In un articolo apparso su Times, Yuval Noah Harari, con la consueta lucidità, pone alcune questioni decisive. Innanzitutto, osserva come le crisi determinino la naturale accelerazione di trasformazioni che, in periodi normali, avrebbero richiesto tempi lunghissimi per essere introdotte (basta pensare allo smart working ed alla home schooling nel nostro Paese). Si tratta di cambiamenti destinati a consolidarsi anche quando si ritornerà alla normalità. Per questo dobbiamo sapere che gli assetti che l’emergenza Covid-19 sta determinando, spesso in totale discontinuità rispetto al passato, non cesseranno quando finirà la fase critica, ma determineranno in modo molto rilevante il nuovo quadro sociale, economico, politico ed anche relazionale che ci troveremo a vivere al termine della pandemia.
Se le dinamiche scatenate dall’emergenza andranno a costituire l’ossatura del futuro, allora dobbiamo essere particolarmente vigili riguardo alle trasformazioni che si stanno innescando e alle scelte che si stanno compiendo. Harari si concentra su due scelte particolarmente importanti per il futuro di tutta l’umanità. “La prima è tra sorveglianza totalitaria e la responsabilizzazione dei cittadini. La seconda è tra l’isolamento nazionalistico e la solidarietà globale”. Si tratta indiscutibilmente di due questioni decisive, ma credo ve ne sia una terza che le accompagna e con esse si interseca. Quella del ruolo dello Stato nell’economia e nella società e, di riflesso, il suo rapporto col mercato e col sistema dell’economia liberistica, ma anche – ed è di questo il tema che intendo qui approfondire – con l’area del Terzo settore e, complessivamente, della società civile organizzata, attiva e solidale.
Negli ultimi decenni si è assistito a un arretramento del potere pubblico, sia nella sua funzione regolatoria, sia nella presenza in varie aree di attività economica e sociale, soprattutto in quelle relative ai cosiddetti beni comuni, per i quali la spinta del mercato sta determinando la progressiva trasformazione in beni privati: sanità, finanza, scuola, ecc. Questo è avvenuto sotto tutte le latitudini, soprattutto del mondo occidentale, favorito dal processo di globalizzazione che ha reso i singoli Stati, anche per l’assenza di una capacità di rappresentanza delle entità di regolazione sovranazionali, inidonei a regolare e gestire la complessità e la portata di fenomeni che ormai li hanno sovrastati. Il tradizionale stato-nazione s’è trovato così ad abbandonare la tolda di comando della nave e sembra essere finito relegato in coperta, dedicato principalmente a garantire l’approvvigionamento di un naviglio che richiede in continuazione sempre più iniezioni di finanza per non colare a picco e continuare a navigare. E al comando chi è salito? Una specie di pilota automatico – i mercati – a cui però, malgrado la presunta razionalità, manca la struttura mentale e soprattutto etica del comandante della nave. Infatti, tende a fuggire dalla nave non appena la situazione inizia a divenire critica, anziché resistere a garantirne la rotta e, eventualmente, in caso di disastro, fare di tutto per salvarla ed essere l’ultimo a lasciarla.
Nella crisi, però, lo Stato sta tornando. Gli apparati della sanità pubblica sono oggi il fronte primario della resistenza al virus e la Cina, col proprio apparato pubblico egemone, si è resa protagonista quantomeno di uno dei modelli che si sono dimostrati in grado di combattere la pandemia che ha generato. Ma è soprattutto guardando al futuro, agli assetti economici e sociali che verranno dopo la stagione della lotta prioritaria al contagio, che lo Stato pare riproporsi come l’unica alternativa per la gestione dei servizi di interesse generale nonché per una parte non irrilevante dell’economia. La parola “pubblicizzazione” è pronunciata con sempre maggior frequenza, accanto all’indicazione di misure, da parte dello Stato, di sostegno finanziario mediante erogazioni dirette a favore dei cittadini. Questo anche a prescindere dai colpi di mano che i governi illiberali stanno compiendo quasi ovunque per ridurre spazi di libertà col pretesto dell’emergenza.
