Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
impresa-sociale-1-2020-la-dimensione-politica-dell-economia-sociale

Numero 1 / 2020

Saggi brevi

La dimensione politica dell'economia sociale

Gianluca Salvatori

Introduzione

Potrebbe essere arrivato il momento di sollevare una questione spinosa: l’economia sociale ha una dimensione politica? L’accostamento può sembrare temerario in un tempo in cui i sentimenti prevalenti nei confronti della politica sono negativi. Visto che nell’opinione pubblica sembrano non esserci limiti al discredito della politica, si potrebbe legittimamente consigliare di mantenere un’adeguata distanza dal tema per evitare all’economia sociale il rischio di un’analoga disaffezione. In alternativa, qualcuno potrebbe obiettare che l’argomento è di scarso interesse, in quanto la storia più recente ha dimostrato che le direzioni dello sviluppo sono determinate dai processi economici molto più che da quelli politici. Inutile quindi preoccuparsi di come i due piani interagiscono. Meglio, piuttosto, premurarsi di definire rispetto agli altri modelli economici la specificità dell’economia sociale, che è l’ambito più ampio in cui l’impresa sociale naturalmente si colloca.

Posizioni entrambe legittime, ovviamente, ma anche troppo convenzionali. Danno per scontata un’idea di politica che attinge alla cronaca del presente, in quanto contesa effimera per il potere, perdendo di vista il senso dell’azione politica come capacità di governare il cambiamento in funzione di una visione del futuro; come impegno che riguarda non solo le aule parlamentari o le sedi istituzionali, bensì l’esercizio di una responsabilità condivisa che coinvolge una molteplicità di attori. Una concezione della politica come spazio di azione civile, che nasce dall’associarsi delle persone, e non come espressione della supremazia dello Stato sulla società civile, per riprendere l’eterna contrapposizione che ha attraversato tutta la storia del pensiero politico (Chevalier, 1981). Dimensione politica, quindi, come visione di obiettivi a lungo termine, strategici, e al tempo stesso consapevolezza delle condizioni concrete che sono necessarie per ottenerli, spesso mediando tra ideale e reale. Comunque, in un’accezione ampia che vede la responsabilità politica diffusa anche oltre i professionisti della politica.

Il tema di questa riflessione verte appunto sulla necessità di estrarre dai comportamenti e dai modelli economici le implicazioni politiche che ne derivano. In particolare, provando a rispondere alla domanda se all’economia sociale oggi spetti il compito di proporre degli argomenti in grado di far emergere la responsabilità politica che è contenuta in ogni azione economica. Opponendosi alla tendenza che ha portato ad allentare questo rapporto, e che ha fatto credere che ogni scelta di ordine economico fosse dettata da meccanismi retti da leggi di natura e quindi senza alternativa. Infatti, la presunzione che there is no alternative è frutto di una posizione ideologica e come tale andrebbe trattata (Fisher, 2009; Berlinski, 2011).

Tra i paradossi dei nostri giorni c’è la constatazione che mentre l’esercizio reale del potere è in larga parte nelle mani delle élite economiche (e tecnologiche), il bersaglio principale verso cui si indirizza la protesta popolare restano ancora le vecchie istituzioni della politica. L’insofferenza verso l’establishment politico cresce di pari passo con la sua impotenza. Benché la vita dei cittadini sia sempre più plasmata da forze che operano per lo più fuori dal controllo delle istituzioni elettive e democratiche, si stenta a comprendere che anche la politica è vittima di questa situazione. Per quanto si sforzi di mostrarsi al comando, la verità è che il potere nelle sue mani si è ridotto in misura sostanziale. Malgrado ciò, paga ugualmente il prezzo della protesta di chi la considera responsabile della sua inazione. Mettendo spesso in scena delle rappresentazioni con le quali cerca di nascondere quanto invece dovrebbe essere evidente a tutti: ovvero che nelle società contemporanee il potere è molto più distribuito che nel passato e lo scettro non è più nelle sole mani della politica. Oggi il potere è molto più facile da conquistare che nel passato, ma è più difficile da esercitare, e più semplice da perdere (Nain, 2013).

La crescita globale della disuguaglianza, l’automazione sempre più accelerata e pervasiva del lavoro, lo sviluppo esponenziale dell’intelligenza artificiale, la commercializzazione dei dati personali come nuova fonte di ricchezza per pochi monopoli mondiali, sono tutti fenomeni di fronte ai quali manca un’azione politica in grado di gestire efficacemente gli effetti negativi di tali dinamiche. È così in Italia, ma il fenomeno è globale. La manifesta impotenza della politica produce nei cittadini distanza rispetto alle istituzioni e al loro ruolo. In un circolo vizioso, la percezione che la politica non sia adeguata rispetto ai suoi compiti finisce per renderla ancora più debole nei confronti dei nuovi poteri dai quali i cittadini vorrebbero essere protetti. Con un movimento perverso che si autoalimenta, in costante accelerazione.

Se non ci si vuole avvitare in un’indignazione che abbia come unico sfogo una rabbia profonda e distruttiva, genericamente rivolta contro tutte le élite, la domanda da porsi è come restituire alle istituzioni della democrazia il potere di riequilibrare il rapporto, oggi soccombente, con le forze dell’economia e della tecnologia. Tema che si lega indissolubilmente alla questione dei fini verso cui orientare lo sviluppo. Una domanda scomparsa dal dibattito pubblico, su cui dovrebbe invece misurarsi la riflessione riguardante la dimensione politica dell’economia sociale. Con l’obiettivo di affermare, e far riconoscere, che there is an alternative.

Le riforme mancate

In questi anni abbiamo assistito a molti tentativi di riforma della politica. A lungo si è pensato che la strada maestra per curare la perdita di influenza che il potere politico manifesta rispetto ad altre e nuove forme di potere passasse da una revisione delle sue regole e delle procedure formali di funzionamento. Dinanzi alla constatazione della sua intrinseca debolezza, e alla crescente sfiducia con cui la politica è considerata da parte dei cittadini, in varie occasioni, nel nostro Paese, si è pensato che la via da seguire fosse quella di mettere mano alle forme di governo e ai meccanismi della rappresentanza. Lo sguardo si è concentrato sull’architettura delle istituzioni e sulle modalità per assicurarne la governabilità. La risposta alla crescente complessità sociale, ed al senso di spiazzamento da cui le istituzioni politiche sono state assalite di fronte all’emergere dei nuovi centri di potere globali, è stata di tipo introverso. È andata nella direzione di modificare le regole del gioco politico, dall’interno del sistema della rappresentanza, piuttosto che di elaborare idee e strategie per comprendere e fronteggiare i nuovi fenomeni prodotti dai nuovi paradigmi tecnologici e dalle metamorfosi del capitalismo.

