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ISSN 2282-1694
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Numero 1 / 2020

Saggi brevi

Finanza sociale. Alcune brevi precisazioni e una proposta di definizione

Marco Musella

Questo contributo è una rielaborazione di materiale prodotto dall’autore nell’ambito del progetto “SIF - Social Impact Finance” finanziato dal Miur.

Introduzione

La riflessione scientifica sulla finanza sociale (e sulla finanza di impatto) deve ancora fare molti passi avanti se vuole contribuire a determinare un inquadramento chiaro ad un fenomeno (una finanza orientata verso le iniziative sociali) che può certo migliorare i progetti a favore di fasce deboli della popolazione – o comunque dedicati ad uno sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale – ma che può finire per incidere negativamente su dinamiche e risultati di un settore assai delicato dell’economia e della società.

Scopo di questo scritto è chiarire, sia pure in modo sintetico, due questioni preliminari ad ogni discorso su questi temi: quanto, e come, lo schema domanda/offerta – tanto familiare agli economisti, e non solo ad essi – possa aiutare il percorso di un corretto approfondimento scientifico della questione. E in secondo luogo, l’importanza di tener distinto il tema del finanziamento dell’economia sociale da quello dei vecchi e nuovi strumenti di finanza sociale.

Va chiarito, innanzitutto, il significato di un paradigma tanto pregnante quanto semplice, ma non per questo esente da limiti per così dire epistemologici; limiti che si palesano soprattutto allorquando esso viene applicato ad una “merce” particolare come i prodotti finanziari. Sembra necessario poi non confondere la questione di come viene finanziata l’economia sociale (ma anche le iniziative di tutela dell’ambiente e di valorizzazione dei beni culturali) con gli argomenti riferiti a come nuovi strumenti di debito/credito possano essere utilizzati per uno sviluppo dell’economia sociale e per una sua maggiore efficienza.

Nel corso di questo scritto, infine, viene proposta, anche un po’ provocatoriamente, una definizione di finanza sociale – alternativa a quella dominante nel dibattito odierno – che considera tale non qualunque finanza che consente alle istituzioni dell’economia sociale di sopravvivere e di svilupparsi, ma solo quella che ha requisiti specifici in termini di subordinazione del rendimento alla produzione di utilità sociale.

Domanda e offerta di finanza sociale: qualche chiarimento e una proposta di definizione

L’analisi del tema finanza sociale può essere condotta in molti modi. Certamente uno schema assai adatto ad approfondire le diverse questioni è quello che, come anticipato, utilizza la diade domanda / offerta, tanto cara agli economisti al punto che Paul Samuelson apre uno dei primi capitoli del suo celeberrimo manuale riportando una frase di un autore anonimo secondo la quale “perfino un pappagallo può diventare un dotto economista: tutto quello che deve imparare sono due parole, domanda e offerta” (Samuelson, p.72).

Nell’uso di questo schema logico per discutere, da economisti, di finanza sociale, ci sentiamo quindi su una strada sicura; ben sappiamo, però, che domanda e offerta vanno di volta in volta precisate in modo attento con riferimento all’oggetto di studio e, soprattutto, sappiamo che ci troviamo di fronte a categorie di analisi che, semplificando e schematizzando, vanno integrate con attenta considerazione di quegli elementi che ne condizionano consistenza e interazione e che, a seconda degli oggetti (rectius merci) analizzati, modificano le modalità attraverso le quali operano i due lati del mercato: si tratta, per essere più chiari, della necessità di considerare le regole e le istituzioni, generali e specifiche, che consentono al singolo mercato di venire all’esistenza, di funzionare, di raggiungere o meno un suo equilibrio (la rilettura del contributo di Smith che Amartya Sen propone nel suo libro On Ethics and Economics è, da questo punto di vista, un utile punto di riferimento – Sen, 1988).

Il caso della finanza, ad esempio, è del tutto particolare perché, scambiandosi nei mercati finanziari un bene immateriale che è, sostanzialmente, fiducia in una dimensione strutturalmente intertemporale, entrano in gioco in modo assai rilevante regole giuridiche, fattori culturali, elementi tecnologici, oltre che (o più che) condizioni strettamente economiche; e questi fattori influenzano, prima di ogni cosa, lo stesso venire ad esistenza del mercato, nonché la densità degli scambi che in esso avvengono e l’efficienza degli equilibri che si raggiungono. Si potrebbe dire che, mai come in questo caso, un mercato – e quindi, una domanda e un’offerta – possono venire in essere se, e solo se, si verificano condizioni culturali e istituzionali, oltre che economiche, ben precise.

