La spinta alla disintermediazione provocata dall’onda populista in Europa sta colpendo non solo la democrazia politica ma anche il patto sociale che tradizionalmente la sorregge. È un intero meccanismo di rappresentanza dei bisogni collettivi ad essere in discussione, e con esso tutti i corpi sociali intermedi. Ciò interroga sull’impatto che il populismo sta avendo sul campo dell’autonomia sociale organizzata, inclusa l’impresa sociale.
La principale sfida che il populismo propone al Terzo settore, anche in Italia, è dunque forse quella di un ripensamento complessivo del suo rapporto con lo spazio politico, tradizionalmente complesso. Quali sono le ragioni di questo complesso rapporto? Esistono, guardando ad altri contesti europei, modelli differenti di relazione tra questi due mondi, e se sì a quali è possibile guardare per aprire, in Italia, una nuova stagione dei rapporti anche tra impresa sociale e politica?
L’articolo si propone di analizzare la questione sia sul lato della teoria politica, sia avanzando una proposta sul rapporto tra politica e privato sociale in Italia che, recuperando il grande potenziale insito nella tradizione del mutualismo e della reciprocità, punti ad un modello di cooperazione rafforzata tra i due mondi.
DOI: 10.7425/IS.2020.01.01
Per molte democrazie europee lo zeitgeist populista (Mudde, 2004) in fondo rappresenta null’altro che il colpo di coda una lunga crisi iniziata dopo il 1973: il definitivo eclissarsi di un modello che aveva garantito crescita, partecipazione e coesione sociale (Dahrendorf, 2001). Ed è la stessa agenda politica dei partiti far-right sui temi sociali ad evidenziare come il vero obiettivo del populismo non sia solo la democrazia in sé (Müller, 2017), ma anche il patto sociale che tradizionalmente lo sorregge (Gidron e Hall, 2017; Fenger, 2018).
Come si è notato, è ormai la stessa definizione di populismo a generare «confusione e frustrazione» (Mudde e Kaltwasser, 2017: 1), sebbene si possa di questo dare una definizione come di ideologia ‘sottile’ (Mudde, 2004: 543) la cui ambizione è restituire la sovranità dall’establishment al buon popolo - di cui retoricamente i populisti si definiscono rappresentanti pars pro-toto – rifiutando le basi moderne e rappresentative della democrazia (Müller, 2017). In questo senso, tutti i partiti contemporaneamente anti-establishment, etno-nazionalisti, anti-immigrazione e anti-austerità possono considerarsi populisti (Gidron e Hall, 2017: 61).
È ormai evidente come sia la natura rappresentativa del sistema – partecipativa, inclusiva, redistributiva – a costituire il vero obiettivo del populismo, che in questo senso rappresenta null’altro che il tornante di chiusura del lungo ciclo neoliberale (Harvey, 2005). Ciò che in effetti appare in discussione è un meccanismo di rappresentanza dei bisogni collettivi, a cui il messaggio populista oppone la propria retorica della ‘disintermediazione’ che individua in tutti i corpi intermedi, non solo quelli politici, la fonte di ogni malessere diffuso; un messaggio seducente, soprattutto per gli elettorati impauriti che affiorano dalla società dell’individualismo di massa (Van Dijck et al., 2018). Tutto questo inevitabilmente interroga, anche, sull’impatto che questa stagione sta avendo sul campo dell’autonomia sociale organizzata, inclusa l’impresa sociale.
In questo senso, il caso italiano è molto significativo. Da un lato, perché il paese ha indubbiamente rappresentato, negli ultimi decenni, un’avanguardia per molte delle innovazioni e/o patologie della politica: dalla personalizzazione, al populismo digitale, fino al sovranismo. Da un altro, perché l’Italia è tra i sistemi europei quello in cui la crisi dell’intermediazione politica si sta manifestando attraverso trasformazioni radicali del sistema politico e un collasso dei partiti tradizionali (Vassallo e Valbruzzi, 2018). Da ultimo, perché pur vantando il paese una originale e larga presenza del solidarismo organizzato (mutualismo, cooperazione, volontariato, impresa sociale), che proprio nell’ultimo trentennio ha molto contribuito a contenere gli effetti del welfare rentrenchement in una logica di sussidiarietà (Vittoria, 2014), questa realtà tuttavia stenta ancora ad esprimere un rapporto significativo con lo spazio rappresentativo anche per il basso livello di istituzionalizzazione delle relazioni tra agenzie di rappresentanza politica e sociale in Italia.