Si è discusso con accanimento se il problema fosse quello di rafforzare le leadership e il potere dei governi, per aumentarne l’efficienza decisionale, o se invece la questione si ponesse piuttosto nei termini di una rilegittimazione dei processi partecipativi, con modalità più o meno disintermediate di espressione della volontà popolare (Fusaro, 2015; Pasquino, 2015). Ma sempre, al centro di un’attenzione autoreferenziale, c’erano i meccanismi della politica, mancando invece un’idea del ruolo che essa dovrebbe svolgere nel tempo in cui l’economia e la tecnologia pretendono di sostituirla.

Si è creduto che dando priorità alle riforme del sistema di governo e dei modelli di rappresentanza – con interventi ripetuti e spesso non coordinati su poteri dell’esecutivo, leggi elettorali e struttura del parlamento – si sarebbe ricostruita la fiducia da parte dei cittadini verso la politica. Oppure si è percorsa la strada della rivendicazione di forme totalmente alternative di manifestazione della volontà popolare, evocatrici di modelli di democrazia diretta ampliati a dimensioni di massa dall’uso di piattaforme digitali. Ma in entrambi i casi è sembrata perdersi di vista una questione fondamentale: che per ristabilire la fiducia nelle istituzioni collettive occorre misurarsi con la percezione che in molti oggi hanno di vivere un gioco a somma negativa, in cui il benessere di pochi è pagato dalla precarietà esistenziale della maggioranza. È la sensazione di trovarsi a far parte di una massa di “perdenti” la benzina che maggiormente alimenta il motore della rabbia sociale (Revelli, 2019).

Poco importa che si tratti di percezioni non sempre confermate dalla realtà dei fatti. A leggere i dati che indicano come l’Italia sia uno dei paesi del mondo con il più alto livello di ricchezza privata (quasi dieci trilioni di euro, sette volte il PIL nazionale, divisi in parti quasi uguali tra beni immobili e beni mobili) può venire qualche dubbio (Ricolfi, 2019). Benché la disuguaglianza sia in crescita, non siamo ancora agli eccessi che contraddistinguono altri paesi. Ma non è questo il punto. Il punto è che le aspettative riguardanti il futuro hanno interiorizzato un senso di impoverimento che sebbene non coincida con le statistiche patrimoniali comunque incide sugli stati d’animo e implica scenari che inducono a pessimismo. Tanto più in quanto l’incertezza e il senso di perdita di controllo sul proprio futuro non riguardano soltanto la situazione economica delle persone ma anche la loro prospettiva lavorativa, lo status sociale, e persino le condizioni individuali di salute.

Un segnale inquietante, in questo senso, è la diminuzione delle aspettative di vita tra i loser di paesi altrimenti considerati economicamente forti, come hanno messo in luce gli studi di Angus Deaton sull’aumento della mortalità nella classe media americana. È tra i lavoratori bianchi a bassa scolarità, di età compresa tra 50 e 54 anni, che si misura quella epidemia di death of despair che ha visto impennarsi i numeri dei morti per droga, alcol e suicidi (Deaton, 2019). Vittime di uno “svantaggio cumulativo” in cui alle difficoltà economiche si è sommato un peggioramento delle condizioni familiari, delle prospettive di crescere i figli, della capacità di tenere il passo con l’evoluzione tecnologica. Dunque, una crisi che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza individuale e alimenta un rancore nei confronti dell’intera società.

In tale quadro, ciò che conta davvero è riacquistare una capacità di orientare lo sviluppo, economico e tecnologico, elaborando le idee e le azioni necessarie per contrastare il sentimento di vulnerabilità che definisce la nostra come una società del rischio (Beck, 2013). Senza un impegno in tale direzione, affidare ai soli meccanismi delle riforme istituzionali il compito di ricostruire il rapporto tra cittadini e politica è una scommessa destinata ad essere persa. Specialmente in una situazione, come l’attuale, di continua esposizione ai sentimenti di insicurezza che nascono da un’economia che crea disuguaglianza, su cui la grammatica istituzionale e politica non sembra avere alcuna presa.

Qui si annidano i motivi profondi che hanno fatto fallire i vari tentativi di riforma della politica che in Italia si sono succeduti nel corso degli ultimi trent’anni. Le riforme, perché abbiano efficacia, non possono fare a meno di un nuovo patto sociale e culturale, alla base del quale occorre una visione dello sviluppo che sappia misurarsi con i problemi della disuguaglianza e dell’inclusione sociale. La riforma politica non può fare a meno di una riforma dell’economia.

Del resto, la storia insegna. Benché il pensiero prevalso negli ultimi trent’anni abbia fatto di tutto per cancellarne la memoria, l’età d’oro della politica sono stati i trent’anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, che sono coincisi con la costruzione di un equilibrio tra le forme istituzionali della democrazia e il modello di crescita economica di un capitalismo regolato (Fourastié, 2011). Un bilanciamento che ha messo in moto quel meccanismo di “ascensione sociale”, spinto dalle ambizioni della classe operaia e della classe media, su cui le società più avanzate nell’ultimo secolo hanno costruito il proprio successo economico, consolidando al tempo stesso la fiducia nelle proprie istituzioni politiche. Alla rottura di quell’equilibrio non è seguita nessuna sintesi altrettanto efficace e duratura (Galbraith, 2014). Forse gli ultimi a tentarne una, nobilitata da uno sforzo di pensiero non puramente contingente, sono stati Anthony Giddens e Tony Blair, con la tesi di una Terza via che avrebbe dovuto far incontrare le ragioni di un’economia liberale di mercato con i valori di solidarietà di un approccio progressista allo sviluppo sociale (Giddens, 1998). Ma la vicenda del New Labour è stata anche indicativa di come la rivendicazione del primato della politica, di per sé, sia uno sforzo alla lunga vano se non accompagnato dalla capacità di esprimere un pensiero economico coerente. L’eredità di quella stagione mostra come la graduale rinuncia a regolare l’economia capitalistica abbia aperto le porte ad una sua finanziarizzazione che ha finito per erodere i presupposti culturali, etici e civili di una politica che si poneva obiettivi socialmente riformistici. Fino alla completa nemesi, negli anni successivi al tramonto della Third Way blairiana, in cui l’intenzione di tenere insieme politiche pro-mercato e forme di innovazione sociale ha condotto prima alla teorizzazione della Big Society e poi alla sua crisi, sotto i colpi della grande recessione. Decretandone la subalternità rispetto alle dinamiche di mercato.