Un altro punto da chiarire in via preliminare riguarda il senso di queste espressioni – domanda e offerta – nell’analisi economica. È necessario tenere presente che in economia, a ben vedere, non si usano i due termini proprio allo stesso modo di come sono utilizzati nel linguaggio comune; gergalmente, per domanda si intende la “richiesta” e per offerta un “mettere a disposizione”, tanto è vero che la parola offerta nel linguaggio comune è anche usata con riferimento al dono: regalare qualcosa di proprio o di acquistato sul mercato (dire ad un amico “ti offro un caffè” non significa certo che intendo farglielo pagare!).

In economia, dunque, domanda di un bene o servizio significa determinazione ad acquistare: ciò comporta la contemporanea disponibilità a cedere qualcosa in cambio, la disponibilità, cioè, a pagare un prezzo per entrare in possesso di ciò che si domanda; offerta è la disponibilità a cedere un bene o servizio in cambio di un pagamento che, nelle economie monetarie del mondo in cui viviamo, significa disponibilità a trasferire la proprietà di un bene in cambio di un certo ammontare di moneta o di un pagamento futuro.

Tuttavia, anche dopo aver corretto nella direzione indicata il significato dell’espressione domanda (o offerta) di un bene, è necessaria un’ulteriore precisazione. È bene ricordare che anche nel discorso degli studiosi di scienze economiche vanno tenute distinte le variabili di flusso da quelle di stock. Le definizioni precedenti vanno bene se ci riferiamo a una domanda e ad un’offerta di una merce in termini di flusso e, quindi, come è noto, se facciamo riferimento all’esistenza e alla consistenza di domanda di una merce (e, quindi, anche di credito) in un determinato intervallo di tempo poiché, come noto, non è possibile definire alcun flusso se non si chiarisce l’intervallo temporale, più o meno ampio, rispetto al quale esso va calcolato. Se si ragiona in termini di stock, “domandare” significa “detenere in modo desiderato” in un ben preciso istante di tempo una certa quantità di un bene, di una merce; dove l’espressione “desiderato” fa riferimento a “sulla base del valore assunto dalle variabili che determinano il fabbisogno di quella merce” (per una presentazione elementare della distinzione stock/flusso applicata alla moneta si veda: Musella, Jossa, 2016: pp. 35-38). Offrire, in termini di stock, significa considerare la consistenza in essere di un bene, di una merce, in un preciso istante di tempo. Se parliamo dello stesso bene, i ragionamenti su domanda e offerta in termini di stock vanno riferiti allo stesso istante temporale.

Tant’è che quando si ragiona di domanda e offerta in termini di stock può essere assai complesso avere due diverse misure per l’una e per l’altra grandezza, come sa bene chi fa indagini empiriche sui mercati monetari e finanziari.

L’equilibrio tra domanda e offerta, con rifermento ai flussi, implica che esiste (e venga raggiunto) un prezzo in grado di “sparecchiare” il mercato, come si dice traducendo in modo un po’ fantasioso l’espressione inglese “to clean the market”. L’equilibrio in termini di stock fa riferimento ad una situazione nella quale nessun operatore, dato il prezzo esistente, desidera liberarsi della merce che ha nel proprio stock o acquisirne altre unità.

Quando parliamo di finanza sociale, nello specifico, siamo interessati soprattutto alla domanda di finanza sociale, intesa come richiesta di strumenti finanziari da parte di imprese sociali – o di altri soggetti del Terzo settore a vocazione imprenditoriale – nel corso di un semestre o di un anno; coerentemente con quanto fin qui detto, la domanda equivale in questo caso ad una richiesta, ad un fabbisogno di liquidità a cui corrisponde una disponibilità ad indebitarsi pagando un prezzo. Alternativamente, analizzare la domanda significa conoscere consistenza e caratteristiche dello stock di strumenti finanziari in possesso dei soggetti dell’economia sociale e valutarne la desiderabilità, nel senso sopra chiarito, in un certo istante di tempo, es. al 31 dicembre di ogni anno.

