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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2020

Intervista

Il Terzo settore e la costruzione della democrazia - Intervista a Marco Revelli

Redazione

Marco Revelli, politologo e titolare delle cattedre di Scienza della politica, Sistemi Politici e Amministrativi Comparati e Teorie dell'Amministrazione e Politiche Pubbliche presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, è da anni un osservatore attento del Terzo settore e della sua evoluzione. Impresa Sociale lo ha intervistato con un obiettivo ambizioso: esplorare le relazioni tra Terzo settore e teoria politica. Sì, perché di Terzo settore, ormai da alcuni decenni, si discute a livello accademico tra sociologi, economisti e giuristi. Ma tra politologi no. Si tratta di un’assenza significativa, che ci invita però ad avviare una riflessione su un tema cruciale e forse in parte trascurato dallo stesso Terzo settore: qual è il ruolo del Terzo settore nella nostra democrazia? In che relazione si pone con gli altri attori rilevanti – in primo luogo i partiti politici – di un sistema democratico?


Professor Revelli, iniziamo proprio da qui, dallo scarso interesse di chi si occupa di teoria politica per il Terzo settore. Perché ciò avviene?

Sicuramente è vero che chi si occupa di teoria politica fa fatica a sviluppare un pensiero compiuto sul Terzo settore. Non si tratta dell’unica disciplina che soffre di questa disattenzione, se si considera ad esempio che anche i gius-pubblicisti, pur con alcune rimarchevoli eccezioni, come la splendida sentenza della Corte costituzionale 185/2018 in cui si riconducono le attività del Terzo settore “all’ambito delle libertà sociali garantite dall’art. 2 della Costituzione, in quanto poste in essere da soggetti privati che operano per scopi di utilità collettiva e di solidarietà sociale”, stentano a misurarsi con esso. Ma, ritornando alla questione posta, sì, è vero, la teoria politica cancella o rimuove il Terzo settore e bisogna pertanto interrogarsi sui motivi per cui ciò accade. Il cuore della questione può essere così riassunto: tale dimenticanza investe un ambito di azione collettiva volta a costruire i nessi della socialità e della solidarietà sociale, che è l’ambito che la riflessione politica del Novecento ha trascurato o forse, per meglio dire, esplicitamente espulso. Come affermava Alfredo Salsano, il Novecento si è strutturato sulla diade Stato / mercato o, per dirla in termini di teoria politica, socialismo / liberalismo o ancora socialcomunismo / liberalismo. Si è oscillato tra posizioni centrate sullo Stato (nella versione comunista, assorbente ogni altra dimensione) a quelle liberiste centrate sul mercato, a riflessioni circa la necessità o auspicabilità che questa strana accoppiata si trovasse a collaborare. Lo Stato e il mercato competevano, nel pensiero politico del Novecento nel quale ci siamo formati, come soggetti regolatori in grado di strutturare le relazioni tra gli uomini, di assegnare valori, di presiedere ai criteri di distribuzione delle risorse; erano rappresentativi di due diversi principi ordinatori, lo Stato fondato sul principio di autorità, il mercato sull’interesse.

Stato e mercato, quindi come una diade apparentemente inconciliabile, che però, nel corso storico, ha invece trovato molteplici punti di incontro.

Sì, perché in realtà Stato e mercato hanno dovuto via via definire un equilibrio dinamico. Ciò che di fatto si è realizzato è un “capitalismo sociale di mercato” che da una parte riconosceva l’efficienza del mercato nel produrre valore, dall’altra affidava allo Stato il compito di redistribuirne una parte. Le politiche keynesiane che hanno dato forma alle strategie per uscire dalla crisi economica del 1929 hanno rappresentato una applicazione nitida di questo orientamento. Il mercato da solo produce squilibri, mentre la combinazione di Stato e mercato tra loro interagenti ha rappresentato in certe fasi una miscela vincente: il surplus redistribuito produce domanda, che a sua volta alimenta il capitale. È un meccanismo virtuoso di questa strana coppia apparentemente nemica, ma invece alleata (o, da altri punti di vista, complice).

In questo modello concettuale emerge però un’assenza macroscopica, quella appunto di soggetti sociali non riconducibili né allo Stato né al mercato e tuttavia presenti. Come mai le diverse scienze umane da una parte e la politica dall’altra hanno tardato tanto ad occuparsene?