La de-politicizzazione della società

Se siamo arrivati a questo punto, con la politica in seconda linea rispetto ai poteri dell’economia e della tecnologia, è anche perché quasi trent’anni fa si è affermata la convinzione che il pensiero liberal-democratico non avesse più avversari. Quindi una visione economica ispirata ai principi liberali poteva prendere il sopravvento e volgere a proprio vantaggio l’agire politico, essendo venute meno le ragioni dell’equilibrio in precedenza necessario per fronteggiare le ideologie concorrenti.

Nella sua forma più conosciuta, questa tesi è stata sostenuta da Francis Fukuyama nel suo saggio del 1989 The End of History?, seguito tre anni più tardi da un fortunato libro dal cui titolo il punto interrogativo era nel frattempo sparito (Fukuyama, 1989; 1992). L’argomento di Fukuyama, come è noto, è che al termine della guerra fredda e con il crollo del regime sovietico si affermano in via definitiva e globale il pensiero e i valori di una democrazia liberale a base capitalistica. Secondo questa interpretazione, che ha profondamente orientato il dibattito culturale della fine dello scorso secolo, lo scontro tra modelli politico-economici durato tutto il Novecento ha visto un vincitore indiscusso: il modello di sviluppo economico fondato sulla superiorità dell’economia di mercato, radicata nella libera azione degli attori privati. Il successo di questo modello è stato così travolgente, in termini di creazione di ricchezza e benessere, che il venire meno del suo antagonista storico – un regime fondato sulla pianificazione statale e sulla costrizione della libertà di impresa – ha avuto l’effetto di ridefinire in profondità il rapporto tra Stato e mercato. La caduta del muro di Berlino ha posto fine ad una contesa tra due modelli di sviluppo sociale ed economico. La vittoria dell’Occidente ha consentito di rimuovere ogni remora, sciogliendo definitivamente le briglie ad un’economia di mercato consapevole del proprio primato e quindi ansiosa di sottoporre lo Stato ad una robusta cura dimagrante. L’affermazione mondiale della liberal-democrazia ha aperto le porte ad una revisione del compromesso che la legava al capitalismo, con un allentamento di quel sistema di contrappesi sociali e di regole istituzionali che ne avevano imbrigliato gli spiriti animali. Questa, in sintesi, la narrazione della “fine della storia” secondo Fukuyama.

La vicenda che ne è seguita è quella del ciclo di privatizzazioni e liberalizzazioni più vasto dell’ultimo secolo. Ad esserne investita non è stata soltanto la presenza dello Stato nell’economia, che negli anni del secondo dopoguerra aveva conosciuto una continua espansione, ma anche l’azione pubblica nei settori del welfare, cresciuta in pari misura fino a diventare una delle caratteristiche principali delle organizzazioni statuali della seconda metà del Novecento. Il Welfare State, fondato su robusti meccanismi di redistribuzione e di inclusione sociale, è stato l’elemento identificante di una lunga stagione politico-economica, ed ha definito un modello di sviluppo che ha marcato la vita di molte democrazie occidentali per l’arco di un’intera generazione. La sua genesi è stata il risultato di un incrocio di elementi, in cui si sono sommati il senso di coesione e uguaglianza di società uscite dallo sforzo bellico, la spinta alla ricostruzione materiale e morale, il confronto geo-politico con il modello sovietico, le esigenze di un sistema produttivo che per ripartire aveva bisogno di una prospettiva duratura di pace sociale. La sua parabola, da Beveridge alle picconate della Thatcher e dei suoi epigoni, è la storia della ricerca di un difficile ma anche visionario compromesso tra le virtù dell’individualismo liberale e l'esigenza di proteggere gli individui dalle conseguenze negative dell’economia di mercato (Beveridge, 1942). La sua crisi, così come il suo avvento, ha segnato i tempi in profondità. Ed è in larga misura ancora cronaca dei nostri giorni.

Tuttavia, la novità oggi è che anche il pensiero che ha messo in discussione l’idea dello Stato sociale è entrato a sua volta in crisi. Il punto sul quale qui vogliamo portare la riflessione non riguarda il tramonto del Welfare State, che è argomento noto e lungamente analizzato, quanto invece le difficoltà del modello che pretendeva di prenderne il posto. Con la grande recessione del 2008 le certezze riguardo alle virtù di un approccio fondato sul primato del mercato sono state scosse profondamente e si è aperta una nuova fase, quella in cui appunto ci troviamo attualmente. Vediamo di definirne alcune caratteristiche.

Il dominio di un pensiero economico fondato sull’egemonia di un capitalismo di mercato insofferente alla regolazione pubblica è durato appena due decenni, eppure la sua influenza è stata pervasiva ben oltre l’ambito dell’economia. Per sua stessa natura, la rivendicazione di una supposta superiorità dell’approccio di mercato ha esteso i propri effetti molto oltre la pura sfera economica. Il trionfo di una visione neoliberista dell’economia ha plasmato a propria immagine la società trasformandola in una “società di mercato”, come molti anni prima aveva previsto Polanyi nella sua analisi della grande trasformazione prodotta nelle relazioni tra le persone dall’espansione delle istituzioni del capitalismo (Polanyi, 1944). Con il risultato di produrre un assetto sociale fondato sullo scambio regolato dal principio mercantile dell’auto-interesse, sotto forma di una “mano invisibile” in grado di coordinare le interazioni tra singoli individui spinti dalle proprie motivazioni egoistiche.

