Un vivo ringraziamento va a Gianfranco Marocchi e Felice Scalvini che hanno accompagnato la stesura di questo saggio sin dall’inizio, contribuendo con suggerimenti, commenti e testimonianze. La responsabilità di ciò che è scritto rimane tuttavia solo mia.
Oggi la tendenza nell’opinione pubblica e in parte anche tra gli studiosi è di considerare i mondi della cooperazione e della solidarietà come separati. In realtà esistono diversi modi di intendere quest’ultima e, se si allarga l’orizzonte oltre l’accezione più frequente (solidarietà altruistica), ritroviamo la solidarietà tra i caratteri fondamentali della cooperazione tradizionale. Non solo non sussiste l’asserita separazione ma possiamo leggere tutto lo sviluppo della cooperazione, dalle forme primordiali fino all’attuale cooperazione di comunità, come il frutto di un’evoluzione delle forme di solidarietà. Nel presente saggio ripercorriamo quest’evoluzione sul piano concettuale e lungo la strada incontriamo alcuni snodi importanti dell’opera di Carlo Borzaga.
Circola oggi nel mondo del terzo settore[1] un malinteso riguardo alla solidarietà: molti, quando parlano di solidarietà in ambito sociale, pensano, più o meno chiaramente, a qualcosa di distinto e talvolta anche di distante dalla cooperazione tradizionale, cioè, per intendersi, quella delle cooperative di lavoro, consumo, ecc. Il malinteso è dovuto al modo di concepire la solidarietà, che secondo questa visione s’identifica in buona sostanza con la carità, ovvero il dare gratuitamente per andare incontro al bisogno dell’altro. Oggi al posto di “[fare la] carità” si preferiscono altre denominazioni come ad esempio “[creare] pubblica utilità/utilità sociale”, ma la sostanza è quella. In campo sociale questa solidarietà è strettamente collegata al volontariato. Si può dare mettendo mano al portafoglio ma si può dare anche offrendo gratuitamente il proprio tempo a beneficio degli altri. Il binomio solidarietà (nel senso appena detto) e volontariato è nel tempo diventato per un certo filone di pensiero ma anche per l’uomo della strada il connotato distintivo, la formula identitaria di ciò che oggi va sotto il nome di nonprofit. È evidente che, se la solidarietà viene confinata nel mondo nonprofit, viene di fatto esclusa dal mondo della cooperazione tradizionale – quella discendente dalle esperienze storiche della cooperazione – che è per sua natura separato dal nonprofit.
Questo modo di vedere la cooperazione, il nonprofit e il terzo settore è incentrato sulla discriminante della solidarietà “sociale” e caritativa, tipica del mondo del volontariato e di parte del nonprofit, vista come unica dimensione della solidarietà. È una visione probabilmente maggioritaria a livello di opinione pubblica, che trova accoglienza anche in alcuni ambiti delle scienze sociali[2], ma non è l’unica, come vedremo, e nemmeno la più fondata. Bisogna aggiungere che gli stessi cooperatori fino a non molto tempo addietro avevano una visione non molto diversa da quella ora descritta. È capitato anche a chi scrive, negli anni immediatamente seguenti l’emanazione della legge 381/91 sulla cooperazione sociale, sentire dirigenti cooperativi affermare con forza “noi non siamo nonprofit”, nell’evidente intento di tracciare una demarcazione netta tra le cooperative, soprattutto di lavoro, che lavorano, e il nonprofit che fa volontariato (oggi, con il rilevante peso acquisito dalla cooperazione sociale, queste posizioni sono più rare se non del tutto scomparse).
Carlo Borzaga da pensatore e attivista, ma anche attore, del terzo settore, non ha mai abbracciato questa separazione. Ci sono due elementi della filosofia sociale di Borzaga che più o meno si ritrovano in tutto il suo percorso. Da una parte l’accento sulla solidarietà sociale nelle tante forme in cui si esprime, ciascuna per i propri fini e nel proprio ambito, ma anche la consapevolezza che ci sono attività, fini che non possono essere perseguiti senza strumenti particolari e qui entra in gioco il secondo elemento: l’impresa. Solidarietà e impresa, abbiamo sentito ripetere all’infinito da Borzaga, non sono antitetiche. Non sono nemmeno comparabili perché semplicemente stanno su piani diversi. La solidarietà è un valore, l’impresa è uno strumento e per giunta, se opportunamente liberata da incrostazioni e sovrastrutture spurie, uno strumento neutro, pienamente compatibile con la solidarietà. Neutro come lo può essere un martello: se debbo piantare un chiodo, mi occorre un martello (indipendentemente da giudizi di valore sull'azione del piantare il chiodo); se debbo portare solidarietà caritativa in certi ambiti, mi occorre un’impresa (ancorché opportunamente modellata e conformata agli scopi sociali). Collegato all’impresa è il concetto di servizio: la solidarietà può essere portata anche sotto forma di servizi in senso economico, servizi prodotti da imprese. Tutto ciò sta alla base della cooperativa sociale e dell’impresa sociale alla cui promozione Borzaga ha dato un contributo significativo, in diversi modi e su diversi piani[3].
