Per tratteggiare “a tutto tondo” la figura di Carlo Borzaga è necessario guardare non solo alla sua ricca produzione scientifica. Produzione che, considerando i formati oltre che i contenuti, si caratterizza per un’importante presenza di curatele e di rapporti, a testimoniare una propensione all’esplorazione collettiva che elabora conoscenza “in corso d’opera”, guardando cioè ai fenomeni come a un farsi e non come oggetti ipostatizzati. Oltre a questo aspetto caratterizzante, è possibile tratteggiare un profilo ulteriore di Borzaga che è complementare, ma al tempo stesso fortemente intrecciato a quello del ricercatore e che è quello del divulgatore o del disseminatore. Il trasferimento di una conoscenza costruita per essere immediatamente attivabile nei processi di sviluppo – dalla definizione di prodotti, servizi, ambiti di attività, fino ad assetti organizzativi e di governance – fa emergere ulteriori profili: formatore, consulente e, aspetto da non sottovalutare, imprenditore sociale e dirigente di rete, portando quindi alle “estreme conseguenze” l’attività di ricerca. Quasi un cerchio che si chiude in un circuito virtuoso di feedback reciproco tra produzione e disseminazione e che per certi versi sfida le impostazioni segmentate al limite della polverizzazione delle discipline scientifiche attuali. Ma sfida anche l’ingegneria del “trasferimento tecnologico” della conoscenza che spesso perde lungo il percorso non solo elementi nozionistici e di apprendimento “non spendibili”, ma anche quell’attributo di bene comune fruibile e riproducibile da una pluralità di soggetti, non solo dagli addetti ai lavori.
Guardare quindi all’opera di Borzaga in senso ampio è per certi versi un percorso obbligato se si vuole cogliere appieno la rilevanza del suo apporto che è, letteralmente, omnicomprensivo. E questo rappresenta forse il suo più importante elemento di lascito, di eredità per ricercatori ma anche per practitioner il cui “impatto” consiste non solo nella “qualità certificata” della loro produzione (paper, libri, report, ecc.) ma anche nel saper trasferire per generare apprendimento ad ampio raggio. Questa prospettiva la si può considerare come un destino per certi versi ineluttabile considerate le tematiche di cui si è occupato Borzaga. Contribuire a fondare un “terzo sistema” fondato su nuove istituzioni a base comunitaria in grado di sfidare il duopolio stato e mercato con l’intento non solo di riequilibrarne le storture ma di trasformare i sistemi sociali richiede, per definizione, di assumere una postura che ibrida il ricercatore e l’uomo di scienza con il policy maker, l’attivista, l’imprenditore.
Questo sguardo onnicomprensivo rispetto al ruolo e al contributo di Borzaga può essere utile anche per svelare un ulteriore aspetto che, di nuovo, considerato il suo campo di ricerca e di azione, appare particolarmente rilevante. Si tratta del sistema di valori, credenze e culture che sostanziava, in stretta relazione con le evidenze del fare ricerca, la sua “visione del mondo”. Tutto questo non tanto per una necessità un po' pruriginosa di mostrare cosa viene tenuto a bada (quasi represso) dal rigore del metodo scientifico, ma soprattutto per comprendere appieno le sue scelte in termini di individuazione e analisi degli oggetti di ricerca e tutto ciò che ne consegue a livello di organizzazione dell’attività di indagine e di sua divulgazione come parte di un continuum. Borzaga è stato infatti fondatore di enti di ricerca (Euricse, ma non solo) e animatore di reti e comunità di pratica (Iris Network, Emes e altre) caratterizzate dal possesso di conoscenze specialistiche e di sostrati politico culturali comuni. Senza tutto questo è davvero difficile cogliere l’intento di cambiamento in senso paradigmatico che ha connotato la sua attività. Un apporto importante per una rivoluzione, quella avviata intorno al terzo sistema della società, che è stata condotta in ambito scientifico ma che si è realizzata, quasi materializzata, anche sul terreno, ovvero in quella porzione di società che la sua ricerca ha contribuito a definire, approfondire e popolare di soggetti, progettualità, politiche, sistemi di regolazione.
Borzaga ha attraversato, per un lungo tratto, il ciclo di vita di un nuovo aggregato istituzionale contribuendo ad animarne (e gestirne) le dinamiche di formazione e di progressiva strutturazione, secondo una logica non oppositiva (movimento vs istituzione) ma costantemente rigenerativa (secondo il motto latino del vitam instituere). Un percorso che non poteva essere intrapreso solo grazie alle competenze e agli strumenti hard della tecnica (in primis, del metodo scientifico ma anche della gestione d’impresa, della formazione, della consulenza, ecc.). Uguale rilevanza hanno assunto nella sua carriera quegli elementi di natura motivazionale e di passione (che non a caso hanno costituito uno degli oggetti più importanti del suo indagare) senza i quali nessuna trasformazione reale, cioè profonda e duratura, è possibile.