Tra le conseguenze più evidenti di questa trasformazione c’è stato un effetto, per così dire, di “de-socializzazione” della società. Ovvero il declino di quelle forme (dalla famiglia tradizionale ai partiti, dai sindacati alle grandi associazioni, fino a tutti gli altri corpi intermedi che un tempo affollavano lo spazio sociale compreso tra lo Stato e le imprese) che – specialmente durante il “glorioso trentennio” seguito alla Seconda guerra mondiale – avevano mediato il rapporto tra capitalismo e democrazia. Istituzioni tipiche della modernità post-bellica, basate sul bilanciamento degli interessi individuali e di quelli del gruppo. Istituzioni che mediavano tra individuo e comunità, e che per un lungo periodo hanno costituito uno snodo importante a presidio del funzionamento del meccanismo sociale, nonché una garanzia del suo potere inclusivo.

È in reazione a questo orientamento che la de-socializzazione si è fatta strada come espressione del bisogno di ricentrare i rapporti sociali sul primato dell’individuo singolo. La “fine del sociale” ha implicato una nuova rappresentazione della vita sociale, caratterizzata dal sopravvento dell’individuo (Touraine, 2008). Dopo un lungo periodo in cui a prevalere sono state le forze a favore della creazione di un senso di appartenenza ad un disegno comune di progresso sociale, sostenuto da un’impetuosa crescita economica, è subentrato un movimento di segno opposto, di tipo centrifugo, in cui il benessere ottenuto negli anni del secondo dopoguerra ha cominciato a liberare nuove energie contrassegnate dal desiderio di marcare le diversità e rivendicare la singolarità dei progetti individuali di vita. L’esaltazione della libertà dell’individuo come bene supremo ha accentuato la tensione tra i diritti individuali e l’interesse collettivo. Nel nuovo scenario a regolamentare le azioni delle persone non è più, come in passato, il vincolo istituzionale e collettivo di una comprensione della realtà al plurale, appunto “sociale”, ma piuttosto il principio individualista di soddisfazione personale.

Quella che in questo modo è stata emarginata è la rappresentazione “sociale” della società, costruita in lunghi decenni attorno ad un sistema di meccanismi che hanno contribuito a creare un comune sentire democratico fondato su una riduzione delle disuguaglianze e sulla mediazione istituzionale dei conflitti originati dalla provenienza da diverse categorie culturali e sociali. L’affermarsi di una modernizzazione incentrata sull’egemonia dell’economia, sotto forma di un capitalismo estremo senza contrappeso dei poteri pubblici, non ha comportato soltanto il ridimensionamento della sfera pubblica, ma ha anche reso meno utile (se non addirittura irrilevante) il ruolo della politica, facendo sì che il suo spazio venisse occupato dal mercato. Di pari passo, ha provocato l’indebolimento dei movimenti sociali, come conseguenza del trasferimento dei valori dalla società agli individui. Con l’effetto di eliminare una serie di funzioni e attori indispensabili alla gestione dei conflitti sociali. Anzi, aprendo la strada a nuove forme di tribalismo provocate dalle contrapposizioni culturali e religiose. Amplificate, oltretutto, dalla diffusione delle tecnologie digitali, che hanno paradossalmente reinterpretato il senso di social come protagonismo di individui e tribù.

A questo, poi, si è sommato il senso di vulnerabilità prodotto dalla crisi dei legami sociali. Se infatti, per un verso, la de-socializzazione sottrae la persona ai vincoli imposti dalla pressione esterna, aumentandone il senso di libertà, per altro verso accentua una situazione di solitudine e di crisi di identità che accresce il senso di insicurezza (Putnam, 2000).

La conseguenza di questo processo di perdita del capitale sociale è un sostanziale rivolgimento rispetto ai decenni precedenti, quelli della “grande convergenza” che aveva promosso l’identità – culturale, sociale e politica – di una classe media comune alla gran parte dei paesi industrializzati. Processo che nell’ultimo trentennio del Novecento non ha fatto che accelerare, anche sotto l’effetto di una potente terziarizzazione dell’economia che ha ulteriormente incalzato la frammentazione della classe media. Tanto che oggi i movimenti sociali non si definiscono più in termini di classi sociali, come nell’età della società industriale, quanto piuttosto in termini culturali (Ceri, 2005). Quindi molto più trasversali e mutevoli. Con una rilevante differenza rispetto al passato: la difficoltà a trasformarsi in movimenti politici. La storia indica che non è facile bruciare le tappe. Al movimento operaio ci sono voluti settant’anni prima di trasformarsi da movimento sociale a movimento politico. In un contesto oggi assai più frammentato e volubile rispetto al passato, il passaggio da movimenti fondati su istanze etico-culturali a movimenti capaci di azione politica appare un’impresa ancora più complessa.

Infatti, la nascita di una nuova cultura politica, e di un ethos che rifletta la realtà di un’economia post-industriale, è un percorso ancora lontano dal concludersi. Probabilmente richiederà del tempo prima che riesca a sedimentarsi in una nuova visione condivisa del bene comune. La storia recente della maggior parte dei nuovi movimenti di protesta – da Occupy Wall Street ai Gilets Jaunes, da Black Lives Matters al movimento dei girotondi (mentre per le Sardine si vedrà, in quanto fenomeno ancora troppo recente) – sta lì ad indicarlo. Alla mutazione in movimenti politici si oppongono vari e non trascurabili fattori, tra cui la carenza delle leadership e la debolezza (o inesistenza) tanto dell’impianto culturale quanto della capacità organizzativa. Da cui il fallimento in pochi anni, o mesi in qualche caso, di fenomeni che si erano gonfiati rapidamente fino a sembrare inarrestabili.

L’umoralità dell’opinione pubblica oggi è un elemento che condiziona profondamente la sfera dei comportamenti politici. Essendo convinti in molti che la politica sia una partita truccata in cui l'elettore è destinato a perdere sempre, cresce la simpatia per gli outsider estemporanei che mettono in discussione l’establishment e si ribellano al vecchio ordine (salvo non avere idea di come sostituirlo). Con tempi necessari ad attirare e trattenere l’attenzione dell’opinione pubblica sempre più brevi. Perché il sottinteso della condizione contemporanea della politica è che la mobilitazione del risentimento può cambiare repentinamente il suo orientamento, scegliendo altri outsider, sempre più nuovi (Richards, 2017). La volubilità elettorale è infatti un’arma a doppio taglio: premia chi è più abile nell’incanalare la rabbia contro le élite indipendentemente dalla capacità di costruire qualcosa di nuovo. Ma come tale, non alimenta fedeltà o strategie di lungo periodo. Nel volgere di un tempo brevissimo può far cadere dal piedistallo chi prima vi era stato innalzato, preda di un sentimento di vorace insoddisfazione (Mounk, 2018).