Tante volte nei dibattiti sulla finanza sociale la sensazione è che non si distingua se si sta parlando di stock o di flussi e questo non aiuta certo la chiarezza.

Se il discorso si sposta ora dal generale al tema specifico della finanza di impatto, l’analisi da condurre, per rispettare l’inquadramento sopra proposto, dovrà indagare sulla domanda, intesa appunto come richiesta, a cui corrisponde una disponibilità a pagare un prezzo – o una disponibilità a detenere nel proprio portafoglio passività con le caratteristiche proprie degli strumenti della finanza di impatto; dall’altro lato andrà analizzata la disponibilità ad offrire strumenti con le specifiche proprietà della finanza di impatto nei due sensi prima chiariti. Il discorso di come applicare questi ragionamenti generali alla finanza di impatto sociale è bene rinviarlo ad un prossimo futuro e concentrare qui la nostra attenzione sul tema di domanda e offerta di finanza sociale. Ci imbattiamo, infatti, prima di ogni altra cosa nell’ulteriore questione preliminare della definizione: quali strumenti di credito/debito devono essere considerati strumenti di finanza sociale?

Una prima tesi – che sembra quella più presente nel dibattito – è quella che considera finanza sociale qualunque strumento di finanza utilizzato dalle imprese sociali (o da altri soggetti dell’economia sociale, notazione che d’ora in poi non ripeterò più cosicché quando si parlerà di imprese sociali si farà riferimento anche ad altri soggetti dell’economia sociale): se un’impresa sociale, ad esempio, stipula un contratto di mutuo per acquistare una sede in tutto e per tutto simile a quello che stipulano altri agenti economici che utilizzano mutui, si crea uno strumento di finanza sociale. Il punto di partenza da me proposto è diverso: il caso presentato è inquadrabile come utilizzazione da parte di imprese sociali di strumenti ordinari di finanza, perché la semplice utilizzazione di uno strumento finanziario standard non qualifica il rapporto debito/credito come “sociale”, non fa considerare quel prodotto finanziario (in questo caso il mutuo) “sociale”.

Ma, allora, quali specifiche caratteristi consentono di qualificare uno strumento di debito/credito come strumento di “finanza sociale”?

Nonostante il gran parlare di questo tema negli ultimi anni, non sembra essere stata ancora elaborata una chiara definizione, o meglio ci si è spesso mossi lungo una linea che considera scontata la tesi che qui si discute. La definizione proposta nel Rapporto Italiano della Social Impact Investment Task Force (La finanza che include: gli investimenti ad impatto sociale per una nuova economia, Rapporto Italiano della Social Impact Investment Task Force, istituita in ambito G8) – che considera la finanza a impatto sociale “quella finanza che sostiene investimenti legati ad obiettivi sociali misurabili e in grado, allo stesso tempo, di generare un ritorno economico per gli investitori” – si muove in questa direzione e, a mio parere, non aiuta la chiarezza proprio perché non facendo luce sui rapporti tra il raggiungimento di obiettivi sociali e il “ritorno economico”, non spiega la specificità della finanza di impatto sociale, ma neanche della finanza sociale in generale. E non si tratta di un dettaglio marginale, perché senza una chiara indicazione su questo punto, è questa la mia opinione, appare abbastanza inutile qualificare come “sociali” le novità di un sistema finanziario pronto a sostenere le iniziative sociali; ed è altrettanto inutile parlare di una nuova e promettente stagione dell’economia sociale resa possibile da una disponibilità di operatori finanziari che si dichiarano pronti ad immettere sul mercato strumenti specifici per le imprese sociali: di null’altro si tratta, a ben vedere, che di una diversificazione di portafoglio degli investitori spinti dall’abbondanza di disponibilità liquide (e/o da esigenze di buone reputazione) a ricercare nuovi mercati per ottimizzare il mix rendimento-rischio, avendo sempre e solo l’obiettivo di una massimizzazione del profitto, per dirla in maniera un po’ scolastica. Anche definizioni come quella del Global Impact Investing Network – “gli investimenti di impatto sono operati […] al fine di generare un impatto sociale e ambientale in aggiunta a un ritorno finanziario”(Introducing the Impact Investment Benchmark) – non risolvono il problema perché definire in modo tecnico se e quanto l’introduzione di una misurazione di impatto condiziona il ritorno economico per l’investitore appare fondamentale per distinguere un’autentica motivazione sociale di chi decide di mettere capitali a servizio del benessere sociale, prima ancora che del rendimento economico; per parlare, quindi, di un nuovo segmento specifico del mercato dei capitali sul quale ha senso studiare dinamiche di domanda e offerta specifiche è, a parere di chi scrive, necessario definire questo punto.