Dunque, il segno profondo che la crisi del Covid-19 appare destinata a lasciare è quello di una presenza più rilevante ed estesa dello Stato all’interno della società e della economia, conseguenza dell’intervento molto consistente che in questa fase le pubbliche amministrazioni stanno ponendo in essere.
Però un’analisi oggettiva di cosa sta avvenendo oggi nel nostro Paese, ci consegna un quadro almeno in parte diverso da quello oggetto della narrazione statalista. Infatti, lo Stato sta reagendo con ritardo e in modo spesso incerto, e la grande e diffusa azione di difesa e solidarietà sociale che è comunque in atto risulta sostenuta, al di là dell’ambito strettamente sanitario, soprattutto da una miriade di organizzazioni che stanno offrendo alle comunità la possibilità di continuare a godere – pur coi limiti imposti dal distanziamento – dei servizi sociali essenziali. Gran parte dell’impegno è dedicato a tenere aperti i molti servizi e attività gestiti in via ordinaria. Sono in gran parte servizi essenziali di assistenza, che non possono essere sospesi in nessun modo. Ma accanto ad essi vi è una esplosione di nuove azioni sociali: nuove iniziative volte ad alleviare, su molteplici fronti, le ulteriori criticità del momento.
È sotto gli occhi di tutti il contributo che queste organizzazioni stanno offrendo. Migliaia realtà sono in prima linea per fronteggiare l’emergenza sanitaria e sociale. Le scuole gestite dal Terzo settore si sono segnalate pressoché ovunque per la rapidità con la quale hanno trasferito la didattica sul digitale. Il mondo del volontariato e delle pratiche di prossimità, con la consueta capacità creativa sta costruendo microreti e azioni del territorio per evitare che le persone più fragili e provate si trovino isolate: dalla telemedicina, alla distribuzione di alimenti e medicine, sino al conforto on line di chi ha perso, senza nemmeno l’ultimo saluto, un congiunto. Le cooperative sociali stanno attrezzando strutture di accoglienza per persone in quarantena e quelle di inserimento lavorativo stanno riconvertendo la produzione per fornire camici e mascherine. Senza dimenticare l’azione della filantropia istituzionale, che sta recuperando e allocando con rapidità ed efficacia risorse a supporto dell’emergenza sanitaria, ma anche dei molteplici altri bisogni che sono esplosi. Come sempre l’attenzione ai bisogni delle persone e la fantasia nel trovare forme di risposta sta superando l’immaginazione! E tutto grazie all’esercito delle organizzazioni del Terzo settore che era già in campo e che, in questi tempi, ha aumentato il proprio impegno e la propria azione e sta giocando una partita che potrà risultare decisiva per la tenuta del Paese, ma anche per il proprio futuro.
Si tratta dunque di un momento in cui il Terzo settore sta confermando coi fatti di saper svolgere un ruolo peculiare all’interno del tessuto sociale ed economico del Paese. Né lo Stato né le imprese private sono in grado di entrare con la medesima capacità di mobilitazione negli interstizi della società, recuperando e organizzando la capacità e le risorse diffuse di solidarietà. Ma soprattutto si sta sempre meglio evidenziando come si tratti di un universo di organizzazioni e imprese che nel proprio DNA hanno gli stessi cromosomi della Pubblica Amministrazione - quelli orientati all’interesse generale -, ma posseggono anche quelli del dinamismo, dell’intraprendenza e dell’inventiva che caratterizzano gli “animal spirits” dell’azione imprenditoriale privata.
Il punto però è se questa esplosione di attivismo positivo riuscirà a segnare in profondità una trasformazione sociale, economica ed istituzionale o se invece, passata la fase emergenziale, l’ordine che andrà a ricrearsi conserverà solo labili tracce di ciò che il Terzo settore sta dimostrando di saper fare. Dobbiamo essere consapevoli che l’esito, in un senso o nell’altro, si sta già giocando e si giocherà sempre più su due i fronti. Uno è quello del sistema di relazioni dell’universo del Terzo settore con l’area pubblica e, in una certa misura, anche con le istituzioni del mercato. L’altro è quello interno, più legato alla definizione delle specificità, ma anche alle complementarietà ed alle connessioni tra le diverse componenti del Terzo settore.