La storia della cooperazione sociale in Italia è ricostruita in diversi lavori e non c’è bisogno qui di ripercorrerla[4]. Ci limitiamo a richiamare alcune tappe più da vicino collegate a Borzaga. Alcuni fanno iniziare la cooperazione sociale con il pensiero e l’opera di Giuseppe Filippini negli anni ’60 del Novecento. Esponente di spicco della cooperazione cattolica bresciana, nel 1963 Filippini fonda a Brescia la cooperativa San Giuseppe che è considerata la prima cooperativa di solidarietà sociale italiana e la diretta progenitrice della cooperativa sociale della legge 381[5]. Lo slogan di Filippini era[6]: “una cooperativa per servire[7] anziché per servirsi[8]”. Qui c’è già tutta l’idea di cooperazione sociale. La San Giuseppe fece da apripista e sulla sua scia sorsero altre esperienze del genere negli anni Settanta e Ottanta (rimandiamo a Borzaga e Ianes, 2006, per i dettagli). Parallelamente si sviluppò un dibattito all’interno del mondo cooperativo, che ruotava intorno al dilemma mutualità-solidarietà (solidarietà altruistica/di comunità) e si cominciò ad elaborare il modello concettuale sulla cui base venne contestualmente avviata un’azione di promozione politica per il riconoscimento giuridico. Tra gli esponenti di punta di questo movimento troviamo Carlo Borzaga[9], che diede un contributo determinante al progresso dell’idea che, dopo un decennio di faticose contrattazioni tra Confcooperative e Legacoop, portò al varo della legge 381[10].
Tornando al tema impresa e solidarietà, l’apertura all’impresa non era e non poteva essere incondizionato: impresa sì, dove necessario, ma non tutte le forme d’impresa sono equivalenti e non tutte vanno bene. Già le prime esperienza di solidarietà attraverso l’impresa erano chiaramente orientate verso la forma cooperativa (nascono addirittura come espressione di quel mondo). Per Borzaga era scontato anche sul piano concettuale che la forma a cui si doveva guardare per dare attuazione alla solidarietà sociale fosse l’impresa cooperativa tradizionale. La cooperativa per diversi aspetti della sua natura – dalla struttura di governance democratica alla porta aperta – è facilmente adattabile allo spirito inclusivo della cooperazione di solidarietà sociale prima e della cooperazione sociale poi. In particolare, si presta a una struttura di governo multi-stakeholder, in cui Borzaga vedeva l’attuazione dell’interesse generale, garantito dalla partecipazione di stakeholder diversi, tra i quali i destinatari o altri soggetti – familiari, volontari – che ne rappresentano la sensibilità.
Pur avendo avuto un ruolo importante nello sviluppo della cooperazione sociale prima e dell’impresa sociale poi, Borzaga non ha mai tralasciato i rapporti con il mondo della cooperazione tradizionale, né ha mai tralasciato la riflessione su quest’ultima (per tutti si veda Borzaga, 2018). Anche sul piano ideale, ha sempre pensato e comunicato la stretta contiguità tra i mondi della cooperazione tradizionale e della cooperazione sociale. Perché, se è vero che nella seconda c’è una solidarietà sociale che nella prima manca (peraltro non sempre, come vedremo in seguito), è anche vero che il profilo mutualistico della cooperativa sociale non è trascurabile e non è secondario. Detto altrimenti, un conto è fare solidarietà sociale attraverso l’impresa cooperativa e un altro conto è farla attraverso forme di responsabilità sociale in imprese che sono e rimangono imprese lucrative. Nei confronti della responsabilità sociale d’impresa Borzaga, nonostante il successo della formula, era assai guardingo e, nella consapevolezza dei rischi connessi (socialità come strumento di puro marketing, ecc.), teneva molto alla distinzione tra il campo dell’impresa profit, ancorché socialmente responsabile, e il terzo settore, così come era nettamente contrario a ogni tentativo di omologazione.
Con l’avvento della cooperazione sociale, la solidarietà entra a pieno titolo nel campo della cooperazione ma vi entra, per così dire, dalla porta di servizio. Il punto è che la cooperativa sociale venne collocata dall’ISTAT nel settore nonprofit praticamente da subito, a partire dal primo censimento (anno 1999). Da quel momento la natura nonprofit della cooperativa sociale non è più stata in discussione ed è oggi riconosciuta da tutti. Dato che per molti la solidarietà in campo cooperativo vuol dire una sola cosa, ovvero cooperazione sociale, nella percezione del pubblico generale ed anche di alcuni settori del mondo accademico la solidarietà si è ritrovata associata a doppio filo al nonprofit. Alla fine, nella mente di molti, solidarietà e cooperazione convivono (possono convivere) solo nella cooperazione sociale e dunque di fatto solo nel settore nonprofit.
Questa visione è parziale e fuorviante, perché in realtà la solidarietà sociale altruistica non è l’unica forma di solidarietà e ne esistono altre, forme diverse ma pur sempre di solidarietà, che sono alla base della cooperazione tradizionale. C’è dunque un altro canale, meno visibile ma non meno rilevante, attraverso cui la solidarietà si collega alla cooperazione, non solo quella sociale: la solidarietà mutualistica – solidarietà come reciprocità – che troviamo nella cooperazione sin dalle origini. L’idea di una comunanza stretta tra cooperazione sociale e cooperazione tradizionale era ben presente in Borzaga, non solo a livello teorico, ma anche di azione: basta ricordare l’attenzione sul piano della ricerca da parte di Euricse, e quindi di Borzaga che ne era l’animatore, verso la cooperazione tradizionale (attenzione invero non sempre corrisposta da quel mondo).
