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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2020

Echi

L’impresa sociale fa politica?

Gianfranco Marocchi

L’impresa sociale fa politica? La domanda è semplice e diretta, la risposta un po’ meno. E, subito dopo aver argomentato per il sì o per il no, nascono interrogativi ulteriori: è auspicabile che la faccia (o meno)? Se la fa, la sta facendo nel modo giusto? Proviamo a mettere ordine nei ragionamenti. Ci sono alcuni ottimi motivi per rispondere che sì, l’impresa sociale ha fatto nei decenni passati e continua a fare, oggi, politica nel senso più alto del termine: non certo di occupare fette di potere, ma di contribuire ad orientare la gestione della cosa pubblica in modo coerente con i propri valori solidaristici.

1) Sì, ha fatto e fa politica perché le sue pratiche hanno ispirato e continuano a ispirare il decisore pubblico e lo sollecitano a farsi carico di nuovi bisogni sociali e ad adottare nuove soluzioni. Chi era al Workshop sull’impresa sociale di Riva del Garda nel settembre 2019 forse ricorderà che questo fu uno degli argomenti discussi: il nostro welfare (in senso esteso) non sarebbe lo stesso senza l’impresa sociale. Non lo sarebbe a livello micro, perché una parte consistente dei servizi oggi diffusi e codificati sono stati “inventati” da imprese sociali. Non lo sarebbe a livello meso, perché – dall’housing sociale alle cooperative di comunità, dall’agricoltura sociale al “dopo di noi”, solo per citare esempi recenti – normative nazionali e regionali, programmi di finanziamento pubblici e privati, contributi nazionali alla programmazione comunitaria, ecc. sono frutto di sperimentazioni che hanno visto le imprese sociali protagoniste. Non lo sarebbe a livello macro, se si pensa che il cambio di paradigma da segregazione a inclusione che sta accompagnando questo quarantennio di storia sociale apparirebbe impensabile senza l’azione delle cooperative sociali A (inclusione sociale) e B (inclusione lavorativa): un processo lungo e solo in parte compiuto, che ha visto l’apertura dei cancelli dei manicomi e delle carceri o la fine degli istituti per minori (ne parla, anche se dal punto di vista degli operatori pubblici, un libro recensito in questo numeroOltre il ‘68), ma che richiede ancora di essere attuato pienamente per altri cittadini (si pensi alle persone con disabilità o, per riferirci ad un dibattito recente, i migranti). L’impresa sociale fa politica perché la sensibilità di cui le imprese sociali si sono fatte interpreti e promotrici è entrata a far parte della cultura comune del nostro Paese; e fa politica perché in questi quarant’anni, molto spesso le politiche pubbliche – nelle diverse forme di atti normativi, documenti di indirizzo e programmazione, scelte allocative nei bilanci pubblici, ecc. – sono evidentemente frutto di esperienze nelle quali le imprese sociali – non da sole, ma generalmente insieme ad altri soggetti di Terzo settore e a pubbliche amministrazioni lungimiranti – hanno avuto un ruolo determinante, talvolta incoraggiate dalle istituzioni, talvolta dovendo caparbiamente sostenere il proprio punto di vista nei confronti di una politica disattenta. Tali esperienze hanno contribuito a indirizzare verso i cittadini ai cui bisogni le cooperative sociali hanno cercato di rispondere (talvolta, in fase iniziale, in quasi totale autonomia), risorse pubbliche che altrimenti avrebbero preso altre direzioni; insomma, l’impresa sociale ha fatto e fa politica perché alcune scelte allocative del nostro welfare hanno preso forma, nel corso degli anni, grazie all’azione delle imprese sociali.

Forse non è azzardato neppure affermare che le imprese sociali, insieme agli altri soggetti di Terzo settore, abbiano contribuito a riscrivere la Costituzione: non è certamente una mera consequenzialità temporale quella che vede nel 2001 l’introduzione del principio di sussidiarietà all’art. 118 della Costituzione, un decennio dopo le due grandi leggi istitutive di forme specifiche di Terzo settore, la 381/1991 sulla cooperazione sociale e la 266/1991 sul volontariato; piuttosto è ragionevole pensare che la volontà di porre alla base del nostro ordinamento “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale” discenda dall’avere apprezzato come nei fatti soggetti della società civile agissero per “l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”. Insomma, l’impresa sociale, insieme alle altre forme del Terzo settore e in partenariato con i settori più innovativi della pubblica amministrazione fa politica perché con la propria (talvolta consapevole, talvolta istintiva) lungimiranza riesce a immaginare orizzonti di cambiamento possibile, portando il decisore pubblico più attento a trasporre in atti normativi e programmatori le innovazioni prodotte.