Per completezza va segnalato che esistono voci, minoritarie e discordi, che invece hanno tracciato degli schemi di lettura diversi. Karl Polanyi, per esempio, un grande studioso difficilmente classificabile nelle discipline accademiche – storico, sociologo, economista, forse tutte queste cose insieme o nessuna di esse – già negli anni nella sua opera più nota – La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, del 1944 – individuava quattro forme di integrazione dell’economia nella società, ciascuna rispondente ad uno specifico principio ordinatore: certamente la redistribuzione, governata dallo Stato secondo il principio di Autorità, e lo scambio di mercato guidato dall’Utilità, ma anche la reciprocità attraverso il Dono e l’economia domestica fondata sul legame di parentela. L’aspetto qui rilevante è che il circuito della reciprocità, secondo Polanyi, è decisivo nelle società per la sua capacità di costruire legami. Mentre il circuito della redistribuzione o del mercato si esauriscono con l’atto di allocazione o scambio delle risorse, il “dono” è parte di una catena in cui il ricevere impegna chi riceve a dare a sua volta, sia pur in un momento diverso, costruendo così legami sociali. Non è collegato ad un potere di comando come la redistribuzione, non si esaurisce nell’atto dello scambio tra bene e denaro come nel mercato. Al contrario, il dono è un atto nei fatti non totalmente gratuito, ma implica un tacito impegno del ricevente a compiere in un tempo imprecisato successivo un atto simmetrico di riconoscimento del donatore; è uno scambio dilazionato, che crea quel legame tra donatore e ricevente che Marcel Mauss aveva ben illustrato nel suo Saggio sul dono nel 1924.

Certamente vi sono stati anticipatori visionari, non a caso ignorati dall’accademia fino a tempi recenti, ma è innegabile che questa corrente di pensiero sia rimasta, quasi sinora, periferica. Perché? E per quale motivo ad un certo punto le cose sono cambiate?

La diade Stato / mercato, con la sua opposizione e le sue alleanze, durante gran parte del Novecento ha oscurato la riflessione sulla reciprocità. Tutto ciò ha funzionato sino a che il mercato ha creato ricchezza in modo costante e crescente, tra il 1945 e il 1973, durante i “30 gloriosi”, gli anni di sviluppo economico apparentemente inarrestabile. Il mercato creava ricchezza crescente che veniva in parte investita per creare nuovo sviluppo, in parte redistribuita alimentando il circuito dei consumi in una spirale virtuosa. Il mercato finanziava lo Stato; lo Stato garantiva la redistribuzione, assicurando così la coesione e le condizioni per lo sviluppo; la società rimaneva in equilibrio. Ma nel corso degli anni Settanta e Ottanta la situazione è cambiata. Il mercato ha iniziato a divorare coesione in nome di un principio individualistico radicale. Possiamo ergere a simbolo di quella fase l’affermazione di Margaret Thatcher “… la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie… e le persone devono guardare per prime a sé stesse (1987)”. Insomma, la coesione ha cessato di essere un principio non riconosciuto e non riconoscibile e l’individualismo competitivo e predatorio è diventata una regola del vivere sociale.

Accanto alla crisi economica che inceppa la leva redistributiva, accanto ad una cultura individualista, quelli sono anche gli anni in cui si muta in modo radicale il modello di organizzazione della produzione.

Anche questo elemento ha una un’indubbia rilevanza. Entra in crisi il fordismo, gigantesca macchina che produceva ricchezza privata, ma che implicava forme di coesione: concentrava infatti masse di uomini in spazi produttivi, con il risultato di creare un rapporto tra loro e non a caso la storia del Novecento ha visto l’organizzazione delle masse operaie in sindacati, che rappresentavano una forma di comunità, trovando anche soggetti politici in grado di rappresentarli. Questo entra in crisi negli anni Ottanta, quando viene scalfito da stili organizzativi diversi: il toyotismo sperimentato e teorizzato da Taiichi Ohno, lo sviluppo dei distretti industriali in Italia, le pratiche di downsizing delle aziende, la scelta di esternalizzare in modo consistente elementi della produzione prima gestiti all’interno, l’enfasi culturale sulla microimprenditorialità e sull’essere “imprenditori di se stessi”; insomma, tutti elementi che decompongono il modello produttivo fordista precedente che, con tutti i suoi limiti, aveva come prodotto naturale quello di creare forme comunitarie nella classe lavoratrice. In altre parole, si va incontro ad un’evoluzione dell’organizzazione produttiva che porta ad un sistema in cui l’obiettivo non è più quello di costruire spazi di “ordine”, ma gestire il disordine tra flussi imprevedibili e mutevoli.