Cooperazione tradizionale e cooperazione sociale sono anime di un unico corpo e sono strettamente tenute assieme dalla chiave della solidarietà. La cooperazione nasce storicamente come espressione della solidarietà/reciprocità all'interno di determinati gruppi di individui e la solidarietà è certamente uno dei fattori fondanti di tutta la cooperazione, a partire da quella tradizionale. Inoltre, molte delle forme specifiche di cooperazione che si sono sviluppate nel tempo sono da ascrivere proprio alla natura di questa e alle caratteristiche dei gruppi all'interno dei quali viene esercitata. Quindi si può dire che non solo la solidarietà c’è sempre stata, sin dalle origini e perfino nelle forme più tradizionali della cooperazione, ma che poi, evolvendosi, ha prodotto nuove forme di solidarietà. Il binomio solidarietà e impresa è la cifra del lavoro di Carlo Borzaga, sia nell’elaborazione delle idee[11] sia nell’azione. In questo scritto ne ripercorriamo l’evoluzione sul piano concettuale.
Il luogo più adatto per partire è la Dichiarazione di identità cooperativa dell’Alleanza Cooperativa Internazionale (ICA, 1995)[12]. La Dichiarazione, come è noto, offre una sintesi di quella che il movimento internazionale delle cooperative ritiene l’essenza della cooperazione – l’“identità cooperativa” –, ovvero il complesso degli aspetti ideali e operativi fondamentali del fenomeno come storicamente si è manifestato fino al momento della sua emanazione. Si tratta di un documento molto autorevole a livello internazionale, fonte d’ispirazione di legislazioni nazionali e termine di confronto obbligato di ogni riflessione sulla cooperazione. Tra i valori fondamentali della cooperazione tradizionale richiamati nella Dichiarazione troviamo la solidarietà: “Le cooperative sono basate sui valori dell’autoaiuto, dell’auto-responsabilità, della democrazia, dell’uguaglianza, dell’equità e solidarietà” (ICA, 1995, trad. e corsivo nostri)[13]. Nel documento non viene indicato un preciso ordine di importanza tra gli elementi nominati[14], ma certamente la solidarietà è uno dei più rilevanti[15]. Mettendo da parte per il momento la questione della rilevanza, ci chiediamo: in che senso e per quali motivi la solidarietà è da considerare un valore fondante della cooperazione tradizionale?
Il concetto di solidarietà ha più facce. Nel linguaggio comune solidarietà include, variamente combinati tra loro: condivisione[16], sostegno morale o materiale, partecipazione, altruismo (questi gli elementi principali secondo il Nuovo Devoto-Oli, 2024). La solidarietà può essere unilaterale, cioè si possono avere condivisione, sostegno, partecipazione da parte di un soggetto attivo (che dà) – solitamente per motivazioni altruistiche – rivolti ad altri nel ruolo di soggetti passivi (che ricevono). Ma può anche essere multilaterale, in questo caso riferita ad un gruppo di persone attive (che danno-ricevono). La solidarietà (condivisione, sostegno, partecipazione) all’interno di un gruppo implica reciprocità: la reciprocità in definitiva non è altro che la solidarietà intra-gruppo. Notiamo che solidarietà e reciprocità sono concetti collegati[17], ma non sinonimi, dato che la seconda è presente solo nella accezione multilaterale della prima.
È a questo punto d’obbligo un caveat. Solidarietà e reciprocità sono termini in uso non solo nel linguaggio ordinario ma anche nelle più varie discipline del sapere, dal diritto[18] alla teologia[19], dove acquistano significati particolari, seppur con una base di partenza comune che è rappresentata dal linguaggio ordinario. Dobbiamo prendere atto che siamo di fronte a parole marcatamente polisemiche e, com’è ovvio, è forte il rischio di perdere l’orientamento. Ad evitare ciò dichiariamo subito in quale ambito ci muoviamo. In questo saggio ci occupiamo di cooperazione e più in generale di ciò che va sotto il nome di terzo settore. Pertanto anche solidarietà e reciprocità c’interessano principalmente con riferimento a questo campo (e lo stesso vale per la mutualità di cui parleremo fra un attimo). Proprio per sottolineare questa specificità, nel seguito al posto di solidarietà unilaterale/multilaterale faremo uso delle espressioni solidarietà mutualistica/altruistica[20].
L’anello di congiunzione tra solidarietà e cooperazione è la mutualità. Dal punto di vista etimologico reciprocità e mutualismo/mutualità[21] sono strettamente collegati. Nel linguaggio comune sono spesso usati in modo intercambiabile, praticamente come sinonimi, e così anche in talune discipline scientifiche come, ad esempio, la biologia[22]. La mutualità e la reciprocità che si manifestano nell’ambito della cooperazione però non sono esattamente le stesse del linguaggio comune in quanto, pur condividendone il nucleo fondamentale, hanno alcune connotazioni particolari e distintive[23].
La reciprocità, come abbiamo già osservato, è per sua natura sempre riferita a un gruppo di individui entro cui viene esercitata. Più precisamente, c’è reciprocità quando ciascuno del gruppo di riferimento fa qualcosa per gli altri del medesimo gruppo. Si noti bene che non si tratta di scambio – do ut des, ovvero faccio qualcosa per qualcuno affinché questi faccia qualcosa per me – ma dell’impegno unilaterale di ciascuno verso tutti: ciascuno s’impegna a fare qualcosa per tutti gli altri appartenenti al gruppo di cui fa parte. Ciò vale in generale e vale anche in ambito cooperativo. A noi qui interessa quest’ultimo in particolare e pertanto l’approfondimento sulla reciprocità che ora andiamo a fare lo facciamo prendendo a riferimento il mondo della cooperazione.
