L’autore ringrazia Ottorino Chillemi, Ermanno Tortia e la redazione di Impresa Sociale per gli utili suggerimenti dati durante la stesura del testo.
Una semplice simulazione che propongo in aula ai miei studenti assume che la produzione di un badile richieda un manico e una lama (poi assemblabili senza sforzo) e che ciascuno di questi due componenti sia frutto di un semplice processo produttivo che ha come unico fattore produttivo il lavoro. A fornirlo sono due soggetti, gli unici attori della nostra scena, che dispongono di due giornate lavorative ciascuno. La tecnologia è tale che una giornata di lavoro consente di produrre un manico, o una lama, mentre con due giornate di lavoro si riescono a produrre quattro manici, o quattro lame (rendimenti crescenti). Allora, se un lavoratore fa tutto per conto suo (indipendenza) dovrà dedicare una delle due giornate alla produzione di un manico e l’altra alla produzione di una lama, così nelle sue due giornate produrrà un solo badile. È chiaro che, se i lavoratori si dedicassero uno a produrre un tipo di componente e l’altro l’altro, il microsistema produttivo da essi costituito potrebbe sfornare non due ma quattro badili.
Questo per quanto riguarda la tecnologia. E per quanto riguarda l’economia? Immaginiamo che i badili prodotti si vendano poi in città ad un prezzo X, così il guadagno di un lavoratore che operi in modo indipendente è proprio pari ad X. Quali tipi di relazione economica possono portare i nostri due personaggi a trarre vantaggio dai rendimenti crescenti? Le alternative sono sostanzialmente tre: i) uno dei due soggetti si offre di acquistare dall’altro quattro manici (o lame) in cambio di una cifra maggiore di X, poi dedica le sue due giornate alla produzione di quattro lame (o manici) e vende i quattro badili, con un ricavo pari a quattro volte X; ii) uno dei due offre all’altro una posizione di lavoratore dipendente addetto per due giornate a produrre quattro manici (o lame), obbedendo agli ordini, con una retribuzione complessiva maggiore di X, poi … idem come sopra ; iii) i due concordano che uno si dedichi due giorni ai manici e l’altro due giorni alle lame, vendono i quattro badili e si spartiscono il ricavato, ottenendo ciascuno un guadagno pari a due volte X.
Tutte tre le opzioni rappresentano forme diverse di coordinamento degli apporti produttivi dei partecipanti ad un sistema economico, e, come nell’esempio suggerito, tutte tre hanno la potenzialità di accrescere la “fetta di torta” di ciascun partecipante. La prima si può definire “mercato” (l’espressione sarebbe impropria se davvero vi fossero solo due scambisti, uno che compra e uno che vende, ma diviene appropriata con numeri più ampi di compratori e di venditori). La seconda si può definire “gerarchia”, perché il lavoratore dipendente è soggetto all’autorità del datore di lavoro – ovvero, in un caso meno semplificato, a quella di un caporeparto, il quale risponde al direttore della produzione… e così via gerarchicamente. Sono queste le due forme di coordinamento più studiate: “markets and hierarchies”, come suggerisce il titolo del classico testo di Williamson del 1975.
E la terza alternativa, quella paritetica, come la chiamiamo? “Cooperazione”, penso risponderebbe Carlo Borzaga, a cui questo numero della rivista è dedicato. Un’affermazione simile a questa, infatti, occupa un posto centrale in un saggio del 2017 da lui firmato insieme al coautore Ermanno Tortia, intitolato Co-operation as Co-ordination Mechanism: A New Approach to the Economics of Co-operative Enterprises. I due autori criticano la teoria economica proprio per il fatto che “essa prende in considerazione due soli basilari meccanismi di coordinamento dell’attività economica: lo scambio di valori equivalenti nel mercato, o ‘mutuo vantaggio dallo scambio’, e l’autorità, o gerarchia” (p. 55). In tal modo – essi affermano – si omette di prendere in considerazione “il concetto di cooperazione spontanea come meccanismo di coordinamento autonomo dell’attività economica" e non ci si accorge che tutte le imprese organizzano “la produzione di beni e servizi mescolando tre diversi meccanismi di coordinamento: lo scambio di mercato …, l’autorità e la cooperazione” (pag. 55)[1]. È per questo, sostengono i due autori, che anche la new institutional economics (nuova economia istituzionalista) – pur più capace di comprendere le problematiche dell’organizzazione interna delle imprese rispetto alla teoria economica tradizionale – giunge alla conclusione che forme d’impresa diverse da quelle di proprietà degli investitori sono tipicamente transitorie e comunque destinate ad avere un ruolo marginale nelle economie contemporanee (p. 57). “Il mancato riconoscimento della cooperazione come basilare meccanismo di coordinamento ha portato all’idea che anche il funzionamento delle cooperative sia dominato dagli scambi di mercato e dal controllo gerarchico” (pag. 58). Invece, nelle cooperative – essi affermano – “i meccanismi basilari di funzionamento sono diversi da quelli di altri ambiti organizzativi … quanto al modo in cui viene raggiunto il coordinamento tra i soggetti coinvolti” (p. 58). La specificità incompresa delle imprese cooperative, infatti, starebbe proprio nell’essere “caratterizzate dalla prevalenza del meccanismo della cooperazione” (pag. 55)[2].