Detto in altri termini, il problema mi sembra vada considerato nel modo seguente: esiste uno spazio di studio per un mercato della finanza sociale (e, successivamente del segmento di esso che definiamo finanza di impatto sociale) se, e solo se, esiste un prodotto finanziario (un insieme di prodotti, ovviamente) che ha struttura di debito/credito orientata alla produzione di una utilità sociale al punto che il rendimento economico – inteso come mix di interesse, garanzie, orizzonte temporale, etc. – è posto così evidentemente in secondo piano da poter essere anche interamente sacrificato alla “causa” di generare impatto sociale. Se, viceversa, i prodotti non hanno questa evidente subordinazione del rendimento economico, si tratta di strumenti di debito/credito che vanno più correttamente collocati nella dinamica di evoluzione dei mercati finanziari sempre votati alla ricerca di nuovi spazi di guadagno e di nuove vie per la massimizzazione dei rendimenti. Soprattutto in un tempo in cui a livello globale abbonda la disponibilità di risorse finanziarie. Potranno aiutare anche i soggetti dell’economia sociale (anche se le imprese sociali nel corso della crisi si sono dimostrate particolarmente solide – Borzaga, 2018), ma l’attenzione di chi studia il fenomeno dovrà essere concentrata sui molti pericoli che possono minare le apparenti buone intenzioni.

La convenienza di chi domanda finanza sociale sarà anche essa differente a seconda del tipo di definizione adottata: nel caso si scelga la definizione qui proposta ci dovremmo trovare di fronte a meccanismi debito/credito più convenienti di quelli tradizionali (a parità di rischio) perché, prevedendo una remunerazione più bassa del capitale, renderanno più bassi i tassi di interesse pagati dai prenditori (o più conveniente la struttura dei tassi da pagare in essi previsti); è ovvio che una convenienza a domandare questa tipologia di strumenti potrebbe anche avere una sua ragion d’essere nel fatto che le imprese sociali ritengano che essi possano incentivare meglio i diversi stakeholder di un’azione progettuale ad impegnarsi per raggiungere il risultato auspicato (caratteristica che potrebbero avere gli strumenti della finanza di impatto); in questo caso, però, la convenienza per i prenditori è tutta da verificare attraverso un confronto con gli strumenti più tradizionali di debito, sia di tipo equity che obbligazionari che di prestito, tenendo conto del diverso profilo di rischio. Ma di ciò si dovrà parlare in un altro scritto, come anticipato.

La distinzione tra finanza sociale e finanziamento degli interventi sociali, per l’ambiente e per la cultura

Sempre in via preliminare va chiarita un’altra questione che rischia di creare confusione nel dibattito sulla finanza sociale: la questione del finanziamento dell’economia sociale è, in gran parte, una questione diversa da quelle connesse con gli strumenti vecchi e nuovi di finanza sociale, anche se la terminologia non è sempre d’aiuto a tener distinte, per quello che si deve, le due questioni. È necessario, invece, tenere ben distinta la questione del finanziamento da quella della finanza, per non trovarsi ad aver aderito senza accorgersene alla posizione di chi ritiene che sia il mercato privato a dover far fronte all’inevitabile ritiro dello Stato.

Dunque, un primo tema di studio e approfondimento importante, e da non sottovalutare, è quello di chi finanzia (e finanzierà) l’economia sociale e, cioè, la questione di chi metterà risorse per pagare i costi necessari a produrre servizi di cura, etc.; connesso ad esso è il tema di quali strategie devono essere messe in campo per aumentare le risorse (private e/o pubbliche) attivabili per la produzione di servizi sociali e di prossimità realizzati da quelle organizzazioni che definiamo soggetti dell’economia sociale o civile (mutatis mutandi discorsi analoghi sono da farsi per la valorizzazione dei beni culturali, la tutela dell’ambiente, lo sviluppo dell’agricoltura sociale, etc.). Si tratta di problemi di assoluto rilievo che, in presenza di una prevalenza di scelte politiche che generano tagli delle risorse statali (e pubbliche) per il welfare, vanno affrontati con grande attenzione.