Qual è a suo parere l’esito di queste trasformazioni sociali? Distrugge i legami? Oppure esiste una correlazione con il fatto che, proprio in quegli anni, si assiste all’affermazione del Terzo settore?

È senza dubbio un periodo di sgretolamento di coesione sociale: le organizzazioni produttive che si adeguano a convivere con il disordine, la distruzione dei legami sociali operata dalla logica di mercato, la teorizzazione dell’insostenibilità del welfare, i mercati transnazionali creati dalla globalizzazione, la preminenza dell’economia finanziaria che sorpassa l’economia di produzione. Tutti questi sono fattori distruttivi dei legami sociali, che si verificano in un contesto in cui lo Stato non ha più risorse per svolgere il proprio ruolo redistributivo in modo adeguato alle necessità generate dalle evoluzioni economiche sopra richiamate. Sono anche gli anni della crescita della diseguaglianza e della nascita dei working poor, fenomeno poco presente nell’era fordista, quando chi lavorava non era ricco ma, di solito, non era neppure povero, non scendeva sotto ad una certa soglia; dagli anni Novanta, invece, si diffondono le persone che sono povere nonostante lavorino, figure destinate a crescere nel periodo successivo. Certo, a fronte del venir meno dei modelli sociali preesistenti, questi sono gli anni in cui nasce e si sviluppa il Terzo settore.

E di fronte a ciò, alla costituzione e alla crescita di organizzazioni di volontariato, associazioni, cooperative sociali etc., come reagiscono gli studiosi, cresciuti all’ombra della “strana coppia” Stato / mercato?

Ci sono reazioni diverse. Gli economisti, che sino a quel momento avevano guardato al Terzo settore con sufficienza, devono ricredersi, anche se ancora oggi – che il Terzo settore conta più lavoratori che il settore metalmeccanico – molti continuano a ritenere che si tratti di un fenomeno residuale. Accanto agli economisti, anche i sociologi e i giuristi hanno dato rilievo a questo tema. I politologi rimangono invece nella grande maggioranza con i piedi nel Novecento e considerano il Terzo settore un fenomeno prepolitico.

L’impressione è che manchino gli strumenti concettuali per inserire il Terzo settore dentro un discorso compiuto sulla democrazia. Gli economisti – a partire dagli studiosi anglosassoni degli anni Ottanta – iniziarono a pubblicare contributi sulle fondamenta economiche delle “non profit organisations”, in ambito giuridico si è sviluppata una riflessione rilevante a partire dal principio di sussidiarietà, i sociologi hanno colto la novità di questi soggetti “terzi” rispetto a Stato e mercato. Ma nel pensiero politico, pare che ancora oggi si fatichi a cogliere il ruolo del Terzo settore nell’ambito delle nostre democrazie.

E invece un Terzo settore che svolga in modo autentico il proprio compito è un elemento fondamentale per un sistema democratico. Norberto Bobbio ne Il futuro della democrazia evidenzia, da una parte, una definizione procedurale minima di democrazia, un insieme di regole che garantiscono l’esistenza di un sistema democratico – l’accessibilità di tutti i cittadini al suffragio, la presenza di votazioni in base al principio di maggioranza in cui ogni voto vale come l’altro e il pluralismo e tutela dei diritti civili e politici – dall’altra, alcune precondizioni sostanziali. La prima è l’esistenza di una società di “pari”; ciò non significa che non possano esservi differenze di ricchezza o di posizione sociale, ma che i membri del corpo sociale si riconoscano l’un l’altro come titolari delle stesse prerogative a vivere una vita decente e dignitosa (e dunque dove nessuno deve essere così tanto ricco da potersi comprare i voti degli altri o così povero da dover vendere il proprio voto). La seconda precondizione è che tutti possano partecipare all’elettorato passivo o attivo, senza essere soggetti a pressioni. La terza è la garanzia dei diritti degli individui e dei gruppi. Queste precondizioni sono connesse alla necessità di dare attuazione effettiva agli articoli 2 e 3 della Costituzione. Il Terzo settore opera appunto sulla prima di queste tre precondizioni, essendo un elemento indispensabile per garantire la solidità dei legami sociali – il fatto che il sistema complessivamente non si smembri, insomma – l’effettiva sussistenza della pari dignità tra cittadini e del riconoscimento reciproco.