Si tratta di affermazioni che stimolano a cercare di capire meglio. Per me poi c’è una ragione in più, personale, per occuparmene. Alcuni anni fa Carlo Borzaga mi aveva invitato a discuterne con altri colleghi in un seminario organizzato a Trento da EURICSE, il centro di ricerca da lui fondato e presieduto[3]. Nei confronti della loro posizione ero rimasto con mixed feelings: da un lato – appunto – incuriosito, dall’altro perplesso. Poi non ci avevo più pensato. Mi ha spinto a tornare a rifletterci la prospettiva di contribuire al presente numero speciale di Impresa Sociale. Cercherò prima di collocare la proposta di Borzaga e Tortia all’interno della letteratura sui meccanismi di coordinamento delle transazioni, attraverso un rapido esame di quanto proposto da altri studiosi per riempire lo spazio non occupato da mercato e gerarchia. Successivamente discuterò la tesi che essi avanzano, e infine abbozzerò alcune brevi conclusioni.
Il filone di studi sull’organizzazione interna delle imprese, rilanciato ed arricchito dal già citato Williamson, ha concentrato l’attenzione sulla scelta che queste si trovano a compiere tra l’acquisto di semilavorati o servizi nei relativi mercati e, in alternativa, la gestione interna dei processi necessari a produrre tutto ciò con l’impiego di lavoratori coordinati dalle gerarchie aziendali. Vari studiosi si sono chiesti se siano queste due le sole alternative rilevanti. Un filone di studi ha subito messo in luce che tra questi due casi “puri” si colloca un continuum di casi intermedi, o “ibridi”, come le variegate forme di collaborazione continuative tra imprese (si veda tra gli altri Hennart, 1993)[4]. Un altro gruppo di autori, tra i quali merita citare Powell (1990), vede invece nei network (o reti) di collaborazione non occasionali tra imprese legate da rapporti di interdipendenza (seppur non vincolanti) una vera a propria terza modalità di gestione delle transazioni, distinta da mercato e gerarchia e non riducibile ad un mix tra di essi[5]. A parlare di una terza modalità organizzativa è anche Ouchi (1980), che propone la nozione di “clan”. L’idea, stimolata dal grande successo delle imprese giapponesi di quegli anni, è che, se i lavoratori formano un gruppo coeso socializzato a condividere gli obiettivi e le sorti dell’organizzazione, il loro impegno potrà essere garantito con un minore ricorso ad imposizioni e valutazioni discrezionali dall’alto, due pratiche sgradite e divisive[6]. In realtà i clan non costituiscono davvero un’alternativa, dato che il loro effetto è di modificare, non di abolire, il ruolo delle gerarchie aziendali. Una nozione pure proposta come “meccanismo di coordinamento” delle transazioni alternativo a mercati e gerarchie è quella di “associazioni”. Con questa espressione Reimers (2000) fa riferimento ad associazioni professionali (tra persone) o ad associazioni di categoria (tra imprese), il cui ruolo sarebbe di fissare prezzi di riferimento per le prestazioni, riducendo la conflittualità insita nel ricorso al mercato[7]. Anche questa, però, non è una vera terza alternativa, quanto piuttosto un coadiuvante del ricorso – in questo caso – al mercato. Un’altra candidata al riconoscimento come ulteriore modalità di gestione delle transazioni è la nozione di “comunità”. Adler (2001) parla di comunità in riferimento a relazioni informali sia in all’interno delle imprese, sia tra imprese, associandola – come elemento distintivo – alla fiducia, mentre il mercato sarebbe associato ai prezzi e la gerarchia all’autorità. Ibert e Stein (2012), invece, ne parlano come quarta modalità (aggiuntiva e distinta rispetto anche ai network), tipica delle moderne società della conoscenza; lo fanno in riferimento alle “comunità di pratica” (communities of practice), ossia “gruppi informali [di persone] che condividono una pratica e aderiscono volontariamente a comuni regole” (p. 608)[8]. Ancora, Grandori (2016), dopo mercati, gerarchie e clan, propone come quarto meccanismo di coordinamento dimenticato la “democrazia”. Già in un precedente lavoro del 2008, coautore Furnari, essa notava la tendenza della letteratura a ripartire le prassi organizzative in tre categorie: quelle ispirate al mercato, quelle di tipo burocratico e poi una terza categoria che, pur nella diversità delle formulazioni, presenta caratteristiche che si possono definire “collettive”. All’interno di questa terza categoria – affermano Grandori e Furnari – è necessario fare una netta distinzione tra prassi che si possono definire “comunitarie” (che fanno leva su una comunanza culturale, come quelle evidenziate da Ouchi), e prassi “democratiche”, che prevedono il ricorso al voto e ad organismi di rappresentanza, che invece trovano la loro ragion d’essere proprio nella diversità delle visioni e delle opinioni[9]. È da notare che Borzaga e Tortia accennano solo in un passaggio al tema della democrazia, e lì citano il lavoro di Grandori e Furnari. Più spesso, invece, parlano di partecipazione, ricomprendendola all’interno della nozione di “cooperazione”.
Infine, c’è qualcun altro – pochi – che, cercando di indentificare una modalità di coordinamento delle transazioni ulteriore rispetto a mercati e gerarchie, usa proprio l’espressione “cooperazione” (o “organizzazione cooperativa”). Per Elsner, Hocker e Schwardt (2010) la “cooperazione” si manifesta in forme di azione volontaria, ma al tempo stesso istituzionalizzata, di soggetti indipendenti, avendo in mente il fenomeno Wikipedia o, nel mondo del software, gli ambienti open source (anche Borzaga e Tortia citano questi esempi, pur essendo primariamente interessati all’organizzazione interna delle cooperative). A parlare di “organizzazione cooperativa” come terzo meccanismo di governance dopo mercato e gerarchia sono Valentinov e Fritzsch (2007), i quali pure la vedono all’opera in particolare nelle cooperative. Per essi “l’organizzazione cooperativa è una incarnazione [embodiment] dell’azione collettiva volta a realizzare gli interessi comuni dei membri” (pag. 142)[10].
La panoramica qui sopra presentata ci dà conferma della necessità sentita da vari autori di allungare la lista delle modalità di gestione delle transazioni al di là della coppia mercato/gerarchia, per meglio cogliere la varietà delle forme organizzative. Ci dice anche che le nozioni da essi proposte riguardano forme di coordinamento a) orizzontale e b) diverso dallo scambio quid pro quo. La proposta di Borzaga e Tortia si muove nella stessa direzione: “Le transazioni gestite attraverso la cooperazione avvengono, non sulla base di un rapporto di autorità, ma volontariamente e, a differenza degli scambi di mercato, la partecipazione alla transazione non dipende dall’equivalenza tra contributo e risultato (in termini di valore economico), ma dal principio di reciprocità” (p. 56)[11].