E tuttavia, oggi più che mai il tema per l’impresa sociale come per tutte le agenzie del privato sociale (AGPS) è quello del contributo che una rete e soprattutto una agenda sociale possono dare per contrastare la disintermediazione. Questa è forse la principale sfida politica che il populismo propone al Terzo settore anche in Italia, la quale forse richiede un ripensamento complessivo del suo rapporto con lo spazio politico. Un rapporto tradizionalmente difficile che potrebbe oggi trasformarsi, e malo bonum, da limite in un’opportunità, a condizione però che le storiche riserve privatistiche (del Terzo settore) e i consueti eccessi di egemonia (dei partiti) lascino spazio ad una logica di maggiore cooperazione.
Si tratta di una sfida prima di tutto politico-culturale[1], che solleva però alcuni interrogativi di tipo teorico, politologico in particolare. Quali sono oggi – e quali sono stati alle origini e poi nel vecchio schema fordista – le ragioni di questo complesso rapporto? Quanto vi hanno influito la cultura del pubblico e dell’autonomia nutrita dal privato sociale? E quanto, all’opposto, ha invece pesato il pregiudizio dei partiti sulla natura ‘prepolitica’ delle AGPS? Esistono, in altri contesti europei, modelli differenti di relazione tra questi due mondi, e se sì a quali è possibile guardare per aprire, in Italia, una nuova stagione dei rapporti anche tra impresa sociale e politica?
Il presente contributo si propone di analizzare la questione sia sul lato della teoria politica, sia avanzando una modesta proposta sul rapporto tra politica e privato sociale in Italia.
Nel secondo paragrafo vengono isolate e argomentate le principali dimensioni o ‘fratture’ culturali che hanno tradizionalmente concorso a definire gli attuali profili del rapporto tra le AGPS e i partiti. Il frame, che muove dalle teorie sull’istituzionalizzazione politica, prende in considerazione due diverse e opposte esperienze (Italia e Gran Bretagna) considerando l’influenza esercitata dalle variabili di contesto, quali la specifica cultura del pubblico, dell’autonomia e dell’interesse generale. Si tratta di due casi che non esauriscono le esperienze in tale senso, ma appaiono paradigmatici nel confronto. Nel terzo paragrafo, invece, si introduce una matrice dei rapporti tra AGPS e spazio della rappresentanza politica da cui emergono quattro diversi tipi di relazione, anche per potenziale supporto allo spazio rappresentativo (Rosanvallon, 2012).
Il paragrafo conclusivo, infine, contestualizza l’esperienza italiana nella transizione dalla stagione fordista a quella attuale. Alla fine del paragrafo, è introdotta una proposta di nuova relazione tra AGPS e politica basata sul confederalismo organizzativo e sul mutualismo politico. L’obiettivo è quello di raccogliere le sfide della disarticolazione (come crisi del tessuto prepolitico democratico) e della disintermediazione (come crisi di rappresentatività/legittimità del sistema democratico) immaginando una diversa declinazione dei principi di autonomia, privatismo sociale e interesse generale nei rapporti tra AGPS e spazio rappresentativo. Ed è proprio a questa sfida che la proposta della cooperazione e della coalizione sociale intende rispondere, raccogliendo, nel caso italiano, l’essenza di una larga e plurale cultura di auto-organizzazione, mutualismo e reciprocità forse mai valorizzata adeguatamente nello spazio rappresentativo.
Discutendo l’ipotesi di una teoria politica dell’impresa cooperativa, Stefano Zan notava come alcuni aspetti ne avessero tradizionalmente frenato l’emergere; tra questi, certamente, il «pregiudizio teleologico» nutrito dalla politica verso l’impresa cooperativa (Zan, 2014: 28-31), la quale data la sua natura associativa degli interessi particolari non sarebbe naturalmente portata ad agire, diversamente dai partiti, nell’area di rappresentanza dell’interesse generale.
Questo tipo di critica, seppur in forma diversa, può essere scalata anche nel rapporto tra agenzie del privato sociale (AGPS) e politica in Italia, perché innegabilmente incrocia due criticità che storicamente hanno inciso su questo rapporto. La prima, come ricorda Marco Revelli, è rappresentata dal pregiudizio che i soggetti della politica rappresentativa hanno spesso nutrito sul carattere prepolitico delle AGPS, del Terzo settore in generale[2]. La seconda nasce dalla forte spinta autonomistica e privatistico sociale che da sempre caratterizza tutti i ‘ceppi’ del solidarismo organizzato in Italia, e che ne ha influenzato sia la cultura del pubblico, sia quella della rappresentanza.