Le organizzazioni mutualistiche possono essere viste come entità volte a produrre e fornire servizi ai partecipanti al rapporto mutualistico. In campo economico un servizio – il fare di altri che procura un’utilità al fruitore – lo posso ricevere da:
Dei due casi, per noi è rilevante il secondo e ci concentriamo su questo. Per capirne meglio il senso, partiamo con un esempio.
(Reciprocità diretta) Le società di mutuo soccorso sono una delle forme storiche da cui ha preso avvio il movimento cooperativo. Anche queste, come gran parte della cooperazione moderna, sono nate nella seconda metà dell’Ottocento e il loro scopo era portare soccorso alla persona in caso di malattia o incidente, in un’epoca in cui le classi meno abbienti, a livello individuale, erano normalmente escluse dai servizi sanitari: la sanità era allora privata e il singolo non abbiente spesso non aveva la capacità economica di pagare quei servizi. Tuttavia, se il singolo non era in grado di provvedere da solo a una sua necessità, poteva cercare il soccorso di altri. Il soccorso è per sua natura relazionale e di gruppo. Un gruppo può permettersi una spesa che il singolo non può permettersi individualmente, mettendo assieme risorse che vengono da tutti i componenti del gruppo. E qui sta il nucleo di base del mutuo soccorso: se non posso risolvere da solo il mio problema, posso però diventare parte di un gruppo di individui che hanno il mio stesso bisogno, a cui mi lego con un impegno di soccorso reciproco, in virtù del quale il gruppo aiuta chi di volta in volta si trova in difficoltà (si noti che tutti prendono lo stesso impegno: questa è la condizione per partecipare al gruppo)[24]. Su questa semplice idea si basa tutta la cooperazione[25].
Occorre intendersi bene sulla natura del bisogno. Intanto i bisogni di cui si parla rientrano nella sfera del consumo, quindi sono bisogni della persona[26]. Inoltre, il bisogno non è di solito uno solo ma ce n’è più d’uno contemporaneamente. Nell’esempio che abbiamo visto prima c’è un bisogno immediato, la cura medica, che è solo di chi è colpito dalla malattia/incidente in quel momento, e c’è un bisogno che riguarda contemporaneamente e in ogni momento tutti i componenti del gruppo, che è essere soccorsi se si verifica la necessità concreta. È questo bisogno comune, sempre presente (diversamente dal bisogno contingente dell’infortunato/malato, che non c’è sempre e riguarda solo quest’ultimo), su cui si fonda il gruppo. Un gruppo dove trovo soccorso e porto soccorso, a seconda delle circostanze. In quel “trovo” e in quel “porto”, riferiti a uno specifico gruppo costituito intorno a uno specifico bisogno comune, c’è l’essenza della mutualità cooperativa. Più esplicitamente, è l’impegno di aiuto reciproco il nucleo fondamentale della mutualità nelle organizzazioni (che nelle organizzazioni cooperative si presenta, come vedremo, unitamente ad altri attributi). Lo schema secondo cui il gruppo mutualistico aiuta chi del gruppo ha in un determinato momento un’esigenza di soccorso si regge ovviamente sulla rotazione, la quale può esserci solo se il bisogno contingente non emerge per tutti simultaneamente.
Nelle società di mutuo soccorso il bisogno è legato alla salute ma questo è un aspetto contingente e lo stesso schema si può ripetere anche con altri bisogni legati alla persona[27]. Simile al soccorso alla persona colpita da malattia o incidente è il “soccorso” ai beni della persona. Particolarmente pertinente come esempio, anche in chiave storica, è il soccorso contro gli incendi: mi brucia la casa, occorre spegnere l’incendio; se ci provo da solo, la casa brucia completamente e dunque ho bisogno dell’aiuto di altri per lo spegnimento. Questo tipo di bisogno è oggi soddisfatto dallo Stato attraverso il corpo dei Vigili del Fuoco ma non era così nell’Ottocento e nemmeno per buona parte del Novecento quando esso era affrontato su base collettiva e volontaria (ancora oggi in Alto Adige al posto dei Vigili del Fuoco dello Stato operano i freiwillige Feurwehr, enti di soccorso volontario contro gli incendi, che sono di natura sostanzialmente mutualistica).
Un’attività collegata allo spegnimento è la riparazione del bene dopo l’incendio e anche questa può essere oggetto di interventi mutualistici simili nella natura al mutuo soccorso. La riparazione condotta con l’aiuto di terzi ci porta dritti nel campo delle assicurazioni contro i danni ai beni personali, che, se esercitate in modo cooperativo (come nelle mutue assicuratrici), applicano di fatto lo stesso schema di base degli esempi precedenti. Schema che ritroviamo anche alla base del credito cooperativo, che pure si afferma a partire dall’Ottocento. Qui il bisogno comune è ricevere credito per far fronte a una necessità che richiede un impegno finanziario – in definitiva, anche questa una forma di soccorso.