Un altro, e in gran parte diverso, discorso è quello collegato al tema di come strumenti di debito/credito (quindi strumenti di finanza tradizionale o innovativa) possano facilitare lo sviluppo e la vita ordinaria di imprese sociali e altre istituzioni dedite a produrre servizi sociali, valorizzazione dei beni culturali e ambientali. È una sfida, anche questa, importante e cruciale sul fronte dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi. Si tratta, in questo secondo caso, di questioni connesse al processo di ammodernamento del nostro sistema di welfare e, quindi, di provare a capire come la finanza possa favorire l’operatività quotidiana delle imprese sociali rafforzandole nella capacità di gestire gli impegni ordinari e, soprattutto, si tratta di valutare se essa possa consentire una crescita delle imprese sociali favorendo l’implementazione di quelle innovazioni rese oggi possibili dalle nuove tecnologie. Si sa bene, infatti, che molte innovazioni di processo e di prodotto in grado di migliorare la qualità della vita delle persone richiedono significativi investimenti.

Si badi che una finanza dedicata deve essere disposta a rinunciare a rendimenti potenzialmente possibili: si tratta, infatti, di sviluppare qualcosa che, con ogni probabilità – se introdotta al fine di un maggior benessere delle persone e non del massimo profitto di chi finanzia – comporta scelte che non aumentano granché i ritorni per i proprietari di imprese e finanziatori, soprattutto nel breve-medio periodo: né di quelle che inventano nuove macchine e nuove tecnologie, se sono sociali, né di quelle che le introducono nei processi produttivi e nella vita quotidiana della gente.

È proprio per questo che una domanda di finanza di questo tipo si rivolge a soggetti per i quali l’obiettivo non può essere il massimo rendimento. Chi mette a disposizione risorse, in questo caso, sta facendo si prestiti (non rinunciano ai propri diritti sul capitale prestato), ma sta prestando allo scopo non di massimizzare un rendimento, ma per generare utilità sociale, e si aspetta scelte coerenti con questa prospettiva, anzi, nell’ipotesi in cui ha diritto di intervenire nelle scelte dell’impresa che finanzia, lo farà dando priorità all’utilità sociale sul rendimento. È ovvio che successivamente il proprietario di queste risorse potrà decidere se metterle ancora a disposizione di interventi socialmente utili (finanza sociale); ma ciò non è implicito ed è comunque un altro discorso che ha a che fare con le motivazioni e le strategie di una finanza sociale efficiente.

È importante, però, che si comprenda che in questi casi non si sta parlando di un finanziamento, nel senso che abbiamo precisato, perché non si rinuncia definitivamente alle risorse prestate: non si tratta di una donazione (almeno del capitale) e la natura sociale della scelta è nella rinuncia (questa è sì una donazione), in tutto o in parte, a quella remunerazione del capitale che nell’economia capitalistica accompagna i rapporti di debito/credito e orienta le scelte di chi ha disponibilità finanziarie.

Tra finanza e finanziamento, due parole che hanno la stessa radice, ma che devono esprimere concetti diversi, esistono certo connessioni, ma è sbagliato pensare che siano accorpabili in un unico discorso confondendo il vincolo economico – che impedisce alle imprese (sociali) di funzionare e sopravvivere – con il vincolo finanziario, che può certo influenzarne la sopravvivenza, ma che condiziona innanzitutto, e soprattutto, lo sviluppo e la crescita delle imprese sociali. Detto in altri termini: un problema è aumentare le risorse per consentire alle attività di cura di proseguire (vincolo economico), altro problema è rimuovere gli ostacoli di ordine finanziario che derivano da squilibri temporali tra entrate e uscite o dalla difficoltà a reperire risorse significative per effettuare investimenti rilevanti (vincolo finanziario). È vero che sia il vincolo economico che quello finanziario rendono del tutto impossibile ipotizzare lo sviluppo delle imprese sociali, ma la loro natura diversa richiede diverse soluzioni ed interventi.