Come effetto cumulato dei processi sin qui descritti, la de-socializzazione della società slitta nella sua de-politicizzazione. L’indebolimento dei legami sociali si riflette in comportamenti politici sempre più erratici e imprevedibili. Questi a loro volta aumentano la fragilità della democrazia, esposta a ondate irrazionali di reazioni difensive, declinate in forme diverse di chiusura nazionalistica e esaltazione populistica. Complice anche la percezione da parte dei cittadini di una perdita di rilevanza dell’azione politica, a compensare la quale non basta un esercizio di creatività intellettuale sul lato dei sistemi istituzionali o di governo. Né, come rileva un brillante critico della rivoluzione digitale, ha maggiore successo il tentativo di plasmare la politica sui paradigmi della rete, le cui tecnologie si sono dimostrate piuttosto efficienti anche in contesti non democratici. A Evgeny Morozov non è stato necessario aspettare che emergesse lo scandalo Cambridge Analytica per sfatare il mito della rete come perfetto strumento di democrazia. L’entusiasmo per un governo retto da qualche forma di “soluzionismo tecnologico”, che si rimette ad una disintermediazione dalla politica fondata su algoritmi e big data, ha contrassegnato una stagione per fortuna breve e dalla reputazione ormai abbastanza compromessa (Morozov, 2012; 2014).

Il problema, in senso più profondo, riguarda invece la ricostruzione di un senso di socialità in grado di rispondere alle nevrosi e alle paure che il mercato della politica oggi alimenta come sua prevalente ragione di esistere. E per questo né l’ingegneria istituzionale né l’ottimismo tecnologico sembrano poterci venire in aiuto.

La dimensione politica dell’economia sociale

In questo quadro, è piuttosto evidente come la tenuta delle istituzioni democratiche dipenda in via essenziale dalla capacità di fronteggiare il sentimento di insicurezza e fragilità diffuso nel corpo della società. Riducendo quella distanza tra vincitori e vinti all’origine del risentimento così diffuso a livello sociale. Colmando quella sensazione di mancanza di controllo che periodicamente dilaga in occasione del diffondersi di una minaccia rispetto alla quale individui e comunità si sentono impreparati, che si tratti di un episodio terroristico o dell’epidemia causata da un nuovo virus. Rispondendo al mutamento nel sentimento di una società che dopo aver esaltato il rischio come potenziamento delle opportunità individuali ne scopre il lato oscuro, e si rende conto di quanto sia alto il prezzo alto da pagare. Qui sta la sorgente principale del discredito che ha investito la politica: la sua impotenza, a fatica mascherata. Da qui occorre ripartire per ridarle il ruolo che le spetta nell’organizzazione delle nostre società, progressivamente eroso da altri poteri privi di una legittimazione pubblica altrettanto chiara e inoppugnabile.

Non ci possono aiutare in questo compito le tre grandi narrazioni formulate durante il XX secolo dalle élite globali di New York, Londra, Berlino e Mosca per spiegare il nostro passato fin dalle epoche più remote e predire il futuro del mondo intero: la narrazione fascista, comunista e liberale (Harari, 2018). Perciò acquista valore il dibattito circa il ruolo e le funzioni dell’economia sociale, non come una nuova narrazione dalle pretese totalizzanti ma come parte di un pensiero pluralista e critico che si preoccupa soprattutto di definire delle strategie per lo sviluppo in cui ci sia spazio per il benessere delle persone e delle comunità.

Gli argomenti a favore dell’economia sociale, nelle sue diverse declinazioni (per una definizione di economia sociale il riferimento qui è a European Commission, 2013), sono un tentativo di dare risposta alla domanda su come restituire alle istituzioni della democrazia il potere di controllare le direzioni dell’economia e della tecnologia. A fronte di una politica inceppata, che non riesce ad affermare le proprie ragioni rispetto a quelle del primato del profitto o della presunta supremazia del sapere tecnologico, il discorso sull’impresa sociale e sulle altre forme dell’economia sociale serve a riaffermare un’idea di economia che si interroga sui fini che persegue, come condizione perché anche la politica ritrovi la sua funzione e riprenda confidenza nel proprio ruolo, e perché i cittadini riacquistino fiducia nel suo ufficio.

Lo Stato, da solo, non è in grado di mantenere la promessa di una nuova stagione di sviluppo, accessibile a tutti. Per almeno tre motivi. In primo luogo, non si può pensare di battere la disuguaglianza facendo esclusivo affidamento sulla spesa pubblica. È scontato, piaccia o meno, che le politiche di contenimento della spesa nel settore pubblico dovranno accompagnarci ancora per lungo tempo. Le politiche di crescita a debito non sono replicabili all’infinito. In Italia, più che altrove, questo è un fatto che difficilmente può essere ignorato, malgrado gli artifici della retorica elettorale. In secondo luogo, il processo di de-politicizzazione sopra richiamato ha privato le istituzioni pubbliche dell’autorevolezza e del potere per farsi carico, da sole, di una sintesi dei bisogni sociali. Una complessità sociale sempre più elevata frammenta e articola i bisogni secondo una molteplicità di situazioni che sempre meno possono essere standardizzate e tantomeno gestite da un’unica autorità, da un potere centrale. In terzo luogo, si veda il caso dei monopoli delle grandi aziende dell’economia digitale, le regolamentazioni pubbliche stentano ad imporre alle industrie la condivisione dei benefici generati (come invece nel passato era normale che avvenisse ogni qualvolta si formavano dei monopoli naturali). Occorrono modelli alternativi di distribuzione dei benefici che si emancipino dalla regola della massimizzazione degli utili a vantaggio esclusivo degli investitori. Così si riaprirebbe anche la possibilità di un riequilibrio dei poteri, oggi fortemente sbilanciato a favore di pochi monopoli di fatto. In questa direzione, un filone da esplorare è quello di forme innovative di proprietà delle piattaforme digitali basate sul diritto degli utenti di mantenere il controllo dei propri dati personali.