Ma cosa intendono precisamente i due autori per “cooperazione”? La frase ora citata e alcune altre frasi del testo ci danno alcuni elementi per rispondere, visto che una definizione completa e precisa non viene data. A pag. 56 si legge che “la cooperazione è in grado di introdurre nuove modalità di perseguimento degli obiettivi imprenditoriali poiché emerge quando un collettivo di attori economici decide volontariamente di unire gli sforzi e le risorse per aumentare il benessere al di là di quanto l’azione indipendente potrebbe garantire”. E a pag. 58 parlano della “cooperazione spontanea” come di un “meccanismo di natura associativa, basato sul mutuo vantaggio degli attori partecipanti…”[12]. Queste frasi si attagliano molto bene ai nostri ipotetici produttori di badili che decidano di collaborare nella terza forma, quella paritetica. Più concretamente, pensiamo ad una cooperativa di lavoro; oppure ad un gruppo di agricoltori che si riunisca in cooperativa per svolgere insieme vinificazione e commercializzazione, anziché dover operare ciascuno in modo indipendente; e si potrebbe continuare citando le altre tipologie di cooperative. Tra i contesti organizzativi in cui la “co-operazione come meccanismo cruciale di coordinamento” svolge un ruolo decisivo Borzaga e Tortia indicano anche: le organizzazioni di volontariato, dove il pagamento del servizio svolto o il controllo gerarchico danneggerebbero le motivazioni pro-sociali dei volontari; le organizzazioni nonprofit donative, che operano come organismi di coordinamento tra donatori; le esperienze di gestione comunitaria delle risorse comuni; la condivisione di software e di altre informazioni online. Merita sottolineare che il campo di applicazione di quelle frasi include anche la formazione di una società commerciale, di persone o di capitali. Anche qui la relazione economica tra i soci è orizzontale e diversa dallo scambio; inoltre, proprio come descritto sopra dai due autori, i consoci entrano insieme in un’intrapresa dopo avervi aderito volontariamente, nell’aspettativa che per ciascuno dei essi alla contribuzione di risorse faccia seguito l’ottenimento della propria parte di benefici, ovviamente non quantificabili a priori[13].
Nella prosecuzione dell’ultima frase che ho citato qui sopra, i due autori aggiungono che la “cooperazione” è basata anche “sulla fiducia e sulla reciprocità, come dimensioni comportamentali di supporto”; analogamente, un po’ più avanti essi osservano che il mutuo beneficio che il “coordinamento cooperativo” cerca di realizzare “è sostenuto nel tempo facendo leva sulle relazioni di fiducia esistenti, generandone di nuove e attraverso comportamenti reciprocanti” (pag. 59). Più avanti, tra le disposizioni degli attori coerenti con l’operare del meccanismo della cooperazione Borzaga e Tortia citano anche “motivazioni intrinseche e preferenze non auto-interessate [non self-seeking]” (p. 60).
Una domanda che nasce a questo punto è se queste “dimensioni comportamentali” vadano intese come condizioni necessarie perché si possa parlare di “cooperazione”, o se vadano viste piuttosto come fattori coadiuvanti della sua presenza. In altre parole, per aversi “cooperazione” bastano certe caratteristiche “costituzionali” che mettono un gruppo di attori nella condizione di interagire come “pari” – e non gerarchiche – e non di scambio quid pro quo, quand’anche manchino o scarseggino fiducia, idealità e adozione di logiche reciprocitarie? Se la risposta fosse sì dovremmo riconoscere che la “cooperazione” caratterizza per definizione le relazioni tra i soci, oltre che di tutte le associazioni, i condomini e le cooperative, anche di tutte le altre società commerciali. Un possibile argomento a favore è che una dose minima di fiducia negli altri soci (non necessariamente in ciascuno, bensì nel loro insieme) è implicita nella scelta di investire risorse (soldi, o tempo ed energie) in un’organizzazione economica condivisa. Qualcosa di simile si può dire anche della reciprocità, perché anch’essa è in qualche misura implicata dalla condizione di consoci: ogni contributo costruttivo dato da uno di essi (la condivisione di idee o informazioni, l’impegno non retribuito nelle attività sociali, o anche il contributo finanziario apportato attraverso la semplice sottoscrizione di quote o azioni) andrà a beneficio anche degli altri soci, e viceversa ogni contributo di questi andrà a beneficio anche del primo[14].
Una prima possibilità, quindi, è adottare una definizione larga di “cooperazione”, tale da ricomprendere tutte le forme di coordinamento delle transazioni che siano diverse dallo scambio quid pro quo e che non assegnino ad una delle parti una posizione di potere sulle altre (gerarchia): quelle tra i soci di qualsiasi società o associazione, quelle tra i membri di gruppi informali di pari, come pure quelle esaminate dagli autori citati nel §1 sotto le parole chiave network, comunità, “cooperazione” (nel senso di Elsner et al.), o “organizzazione cooperativa”[15].