Conclusione. I pericoli della speculazione e delle bolle finanziarie

Il mondo, da alcuni anni a questa parte, sperimenta un indubbio aumento di risorse finanziarie a disposizione delle attività produttive; esistono oggi capitali davvero ingenti alla ricerca di un impiego e ciò, con ogni probabilità, è più il frutto di un accentuarsi delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, che non una conseguenza dell’aumento del complesso delle risorse a disposizione dell’umanità o, se non in minima parte, di una crescente attenzione ai temi sociali, ambientali e culturali.

Questo, comunque, sarebbe un lungo discorso che non può essere sviluppato in questa sede (si veda l’interessante sintesi del dibattito sull’evoluzione del settore finanziario negli ultimi decenni proposta nell’ultimo bel libro di Colin Crouch sulla postdemocrazia – Crouch, 2020: pp. 22-73).

Va anche sottolineato che il tema della finanza sociale in generale, e quello della finanza d’impatto sociale in particolare, non sono oggi affrontati tenendo sempre nella giusta considerazione i fondamenti su cui si deve basare ogni ragionamento tecnico-giuridico sul tema: certo esso dovrà approfondire, dal punto vista tecnico-finanziario e delle norme positive del(i) nostro(i) ordinamento(i) giuridico(i), le peculiarità specifiche di strumenti innovativi di finanza, di una finanza orientata alle attività sociali; ma, se l’innovazione finanziaria nel campo delle attività sociali vuole rendere un servizio utile al consolidamento e allo sviluppo dell’economia sociale, non può ignorare che il ruolo della finanza è di servire le attività produttive e non di servirsene per autonutrirsi. Sono necessarie, perciò, regole e istituzioni in grado di assicurare che questo principio – di attenzione autentica ai risultati di utilità sociale che si producono – non venga marginalizzato per dare uno spazio troppo ampio all’interesse degli operatori finanziari ad ottenere rendimenti positivi del capitale investito, rendimenti che vengono inseguiti indipendentemente dagli output e dagli outcome conseguiti in ambiti molto delicati per il benessere delle persone (e di quelle fragili in particolare) e dell’umanità tutta. La storia recente – della deregulation prima e della difficoltà a ri-regolare il settore finanziario negli Stati Uniti e non solo (Stiglitz, 2016) dopo – deve essere tenuta in grande considerazione se si vuole salvaguardare l’economia sociale dal rischio di essere divorata dagli interessi del capitale finanziario.

In generale una corretta collocazione della finanza nella rete degli attori dell’economia richiede regole chiare che la rendano sempre attenta, non al proprio tornaconto e basta, ma ai processi produttivi reali: di essi la finanza è un’importante facilitatrice perché è un insostituibile elemento di trasformazione, per dirla in modo aristotelico, delle potenzialità di sviluppo in attualità di sviluppo. È la finanza che rende possibile la realizzazione di progetti che altrimenti non potrebbero mai essere avviati; nel caso dell’economia sociale oggi, poi, ciò è ancora più vero, come si è provato a dire in precedenza.

Proprio per questo, oggi, la finanza sociale o è al servizio della costruzione di percorsi più solidi (e, perché no, nuovi) di benessere per le persone e per le comunità, o, a parere di chi scrive, non è sociale, anche quando finanzia imprese sociali. Da questo punto di vista essa o ha nella crescita dei legami comunitari e nel miglioramento delle possibilità di vita la stella polare che guida il suo cammino (e che quindi limita rendimenti e potere di chi è proprietario degli strumenti finanziari in questione, dei creditori), o viene inevitabilmente fagocitata dai bisogni di un capitale finanziario sempre più esigente in termini di ritorni di rendimenti e di potere.

È bene, infatti, tener presente che un impatto positivo dell’innovazione nel campo della finanza sociale non può essere considerato automatico, soprattutto nell’era della finanziarizzazione e della globalizzazione dei mercati finanziari: gli operatori finanziari, in questo tempo, soprattutto quelli di grandi dimensioni, si muovono in modo spregiudicato e aggressivo non secondo la logica, per dirla con terminologia marxiana, merce-denaro-merce della società mercantile – e neanche secondo quella denaro-merce-denaro del capitalismo dei capitani di industria – ma nella logica denaro-denaro: il passaggio attraverso la fase della produzione di beni e servizi viene “saltato” e si mettono in campo sempre nuovi stratagemmi per accrescere, nel minor tempo possibile, la quantità finale di risorse finanziarie nelle mani di chi inizialmente le possiede.