Entrambe questi aspetti trovano indubbiamente delle traiettorie di conferma nel lungo processo di modernizzazione che, dall’affermazione della politica di massa alla fine della stagione fordista, coinvolge il sistema politico italiano. Come per altre grandi nazioni industriali, il primo ‘stampo’ a questi rapporti viene infatti impresso dalla modernizzazione industriale (prima) e dallo sviluppo democratico (poi), tracciando quelle fratture (cleavages) nel sistema politico (Lipset e Rokkan, 1967; Rokkan, 1988) che ancora oggi possono in parte spiegare sia il modo in cui i partiti e le AGPS si relazionano tra loro, sia il modo in cui queste ultime – oggi anche l’impresa sociale – si collocano rispetto alla politica in generale.
E tuttavia, nei singoli sistemi nazionali l’istituzionalizzazione della politica di massa – si pensi ai rapporti Stato-mercato e Stato-società – produce un particolare tipo di relazione spiegabile solo alla luce delle specificità interne (Pasquino, 2003: 875). Le esperienze della Gran Bretagna e dell’Italia risultano, ad esempio, indicative di due paradigmi di relazione assai diversi. In entrambe i casi si può affermare che sia stato per prima la società organizzata – la cooperazione, il mutualismo – ad esprimere una prassi e una critica dell’industrializzazione e dei suoi effetti sociali, sperimentando quelle forme associative a cui i principali partiti sociali di massa avrebbero guardato per organizzare la propria presenza nella società e nelle istituzioni rappresentative. Ma il diverso tipo di sviluppo politico ha poi generato due differenti modelli di relazione tra solidarismo organizzato e politica rappresentativa, come anche una diversa cultura organizzativa interna (Panebianco, 1982).
In definitiva, sono tre i cleavages che hanno concorso a definire nel tempo, in entrambe i paesi, il profilo dei rapporti tra AGPS e sistema della politica: il tipo di relazione istituita da queste con lo Stato e le istituzioni, sia in senso attivo (cultura del pubblico) che passivo (cultura dell’autonomia); il posizionamento dell’AGPS rispetto al ciclo politico-rappresentativo che dà corpo all’interesse generale (cultura della rappresentanza).
Il modello britannico dei rapporti tra mondo cooperativo e politica rivela una sua singolarità, di certo in parte derivante da aspetti culturali propri della modernizzazione inglese, non ultimo la presenza di un’etica sociale intrisa di individualismo responsabile. Qui sia l’agenzia economica – le Trade Unions nate nel 1868 – sia una delle principali AGPS – la Cooperative Union nata nel 1881 – nascono prima del Labour, alla genesi del quale è anzi proprio il sindacato a concorrere, conservando fino ad oggi un rapporto col partito che gli consente di influenzarne la linea politica e la stessa rappresentanza. Secondo una logica simile, il movimento cooperativo inglese, che dal 1917 esprime anche un suo partito di orientamento progressista ‘non statalista’ (Co-op party), già dal 1927 collega la propria funzione di rappresentanza di interessi sociali diffusi federandosi elettoralmente, e in parte organizzativamente, con il Labour.
In sostanza, nel modello inglese si sviluppa subito un tipo di relazione tra partito e altre agenzie degli interessi sociali diffusi in cui, pur differenziandosi ruoli e funzioni svolte nel sistema politico dai differenti soggetti, il contributo dell’AGPS allo spazio della rappresentanza - e dunque al ciclo di formazione dell’interesse generale - è elemento garantito da un rapporto istituzionalizzato con il partito. Un tipo di relazione, quello tra Co-op e Labour, stabile ma non privo di criticità, prima fra tutte il pregiudizio diffuso nelle basi e nelle classi dirigenti laburiste riguardo la cultura ‘consumerista’ e non-statalista del movimento cooperativo (Manton, 2009: 757); per non dire, poi, che la vocazione all’impegno politico organizzato del movimento cooperativo è apparsa negli anni essa stessa sfaccettata e non granitica (Pollard, 1971), e per questo oggetto di molte critiche interne ed esterne (Adams, 1987; Pollard, 1987).