2) Sì, in alcune occasioni, oltre che con la propria prassi, ha fatto e fa politica conducendo battaglie nell’interesse generale. Il tema è interessante e attuale, anche perché vi sono alcuni casi recenti in cui azioni politiche di soggetti di Terzo settore, tra cui imprese sociali, hanno portato a evoluzioni significative delle politiche pubbliche. Il primo riguarda la scelta di investire nel contrasto della povertà educativa minorile e la conseguente istituzione di un apposito fondo gestito dall’impresa sociale “Con i bambini”; il secondo, ancor più rilevante, è l’introduzione nell’ordinamento italiano di una misura universalistica di sostegno alla povertà, impensabile senza l’azione dell’Alleanza contro la Povertà in Italia, ampia aggregazione di cui hanno fatto parte una pluralità di soggetti di Terzo settore (anche se oggettivamente con maggiore forza di trazione da parte del Terzo settore non imprenditoriale) oltre che organizzazioni sindacali e rappresentanze dei comuni. Quella dell’Alleanza contro la Povertà è per certi versi un’azione paradigmatica: viene individuato un tema di interesse generale, non riconducibile a interessi legittimi di uno specifico soggetto protagonista dell’azione; ci si dota di un supporto scientifico adeguato; si trova una linea unitaria sostenuta da tutti superando i particolarismi che talvolta affliggono il Terzo settore in vista di un obiettivo comune, limitato ma ben definito; si intraprende un’azione insieme culturale (per porre il tema sotto i riflettori e legittimarne la discussione) e di interlocuzione politica (con le diverse forze parlamentari, senza collateralismi). Il risultato è quello noto: la povertà passa in pochi anni da tema negletto e delegittimato ad essere l’oggetto di un investimento senza precedenti e senza uguali nella storia del welfare italiano, nonché un tema centrale per il dibattito politico. In ogni caso, se il successo di questa iniziativa è singolare, va considerato che il formarsi di alleanze o cartelli di soggetti di Terzo settore per sostenere una causa è abbastanza ricorrente, anche se generalmente molto meno incisivo per motivi che in altre sedi sarebbe interessante approfondire.

In generale, va comunque notato che l’apporto delle imprese sociali in questi contesti è generalmente più contenuto rispetto a quello del Terzo settore non imprenditoriale. Tra i promotori delle varie iniziative di questo genere vi è, qua e là, qualche cooperativa, ma la parte del leone la fanno associazionismo e volontariato. Perché ciò accade? Si tratta di una normale conseguenza del fatto che l’impresa sociale “fa politica” attraverso l’azione sociale diretta e non tramite campagne a sostegno di proposte culturali come invece fanno le organizzazioni di Terzo settore non imprenditoriali? È invece interpretabile come segno di una “deriva operativa” delle imprese sociali, concentrate su aspetti gestionali, ma disattente a temi generali?

3) Sì, spesso fa politica (con successo), per difendere interessi legittimi e posizionamento istituzionale. Vi sono poi i casi in cui le imprese sociali – generalmente tramite le proprie organizzazioni di rappresentanza – si mobilitano nei confronti del mondo politico per promuovere l’adozione di normative di riconoscimento e/o sostegno o (recentemente, più di frequente) per opporsi ad attacchi (come l’inasprimento del trattamento fiscale) o ancora per salvaguardare spazi di agibilità politica (ad esempio la partecipazione a sedi di confronto istituzionale). In questo vi è da evidenziare come l’impresa sociale (insieme ad altri soggetti di Terzo settore, ma in questo caso con una potenza non seconda ad alcuno) sia in grado di partecipare con efficacia e spesso con successo al processo di formazione della decisione politica, e abbia messo in mostra, sempre per mezzo delle proprie rappresentanze, una notevole capacità sia tecnica che di interlocuzione, malgrado gli stravolgimenti della geografia politica degli ultimi anni rendano oggettivamente difficile la costruzione di relazioni solide, indispensabili per gestire questo tipo di situazioni. Il malevolo potrebbe notare che tale capacità politica rappresenti un’azione di autotutela certo legittima, ma non diversa da qualsiasi azione di lobbying da parte di gruppi di interesse e pertanto non estranea a possibili particolarismi; a ciò si può comunque obiettare osservando che salvaguardare la capacità operativa di soggetti che perseguono interessi generali è comunque un passaggio indispensabile per consentire di dispiegare la forza innovativa che nel corso degli anni ha generato le innovazioni, anche politiche, esplicitate nel primo punto. Oltre alla dimensione relativa alla prevalenza di interessi generali o interessi particolari, ci si può inoltre chiedere sino a che punto tutelare le condizioni operative di un’impresa sociale sia un bene anche per la stessa impresa sociale, come nel caso dell’esclusione delle cooperative a mutualità prevalente dall’obbligo della rappresentanza degli stakeholder nel decreto sull’impresa sociale attuativo della riforma (112/2017).