Il dibattito scientifico su finanza e terzo settore deve approfondire le questioni per porre argini al rischio che l’economia sociale si trasformi in una nuova area di guadagni per la speculazione finanziaria; la speculazione, come ha insegnato Keynes e tanti altri, è quel fenomeno per il quale gli operatori guadagnano lucrando su una differenza di prezzo tra il momento dell’acquisto e il momento della vendita: lo sviluppo di un mercato dei titoli sociali dovrà avere regole precise per limitare lo spazio di azione di tutti coloro che potrebbero essere attratti esclusivamente dalla prospettiva di guadagni speculativi che sono decisamente più facili quando la finanza è senza regole e operatori di grandi dimensioni agiscono in essi.

Il mondo dell’economia sociale deve chiedersi fino a che punto è compatibile con esso stesso la logica denaro-denaro, e approfondire con attenzione il rischio di favorire una cultura per la quale finirà per esserci inevitabilmente un welfare di serie A – con servizi a domanda individuale finanziati dal mercato e reso efficiente (e bello, verrebbe da dire) da governance private, strumenti finanziari sofisticati e sistema fiscale favorevole – e un welfare di serie B, marginalizzato, finanziato e governato dal pubblico secondo logiche residuali e clientelari.

Ciò detto – è bene ribadirlo in conclusione – non si vuole affermare la negatività della finanza sociale, e neanche delle innovazioni introdotte con la finanza di impatto sociale. Le evoluzioni tecnologiche e l’ampliamento degli spazi di azione del Terzo settore – nel nostro Paese, come altrove – richiedono, e richiederanno sempre più, è bene ribadirlo, impegni finanziari rilevanti, rispetto ai quali le modalità tradizionali con cui si sono finanziati progetti e attività del Terzo settore sono insufficienti; inoltre va valutato positivamente il fatto che ambienti finanziari importanti si siano, per così dire, aperti al mondo delle attività sociali, culturali e di tutela dell’ambiente in modo nuovo rispetto al passato: da un’attenzione, quando presente, limitata alle donazioni in un’ottica di vecchia filantropia si è passati ad una prospettiva nuova nella quale insieme alla finanza si mettono a disposizione know-how ed esperienze utili così da accrescere efficienza ed efficacia in settori che hanno bisogno di migliorare sotto il profilo sia dell’una che dell’altra.

I caveat che sono stati introdotti in questo scritto, sinteticamente e in modo del tutto insufficiente, mi rendo conto, sono ispirati dalla convinzione che il mercato degli strumenti finanziari è un mercato sui generis che richiede, per il suo corretto funzionamento, un ruolo attivo del regolatore pubblico e, in questo caso, delle stesse comunità: esso rischia sempre – e il mondo ne ha fatto esperienza proprio negli anni finali dello scorso decennio – di essere inquinato dall’interesse di operatori privati che prendono il sopravvento sull’interesse pubblico.

E se questo è vero in generale, lo è ancor più per il caso dei servizi di cura: occorre una finanza davvero “sociale” che contempli, anche in quei processi di innovazione utili e necessari che avvengono sotto la spinta di nuove tecnologie e di nuove idee, l’introduzione di vincoli, quanto meno in termini di rendimenti massimi consentiti, di intervento del capitale nella governance delle imprese, di regole di trasferimento dei titoli.

Non basta quindi evocare la finanza sociale: essa esisterà davvero se, e solo se, sarà regolata adeguatamente ed in modo coerente con obiettivi di generazione di utilità sociale.

Bibliografia

Borzaga C. (a cura di) (2018), Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente, Donzelli, Roma.

Crouch C.P. (2020), Combattere la postdemocrazia, Laterza, Roma.

Musella M., Jossa B. (2016), Macroeconomia. Modelli elementari, Giappichelli, Torino.

Samuelson P.A. (ed.) (1983), Economia, Zanichelli, Milano.

Sen A. (1998), On Ethics and Economics, Blackwell Publishing, Hoboken.

Stiglitz J.E. (2016), Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la diseguaglianza per tornare a crescere, Il Saggiatore, Milano.

Siti

Introducing the Impact Investment Benchmark

Rapporto Italiano della Social Impact Investment Task Force

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