E tuttavia tali criticità meritano di essere considerate alla luce di una esperienza assai particolare come quella inglese, in cui è il pluralismo culturale di origine dei movimenti di base – si pensi solo al ruolo svolto dal Cartismo o dalla Società Fabiana – a spingere verso un modello federale di relazione tra tutte le agenzie che rappresentano, in un certo senso, gli interessi di un largo blocco della socialità; modello che responsabilizza, però, anche le AGPS nello spazio rappresentativo. Di questa cultura del confederalismo organizzativo lo stesso Labour, con la sua organizzazione indiretta, è ancora lo specchio, nonostante i tanti cambiamenti (Quinn, 2004; Russell, 2005). E sebbene per lungo tempo il movimento Co-op sia stato considerato la «cenerentola» del movimento progressista inglese (Wrigley, 2002: 103), questo modello di collegamento e partecipazione delle AGPS alla politica rappresentativa conserva, ancora oggi, alcuni aspetti di interesse – non ultimo il fatto che il Labour ‘ospita’, ad oggi, 26 parlamentari Co-op tra le sue file.
La path dependence svolge, anche nel caso italiano, un ruolo rilevante per comprendere gli attuali rapporti tra Terzo settore e sistema politico, ma in un senso molto differente.
Il primo elemento che merita certamente di essere rimarcato è la grande ricchezza culturale di origine che caratterizza il mondo del solidarismo organizzato in Italia, il quale, già dalla fase postunitaria, consolida un proprio ruolo nel sistema sociale. Un pluralismo in parte dovuto alle confinanti tradizioni francese e tedesca, ma principalmente espressione delle due importanti culture autogene del privato sociale: quella del mutualismo e dell’autogoverno espressa dal movimento dei lavoratori (Marucco, 1981; Manacorda, 1992) e quella che incrocia le comunità di base e la dottrina sociale della Chiesa nella cultura della sussidiarietà solidaristico-cristiana (Candeloro, 1972).
Sono primariamente queste due realtà a istituzionalizzare, pur tra mille incroci e differenze, spazi e modalità di relazione del solidarismo organizzato con la politica durante la modernizzazione del sistema politico italiano. Due realtà importanti e feconde, che esprimono tuttavia fin dal principio un rapporto difficile con la politica rappresentativa - e poi con i partiti sociali di massa - in ragione di un senso dell’autonomia e di un forte privatismo sociale di cui sono, al fondo, entrambe portatrici.
E dunque, sono prima di tutto queste spinte a frenare, a differenza che nel caso inglese, la formazione di un rapporto stabile delle AGPS con lo spazio rappresentativo, anche se va però ricordato che è anche il modo in cui il sistema liberale prova da subito a pubblicizzare e ‘controllare’ sia il mondo del lavoro sia il cattolicesimo sociale a non favorirla. Nel primo caso, è il mondo della cooperazione e del mutualismo tra lavoratori ad opporre da subito resistenza ai progetti di pubblicizzazione avanzati dai governi liberali (Bonfante et al., 1981), ritenuti un «terreno privilegiato della borghesia, nel tentativo di riaffermare la propria egemonia sulla società italiana» (Degl’Innocenti, 1981: 5). Tutti i tentativi di riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso, dal progetto del 1877 fino alla legge dell’aprile 1886, trovano infatti una netta opposizione al «principio dell’autorizzazione, della tutela e del controllo governativo» (Manacorda, 1992: 95). Una resistenza al controllo statale e alla pubblicizzazione che si riversa, alla fine del XIX secolo, contro il paternalismo e l’autoritarismo crispino, incrociando la parallela riluttanza del mondo cattolico verso l’approvazione della legge del luglio 1890 che pubblicizza le Opere Pie creando le IPAB - e che poi costituirà il perno della normazione sul privato sociale sostanzialmente fino al 2000.
L’eterogeneità di voci da subito manifestata dal cattolicesimo sociale è, se possibile, ancora maggiore di quella presente nel movimento dei lavoratori. Volendo semplificare, da un lato c’è la cultura del privatismo sociale organizzato dell’area nordorientale, dall’altro l’intransigenza della nascente chiesa di base e della cooperazione operaia. Entrambe spingeranno la Chiesa a tentare di codificare e controllare le pulsioni all’impegno sociale organizzato dei cattolici, la cui «stabile presenza nella società italiana» (Degl’Innocenti, 1981: 37) sta spingendosi fino alla partecipazione attiva alla vita politica – il caso della scomunica di Murri, poi eletto con la Lega democratica nel 1909, è in questo senso esemplare. La preoccupazione della Chiesa è di fornire una dottrina stabile all’azione sociale organizzata dei cattolici, facendo perno sulla tradizione corporativista, privatista e autonomista: il punto di caduta più significativo sarà l’approvazione nel 1931, cioè in pieno regime, della Quadragesimo Anno, sia in funzione antiautoritaria che antistatale (Vittoria, 2014).