Un aspetto interessante dell’argomentazione che propone è che spesso si rinviene un fondamento della legittimazione del Terzo settore nell’art. 118 comma 4 della Costituzione che enuncia il principio di sussidiarietà, mentre il suo discorso lo ricollega direttamente ai principi fondamentali della nostra Carta.

E la cosa ulteriormente significativa è che l’ultima parte dell’articolo 2 della Costituzione (“La Repubblica… richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) è una delle poche affermazioni nei principi fondamentali (l’altra, per alcuni versi simile, è introdotta dall’art. 4 che prevede per il cittadino il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”) in cui il cittadino figura come soggetto di doveri e non solo, come avviene negli altri articoli, di diritti e di garanzie. Insomma, la Costituzione, nell’individuare un dovere inderogabile alla solidarietà, costituisce un riferimento autorevolissimo all’opera di cittadini che si aggregano appunto per assicurare la dignità di ciascun individuo. Il Terzo settore, che ha in questo la sua vocazione originaria, risulta quindi soggetto di rilievo costituzionale, elemento centrale nel garantire l’operatività dei principi costituzionali nella quotidianità delle persone.

A fronte di questa alta investitura, qual è a suo avviso la realtà dei fatti? Possiamo dire che il Terzo settore sia effettivamente riconosciuto in questo ruolo di rilievo Costituzionale?

Certamente il Terzo settore è riuscito a farsi strada a fronte della crisi di Stato e mercato, ma ciò non lo mette al riparo dal tentativo di incursioni agito da entrambi i soggetti egemoni del Novecento. Incursioni dello Stato e della politica, per asservirlo o incorporarlo come surrogato subalterno delle proprie funzioni di cui è incapace, oppure per cercare una legittimazione rispetto al proprio operato; o ancora, con tentativi di scaricare le inadeguatezze delle istituzioni sul Terzo settore, chiedendo di assicurare beni e servizi di rilevanza pubblica con risorse inadeguata, come nel caso di affidamenti basati sul ribasso dei costi. Questo rischia di imprimere al Terzo settore un’evoluzione che, al di là degli altri effetti negativi su lavoratori e utenti, lo rende incapace di investire su formazione, progettazione, sviluppo di operatori che si percepiscono come subalterni rispetto all’ente finanziatore. Dall’altra parte il mercato ha cercato di mercatizzare il Terzo settore, di considerarlo un ramo nobile, ma che deve rientrare nelle stesse regole di funzionamento dell’impresa privata. Si sono moltiplicati gli stimoli in questo senso anche a fronte di una difficoltà nel proporre, con la forza necessaria, una contro-teoria capace di opporsi ai teorici di mercato che cercano di colonizzare il Terzo settore.

È vero che viviamo entro spinte contrastanti come quelle che richiamava prima. E talvolta il Terzo settore pare ignorato nella sua funzione di rilievo costituzionale (come prima lei stesso ha ricordato); talvolta pare caricato di compiti forse eccessivi, quale il supplire alla carenza delle forze politiche tradizionalmente più attente al tema della dignità delle persone – per richiamare il tema da lei introdotto – nella capacità di sviluppare una narrazione alternativa a quella che porta alla disgregazione sociale. Insomma, forse talvolta si eccede nel richiedere al Terzo settore di svolgere un ruolo che sarebbe di altri attori, in primo luogo dei partiti?