Mi rendo conto che, estendendo così tanto la nozione di “cooperazione”, si rischia di svalutarla, perché non in tutti i casi indicati essa svolge un ruolo forte ed impegnativo. Non solo, ma potremmo ritrovarci a parlare di “cooperazione” anche nei casi in cui, anziché collaborazione e fiducia, tra i pari prevalgano sentimenti o manifestazioni di ostilità, o anche ripicche reciprocamente dannose (il contrario del mutuo vantaggio). Ciò può dipendere da fattori motivazionali, ma anche dalle difficoltà di comunicazione che spesso affliggono gli organi decisionali, o a causa di procedure mal disegnate, o per mancanza di competenze relazionali, o per motivi di bounded rationality (letteralmente “razionalità limitata”)[16]. Una definizione più ristretta, però, taglierebbe fuori ampie classi di interazioni che pure sono “terze” rispetto a mercato e gerarchia, lasciandole orfane di un nome e quindi anche di un riconoscimento del ruolo – significativo – che svolgono nello scenario economico. Forse una soluzione potrebbe essere di indicare quanto sopra con un nome più neutrale come “coordinamento orizzontale associativo”, o qualche altra espressione simile.
L’idea di “cooperazione” che Borzaga e Tortia propongono per evidenziare la specificità delle imprese cooperative è più esigente e si estende dal livello dei rapporti “istituzionali” tra i soci al livello “organizzativo”, quello del disegno e dell’implementazione delle attività operative[17].
Contrapponendosi alle teorie dello “isomorfismo organizzativo”, che negano o minimizzano le diversità tra le prassi operative di imprese con diverse strutture proprietarie, essi affermano, con Williamson (2000), che “… l’impatto del coordinamento cooperativo si estende dagli strati istituzionali più fondamentali a quelli superficiali. Gli strati più profondi, che definiscono gli obiettivi strategici e i modelli di appropriazione, si trovano nei diritti di controllo e nella governance; mentre gli strati superficiali, che definiscono l’interazione tra l’organizzazione e l’ambiente esterno, corrispondono alle regole di lavoro e alle routine organizzative inscritte nei protocolli organizzativi, nei modelli e nelle pratiche manageriali…” (pag. 68). E, più in concreto, che “la prevalenza [dominance] del meccanismo cooperativo comporta un minore ricorso agli incentivi monetari e a relazioni basate più sulla fiducia che sul comando [direction], grazie al ruolo fondamentale delle motivazioni intrinseche e dell’equità delle procedure, nonché al minore opportunismo nelle relazioni intra-organizzative” (p. 67-68)[18]. Qui suggerirei una distinzione, che i due autori non fanno abbastanza chiaramente, tra la categoria degli stakeholder/soci (ad esempio i lavoratori se si tratta di una cooperativa di lavoro, e invece i conferitori di latte se si tratta di una latteria sociale), da un lato, e dall’altro le restanti categorie di stakeholder (come potrebbero essere in ambedue gli esempi gli acquirenti dei prodotti finali). È soprattutto sulle azioni dei primi, gli stakeholder/soci, che un “coordinamento cooperativo” ben funzionante in tutti gli “strati” può esercitare un impatto diretto, favorendo l’instaurarsi di prassi ispirate a fiducia e reciprocità. Quando i due autori affermano che proprio grazie alla “cooperazione” si riesce a garantire un’occupazione più continuativa, come confermato dai dati italiani post 2008), mentre in altri tipi di imprese “[g]li interessi contrastanti e le informazioni asimmetriche che caratterizzano il rapporto di lavoro accentuano il problema dell’opportunismo bilaterale, dell’abuso di autorità e della rigidità dei salari, rendendo la stabilità dell’occupazione un problema irrisolto” (p. 69), essi hanno in mente una cooperativa di lavoro, e non – per restare nell’esempio – una cooperativa di trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli, nei confronti della quale i lavoratori si trovano, almeno in prima analisi, in una condizione non molto diversa che nei confronti di un’impresa di proprietà degli investitori[19].