L’economia sociale (di cui l’impresa sociale e l’impresa cooperativa sono due delle espressioni di maggiore importanza e diffusione, ma che comprende anche altre organizzazioni di cui oggi si vedono solo i precursori nell’ambito delle forme economiche del Terzo settore) può svolgere un ruolo di rilievo nel ridefinire un paradigma di sviluppo capace di far fronte ai limiti dell’azione dello Stato e del mercato (Borzaga, Defourny, 2001; Evers, Laville, 2004; Baum, 2009; CIRIEC, 2010). Fare i conti con gli effetti derivanti dalla fine di quel sistema di sicurezze costruito attorno al Welfare State significa confrontarsi con la precarizzazione del lavoro e con una condizione di tutele sempre meno efficaci, con la riduzione dei servizi erogati direttamente dal settore pubblico e più in generale con una presenza più ridotta dello Stato in molti settori in precedenza presidiati, con la percezione di una minaccia portata dalla globalizzazione alle identità sociali e culturali che un tempo si davano per scontate. Tutti temi su cui l’economia sociale ha il potenziale per prendere posizione e proporre piste innovative di lavoro.

Ciò non significa naturalmente che l’economia sociale sia destinata a diventare il nuovo mainstream. È solo la presunzione totalizzante dell’approccio neoliberista ad aver creduto che l’economia potesse vivere di un unico modello dominante. Nella realtà concreta dei processi economici il livello di complessità è ormai così elevato da non poter fare a meno di una pluralità di approcci e di modelli. Perciò è importante includere anche la visione dell’economia sociale, elaborata a partire da orientamenti che non restringono l’agire economico alla massimizzazione del profitto ma invece tengono conto delle funzioni sociali dell’impresa. Individuando in essa un meccanismo di coordinamento, finalizzato a ottimizzare l’utilizzo di tutte le risorse disponibili per la soluzione di un problema di interesse collettivo. Nell’ambito di questo pluralismo, l’economia sociale e in particolare l’impresa sociale sono destinate a svolgere un ruolo più importante di quello, ancora marginale, in cui sono state costrette nel passato. Al punto che possono influenzare anche altri approcci più tradizionali, allo sviluppo e alle concezioni di impresa, innescando delle trasformazioni prima impensabili.

Cominciano ad essere sempre più consistenti i segnali di una presa di distanza da un’epoca in cui gli attori economici più influenti non nascondevano la propria insofferenza nei confronti delle proprie responsabilità sociali. Anche senza considerare la novità costituita dalle società Benefit, che meriterebbe un discorso a parte, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende – all’estero, ma anche in Italia (si pensi, per non citare che alcuni tra i più importanti, a soggetti come Enel, Eni, Intesa San Paolo) – l’assolutismo della regola della creazione di valore per gli azionisti, che relegava in secondo piano o ignorava del tutto gli interessi degli altri stakeholder, comincia a cedere il passo ad un’attenzione che insieme al valore finanziario si preoccupa anche dell’impatto prodotto sull’ambiente e sulla società. Le strategie di investimento e la formazione manageriale cominciano a tenere conto del bilanciamento tra environment, social e governance, adottando principi di ESG compliance (Sherwood, Pollard, 2018). Una lingua nuova – o per meglio dire una lingua che si dava per morta e sta tornando in vita – risuona anche in ambienti nei quali il profitto è sempre stato l’unico baricentro dell’impresa. La stessa Corporate Social Responsibility è oggetto di ripensamento, per oltrepassare i limiti connessi ad una collocazione troppo condizionata dalle ragioni del marketing e dall’opportunismo della comunicazione aziendale. Forse, ponendo le basi per un superamento delle troppe ambiguità da cui nel passato la CSR è stata condizionata (Hanlon, 2008).

In altri termini, nel prossimo futuro sarà sempre maggiore l’attenzione che verrà dedicata anche dal profit alla ricerca di una nuova sintesi tra sviluppo economico e sviluppo sociale, tra mercato e democrazia. In linea con una idea di “ciò che conta” diversa da quel che ha dominato gli ultimi trent’anni di vita pubblica delle società occidentali. Con un cambio di prospettiva che ha effetto sul modo di misurare il benessere delle persone e lo stato di salute delle comunità, basato non più soltanto su criteri di prestazione economica ma anche di progresso sociale. Cambiamento, questa volta, innescato non per iniziativa di minoranze intellettuali ai margini del dibattito politico ma per volontà di organizzazioni internazionali come OCSE e Nazioni Unite, globalmente autorevoli e istituzionalmente rappresentative (Stiglitz et al., 2019).

La responsabilità della ricerca di una nuova sintesi coinvolgerà dunque molti più soggetti dei soli attori dell’economia sociale, e questo è un fatto molto positivo. Tuttavia – questo è il punto che qui si vuole sostenere – le organizzazioni dell’economia sociale, le imprese sociali, il Terzo settore produttivo (o comunque lo si voglia definire), avranno una responsabilità peculiare in questo passaggio. Dovranno marcare il passaggio di fase, contribuendo ad accelerare la transizione. Questo compito non deriva da una astratta primogenitura o dal diritto che spetta alle minoranze profetiche. Niente di tutto questo. A giustificare questa aspettativa concorrono diversi elementi fattuali, che riguardano la concretezza dello sviluppo storico delle realtà di economia sociale.

Il primo è quello della natura stessa dei soggetti dell’economia sociale, che nascono con una vocazione costitutiva per la ricerca della sintesi tra sviluppo sociale e sviluppo economico. Si pensi alla storia centenaria del movimento cooperativo e ai suoi principi ispiratori. Lì sono inscritte le ragioni del modello che coniuga l’imperativo di generare benessere per le persone con l’imperativo di una gestione economica sostenibile. Per quanto sia stato un modello spesso minoritario e marginale nel corso della storia (anche se non sempre, se si pensa ai primi decenni post rivoluzione industriale), la sua caratteristica è stata quella di riuscire a tenere fermo il principio della non opposizione tra profitto e progresso sociale. Alla sua radice c’è una istanza di giustizia sociale che, con alti e bassi, non è mai venuta meno. Nel tempo, si è conquistato uno spazio e ha accresciuto la propria importanza, anche numerica (WCM, 2019). Ed oggi si trova a proprio agio in questo nuovo contesto in cui la ricerca di un equilibrio tra ragioni del mercato e valori sociali sta tornando al centro dell’agenda pubblica (Euricse, 2018).