In ogni modo, è proprio in ragione di questa ricca e complessa tradizione del solidarismo organizzato italiano come della sua marcata cultura autonomistica e privatistica che il rapporto delle AGPS con la politica rappresentativa fatica ad istituzionalizzarsi. È un rapporto dal principio complesso, sfibrato (Sacchetto e Semenzin, 2014) e di mutua diffidenza, cui contribuisce, dal lato dei partiti, la riserva che questi nutrono sulla vocazione prepolitica delle AGPS.
Il caso italiano e quello inglese non esauriscono, tuttavia, le possibili tipologie di relazione tra AGPS e spazio della rappresentanza. Partendo da questi primi spunti si può infatti sviluppare una matrice più esaustiva di questi rapporti, la quale tenga debitamente conto dei tre principali cleavages attorno a cui si sono sviluppati, ovvero la cultura del pubblico, dell’autonomia e della rappresentanza.
Figura 1. Matrice dei rapporti tra agenzie del privato sociale e partito.
- Grado di coordinamento organizzativo + |
||
Cooperazione Politica/ Coalizione sociale |
Confederalismo politico-rappresentativo |
- Grado di affinità ideologica + |
Separatismo |
Cooperazione pragmatica |
Dalla matrice (Figura 1) emergono quattro modelli di relazione possibile tra AGPS e partito, che combinano un diverso grado di affinità ideologica e di coordinamento organizzativo. L’asse orizzontale descrive l’esistenza o meno, nell’istituzionalizzarsi di questo rapporto, di forme di cooperazione organizzativa tra i due soggetti, misurando soprattutto per l’AGPS il grado di difesa del principio di autonomia. Sull’asse verticale, invece, il rapporto tra i due soggetti si dispone in ragione del livello di affinità/integrazione ideologica (di cultura politica e agenda sociale), in questo caso misurando il grado di difesa del privatismo sociale da parte dell’AGPS, o, all’opposto, la sua propensione a declinare l’agire sociale come agire politico (nell’interesse generale).
I modelli di relazione esprimono quindi differenti tipi di partecipazione dell’AGPS allo spazio politico-rappresentativo, per impegno organizzativo, per coordinamento politico con il partito, per intensità di partecipazione alla formazione dell’interesse generale. Sull’asse orizzontale l’AGPS può posizionarsi da una difesa massima dell’autonomia interna e organizzativa fino a soluzioni di federalizzazione organizzativa col partito, sull’altro può invece andare da una massima preservazione dell’agire come privatismo sociale fino, invece, a istituzionalizzare una cooperazione politica col partito che si spinga anche alla coalizione politico-sociale.
Figura 2. Tipi di relazione tra agenzia del privato sociale (AGPS)-partito per integrazione nello spazio rappresentativo.
Autonomia politica |
Autonomia organizzativa |
Condivisione agenda / piattaforma |
Integrazione rappresentativa |
Rischio |
Ruolo dell’AGPS |
|
Confederalismo |
Bassa |
Media |
Medio-alta |
Alta |
Collateralismo |
Agenzia politico-sociale |
Coalizione sociale |
Media |
Bassa |
Alta |
Media |
Politicizzazione |
|
Cooperazione pragmatica |
Media |
Alta |
Bassa |
Bassa |
Elettorale |
Stakeholder elettorale |
Separatismo |
Molto alta |
Molto alta |
Nulla |
Nulla |
Nullo |
Nessuno |
Delle quattro tipologie di relazione restituite dalla matrice, le prime tre – confederalismo, coalizione e cooperazione pragmatica – prevedono una qualche forma di incidenza dell’AGPS sul campo della politica e delle politiche pubbliche (Figura 2).