Riguardo al sistema di relazioni con lo Stato, adottando lo schema di ragionamento di Harari, appare evidente che i provvedimenti che verranno adottati in questi tempi emergenziali risulteranno decisivi per disegnare il futuro. E se il futuro che immaginiamo dovrà vedere un riconoscimento e un ruolo più rilevante delle organizzazioni private che operano nell’interesse collettivo - superando il dualismo Stato/Mercato per approdare al tripolarismo Stato/Terzo settore/Mercato - allora questa loro funzione deve già trovare un riconoscimento nella legislazione e nei provvedimenti emergenziali. Cosa che non pare avvenire. Il futuro sembra da giocare tutto sul rapporto diretto tra Pubblica Amministrazione e singoli cittadini o famiglie, senza tener conto che soprattutto le forme di autoorganizzazione della società stanno, in questo momento, come sopra ricordato, dando prova di una specifica capacità di intervento, a fianco del sistema sanitario pubblico, nel garantire le migliori condizioni di vita e la tenuta complessiva del sistema sociale. L’emergenza sanitaria sta generando infatti varie altre emergenze, prima fra tutte quella dell’accentuarsi delle disuguaglianze. Disuguaglianze economiche, ma anche educative, assistenziali, complessivamente di possibilità di condurre una “buona vita”.
È su questi fronti che il Terzo settore va da subito investito di una funzione strategica di tenuta e ricostruzione, e bene ha fatto Carlo Borgomeo a lanciare la propria proposta di istituire un fondo di sostegno dedicato che permetta agli enti di superare la crisi. Ma allo stesso modo va attribuito al Terzo settore un compito fondamentale in futuro nel mantenimento di livelli di vita dignitose alla popolazione e nella costruzione di un più evoluto sistema economico e sociale.
Non credo si tratti solamente di mettere denaro nelle tasche delle famiglie per aiutarle a superare l’emergenza. In parallelo è necessario immaginare quale sarà l’assetto economico e sociale che emergerà dall’inevitabile ridisegno determinato dai tempi della crisi. Dunque, bisogna decidere sin da ora se si vuole scommettere semplicemente sulla ripresa del sistema tradizionale delle imprese – grandi medie e piccole – alimentate dalla ripresa di un mercato privato grazie ai robusti sussidi concessi dallo Stato alle famiglie, o se, accanto a ciò, si intenda investire su soggetti in grado, se sostenuti, di rigenerare su nuove basi ad un tempo il tessuto economico e quello sociale, gli ETS appunto.
Per perseguire un simile disegno, si tratta sì di aiutare le organizzazioni esistenti ad uscire dalla situazione critica, ma in parallelo esse vanno investite da subito della missione di ingaggiare tutte le forze valide, soprattutto quelle che rischiano di andare perse nell’area del non lavoro, affidando loro il compito di gestire una combinazione virtuosa tra sostegno economico e prestazioni a vantaggio della comunità. Gli ETS potranno così diventare i contenitori di uno scambio equo e soprattutto efficace tra reddito e produzione di beni pubblici, peraltro già sperimentato con successo in altre epoche, soprattutto dopo gli eventi bellici. Sostenendo l’attività che le organizzazioni potranno mettere in campo, i flussi monetari a favore delle famiglie, anziché arrivare come semplici sussidi, arriveranno come reddito da lavoro ottenuto per svolgere attività di interesse generale all’interno di organizzazioni senza scopo di lucro. Un meccanismo col quale gli ETS vantano una lunga tradizione ed hanno ampiamente dimostrato di saperci fare; basti pensare all’esperienza delle cooperative di inserimento lavorativo. Con evidenti ricadute, anche dal punto di vista della dignità individuale, di non poco conto.