Il percorso di Carlo però non è concluso, e non solo perché, purtroppo, ci ha lasciato prematuramente, ma perché per come è stato concepito, impostato e vissuto (verrebbe da dire incarnato) richiede uno sforzo continuo di ri-produzione. Un percorso che a sua volta, richiama in tutti noi, non solo un aggiornamento continuo delle capacità tecniche e delle life skills – “sei curioso” è il complimento più bello che ho ricevuto da lui – ma anche una certa plasticità nell’assumere, e soprattutto nel ben esercitare, ruoli diversi mantenendo comunque il proprio modus operandi, senza il quale si rischia lo smarrimento del senso del proprio agire (inteso sia come significato che come direzione).
È quindi importante riconoscere lo stile di Carlo Borzaga anche in policy brief, manifesti, documenti di assistenza tecnica, nella formazione e consulenza a supporto di processi istituenti in particolare se si trattava di reti inter-organizzative e, non da ultimo, nella gestione organizzativa. Con quest’ultima che si potrebbe considerare come una forma estrema di “falsificazione” del suo contributo principale, cioè la conoscenza scientifica. A tal proposito si possono individuare, a mio avviso, tre elementi portanti.
Il primo è quello della mappatura, cioè della propensione, quasi della necessità, di esplorare un campo rispetto al quale, poi, tracciarne perimetri formali e riconoscerne le peculiarità. Borzaga è stato soprattutto un plasmatore e adattatore di modelli teorici e interpretativi dentro i quali non era difficile scorgere chiari riferimenti empirici, soprattutto se si trattava di coglierli nella loro morfogenesi. È questo approccio che credo abbia consentito di individuare le peculiarità del modello di servizio dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate; oppure la possibilità – e l’efficacia – di dar vita ad assetti di governo dell’impresa sociale partecipati da una pluralità di portatori d’interesse; o ancora – e non certo per ultimo – di aver contribuito a definire l’impresa sociale in particolare a livello europeo e internazionale, dove si trattava di catturare e fare sintesi di una ricca varietà di esperienze (e di culture di riferimento). In tutti, e probabilmente altri, casi Borzaga ha saputo trasferire modelli teorico interpretativi variegati e piuttosto consolidati – dagli approcci di welfare basati sull’empowerment, alla modellistica sugli stakeholder, fino agli impianti della governance cooperativa – ponendoli a fianco di fenomenologie sociali “ancora calde” perché in fase nascente e soprattutto perché osservate / vissute da vicino e che quindi consentivano di gestire il complesso equilibrio tra adattamento rispetto alle peculiarità e strutturazione all’interno di percorsi istituenti.
Il secondo elemento di stile è quello della scenaristica, cioè del saper collocare soggettività specifiche indagate e accompagnate all’interno di sistemi più ampi. È il caso del ruolo del terzo settore – e dell’impresa sociale in particolare – all’interno di più vasti e articolati assetti di welfare, in particolare su scala locale e all’interno di filiere come quelle del welfare assistenziale e educativo e le politiche attive del lavoro. Utilizzare questa forma d’inquadramento rappresentava, di nuovo, un approccio di analisi ma anche di messa in pratica. Borzaga, da questo punto di vista, non procedeva per visioni generali (che anzi forse non apprezzava) ma seguendo piuttosto un approccio costruttivista e in senso lato funzionalista. In sintesi, approcciava la dimensione sistemica in chiave di complicazione più che di complessità, guardando quindi all’insieme, ma a partire dal riconoscimento delle funzionalità dei meccanismi di articolazione interna. Un modus operandi tipico di un certo modo di studiare e soprattutto fare il lavoro di rete e sviluppo locale che ha svolto un ruolo rilevante nel leggere e accompagnare l’evoluzione del paese, guardando anche alle dinamiche economiche e non solo “sociali”. Per questo credo che Borzaga possa essere collocato non solo nel pantheon degli studiosi di terzo settore e d’imprenditoria sociale, ma anche in quello, forse addirittura più prestigioso, dei ricercatori che hanno fatto del “principio territoriale” e delle sue “economie fondamentali” il loro progetto di lavoro (e spesso anche di vita).