Quanto alle modalità pratiche di attuazione nelle varie circostanze, queste possono essere diverse. Laddove l’apporto individuale è finanziario, l’individuo può contribuire partecipando a un fondo di denaro costituito prima che si verifichi l’evento avverso, in una misura che si basa sulle aspettative – applicando quello che nei fatti è un approccio assicurativo, come fanno le gestioni attuali –, oppure, in modo meno strutturato, mettendo mano al portafoglio dopo che si è verificato, con un esborso commisurato all’entità effettiva del danno. In altri casi l’apporto non è finanziario e si manifesta facendo direttamente qualcosa a favore di chi ha il bisogno contingente, ad esempio, se si tratta di trasporto di emergenza, andando di persona a recuperarlo[28]. Questi sono però dettagli secondari ai nostri fini. Quel che conta è che ciascun membro del gruppo mette risorse proprie – reali, finanziarie – a disposizione del gruppo, al fine di soccorrere i membri del gruppo, se stesso incluso (“portare-ricevere soccorso”).
Tirando le fila, tutti gli esempi passati in rassegna sono caratterizzati dalla contemporanea presenza di un gruppo, un bisogno comune al gruppo, una reciprocità/mutualità all’interno del gruppo. Nelle moderne società cooperative e negli enti ad esse assimilati il gruppo mutualistico si costituisce intorno a una funzione economica comune che i membri svolgono nell’organizzazione (ad es. quella di lavoratore) e che alla fine identifica la tipologia specifica della cooperativa (nell’esempio, una cooperativa di lavoro).
Nel mutuo soccorso, nella mutua assicurazione e nel credito cooperativo ritroviamo in modo chiaro, almeno alle origini, la reciprocità del senso comune: tutti fanno a rotazione direttamente e materialmente qualcosa a beneficio di chi ha un bisogno di un certo tipo (azione di n - 1 individui degli n che compongono il gruppo a beneficio di colui che ha in quel momento il bisogno contingente)[29]. Nella reciprocità del senso comune c’è anche un ulteriore aspetto che ritroviamo nella cooperazione sin dalle prime esperienze: all’interno del rapporto di reciprocità i soggetti stanno tutti sullo stesso piano, non ce n’è uno favorito. È il principio di uguaglianza, riconosciuto anche dalla Dichiarazione di identità cooperativa come valore fondante della cooperazione, che rimanda immediatamente alla democrazia, altro valore fondante della cooperazione secondo la Dichiarazione: la democrazia, pur non essendo in senso stretto un’implicazione necessaria della mutualità, è tuttavia quasi sempre presente dove è presente quest’ultima (democrazia cooperativa vuol dire uguali prerogative nella sfera del governo, solitamente derivante dal principio della parità di trattamento, che comporta anche uguaglianza nell’accesso ai benefici derivanti dall’azione collettiva del gruppo). In concreto, ciò significa che in una cooperativa le utilità prodotte dalla gestione di servizio sono accessibili a tutti i membri del gruppo (soci) a parità di condizioni (seppur non necessariamente nella stessa misura).
Lo schema di base descritto interessa molte realtà della cooperazione tradizionale ma non tutte, perché in talune attività il fare diretto dei membri non è conveniente o anche solo possibile. In tal caso questo può essere sostituito da altre modalità operative, che danno origine a forme organizzative diverse da quelle viste sopra. Per illustrare il punto, ritorniamo al mutuo soccorso.
(Reciprocità indiretta) Supponiamo che un membro proponga di partecipare all’attività del gruppo facendo operare al suo posto una persona da esso pagata. È molto probabile che non vi sia nessuna obiezione da parte degli altri membri, perché in effetti che intervenga il membro in prima persona o un altro in sua vece è irrilevante ai fini della realizzazione dell’attività mutualistica: cambia la modalità ma il principio che si applica è lo stesso. E se anche gli altri facessero lo stesso, magari attribuendo la delega alla stessa persona che diventa così un lavoratore alle dipendenze del gruppo? Ancora una volta non cambierebbe la natura dei rapporti interni al gruppo ma solo la modalità organizzativa e pratica della produzione. L’assunzione di un lavoratore alle dipendenze del gruppo spinge verso la costituzione di un’entità distinta dai singoli individui e dotata di un’organizzazione interna, che acquista il ruolo di soggetto attuatore dell’attività produttiva, e da ultimo verso l’organizzazione d’impresa. Anche giuridicamente la moderna (società) cooperativa è un imprenditore che svolge attività d’impresa[30]. Sottolineiamo che l’aspetto dell’impresa è centrale nella cooperazione moderna (ricordiamo l’aforisma “solidarietà attraverso l’impresa”). Siamo evidentemente di fronte a una situazione diversa da quella da cui siamo partiti ma le diversità stanno nella sovrastruttura organizzativa, non nel principio di fondo della reciprocità, che rimane nella sostanza lo stesso. Vediamo ora qualche esempio concreto.
Un settore dove non si ritrova la reciprocità del senso comune ma la variante appena descritta è quello della cooperazione di consumo, che opera nel commercio al dettaglio. Anche qui all’origine della cooperazione mutualistica c’è un bisogno comune, che è l’acquisto dei beni di consumo. Nel commercio al dettaglio le attività lavorative necessarie per la produzione del servizio in questione coinvolgono normalmente un numero di individui che è piccolo rispetto al numero totale degli utenti/clienti. Questi soggetti possono essere membri del gruppo mutualistico che agiscono a rotazione a favore dei rimanenti e in tal modo vengono coinvolti in momenti diversi tutti i membri del gruppo (è il modello delle Food Coop). Questo per la piccola scala di produzione. Nel commercio al dettaglio esercitato su grande scala non è invece materialmente possibile che tutti gli utenti del servizio (i beneficiati dell’organizzazione mutualistica) siano co-produttori del servizio (partecipino alla sua produzione) e gli addetti sono lavoratori dipendenti assunti dal gruppo mutualistico, eventualmente provenienti in parte dal gruppo mutualistico stesso (questo è il modello delle Coop). Dunque, nella grande cooperativa di consumo la reciprocità non è materialmente praticabile nella modalità diretta del senso comune ma continua a esserci sotto forma di reciprocità indiretta, che la generalizza, e questo modello è un’estensione di quello del mutuo soccorso delle origini.