Ciò che propongo è di organizzare un grande e diffuso Servizio Civile Nazionale, investendo il complesso degli ETS del compito di gestirlo. Un sistema semplice, ben diverso da quello complesso e macchinoso attualmente impiantato, e molto, molto più esteso. A tutti i giovani va offerta con questo strumento l’opportunità di svolgere, sino a 18 mesi, un’attività retribuita part time presso gli ETS. Analogamente, tutti coloro che riceveranno uno stabile sussidio, dovranno rendersi disponibili per fornire analoghe prestazioni, salvo specifiche esigenze familiari, finché non si determini per loro la possibilità di rientro nel mercato di lavoro ordinario. Il tutto all’interno di un grande piano di tutela e sviluppo socio-culturale-ambientale del territorio. Assistenza, cultura, beni ambientali ed artistici ed altro ancora. Basterà fare riferimento, senza aggiunte né modifiche, al portafoglio di attività previste all’art. 5 del Codice del Terzo settore. Il tutto realizzato in stretta connessione con le amministrazioni locali, come, su scala ridotta, è stato realizzato nel corso degli ultimi decenni dalla Provincia autonoma di Trento. Una buona parte dei sussidi previsti per i singoli cittadini dovranno quindi essere quindi destinati a sostenere le attività di interesse collettivo degli ETS, realizzate attraverso l’ingaggio di quegli stessi cittadini, che quindi riceveranno lo stesso flusso di risorse economiche, ma sotto forma di stipendi, anziché di sussidi. Collegato a un sistema del genere, potrà acquistare una diversa, meno assistenzialistica e più compiuta prospettiva anche l’insieme delle proposte avanzate dal Forum Disuguaglianze Diversità insieme ad ASVIS.
L’elemento caratteristico di una simile ipotesi sta nel fatto che, nel destinare risorse pubbliche per il rilancio economico e sociale, si riesce a sostenere nel medesimo tempo le persone e le organizzazioni che operano al servizio del Paese nel suo complesso. Un modo questo per dare, oltretutto, piena attuazione al principio di sussidiarietà previsto nella nostra Carta Costituzionale. Operazione oggi possibile dando piena e indiscussa applicazione all’art. 55 del Codice del Terzo settore che, proprio in attuazione dell’art. 118, IV comma della Costituzione, ridisegna in chiave partecipata e collaborativa i rapporti tra Pubblica amministrazione e Terzo settore, in alternativa al paradigma concorrenziale che ha dominato fino ad oggi dimostrandosi del tutto inadeguato in riferimento sia alla qualità dei servizi che al consolidamento delle organizzazioni di offerta.
Ma questo disegno richiede un significativo cambio di marcia all’interno del mondo del Terzo settore che, come sostenuto anche da Carlo Borzaga e da Stefano Zamagni, deve saper smettere di giocare sulla difensiva per proiettarsi verso nuove prospettive, rivendicando provvedimenti legislativi volti a costruire il futuro più che a mantenere, tutelandolo, un passato in una certa misura obsoleto. È giusto in questa fase chiedere interventi di sostegno per sopravvivere, ma è indispensabile proiettarsi anche verso un domani diverso, costruito anche rivisitando quanto sino ad oggi si è fatto.
Un atteggiamento di questo genere è oggi fatto proprio anche dalla sempre più ampia area della filantropia istituzionale che è scesa, come tutti, immediatamente in prima linea sul fronte operativo, con una grande varietà di interventi molto ben documentata dal portale Italianonprofit, ma che sta anche cogliendo l’occasione anche per riflettere su se stessa, sino a mettere in discussione il proprio tradizionale modus operandi. La dichiarazione lanciata Dafne - Donors and Foundations Networks in Europe e EFC – European Foundation Centre - con Assifero e già sottoscritta da più di cento fondazioni, va appunto nella direzione di superare forme tradizionali di intervento per sceglier nuove e più produttive modalità di azione. E la parola d’ordine “sostenere le organizzazioni prima che i progetti”, che Carola Carazzone da tempo sollecita per la filantropia, è un esempio di come si possa lavorare per una svolta collettiva, frutto della capacità di generare, a partire dalle riflessioni legate alle comprensibili preoccupazioni per il presente, proposte trasformative per il futuro.