4) Sì, spesso ha fatto e fa politica prestando alle istituzioni i propri dirigenti. Sono abbastanza numerosi i casi di dirigenti del Terzo settore (e tra questi, delle imprese sociali) che hanno avuto esperienze politiche locali o nazionali. Questo, da una parte, è vissuto dai protagonisti come un modo diverso per perseguire gli stessi interessi pubblici, dall’altra mette a frutto un capitale relazionale e di visibilità pubblica costruito nel corso degli anni. Si tratta di una forma di partecipazione alla politica dinamica, sulla quale sono state tentate analisi sociopolitiche (i dirigenti del Terzo settore presenti in formazioni della sinistra e del centro sinistra nelle ultime due tornate elettorali nazionali; esponenti non graduati del Terzo settore impegnati nel M5S. Sia come sia, gli esponenti del Terzo settore in politica sono veramente molti). Come valutare tutto ciò, al di là dell’ovvia constatazione che le scelte personali sono insindacabili? Un modo positivo e lineare per dare ancora più rilievo ai valori del Terzo settore e dell’impresa sociale? Un frutto naturale della scelta di impegnarsi per la comunità? O, al contrario, un modo astuto per capitalizzare personalmente attraverso cariche pubbliche la visibilità ottenuta su altri fronti? Un tradimento della propria mission più autentica che risiede nello spronare le istituzioni e nel farsi portavoce indipendenti degli interessi degli ultimi? O un segno del progressivo indebolimento della capacità dei partiti di creare al proprio interno una classe dirigente all’altezza dei bisogni da affrontare? Anche in questo caso i punti di vista sono differenti.

È d’altra parte ormai abbastanza acclarato che l’impresa sociale, invece, non sia un canale efficace di mobilitazione elettorale. Vi sono numerosi casi di rispettabilissimi candidati provenienti da imprese sociali che nelle contese elettorali non hanno portato a casa nemmeno un numero di voti pari ai loro soci. Come valutare tutto ciò? Segno di un positivo clima nelle imprese sociali che rifuggono la prassi del “voto veicolato”, mortale per la nostra democrazia? Inconsapevolezza o, peggio, prevalenza di piccole ripicche nel segreto dell’urna per incapacità di vedere l’identità generale di vedute con chi ha condiviso gli stessi valori?

5) L’impresa sociale fa politica perché è stata protagonista di un modo nuovo di concepire il sistema economico, da cui nessun soggetto, anche for profit, può oggi prescindere. Si tratta della tesi ben sostenuta, in questo numero di Impresa Sociale, da Gianluca Salvatori: negli ultimi due decenni anche le imprese for profit hanno cercato con insistenza – per reale convinzione, per necessità di immagine, o altro – di attribuirsi caratteristiche proprie delle imprese sociali; se in altra sede può essere utile rimarcare la persistenza di fondamentali differenze tra impresa sociale e altre imprese, qui va sottolineato come l’enfasi circa la necessità di adottare politiche di “responsabilità sociale”, di produrre un “impatto sociale positivo”, di adottare misure di rispetto dell’ambiente e di coinvolgimento dei lavoratori e così via riflettono l’affermazione di una cultura che assegna all’impresa un ruolo radicalmente diverso da quello di assicurare il mero beneficio degli azionisti. E indubbiamente le imprese sociali nel nostro Paese, e più in generale l’affermarsi di un non profit produttivo e imprenditoriale è stato in grado di rappresentare un riferimento culturale da cui la generalità dei soggetti economici non può prescindere.

Dunque, riprendendo la domanda iniziale, vi sono alcune ottime ragioni per rispondere in modo positivo: l’impresa sociale fa politica. Ma accanto a queste argomentazioni, ve ne sono altre che al contrario mettono in luce le difficoltà delle imprese sociali a sviluppare, nel contesto attuale, un discorso politico compiuto.