Questa situazione è originata anche dal fatto che, chi oggi volesse posizionare una proposta politica nel campo della costruzione e ricostruzione della dignità di ogni cittadino, vede intorno a sé uno spazio estremamente stretto, mentre il Terzo settore ha dalla sua parte il fatto di svolgere effettivamente in prima persona delle pratiche sociali in questo senso. Nella triade Stato istituzione / società politica (partiti) / società civile, abbiamo i partiti in pesante crisi (in particolare il partito di massa, plasmato sul modello fordista, è superato a vantaggio di nuovi modelli organizzativi fondati su capacità di reazione a stimoli, dinamica, ecc.) e spesso inefficaci a lavorare sulla creazione della democrazia. Ecco, in questo scenario il Terzo settore è effettivamente molto più in grado di cogliere i segnali e linguaggi della sofferenza sociale, mentre il partito non è più in grado di farsi protagonista – per dirla con Aldo Bonomi – della costruzione di una comunità di cura. Questo non significa che il Terzo settore debba assorbire i compiti dei partiti, ma che deve essere considerato, dalle forze politiche che vogliono sviluppare un discorso coerente sulla dignità delle persone, un riferimento per costruire linguaggio, categorie di pensiero e letture della società adeguate.

Questo, rispetto ai contenuti. E rispetto invece al modo in cui si fa politica, sempre più caratterizzato da inciviltà e degrado? Il Terzo settore ha qualcosa da offrire?

Purtroppo, per i motivi sopra richiamati, oggi sono premiate forze politiche che entrano a gamba tesa nelle piaghe aperte della nostra società per massimizzare il consenso; e, così facendo, invece di prendersi cura di queste ferite le infettano ulteriormente, iniettando nella società istinti belluini e la tendenza a farsi da sé giustizia sommaria. Sarebbe opportuno che un soggetto politico che volesse riqualificarsi rispetto alle cattive pratiche del passato sviluppasse, anche grazie al Terzo settore, una vera capacità di ascolto – cosa diversa dalla captazio benevolentiae – e re-imparasse i punti fondamentali dei linguaggi sociali. Devo anche dire che, a mio avviso, la possibilità che effettivamente la politica sviluppi la capacità di mettersi in ascolto è scarsa, a meno che non emerga una nuova classe politica radicalmente diversa da quella attuale.

Un’ultima perplessità. In questa intervista abbiamo utilizzato il termine “Terzo settore” come se questo insieme di organizzazioni eterogenee per dimensione, modalità operativa e valori-principi che le ispirano, fossero un insieme unico. Se consideriamo l’effettiva articolazione del Terzo settore, quanto abbiamo detto rimane valido?

È sicuramente vero che il Terzo settore contiene soggetti con culture politiche diversissime nelle loro varie articolazioni, oltre che forme organizzative tra loro differenti. Ma penso che sia possibile individuare una trasversalità a partire da una linea di demarcazione costruita sulla coscienza di muoversi intorno ad una definizione minima condivisa di comunità: una coscienza comune tra chi condivide l’urgenza della ricostruzione di legame sociale attraverso un impegno personale, sia esso volontario o agito in forma imprenditoriale (penso alla forma dell’impresa sociale); una coscienza che si basa sulla condivisione di un’etica collettiva e non individuale; una motivazione fondamentale di tipo relazionale – cosa che ovviamente non impedisce di attendere la giusta remunerazione per il proprio lavoro; la non discriminazione delle persone. Fissate queste linee di demarcazione minime e riaffermata la propria alterità tanto rispetto allo Stato quanto al mercato, il Terzo settore può effettivamente essere un soggetto centrale nella costruzione dei prerequisiti della democrazia.

Libri citati nell’intervista e ulteriori approfondimenti

Bobbio N. (1984), Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino.

Bonomi A. (2016), Il difficile sincretismo tra comunità di cura e comunità operosa. Profit, non profit, ASMEPA Edizioni, Bologna.

Bonomi A., Pugliese F. (2018), Tessiture sociali. La comunità, l'impresa, il mutualismo, la solidarietà, Egea, Milano.

Mauss M. (1924), Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, prima edizione originale, Einaudi, Torino.

Polanyi K. (1944), La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, prima edizione originale, Einaudi, Torino.

Revelli M. (1998), La sinistra sociale, Bollati Boringhieri, Torino.

Revelli M. (2001), Oltre il Novecento, Einaudi, Torino.

Salsano A. (2008), Il dono nel mondo dell'utile, Bollati Boringhieri, Torino.

Zamagni S. (2007), L'economia del bene comune, Città Nuova, Roma.

Zamagni S. (1998), Non profit come economia civile, Il Mulino, Bologna.

Zamagni S. (a cura di) (1997), Economia democrazia, istituzioni in una società in trasformazione, Il Mulino, Bologna.

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