Per inciso, non che ad un’impresa convenzionale la “cooperazione” debba essere del tutto estranea. Lì, però, i due autori la vedono svolgere una funzione “non fondamentale”, e purtuttavia “funzionale a ridurre i costi organizzativi, rinforzando fiducia e comportamenti reciprocanti… soprattutto nelle relazioni tra lavoratori e manager” (p. 60-61). In altre parole, nella visione di Borzaga e Tortia sprazzi di “cooperazione” possono essere presenti in ogni organizzazione, soprattutto se chi ha il potere di indirizzarne la gestione è culturalmente attento a lasciarle uno spazio e a permetterle di apportare i suoi benefici, ma ad essere caratterizzate dalla “cooperazione” sono le imprese cooperative. E soprattutto – aggiungerei – le cooperative sociali, le quali “riescono a coinvolgere una varietà di categorie diverse [operatori socio-sanitari, utenti, volontari, soci-sovventori, …] nella definizione e nel perseguimento dei loro obiettivi”, grazie all’imposizione di un vincolo di non distribuzione degli utili, all’indicazione statutaria della finalità sociale e all’adozione di una governance multi-stakeholder (pagg. 69-70). Forse è proprio questo caso, eterodosso rispetto alla storia del mutualismo cooperativo e al tempo stesso decisamente innovativo, che i due autori hanno in mente quando vedono la realtà cooperativa pervasa dalla logica della “cooperazione” nell’operato di tutti i suoi attori. Riaffiora però anche qui una domanda che in “Co-operation as Co-ordination Mechanism” non trova una chiara risposta: basta una “costituzione” cooperativa, con le sue caratteristiche partecipative e con la distribuzione egalitaria del potere decisionale implicata dalla regola “una testa un voto”, unita alla presunzione che ciò avrà una ricaduta favorevole sul ricorso al “coordinamento cooperativo” anche nel momento operativo, a permettere di parlare di “cooperazione”? O per aversi “cooperazione” deve essenzialmente verificarsi il prevalere di una disposizione collaborativa pro-sociale in un gruppo di attori economici interagenti, magari all’interno di un contesto statutario favorevole?
In questo articolo ho esaminato la proposta di Borzaga e Tortia (2017) di considerare la “cooperazione” come un meccanismo di coordinamento dell’attività economica autonomo rispetto a mercato e gerarchia, nonché l’asserzione che proprio questo terzo meccanismo caratterizzi le imprese cooperative.
Sulla base di alcune affermazioni del testo la “cooperazione” sembra essere una certa impostazione “costituzionale” di un’impresa, un principio ispiratore adottato nel momento in cui un gruppo di attori economici dà vita ad un’iniziativa imprenditoriale condivisa. Sulla base di altri passaggi la “cooperazione” appare piuttosto come una modalità di coordinamento anche di singole transazioni (o gruppi di transazioni), che per essere attivata e permanere nel tempo necessita di un orientamento valoriale e comportamentale corrispondente presso gli attori coinvolti, mentre il ruolo di quell’impostazione “costituzionale” sarebbe di facilitatore.
Al di là di questa ambiguità interpretativa, il saggio dei due autori ha il merito di portare l’attenzione su quelle zone dell’economia che non sono primariamente governate da mercato e gerarchia. E non si tratta di aree marginali, bensì di un ampio territorio. Cerco di spiegarmi. Connotato tipico delle relazioni di mercato è una chiara predeterminazione di quanto ciascuna delle due parti debba fornire all’altra. Caratteristica del modo di coordinamento gerarchico è invece un certo grado di indefinitezza dell’apporto della parte subordinata, con l’autorità per risolverla assegnata all’altra parte. Ci sono poi molte altre relazioni economiche in cui resta largamente indefinito ciò che dovrà dare e/o ricevere sia l’una che l’altra parte, e il compito di definirlo è lasciato a forme di coordinamento collaborativo, che appunto i due autori chiamano “cooperazione”. Ciò, anche se i due autori non lo sottolineano, avviene in varie contesti, tra cui le relazioni tra i soci di qualunque società, e non solo delle cooperative.
Come si fa in queste situazioni di fronte alla diversità degli interessi e delle opinioni? In alcuni casi la si può superare con il voto, nelle situazioni meno strutturate votare non si può, in altri casi si potrebbe, ma si preferisce dialogare ancora e cercare di avvicinare le posizioni. Questa indeterminatezza non soddisfa certo il desiderio di aver chiaro chi abbia il potere di definire i termini delle interazioni economiche. Tuttavia, in molte situazioni l’indeterminatezza è inevitabile e in alcune può essere addirittura desiderabile. Non solo la vita sociale e politica, ma neanche l’economia può fare a meno della capacità degli esseri umani di cercare e trovare accomodamenti e accordi per riuscire a collaborare in una grande varietà di situazioni, una capacità fruttuosa – in termini di riduzione di costi di transazione e di realizzazione di opportunità altrimenti destinate a svanire – che è favorita da valori guida come partecipazione ed equità ed è sostenuta da “dimensioni comportamentali” come fiducia e reciprocità.