6) No, oggi l’impresa sociale non riesce a fare politica perché fatica a dialogare con gli interlocutori sociali cui potrebbe rivolgersi. “È incredibile – diceva il presidente di una cooperativa B molto attenta agli aspetti valoriali e culturali – metà dei nostri soci svantaggiati vota Lega!” Sarà che, come aveva intuito Marx, il sottoproletariato è naturalmente conservatore, manipolabile e impaurito dagli “ancora più ultimi” (che ci sono sempre), sarà che le imprese sociali non veicolano, oltre che candidati (e questo è un bene), visioni politiche predefinite; ma forse non è solo questo. Forse, facendo eco ad una recente analisi di Marco Revelli su Vita, sarebbe necessario interrogarsi sulla capacità del Terzo settore di dialogare con le fasce più esposte al messaggio semplificatorio populista (“Non necessariamente le fasce della povertà, ma quelle della deprivazione, tutti coloro che avvertono, a torto o a ragione, di essersi impoveriti non esclusivamente in termini di reddito, ma in termini di status sociale, di riconoscimento sociale e pubblico, in termini di attenzione da parte degli altri”) sui temi tipici del Terzo settore, ma divenuti ora punti centrali di un messaggio astioso e incattivito: dall’immigrazione alle periferie, dall’inclusione lavorativa alle varie marginalità. Insomma, un’impresa sociale più a suo agio nei dibattiti ovattati tra i “già convinti”, che vocata a confrontarsi con paure e pregiudizi laddove essi nascono e prosperano.

7) No, oggi l’impresa sociale spesso non fa politica quando sceglie di essere poco presente nel dibattito culturale su temi centrali per la propria visione. Oltre a perdere gli interlocutori, vi sono casi in cui l’impresa sociale pare oggi in affanno sui contenuti: è rimasta afasica di fronte al montare della ferocia istituzionale sui migranti e agli attacchi ideologici verso le strutture che accolgono bambini, in difficoltà a esprimere una propria visione sociale e a proporre una visione di senso alternativa. In alcuni casi si trova in difficoltà a elaborare una narrazione che non si esaurisca nella mera riaffermazione di principi solidaristici, in altri appare forse spaventata di essere additata come interessata a “fare soldi” su migranti, disabili e anziani (ne parla in questi giorni Massimo Novarino nel Forum di Impresa Sociale): meglio lavorare in silenzio fin che si può, tacere e attendere che passi questo difficile momento; meglio cercare il favore delle istituzioni, senza il quale non si riesce a ottenere nulla. Ma questa strategia è compatibile con la visione di una impresa sociale autentica? È frutto di lucidità e lungimiranza o al contrario di debolezza politica e di mancanza di un’idea chiara e del proprio ruolo sociale?

8) No, oggi almeno in alcuni casi non fa politica perché tralascia, nella prassi e come elemento costitutivo della propria identità, alcuni temi irrinunciabili, primi tra tutti quelli dell’equità e della giustizia sociale, per dirla con le parole di Luca Fazzi. Certo vi sono molte imprese sociali che danno traduzione imprenditoriale ad un solido senso di giustizia; ma in altre allo stesso tempo affiora una deriva culturale che, da una parte, confina i valori a generiche enunciazioni in occasioni pubbliche, dall’altra, si concentra su un nuovo verbo efficientista e un po’ rampante. Ciò può avvenire attraverso due strade apparentemente opposte, ma che portano allo stesso esito: essendosi troppo concentrata sulla gestione dei servizi e vivendosi troppo spesso come mera esecutrice di politiche pubbliche, l’impresa sociale tende a delegare alle scelte allocative degli enti finanziatori la cura della giustizia sociale, limitandosi a svolgere in modo professionale gli interventi che l’ente pubblico richiede; o, al contrario, viene sedotta dalle sirene del mercato e delle finanza e sostituisce la “domanda pagante” ai diritti, la scelta di aree di mercato profittevoli alla lettura dei bisogni, cessando anche solo di interrogarsi sulla propria mission: diventa cioè un’impresa sociale dove prevale la dimensione produttiva su quella sociale, a servizio del ceto medio pagante, ritenendo i bisogni di coloro che non possono acquistare sul mercato come estranei al proprio ambito di interesse. Quando ciò accade l’impresa sociale non fa politica, non interpreta il proprio ruolo in termini di costruzione di un mondo più equo, ma solo di collocazione competitiva ed efficiente entro spazi di mercato pubblico o privato.

In conclusione

Ciò detto, ritorniamo alla domanda di partenza. L’impresa sociale fa politica? Senza pretesa di completezza, si sono accennate riflessioni e circostanze – non discusse nel merito e senza l’onere di prendere posizione netta su pro e contro, quanto più con l’obiettivo di attirare l’attenzione su questioni fondamentali, in un contesto nazionale e internazionale dove a mancare pare siano soprattutto le idee – che possono portare a rispondere con segno diverso.