La cooperazione pragmatica si traduce nei fatti in forme di vicendevole collaborazione estemporanea tra AGPS e partito, di solito nel ciclo elettorale. Attraverso tale collaborazione la prima valorizza il proprio capitale di stakeholder per vedersi riconosciute misure d’interesse nell’agenda di policy o, al limite, per ottenere la cooptazione di singoli rappresentanti; il partito, invece, cerca di ottenere l’endorsement di un segmento di rappresentanza del solidarismo organizzato in chiave elettorale. Si tratta di un tipo di relazione che preserva alti livelli di autonomia politica, organizzativa e culturale per l’AGPS, e presenta solo un rischio calcolato di sconfitta elettorale: più che ‘fare politica’, in questo caso si collabora con la politica nella prospettiva di rafforzare interessi e valori espressi da un limitato segmento dell’universo del privato sociale.
Scartando la relazione basata sul separatismo, sostanzialmente ininfluente, i due tipi di relazione tra AGPS e partito che prevedono una più stabile incidenza della prima o sul lato dell’agenda politico-sociale o anche sul lato dell’organizzazione della politica rappresentativa sono, rispettivamente, quella basata sulla cooperazione/coalizione politico-sociale e quella fondata sul confederalismo organizzativo.
Nel primo caso, mentre è misurato il livello di integrazione organizzativa tra i due soggetti però è forte la sinergia politico-culturale, che può andare dalla partecipazione condivisa all’agenda di policy fino alla costruzione dal basso di una coalizione politico-sociale. L’integrazione nello spazio strettamente rappresentativo può essere limitata o solo negoziale, ma dal punto di vista del contributo all’agenda di politics e di policy questo tipo di relazione coinvolge stabilmente l’AGPS. Il rischio elettorale è certamente presente, ma in una logica di autonomia organizzativa ma non politica, perché l’AGPS condivide espressamente con il partito l’idea di contribuire a, o co-formare, una piattaforma sugli interessi generali che esprima determinati obiettivi e valori. Più che negoziare elettoralmente, come nel caso della cooperazione pragmatica, un accesso al mercato sociale (almeno non esplicitamente) o alla rappresentanza, attraverso la cooperazione politica l’AGPS aspira a che l’agenda del partito, soprattutto quella sociale, diventi l’agenda di governo, perché si riconosce in questa e ha contribuito a costruirla.
Per l’AGPS, il vero rischio di una relazione basata sulla cooperazione o sulla coalizione politica è nella politicizzazione. E tuttavia il punto di fondo su cui interrogarsi, soprattutto in tempi di populismo, è quanto ‘sociale’ e ‘politico’ possano effettivamente essere tenuti distinti nell’azione del solidarismo organizzato, soprattutto se la prospettiva è quella della difesa della democrazia come campo anche sociale. Per questi motivi tale rischio, peraltro contenuto in un tipo di relazione basata su una cooperazione politica moderata, è da valutarsi alla luce del ruolo che l’AGPS intende rivestire nel rafforzamento della sfera sociale democratica.
Se si prende, poi, in considerazione il tipo di relazione basata sulla coalizione politico-sociale, non può non notarsi come questa ricalchi l’approccio che in fondo caratterizzava alle origini il rapporto tra i due mondi, anche in Italia. In questo ultimo caso, la molla della relazione è il riconoscimento da parte dell’AGPS di contribuire a costruire la polis attraverso la propria azione sociale strutturata, e che quindi l’agenda sociale perseguita con fatica vada completata attraverso la politica rappresentativa. La costruzione di una coalizione politico-sociale può però non trovare terminali rappresentativi, o perché la coalizione sociale non ha ancora gemmato il partito – come alla fine dell’Ottocento – o perché non esistono partiti adeguatamente aperti e agibili nonché coerenti con l’agenda sociale, che vanno dunque ricostruiti dal basso: è il caso della coalizione sociale nata attorno a Syriza in Grecia dopo la crisi del 2007 (Spourdalakis, 2013: 109-110).
In ultimo, c’è il tipo di rapporto basato sul confederalismo politico-rappresentativo, esemplificato dal caso di Labour e Co-op in Gran Bretagna. Sebbene si tratti, come detto, di un caso assai singolare come singolare è il tipo di agenzia sociale in questione, di questo caso sono interessanti la spinta sul coordinamento organizzativo e l’idea di partecipazione indiretta interna dell’AGPS alla rappresentanza istituzionale. La capacità di incidere sul programma, sull’agenda politica e la sua attuazione è alta. Il rischio per l’AGPS è rappresentato dal collateralismo politico, e dunque è che «i soggetti del Terzo Settore [siano] cooptati nei processi decisionali e nei meccanismi della governance, perdendo capacità di rottura politica e di innovazione, e finendo per preoccuparsi soprattutto della costruzione di un buon capitale politico» (Busso e Gargiulo, 2017: 138). E tuttavia tale rischio, ovviamente, dipende da come viene a istituzionalizzarsi in particolare il rapporto di federazione sociale tra AGPS e partito.