Il terzo elemento distintivo consisteva nell’approccio di governo, inteso non solo come modellistica e ingegneria degli assetti ma, di nuovo, come base valoriale e culturale del suo operato. Borzaga, in tal senso, propendeva decisamente per soluzioni istituzionali e partecipate rifuggendo certamente modelli top down e asimmetrici tipiche dello stato (centralizzato) e del mercato (neoliberista), ma anche, al contrario, forme emergenti in qualche modo “autoregolanti” ai confini dell’informalità. La governance costituiva per lui quella infrastruttura che, in essenza, contribuisce a definire il carattere di “terzietà” degli enti che, nel suo caso, sono quelli non profit e d’impresa sociale. E su questa capacità d’infrastrutturazione accessibile a svariate persone e collettività si giocava il carattere originale e distintivo della loro identità e proposta di valore. Non puntando quindi su particolari settori di attività, almeno non come criterio dominante, e neanche su specifiche caratteristiche dei loro processi di funzionamento interno (ad esempio più o meno orientati ad approcci di co-produzione) e forse neppure su particolari ideologie e culture di riferimento (se non in senso alternativo a stato e mercato). L’essenza dell’essere e del perseguire “l’interesse generale” consisteva nel costruire e gestire assetti governance in senso formale in grado di attivare e sostenere capacità d’interazione rispetto alla gestione del potere da parte di una pluralità di soggetti, anche e in particolare con una qualche fragilità (economica, informativa, relazionale, biopsichica). In estrema sintesi è nel contributo alla definizione del carattere inclusivo della governance che si può riconoscere sia l’essenza del terzo sistema e in particolare della sua componente imprenditoriale – “l’impresa sociale alla fine è un assetto di governance” mi disse al termine di una discussione – sia il principale apporto intellettuale di Borzaga.
Un impianto così poderoso in termini di capacità elaborativa e di impegno gestionale – mappare campi nuovi del sapere e dell’agire collettivo; approcciare progetti, attività e iniziative all’interno di scenari più ampi e fortemente interconnessi; costruire e gestire sistemi formali di governo “tagliati su misura” – era giustificato da una missione che si potrebbe definire di world making. Un orientamento a costruire mondi che nei suoi intenti trasformativi voleva rilanciare verso una frontiera inedita, un po’ rigenerando e molto innovando, i processi di institution building, soprattutto all’interno di società “mature” come quella italiana e, a più ampio raggio, europee.
In questo processo – che peraltro appare non così straordinario ma intimamente legato alla natura umana – l’artista Ian Cheng nel suo saggio “Fare mondi” individua diverse “maschere” che si collocano tra l’archetipo introspettivo e il ruolo da mettere in atto, tra le quali ne spicca una che è la più originale e, al tempo stesso, quella che esercita una funzione cruciale. Si tratta dell’“emissario” che, secondo Cheng, contribuisce a “mondificare” non solo definendo perimetri, architetture e funzionamenti interni ma anche stabilizzare e rendere autonoma la sua creazione in modo che possa funzionare a partire da proprie basi e meccanismi, altrimenti non potrà mai essere un vero e proprio nuovo mondo sostenibile e generativo.
Se applichiamo questa maschera a Borzaga – cosa che non sono sicuro apprezzerebbe – quale emissario è stato per il nuovo mondo rappresentato dal terzo sistema della società che ha contribuito a fondare e gestire? Rispondere naturalmente non è facile anche perché a prevalere in questo caso sono quegli elementi di motivazione, passione e desiderio difficilmente inquadrabili dentro schemi di valutazione ma che d’altro canto certamente connotavano la figura di Carlo e di molte persone che hanno avuto modo di collaborare con lui. Forse è proprio questo groviglio che ha reso inevitabilmente complessa – cioè anche controversa e conflittuale – questa fase del “lasciar andare” tipica dell’emissario. Soprattutto quando nel nuovo mondo ancora in fase di costruzione e di primo avvio sono apparsi, sempre più evidenti, rilevanti fattori di origine esogena che in qualche modo sollecitavano i fattori interni dello sviluppo che con tanto impegno erano stati forgiati a partire dallo studio e dal supporto delle prime esperienze pioniere. Questi intenti di natura protettiva verso i rischi di colonizzazione e isomorfismo erano fin da subito stati evidenziati verso soggetti e contesti prossimi come la Pubblica Amministrazione rispetto a missione e attività di interesse generale. Poi però si sono progressivamente trasformati – a mio avviso – in elementi di irrigidimento e di contrapposizione rispetto a driver esterni come nel caso della finanza a impatto o più in generale verso l’innovazione mainstream. Per questo non sono sicuro che il nuovo mondo a cui tanto ha lavorato piacesse fino in fondo a Carlo, anzi credo che soprattutto negli ultimi anni abbia sofferto per alcune sue evoluzioni (o derive nella sua ottica), rispetto alle quali non ha naturalmente smesso di battagliare. Da qui probabilmente la scelta di tornare a indagare elementi costitutivi e originari, come l’amministrazione condivisa tra terzo settore e soggetti pubblici quasi in contrapposizione allo scivolamento “mercatista” dell’imprenditoria sociale, ponendosi così come intellettuale d’ambito rispetto ad alcune parti, e non all’insieme, del settore. Una scelta pienamente coerente rispetto al suo modo d’essere e di agire.
In ogni caso quel mondo c’è ed è, pur con tutte le sue contraddizioni, autonomo anche perché in grado di agire sui sempre più numerosi e consistenti fattori di sviluppo esterni che lo intercettano e che il terzo sistema stesso vuole intercettare. E, tutto questo, grazie anche al rigoroso e appassionato contributo di Carlo Borzaga.
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