Il quadro restituisce una situazione complessa e, probabilmente, tra gli stessi imprenditori sociali vi sono orientamenti differenti sulla domanda a monte, circa il fatto che svolgere un ruolo politico sia un bene o meno.

Indubbiamente, nella fase in cui l’impresa sociale andava delineando il proprio originale modello, il tema della valenza politica del proprio agire è stato sviluppato enfatizzando gli aspetti operativi, a significare che la costruzione di una diversa società non era auspicata in proclami e dichiarazioni, ma si realizzava concretamente in una forma di impresa inedita capace di sperimentare al proprio interno i valori di solidarietà, integrazione ed uguaglianza. In questo contesto – e pur essendo la generazione di imprenditori sociali protagonisti di questa fase fortemente connotati in senso valoriale – l’indugiare eccessivo su aspetti politici poteva parere frutto di un’identità imprenditoriale spuria e confusa; insomma, la si “butta in politica” se non si sa veramente fare impresa, se non si sa costruire attraverso l’impresa un contesto sociale diverso o, peggio, se si confida, in fondo, nel fatto che le declamazioni politiche marchino il terreno per trovare nel collateralismo uno strumento per far fronte ad una evoluzione imprenditoriale incompleta. Certo ben si comprende, alla luce di queste riflessioni, la scelta di avere, in quella fase, riposto in cantina un bagaglio ingombrante come quel sovrappeso di politica che faceva potenzialmente parte del DNA della nascente impresa sociale; ma non è detto che in contesti mutati – come si diceva, non privi di rischi di isomorfismo di mercato o di deriva gestionale para pubblica – risulti così facile ritrovare il bagaglio a suo tempo archiviato e che comunque esso non risulti a questo punto un po’ polveroso.

Insomma, oggi, in un contesto mutato, ci si riscopre alla ricerca di punti di riferimento e di compagni di strada, anche in questo caso con alcuni nodi da sciogliere: si pensa l’impresa sociale soprattutto o solo come “impresa tra le imprese”, a combattere per il rilancio del Paese insieme alle altre rappresentanze del mondo produttivo (soprattutto quelle datoriali) o come Ente di Terzo settore tra gli Enti di Terzo settore, portatrice nel proprio specifico di una sensibilità imprenditoriale, ma del tutto affine a volontariato, associazionismo e fondazioni per valori e progetto di cambiamento sociale?

Le domande si rincorrono e di qui la scelta non scontata di questo numero, il primo di una nuova serie della rivista Impresa Sociale: in una fase in cui negli studi sull’impresa sociale prevalgono decisamente altri temi – legati alla finanza, agli aspetti aziendalistici, all’impatto sociale – dedicare un approfondimento alla relazione tra impresa sociale e politica. Farlo coinvolgendo anche studiosi di teoria politica, assai meno presenti rispetto ad economisti, giuristi, sociologi nell’interessarsi di imprese sociali, interrogandosi anche, come fanno Marco Guglielmo e Marco Libbi in questo numero della rivista, sulla necessità di approfondire la lettura politico ideologica delle narrazioni sull’impresa sociale prevalente nel mondo scientifico. Questo percorso ci porta anche ad affrontare – lo fa Armando Vittoria in uno degli articoli che seguono anche attraverso il confronto tra situazione italiana e britannica – la valenza politica che l’impresa sociale può assumere in una fase connotata da populismo e disintermediazione.

Farlo senza trattenersi dal ricercare i legami profondi dell’impresa sociale con il nostro sistema democratico. Perché è senz’altro giusto enfatizzare la profonda legittimazione costituzionale dei diversi soggetti della società civile che operano per l’interesse generale, tra cui l’impresa sociale, contenuta nell’art. 118, comma 4 della Costituzione; ma senza dimenticare, come ricorda Marco Revelli nella sua intervista su questo numero di Impresa Sociale, che a monte vi sono richiami ancora più profondi che si annidano nei principi fondamentali della Costituzione: nell’articolo 2 ove la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, nell’art. 3 che assegna alla Repubblica – non allo Stato, ma alla Repubblica, a tutti noi – l’impegnativo compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”, nell’art. 4 che vede nel lavoro, oltre che un diritto, l’adempimento al “dovere di svolgere… un’attività… che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Di qui si riparte e, come si può constatare, più ci si addentra nel tema, più i fili, invece di sciogliersi, si annodano. Segno che di questi temi vale la pena di parlare.

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