La matrice analitica delle relazioni tra AGPS e partito parte dalle criticità passate per considerare le prospettive future. Quali potenzialità di collaborazione esistono, se l’obiettivo è contrastare quella retorica della disintermediazione attraverso cui, oggi, i soggetti populisti o sovranisti aggrediscono il tessuto democratico (Müller, 2017)? E quali, in particolare, guardando al rapporto tra impresa sociale e politica nel caso italiano?
Quanto già detto sulla origine dei rapporti tra universo del solidarismo organizzato e politica in Italia aiuta a comprendere il dato generale di un deficit di strutturazione di questo rapporto nello spazio rappresentativo, anche durante la golden age del fordismo, del big government e della democrazia dei partiti, in cui si è vissuta una oscillazione tra momenti di cooperazione pragmatica e momenti di cooperazione politica a bassa intensità. Questo al netto dell’esperienza più intensa collaborazione tra alcune realtà del cattolicesimo sociale con l’allora Democrazia cristiana o della cooperazione e del mutualismo con le sinistre, in particolare col Partito Comunista, la quale tuttavia si iscriveva in un paradigma politico novecentesco il cui tramonto ha poi, di fatto, spinto o costretto il Terzo settore a dirigere il proprio sforzo ‘rappresentativo’ unicamente sul lato dei rapporti istituzionali.
Con la crisi del fordismo si apre quella che è in un certo senso un’opportunità per il mondo del solidarismo organizzato, chiamato a riempire il vuoto lasciato dalla crisi fiscale del Welfare attraverso le strade che via via porteranno al welfare mix, alle soluzioni di comunità, e fino alla realtà del Secondo Welfare (Ferrera, 1998; Paci, 2008; Pavolini, 2009; Musella e Santoro, 2012; Maino e Razetti, 2019). Ma il ciclo neoliberista che si apre nell’ultimo quarto del secolo scorso finisce per destrutturare un modello politico ma anche sociale (Harvey 2005), perché la globalizzazione neoliberale esprime «non solo tendenze economiche, ma anche un particolare progetto ideologico normativo» e viene «utilizzata per giustificare soprattutto sostanziali cambiamenti di politica interna, soprattutto per quanto riguarda la spesa pubblica [e] l’assistenza» (Gamble, 2002: 52).
Di questo processo di retrenchment del sociale sono protagoniste due spinte antipolitiche speculari: quella dall’alto, la tecnocrazia, che ha gioco facile per tutti gli anni Novanta nell’imporre la governance della competenza e la tirannia degli esperti (Easterly, 2015), almeno fino a quando lo scoppio della crisi dei subprime lascia spazio alla seconda spinta proveniente dal basso, il populismo, in cui a mescolarsi sono pulsioni anti-establishment, demagogia, antimmigrazione, protezionismo e neonazionalismo identitario: siamo alla Brexit e a Trump (Inglehart e Norris, 2016).
Al forte protagonismo welfarista del Terzo settore durante tutta il ciclo neoliberale non corrisponde tuttavia, soprattutto in Italia, un cambiamento significativo dei rapporti con lo spazio politico (Busso e Gargiulo, 2016; Busso, 2017), confermando ancora una volta l’assenza nel sistema italiano di meccanismi anche solo incrementali di stabile coinvolgimento delle AGPS nel ciclo di formazione dell’interesse generale. Se la crisi nel campo dei soggetti partitici è ampia e di paradigma, il nuovo protagonismo dei soggetti del solidarismo organizzato anche nuovi – come l’impresa sociale o le realtà impegnate per i diritti e la legalità - non fa cadere, di fondo, le tradizionali pregiudiziali che il Terzo settore nutre nei confronti della politica rappresentativa, peraltro ormai indebolita e poco ‘socialmente’ rappresentativa.