Co-operation as Co-ordination Mechanism di Borzaga e Tortia è anche un’appassionata affermazione delle specificità e dei punti di forza delle cooperative, tipi di impresa in cui essi vedono il meccanismo della “cooperazione” svolgere un ruolo particolarmente importante. Una parte significativa del loro lavoro è dedicata proprio ad analizzare in quale modo e in quali circostanze i punti di forza della “cooperazione” possono meglio emergere, sopravanzando i punti di debolezza. Su questa parte del loro testo non ho neanche tentato di entrare, e tantomeno di esprimere una valutazione. Per ingaggiarmi nel presente lavoro di commento mi era sufficiente la convinzione, che condivido con i due autori, che l’impresa cooperativa ha molto da dare, per la capacità di rispondere con l’una o l’altra delle sue variegate “formule” alle mutevoli sfide irrisolte di ogni momento storico, ma anche perché, complessivamente, la sua presenza contamina il sistema economico e sociale con una “terza logica”.
DOI: 10.7425/IS.2024.03.02
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[1] Qui e nel seguito la traduzione dagli originali in lingua inglese è mia.
[2] Dicendo “prevalenza” essi intendono che anche gli altri due meccanismi sono presenti nelle cooperative, come pure essi intendono che la cooperazione è presente anche negli in altri tipi di imprese.
[3] “Co-operation as Coordination Mechanism: Consequences on the Interpretation of the Cooperative Enterprise, EURICSE International Workshop, Unversità di Trento, 4-5 Dicembre 2017.
[4] L’idea che la realtà sia costellata di ibridi fu poi accettata dallo stesso Williamson.
[5] Emerge già qui un tema che ritroveremo in seguito, che il buon funzionamento dei network è facilitato dall’instaurarsi di relazioni di creazione di fiducia e di catene di reciprocità. Ad interpretare le cooperative come ibridi è Ménard (2007).
[6] Traendo spunto dalla prassi dell’esercito statunitense, Akerlof e Kranton (2005) mettono in luce, similmente ad Ouchi, l’effetto di riduzione dei costi di transazione esercitato dalla presenza (e quindi anche dalla costruzione) di una forte identità di gruppo congruente con gli obiettivi dell’organizzazione.
[7] Lo stesso Williamson (1973) parla di associazioni, più precisamente prende in considerazione la possibilità di “Peer Group Associations” come modalità alternativa di gestione delle transazioni, ma passa rapidamente oltre nella convinzione che abbiano poche chance di successo. Si vedano anche le pagine 265-268 del suo volume del 1985 dedicate al “dilemma” delle cooperative di lavoratori.
[8] In esse conta molto il possedere e il condividere conoscenza, e a coltivarla ed accrescerla viene attribuito un valore intrinseco. La partecipazione a queste comunità – osservano Ibert e Stein – ha per i membri anche un valore simbolico ed identitario (vi è qui un punto di somiglianza con la nozione di clan di Ouchi).
[9] Non lontani da questa prospettiva sono Sacchetti e Sugden (2009) nel proporre come terza alternativa, dopo mercati e gerarchie, la “prossimità mentale” – una condizione di deliberazione democratica molto esigente quanto alla disposizione reciproca dei soggetti coinvolti. Sempre a proposito di deliberazioni collettive, Hansmann (1990) discute il ruolo cruciale delle dinamiche “politiche” per la sostenibilità delle cooperative di lavoratori, come di tutte le forme di impresa in cui il ruolo di proprietari è assegnato ad una ampia classe di shareholder.
[10] Essi precisano che: “le relazioni tra i soci … non comportano acquisti e vendite tra di essi, né la subordinazione di alcuni membri ad altri” (pag. 143). Poco dopo, a pag. 146, essi confrontano la suddivisione, egalitaria, dei diritti di proprietà tra i membri delle cooperative con quella creata da mercato e gerarchia. Sorprendentemente, però, per mostrare al lettore che quest’ultima è disuguale, fanno riferimento ad una situazione diversa, più conflittuale: un rapporto di compravendita tra un’impresa fornitrice e un’impresa acquirente di un input.