Un secondo elemento, che emerge con straordinaria chiarezza dalla storia italiana della cooperazione sociale, riguarda lo scambio profondo tra militanza civile e impegno imprenditoriale, che nel nostro Paese ha segnato lo sviluppo delle forme dell’economia sociale. Se guardiamo alle biografie della generazione che in Italia tra gli anni ’70 e ’80 ha dato vita alla prima ondata di cooperative sociali non è difficile riconoscere uno schema ricorrente. A fronte dell’inagibilità dell’arena politica, e alla frustrazione per l’impossibilità di rigenerare la partecipazione politica dall’interno del mondo dei partiti, una parte importante e motivata di militanza civile ha preso la strada della cooperazione sociale. I primi cooperatori sociali hanno scelto una forma diversa e nuova per dare risposta ai bisogni di persone e comunità, dopo aver constatato che la via canonica era bloccata. Un meccanismo, questo, che ha continuato a riprodursi anche nei decenni successivi, fino ai nostri giorni (Borzaga e Ianes, 2006; Marcon, 2005). L’analisi delle motivazioni di una parte rilevante di chi è impegnato in organizzazioni di economia sociale mette infatti in luce come alla base ci sia un legame che non si esaurisce nella motivazione economica o professionale. Chi lavora in un’impresa sociale, il più delle volte lo fa perché vuole cambiare la realtà che lo circonda, o come più enfaticamente a volte si dice “per cambiare il mondo”; ritiene che attraverso l’imprenditorialità sociale può soddisfare bisogni reali più di quanto oggi non sia possibile attraverso la militanza politica o altre forme associative. Rafforzando così ancor più la dimensione politica dell’economia sociale, fino a inglobarvi una forma di attivismo che più o meno consapevolmente testimonia come, per ridare senso al discorso politico, serva una visione che ridia il senso dello sviluppo economico.

Un terzo aspetto riguarda l’ambito operativo in cui nella maggior parte dei casi le imprese sociali intervengono. Nei settori in cui queste organizzazioni operano, spesso è critico l’impatto in termini di coesione sociale e di inclusione. Che si tratti di imprese nel settore socio-assistenziale o nel settore educativo, che siano workers-buyout o cooperative di comunità, che operino per favorire l’accesso al mercato o al credito di piccoli produttori, che si occupino di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, è sempre costante una funzione di natura aggregativa e un orientamento al bene comune. Sovente con risorse economiche limitate da una pubblica amministrazione preoccupata solo di contenere la spesa. Le imprese dell’economia sociale agiscono nel senso di un rafforzamento della coesione e del capitale sociale. Gli ambiti in cui sono più presenti e attive sono anche quelli più rilevanti ai fini della tenuta del tessuto sociale (UNTFSSE, 2015). Il loro campo operativo è naturaliter un ambito in cui si constata la rilevanza pubblica delle scelte imprenditoriali. Quindi, un campo che ha il potenziale per contribuire a rigenerare affezione verso la politica come cura del bene comune.

Dall’analisi fattuale emerge come le imprese sociali svolgano una funzione essenziale per ricostruire il sostrato di un’azione politica democratica. Non genericamente, in nome di un concetto astratto di giustizia sociale, bensì intervenendo concretamente nel corpo della realtà sociale con un lavoro di micro-tessitura, per la riparazione o la ricostruzione del tessuto connettivo. Quella di cui si fanno carico non è una funzione di generica rilevanza pre-politica, bensì è un’attività direttamente e pienamente politica, nel senso più profondo del termine. Perché prende avvio dai problemi delle persone, propone soluzioni, e le mette in opera. E mentre produce servizi di interesse generale, di fatto elabora un nuovo rapporto tra istituzioni pubbliche e sociali. In cui la responsabilità del benessere non è più demandata esclusivamente all’azione di uno Stato che provvede e all’atteggiamento passivo di una moltitudine di cittadini che recepisce, ma richiede l’impegno diffuso di una pluralità di soggetti sociali, più coinvolti e più vicini ai bisogni, e quindi maggiormente capaci di interpretarli e di generare risposte adeguate. In un rapporto che non si limita più a suddividere i compiti tra Stato e mercato sui binari di un rigido rapporto duale, ma lascia spazio all’iniziativa sociale, ne utilizza le risorse inespresse e nascoste, ed è in grado di attirare sui bisogni di cui si occupa le risorse pubbliche e private che in sua assenza prenderebbero altre direzioni.

Dunque, per ritornare al tema dal quale questa riflessione ha preso avvio, ovvero alla domanda su come restituire alle istituzioni della democrazia il potere di definire le direzioni dello sviluppo, il senso delle argomentazioni qui sviluppate è che l’economia sociale può a buon titolo essere parte della risposta, sia per il ruolo diretto che assume con le sue attività sia per l’influenza dei suoi contenuti e del suo approccio sugli altri attori della vita economica.

Conclusioni

Tra le molte ragioni dello spiazzamento che contraddistingue questo nostro tempo c’è il paradosso che vede opporsi, da un lato, una visione politica che si è distinta per la rivendicazione delle ragioni delle libertà civili, dei diritti degli individui, e di una visione cosmopolita e progressiva del mondo, in cui la globalizzazione è considerata una conquista irrinunciabile, e dall’altro lato una visione politica impegnata invece nella riscoperta delle comunità e dei valori che le fondano, in difesa delle identità nazionali e delle piccole patrie domestiche, dei legami di identità culturale e sociale che un tempo tenevano insieme le persone. Con la prima che guarda da lontano e dall’alto alle dinamiche sociali, con categorie che talvolta scivolano nell’approccio tecnicizzante e burocratico, e la seconda che, contestando questo approccio distante e neutralmente politically correct, lascia spazio alla nostalgia per un tempo in cui la struttura sociale era coesa e unita in termini di identità etico-culturale, anche a costo di perimetrare e escludere.

Nessuno dei due poli – quello globalista e quello sovranista, per dirla in sintesi – sembra però rendersi conto di essere imprigionato all’interno dello stesso paradigma economico, che ci ha governato in questi ultimi tre decenni. Dalla loro contrapposizione non sembra emergere un’idea per scostarsene, per riprendere lo scettro, mettendo in discussione i fondamenti di un’economia di mercato che ha plasmato la politica sulla base delle proprie esigenze. Entrambe le posizioni così si privano degli strumenti per essere davvero rilevanti.