Nella cooperazione secondo lo schema della reciprocità indiretta il bisogno comune del gruppo mutualistico è soddisfatto attraverso la creazione di un’organizzazione d’impresa di cui sono titolari i membri del gruppo e che è finalizzata a produrre il servizio che soddisfa il bisogno (l’attività svolta da quest’impresa è in senso economico una produzione collettiva svolta in modo congiunto con la cooperazione del gruppo mutualistico e in senso tecnico-giuridico una gestione di servizio). Anche qui ciascuno fa qualcosa per gli altri, non nella forma di un fare indirizzato al fruitore ma attraverso un’organizzazione (solitamente una società cooperativa), alla cui creazione e gestione i singoli cooperano. Di fatto ciò si realizza attraverso il conferimento del capitale necessario per avviare l’attività produttiva, che nel caso della cooperazione di consumo è la produzione di un servizio di commercio al dettaglio (sottolineiamo che in questo tipo d’impresa il capitale lo mettono i clienti stessi, un poco ciascuno, e non soggetti estranei al godimento del servizio). È vero che alcuni del gruppo mutualistico possono svolgere una funzione direttamente produttiva all’interno dell’organizzazione, mettendoci il proprio lavoro (ovvero lavorando come addetti) – in questo caso facendo direttamente qualcosa a favore degli altri del gruppo – ma nella grande cooperativa di consumo potranno essere al più una parte, mai tutti (il modo usuale di partecipazione dei soci all’impresa è, come abbiamo detto, il conferimento di capitale). Considerazioni analoghe si possono fare per altri settori della cooperazione, in particolare per quello del lavoro. Il fondamento è di nuovo la reciprocità/solidarietà indiretta[31] e il modello è lo stesso del consumo con il bisogno di essere occupati che prende il posto del bisogno di acquistare beni di largo consumo.
La solidarietà è ciò che tiene insieme modelli di cooperazione a prima vista molto diversi, distanti potremmo dire. Diversità accentuata dalla presenza nella cooperazione sociale del volontariato, dalla concentrazione di questa in alcuni settori di attività poco battuti dalla cooperazione tradizionale come il welfare (ma non dimentichiamo il mutuo soccorso della cooperazione tradizionale), dal fatto che la cooperazione sociale sia stata sin dall’inizio collocata a fini statistici nel settore nonprofit e figuri nelle statistiche ufficiali sul settore, dove non compare invece la cooperazione tradizionale, e anche questo ha contribuito all’immagine pubblica di separatezza. Distanti o vicini? Dipende dai punti di vista. A noi piace più sottolineare più la contiguità. Se li si guarda nell’ottica della solidarietà, diremmo vicini, molto vicini: sono entrambe manifestazioni d’impresa fondate sulla solidarietà (seppur di tipo diverso).
Riassumendo, la reciprocità/mutualità dell’impresa cooperativa è riconducibile a quella del senso comune, da cui però si distingue, come abbiamo visto, per diversi aspetti. Rivediamoli tutti insieme. Un primo elemento della mutualità della cooperazione tradizionale che è invece assente dalla reciprocità del discorso comune è l’attività produttiva: la reciprocità si svolge qui nella sfera della produzione, mentre la reciprocità nell’uso comune non è limitata a questo ambito. Un secondo elemento, collegato al precedente, è che la produzione normalmente è esercitata attraverso un’organizzazione d’impresa (mutualistica). Un terzo elemento, anch’esso collegato ai precedenti, è che il bisogno comune nella cooperazione tradizionale è normalmente associato a una funzione economica esercitata all’interno dell’organizzazione. Infine ricordiamo che la reciprocità è spesso indiretta, una nozione estranea al senso comune del termine. In conclusione, la mutualità nella cooperazione, pur avendo alla base lo stesso ceppo della reciprocità del senso comune, ha ulteriori connotati che non consentono l’immediata trasposizione dal senso comune a questo ambito.
Arrivati a questo punto non dovrebbero esserci più dubbi sulla centralità della solidarietà nella cooperazione. Abbiamo toccato con mano che la solidarietà è una delle radici profonde della cooperazione, anche di quella tradizionale (l’unica tipologia di cui finora ci siamo occupati). In realtà non c’erano dubbi neanche all’inizio del nostro percorso perché, se l’autorevole Dichiarazione d’identità ICA afferma che la solidarietà è un valore fondante della cooperazione (tradizionale), così deve essere. Apparentemente dunque non abbiamo fatto che riscoprire quel che già si sapeva e che si trova anche affermato qua e là in letteratura[32]. In realtà abbiamo conseguito qualcosa in più. Alla fine del nostro percorso sappiamo non solo che la solidarietà è fondante ma anche in che modo si intreccia con la cooperazione, inclusa quella tradizionale, e dunque perché è fondante, cosa che la Dichiarazione non dice. Non solo: della solidarietà abbiamo chiarito il significato, che invece nella Dichiarazione è lasciato indeterminato. Sappiamo ora che di essa ci sono due principali forme – unilaterale/multilaterale e altruistica/mutualistica. Inoltre, sappiamo che in ambito cooperativo la solidarietà mutualistica può manifestarsi con più modalità, in particolare la modalità diretta e la modalità indiretta. Ciò consente di individuare una gerarchia di livelli di cooperazione, ordinati per complessità organizzativa, che trovano una corrispondenza di massima nell’evoluzione storica: un primo livello base, associato alla reciprocità diretta, un secondo livello associato alla reciprocità indiretta, che è un’evoluzione della precedente. Di un livello ulteriore – e di un’ulteriore fase evolutiva – parleremo nel prossimo paragrafo.