[11] Un’affermazione simile a riguardo della cooperazione la troviamo a pag. 59: “una precisa equivalenza tra contributo e ricompensa … non può essere garantita”.
[12] L’aggettivo “spontanea” suscita qualche perplessità. Nel funzionamento degli organi statutari e nella governance di un’organizzazione c’è molto di normato e di negoziato. Ciò vale anche per le esperienze di governo collettivo delle risorse comuni, che Borzaga e Tortia citano proprio come esempio di cooperazione spontanea (pag. 58). Non per nulla le pratiche di gestione collettiva delle foreste della Comunità d’Ampezzo nelle Dolomiti, che ne rappresentano un caso molto significativo durato per secoli, sono chiamate “Regole”. D’altra parte, non penso che per “cooperazione spontanea” essi intendessero riferirsi alla disponibilità di alcuni soci di buona volontà a dedicare tempo a tenersi informati e a controllare il corretto svolgimento delle attività sociali, perché sarebbe limitativo. Un’altra possibile interpretazione è che “spontanea” significhi semplicemente che l’adesione alla cooperativa è libera, ma questo, come dicevamo sopra, vale per qualunque società o associazione.
[13] In un lavoro del 2013 Hansmann sottolinea la somiglianza tra cooperative, società commerciali e perfino amministrazioni locali quanto alla posizione dei membri in fatto di decisioni.
[14] Se pensando alle società commerciali queste manifestazioni di reciprocità sembrassero limitate alle tipologie più coinvolgenti – come le società in nome collettivo o a responsabilità limitata con pochi soci – e sembrassero praticamente assenti nelle società per azioni quotate, va detto che situazioni simili esistono anche nel mondo cooperativo, ad esempio tra i soci delle grandi cooperative di consumo, i quali fanno i loro acquisti individualmente – spesso in punti di vendita diversi – e in molti casi non hanno altre forme di interazione con i consoci (a partecipare alle assemblee è solo una piccola percentuale, e ancora più bassa è la percentuale di chi si occupa attivamente della vita della cooperativa).
[15] Se non fosse per la mia limitata conoscenza, la lista potrebbe essere senz’altro più lunga.
[16] Quest’espressione che potrebbe suonare quasi offensiva verso coloro a cui la riferiamo, ma ricomprende anche le difficoltà che tutti abbiamo nel capire davvero complesse esposizioni verbali da parte dei co-decisori o lunghe pagine di documentazione.
[17] La distinzione tra questi due livelli è di Anna Grandori, suggerita durante il seminario di Trento del dicembre 2017.
[18] A proposito di opportunismo, essi osservano che “tutti gli approcci ortodossi lo considerano come un tratto comportamentale dominante nelle interazioni agente-principale e più in generale nelle relazioni tra gli agenti economici e tra le imprese convenzionali” (pag. 59), e affermano che invece “quando la cooperazione diventa prevalente, l’opportunismo viene ridotto a distorsione comportamentale non fondamentale…” (pagg. 59-60). Alcune righe più avanti viene sottolineata l’importanza che ricopre l’equità “per supportare la partecipazione all’azione collettiva” – la quale ultima, merita osservarlo, è sempre in qualche modo implicata in ogni coordinamento orizzontale diverso dallo scambio. A questo riguardo essi riportano il dato empirico che l’equità procedurale contribuisce in modo significativo al benessere percepito dei membri delle organizzazioni in generale, e che ciò vale in modo particolare per le cooperative (pag. 61).
[19] Analogamente, quando Borzaga e Tortia dicono che la logica della cooperazione facilita il coinvolgimento dei produttori agricoli nel creare conoscenze specializzate o nello stabilizzare i prezzi e i volumi della produzione (p. 68), essi hanno in mente una cooperativa di cui i soci siano gli stessi produttori di prodotti agricoli, e non, ad esempio, una cooperativa di consumo, nei confronti della quale i fornitori di frutta – scusate se mi ripeto – non si trovano, almeno in prima analisi, in una condizione molto diversa che nei confronti di un’impresa for-profit. È interessante osservare che la condivisione di informazioni e la riduzione collettiva del rischio (tale è l’effetto di prezzi e volumi stabili) sono due tra i cinque benefici della cooperazione indicati nell’illuminante saggio di Heath (2006).
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