La sfida che riguarda gli ETS è decisiva: le loro scelte ed il loro atteggiarsi, come singoli e, probabilmente ancor di più, con le varie organizzazioni di coordinamento e rappresentanza. Sono convinto che la potranno vincere se sapranno, nella grande maggioranza, pensare al futuro riflettendo non solo sulle singole, specifiche esigenze, ma partecipando a disegnare una prospettiva comune, e in questo momento non solo difensiva, per tutta l’area del Terzo settore. E se, in ragione di ciò, sapranno evolvere verso una consapevole e matura, vicendevole collaborazione. Una forma di reciproca attenzione che porti le diverse realtà a vedersi l’un l’altra non come concorrenti, ma come componenti di una affiatata squadra, ben organizzata quanto a ruoli e schemi, in grado, proprio in ragione di ciò, di giocare la partita del bene comune, valorizzando al meglio le peculiarità di ciascuno. Una vera, nuova generatività, riferita non soltanto, e forse neanche tanto, al cosa si fa, ma riguardante piuttosto il sistema di relazioni che si è in grado di costruire tra organizzazioni dentro il tessuto sociale che si vuole sostenere, animare, trasformare. Un approccio sistemico, non lineare, alla complessità e rapidità delle sfide attuali.
Si tratta di una nuova stagione da costruire tanto in ambito locale quanto a livello nazionale, senza dimenticare la proiezione europea, sapendo che fondamentali sono e saranno le strutture di coordinamento e rappresentanza. Grande è la loro responsabilità ed è auspicabile, non solo per il Terzo settore, ma per tutto il Paese, che sappiano dimostrarsi all’altezza del momento. E il momento richiede di farsi portavoce non solo di richieste di risorse, ma soprattutto di proposte progettuali legate al riconoscimento complessivo dell’universo del Terzo settore. È il momento di idee semplici e generali – sopra ho provato a lanciarne una, ma altre sono possibili – atte a consolidare, tra Stato e mercato un effettivo terzo polo. Non è tempo questo, se mai lo è stato, di iniziative o negoziazioni particolari per garantire a questo o a quel segmento del Terzo settore le condizioni per non dover cambiare, spesso perdendo forza nella negoziazione di proposte generali nei confronti dei diversi livelli della pubblica amministrazione o finendo comunque per rallentare l’evoluzione complessiva del contesto normativo e operativo.
Entro questa chiave di lettura va posto oggi un problema – tutt’altro che contingente, anche se può apparire tale - da risolvere. Gli ETS di cui stiamo parlando ancora non esistono. Questo perché, a distanza di quasi tre anni dalla legge che ne ha sancito la nascita, il parto in realtà non è ancora avvenuto. Manca infatti lo strumento – in Registro Unico – senza la cui iscrizione nessun soggetto giuridico può fregiarsi della nuova qualifica e continua nel frattempo a restare impantanato nelle varie, vecchie definizioni e categorie e nei diversi regimi giuridici, artificiosamente tenuti in vita in attesa della definitiva trasformazione. Il Registro Unico rappresenta, soprattutto in questo momento di emergenza, una priorità assoluta. Sono convinto che gli atti legislativi ancora necessari per la sua attivazione debbano essere fatti rientrare nei provvedimenti di urgenza, posto, tra l’altro, che la loro definizione in sede tecnica è già stata conclusa. E questo va chiesto a gran voce e con grande compattezza dal mondo del Terzo settore. Altrimenti le diverse misure che verranno messe in campo e che rappresenteranno le basi dei futuri assetti, continueranno a non poter fare riferimento ad un fenomeno unitario e riconosciuto. Col risultato che il Terzo settore rischierà davvero di uscire ridimensionato dalla crisi.
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