Il tornante neoliberale, e poi il punto di caduta populista, propongono quindi al mondo del solidarismo organizzato italiano una sfida più larga, in cui il tema della disarticolazione sociale e quello della disintermediazione politica sono legati a filo doppio. Una sfida rispetto alla quale non appare sufficiente elaborare una nuova sociologia del Terzo settore (Donati, 1996: 106), se questa si limita ad una ridefinizione del modo in cui questo mondo mobilita risorse collettive per fini solo interni o particolari. Il tema non può essere più solo quella dell’amministrazione condivisa delle politiche sociali per compensare le diseguaglianze, ma diventa il ruolo possibile rispetto alla disintermediazione, perché è la crisi di legittimità dei sistemi democratici ad assumere un valore centrale per la stessa difesa del modello ‘sociale’ cui i soggetti del privato sociale contribuiscono.
La sfida per le AGPS è, in definitiva, quella di un nuovo supporto rappresentativo alla democrazia (Rosanvallon, 2012). Con un modello sociale privo dei meccanismi di intermediazione politica partecipata, è principalmente la società organizzata attorno al solidarismo ad essere chiamata in soccorso della politica tout court. Una sfida che si gioca sulle innovazioni praticabili nei rapporti tra AGPS – non ultima l’impresa sociale – e partiti per recuperare il deficit di politica rappresentativa. Guardando al caso italiano, il punto di partenza può essere solo in una discontinuità verso l’alto nei rapporti tra AGPS e soggetti della rappresentanza politica, in un più forte coinvolgimento delle prime nello spazio politico di articolazione degli interessi generali.
Richiamando la matrice delle relazioni possibili tra AGPS e partito (Figura 1), solo due di queste, come detto, consentono l’istituzionalizzazione di un contributo delle AGPS allo spazio politico-rappresentativo, ma mentre l’ipotesi di tipo ‘inglese’ risulta piuttosto distante dalla realtà italiana, la strada della cooperazione o anche della coalizione politico-sociale appare più percorribile. In primo luogo, perché una modalità di relazione tra i due mondi di questo tipo non è affatto estranea alla matrice italiana del mutualismo e della reciprocità. In secondo luogo - e più fortemente - perché potrebbe, da un lato, provocare una sana innovazione nello spazio rappresentativo in forte crisi di idee e identità, e consentire, dall’altro, a molte realtà del solidarismo organizzato di contribuire alla costruzione dal basso di un campo largo e pluralista, di una coalizione politico-sociale che si organizzi attorno ai valori del solidarismo e della reciprocità.
Il vero nodo da sciogliere non è il bisogno dei partiti di un tale stimolo di innovazione culturale, d’agenda, di progettazione, anche di rappresentanza: appare scontato. Il punto è piuttosto quanto l’universo costituito dalle AGPS, non ultima l’impresa sociale, sia disposto a favorire, promuovere e sostenere strutturalmente un processo di questo tipo. Dello spettro di sensibilità culturali attraverso cui è descrivibile l’odierno Terzo settore, una parte si mostrerebbe probabilmente contraria a un processo del genere. Inoltre, non tutti gli attuali enti del terzo settore si presterebbero per tipologia istituzionale e specifica missione allo stesso modo a contribuire ad una logica di coalizione sociale; e paradossalmente, dato il tipo di penetrazione sociale, forse più l’impresa sociale che il volontariato in sé. Certamente, un tipo di relazione tra i due mondi che abbia all’orizzonte l’ipotesi della coalizione sociale implicherebbe la costruzione di spazi-ponte intermedi – non forse la parte sociale riconosciuta, ovvero il Forum – che ne favoriscano il percorso.
A parte, tuttavia, le inevitabili criticità, la strada di una cooperazione politica rafforzata e strutturata non solo appare l’unica praticabile se la prospettiva è quella di ridare centralità a tutti i corpi intermedi ascendenti, ma riconoscere un ruolo e una agibilità dialettica strutturata alle AGPS nello spazio politico-rappresentativo significherebbe riconoscerne anche la natura spesso collettiva degli interessi articolati. Si tratterebbe, inoltre, di una risposta di ri-intermediazione, attraverso un nuovo spazio trasversale, fecondato dalla pratica sociopolitica del mutualismo e dalla partecipazione di base. Una risposta che recupera il mutualismo come categoria politico-culturale, e promuove la coalizione sociale come forma di sinergia organizzativa tra i mondi sociali e gli spazi politici impegnati nel solidarismo, nella protezione dei diritti e della coesione sociale.
Si tratta però solo di una suggestione, o forse solo di un invito a discutere. Per lo studioso, di uno stimolo ad aprire nuovi scenari di ricerca sui rapporti tra questi due ‘mondi’.
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