quindi - paradossalmente – un’unità. Tale concezione introducendo una visione sul conflitto di tipo relazionale, assume che la «tensione introdotta dagli elementi dissociativi è comunque connotata in modo associativo» (Bettin Lattes 2011, p.180).
  4. ^ Ad esempio, Tony Addison et al. (2009) si sono concentrati sugli impatti negativi sui legami sociali tradizionali delle iniziative di microcredito guidate da Mohammad Yunus (2007): introducendo una logica di scambio economico, infatti, sarebbero danneggiati i legami comunitari, e dunque sociali, nei paesi coinvolti dalle iniziative della Grameen Bank.
  5. ^ Tale visione è stata criticata da Borzaga (2013) in quanto un’impresa sociale può rispondere ai bisogni emergenti e non produrre nessun tipo di innovazione.
  6. ^ Le autrici, attraverso uno studio empirico in Australia hanno affermato che l’imprenditorialità sociale lavorerebbe (1) come distruttore dell’universalità del welfare state, poiché sarebbero i meccanismi di mercato a decidere dove orientare la propria offerta e (2) come un agente di controllo e non di giustizia sociale, poiché sarebbero gli imprenditori sociali a decidere i valori a cui i cittadini devono conformarsi.
  7. ^ Emergence of Social Enterprise in Europe.
  8. ^ Si veda l’Appendice 1 per l’assegnazione di ciascuna definizione ai differenti ‘ideal-tipi’ politico-ideologici.
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