La solidarietà è nelle radici della cooperazione e lo è dagli albori del movimento cooperativo. Non è il portato di sviluppi recenti, in particolare della cooperazione sociale, la quale al contrario si afferma quando forme precedenti di solidarietà hanno una mutazione e si generano altre forme. In realtà, tutto lo sviluppo storico della cooperazione può essere letto attraverso le lenti della solidarietà. Nel tempo si sono sviluppate via via nuove forme di cooperazione che altro non sono che l’espressione di nuovi modi di concepire e praticare la solidarietà. Ciò è particolarmente evidente nell’ultimo trentennio, caratterizzato dalla nascita di nuove forme di cooperazione e più in generale di organizzazioni di terzo settore che derivano per mutazione dalla mutualità tradizionale. Volendo sintetizzare, si può dire che l’evoluzione storica della cooperazione può essere vista come un progressivo avvicinamento della cooperazione mutualistica alla solidarietà altruistica e di questa vogliamo ora occuparci.
Lo schema della cooperazione tradizionale, incentrato sulla solidarietà mutualistica, come abbiamo visto, fece la sua comparsa alle origini del movimento cooperativo nella seconda metà dell’Ottocento e si è mantenuto senza sostanziali modifiche per oltre un secolo. Se questa forma di solidarietà è stata il tratto distintivo di questa fase, tuttavia dobbiamo notare che la solidarietà altruistica non è mai stata del tutto assente e se ne ritrovano tracce significative in diverse esperienze delle origini. Non c’è qui spazio per un’analisi approfondita e ci limitiamo pertanto a un paio di annotazioni.
Le cooperative elettriche che nascono a cavallo tra Ottocento e Novecento (Mori, 2013, 2014; Spinicci, 2011 a, b) e le cooperative di Don Lorenzo Guetti – eminente conterraneo di Carlo Borzaga a cui egli guardava e si ispirava – sono tutte esperienze che hanno al centro, in modo più o meno dichiarato, la comunità e sono le vere antesignane di alcune forme cooperative recentissime (vedi più avanti). Per don Guetti la cooperazione (tradizionale, va da sé) era immediatamente e dichiaratamente funzionale alla preservazione di comunità fragili e precarie della montagna trentina – aree interne, diremmo oggi – in un periodo di forte crisi economica dell’impero asburgico, nella seconda metà dell’Ottocento. Poco importava a quel parroco dell’impresa in sé (non era un imprenditore, almeno nel senso usuale del termine), mentre molto importava il mantenimento in vita di comunità colpite nelle loro economie, declinanti nel numero dei residenti per mortalità ed emigrazione, e quindi minacciate nella loro stessa esistenza[33]. La risposta fu allora una cooperazione tradizionale “comunitaria” (non possiamo approfondire ma ricordiamo che quello comunitario è uno dei due filoni in cui si articola la cooperazione delle origini)[34].
In queste esperienze, come nelle cooperative di solidarietà sociale di cui abbiamo parlato in precedenza, la solidarietà altruistica è già all’opera ma sottotraccia. La legge sulla cooperazione sociale del 1991 (L. 381/91) la porta, per così dire, allo scoperto e rende manifesto che la solidarietà altruistica, non meno della solidarietà mutualistica, è a pieno titolo parte della cooperazione.