La riflessione sui fini dello sviluppo economico è del tutto assente. Eppure, per quanto sin qui argomentato, è proprio ciò che servirebbe per ridare legittimità alla funzione della politica e riconquistarne la fiducia da parte dei cittadini. Recuperandone il ruolo regolatore e di indirizzo in funzione dell’interesse pubblico e del bene comune.

In questa mancanza di prospettiva si colloca anche la scarsa considerazione verso il potenziale dell’economia sociale e verso il ruolo che essa potrebbe svolgere su scala più ampia. Sottostima che talvolta coinvolge gli stessi attori dell’economia sociale, che anziché sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle specificità tendono a omologarsi ai modelli prevalenti di gestione imprenditoriale, finendo così per dare ragione a chi trascura questo approccio all’economia.

Eppure, quello dell’economia sociale è un settore che oggi andrebbe considerato con molta attenzione, per la capacità che sta dimostrando di sperimentare, di aprire nuove frontiere, di mettere a punto strumenti innovativi. Soprattutto, in direzione di uno sviluppo in grado di coniugare valori sociali e sostenibilità economica. Dando corpo ad una visione che può generare l’effetto non trascurabile di restituire alla politica democratica il proprio ruolo, in quanto luogo della sintesi tra la molteplicità degli interessi e una visione orientata verso il progresso sociale.

Un’idea di politica non soccombente al potere dei soggetti economici dovrebbe vedere nell’economia sociale un naturale alleato. Per il contributo alla creazione e al mantenimento delle condizioni che favoriscono la tenuta del sistema sociale e per l’apporto di una concezione non riduttiva della persona umana. Difatti è solo se questa non viene limitata alla sola dimensione economica che il discorso della politica riprende senso. Ed è dalla capacità di parlare sensatamente alle donne e agli uomini dei loro problemi che passa il difficile compito di riacquistarne la fiducia.

La dimensione politica dell’economia sociale è un tema che potrebbe sembrare secondario rispetto all’attualità. Non è così. In realtà ne tocca alcuni dei nervi più scoperti. Perché definisce uno spazio di riflessione ed azione che può contribuire a rispondere alla domanda che, in forma più o meno esplicita, agita le nostre società: come riprendere il controllo sui poteri ai quali da troppo tempo abbiamo lasciato disporre delle vite degli individui e delle comunità?

DOI: 10.7425/IS.2020.01.02


Bibliografia

Baum G. (2009), “The Social Economy: An Alternative Model of Economic Development”, Journal of Catholic Social Thought, 6(1), pp. 253-262.

Beck U. (2013), La società del rischio, Carocci, Roma.

Berlinski C. (2011), There is No Alternative, Basic Books, New York.

Beveridge W. (1942), Social Insurance and Allied Services, UK Government Report (Cmd. 6404).

Borzaga C., Defourny J. (eds.) (2001), The Emergence of Social Enterprise, Routledge, London.

Borzaga C., Ianes A. (2006), L'economia della solidarietà. Storia e prospettive della cooperazione sociale, Donzelli, Roma.

Chevalier J-J. (1981), Storia del pensiero politico, Il Mulino, Bologna.

Ceri P. (2005), “Come sono cambiati i movimenti sociali”, Quaderni di Sociologia, 39(2005), pp. 99-106.

CIRIEC (2010), The Worth of the Social Economy. An International Perspective, ed. Marie Bouchard, Peter Lang.

Deaton A. (2019), La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza, Il Mulino, Bologna.

Evers A., Laville J-J. (eds.) (2004), The Third Sector in Europe, Edward Elgar, Cheltenham Glos UK.

EURICSE (2018), Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente, ed. Carlo Borzaga, Donzelli, Roma.

EUROPEAN COMMISSION (2013), Social Economy and Social Entrepreneurship, Social Europe Guide n.4, Luxembourg.

Fisher M. (2009), Capitalism Realism. Is There No Alternative?, O Books.

Fourastié J. (2011), Les Trentes Glorieuses, Pluriel.

Fukuyama F. (1989), “The End of History?”, The National Interest, n. 16 (Summer 1989), pp. 3-18.

Fukuyama F. (1992), The End of History and the Last Man, Free Press, New York.

Fusaro C. (2015), “Per una storia delle riforme istituzionali (1948-2015)”, Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2 (aprile 2015), pp. 431-556.

Galbraith J.K. (2014), The End of Normal, Free Press, New York.

Giddens A. (1998), The Third Way: The Renewal of Social Democracy, Polity Press, Cambridge UK.

Hanlon G. (2008), “Rethinking Corporate Social Responsibility and the Role of the Firm – On the Denial of Politics”, in Crane A., Matten D., McWilliams A., Moon J. (eds.), The Oxford Handbook of Corporate Social Responsibility, Oxford University Press, Oxford UK.

Harari Y. (2018), 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano.

Marcon G. (2005), Come fare politica senza entrare in un partito, Feltrinelli, Milano.

Morozov E. (2012), The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom, PublicAffairs, New York.

Morozov E. (2014), Internet non salverà il mondo. Perché non dobbiamo credere a chi pensa che la Rete possa risolvere ogni problema, Mondadori, Milano.

Mounk Y. (2018), Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli, Milano.

NaÍm M. (2013), La fine del potere, Mondadori, Milano.

Pasquino G. (2015), Cittadini senza scettro. Le riforme sbagliate, Egea, Milano.

Polanyi K. (1944), The Great Transformation, Farrar and Rinehart, New York.

Putnam R. (2000), Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York.

Revelli M. (2019), La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino.

Richards S. (2017), The Rise of the Outsiders: How Mainstream Politics Lost its Way, Atlantic Books, London.

Ricolfi L. (2019), La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano.

Sherwood M., Pollard J. (2018), Responsible Investing: An Introduction to Environmental, Social, and Governance Investments, Routledge, London.

Stiglitz J., Fitoussi J-P., Durand M. (2019), Measuring What Counts: The Global Movement for Well-Being, The New Press, New York.

Touraine A. (2008), La globalizzazione e la fine del sociale, Il Saggiatore, Milano.

UNTFSSE (2015), Social and Solidarity Economy: Beyond the Fringe, ed. Peter Utting, Zed Books.

WCM (2019), The World Cooperative Monitor, Euricse, Bruxelles-Trento.

Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.