Sulla legge 381 esistono diversi commentari a cui si può far riferimento e dunque non c’è bisogno di dilungarsi[35]. Ci soffermiamo solo su un punto, l’interesse generale che l’art. 1 inserisce tra gli obiettivi della cooperativa sociale. Cosa s’intende per interesse generale nel contesto della legge? È un concetto che si presta a varie interpretazioni[36] e si interseca con vari ambiti[37] ma qui ci limitiamo a richiamare i fatti essenziali. Secondo l’approccio della legge – che poi ha fatto scuola sia a livello nazionale (vedi la normativa sull’impresa sociale e sugli ETS ai sensi del Codice del Terzo settore) sia internazionale – l’interesse generale è intrinseco al tipo di attività. L’art. 2 fa un elenco di categorie di attività, la cui esecuzione da parte della cooperativa comporta automaticamente il riconoscimento giuridico che essa persegue “l'interesse generale della comunità” (art. 1). In altre parole, vi è la presunzione ex lege che la cooperativa stia perseguendo l’interesse generale se (condizione sufficiente) essa realizza attività che ricadono nelle categorie espressamente indicate, cioè: a) gestione di servizi sociosanitari e educativi, b) inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
È importante mettere bene a fuoco lo schema introdotto dalla legge e in particolare il ruolo che nel perseguimento dell’interesse generale gioca la mutualità tradizionale. Nella cooperativa sociale, come nella cooperativa tradizionale, i beneficiari diretti dell’impresa sono i soci della società. Nella cooperativa sociale di tipo b) sono soci anche le persone svantaggiate (art. 4) che abbisognano del servizio di inserimento lavorativo di cui all’art. 1, c. 1-b. Ma l’inserimento non è un bisogno comune nel senso specifico in cui noi usiamo questo termine (v. sopra), in quanto i lavoratori non svantaggiati hanno un bisogno di occupazione, come nella ordinaria cooperativa di lavoro, ma non un bisogno di inserimento lavorativo. Anzi, per poter agevolare l’inserimento degli svantaggiati, essi non debbono avere tale bisogno, ovvero debbono essere pienamente abili e capaci. Ci sono, dunque, due bisogni diversi, specifici a ciascuno dei due distinti sotto-gruppi che compongono il gruppo mutualistico (unico). Perché il sottogruppo dei lavoratori non svantaggiati, abili e capaci di aiutarsi tra loro nei modi della mutualità tradizionale, dovrebbero mettersi assieme al gruppo degli svantaggiati? L’unica motivazione intrinseca possibile è l’esistenza di un atteggiamento altruistico che si manifesta in una solidarietà unilaterale indirizzata verso l’esterno del proprio gruppo, precisamente verso il gruppo degli svantaggiati. In altre parole, nient’altro che la solidarietà altruistica dei lavoratori non svantaggiati[38]. Sottolineiamo che nella cooperazione sociale la solidarietà unilaterale o altruistica non sostituisce la solidarietà mutualistica ma si aggiunge e, in un certo senso, si appoggia ad essa: non solo la prima non viene meno ma la seconda può essere esercitata solo perché e nella misura in cui è in azione la prima.
È a questo punto chiaro che nella cooperativa sociale di tipo b) l’interesse generale dell’art. 1 si realizza attraverso la solidarietà altruistica, qui resa possibile a sua volta dalla solidarietà mutualistica. Si noti che nella cooperativa sociale (tipo b) i lavoratori svantaggiati sono soci ma la sostanza cambierebbe poco se la medesima solidarietà altruistica fosse indirizzata verso soggetti esterni al gruppo mutualistico. Il passo verso il superamento della mutualità interna è dunque breve e questo modello di solidarietà altruistica può in effetti essere considerato l’archetipo di una categoria più ampia che va oltre la cooperazione sociale e ricomprende altre forme organizzative, una delle quali è la cooperazione di comunità di cui parleremo in seguito. Se nella cooperativa di tipo b) la presenza della solidarietà altruistica è particolarmente evidente, è tuttavia presente anche nelle cooperative sociali di tipo a), con modalità leggermente diverse[39].
La singolarità del modello della 381 sta nell’intreccio tra solidarietà mutualistica e solidarietà altruistica nel perseguimento dell’interesse generale. È una costruzione a più piani dove l’interesse generale si realizza grazie alla solidarietà altruistica che a sua volta si realizza grazie alla solidarietà mutualistica, su cui alla fine si regge tutto l’edificio. Abbiamo già osservato che la commistione tra mutualità (tradizionale) e interesse della comunità (di una qualche comunità) non si manifesta per la prima volta con la cooperazione sociale ma era già presente in varie esperienze cooperative anteriori. Quel che c’è di nuovo nella legge 381 è che la dimensione sociale viene portata alla luce con la creazione di una tipologia di società cooperativa dove solidarietà mutualistica, solidarietà altruistica e interesse generale sono per la prima volta messi assieme in modo esplicito.
La cooperazione sociale è un’evoluzione della cooperazione mutualistica delle origini che ha segnato un punto di rottura nella storia del movimento cooperativo. A sua volta è diventata poi punto di partenza di ulteriori sviluppi nella cooperazione e nel terzo settore. Dopo il 1991 si è assistito all’emergere di una galassia di nuove forme d’impresa (più in generale nuove entità) di natura sociale in senso lato, in un modo o nell’altro riconducibili al modello della cooperativa sociale: imprese sociali in senso stretto (D.Lgs. 112/17), imprese genericamente di comunità – categoria che ricomprende varie sottocategorie – ed altre ancora.
Questo percorso può essere letto in chiave di evoluzione della solidarietà. Se guardiamo indietro, la storia della cooperazione è segnata da tappe che corrispondono alle mutazioni della solidarietà di cui abbiamo parlato: prima mutualistica diretta, poi mutualistica indiretta, poi ancora solidaristica. L’ultimo salto nell’evoluzione è la solidarietà di comunità. Che significa? È un concetto complesso, di non immediata comprensione. Tuttavia, se facciamo riferimento all’analisi svolta in precedenza, possiamo inquadrare questa forma di solidarietà in modo relativamente semplice come estensione delle precedenti.
Diciamo subito che ci limitiamo qui all’ambito dell’impresa[40] e quindi della cosiddetta cooperazione di comunità[41]. Non ci interessa fare una ricostruzione concettuale (rimandiamo a Mori, 2018, per un inquadramento generale) e preferiamo invece partire dal concreto. Una difficoltà che s’incontra quando ci si volge al piano empirico è la varietà – ma sarebbe più corretto dire dispersione – che caratterizza il settore e che rende difficile, forse impossibile trovare casi rappresentativi dell’intero universo. Consapevoli di questo limite, prendiamo come esempio concreto, tra i tanti, uno dei più significativi: la Compagnia Popolare del Teatro Povero, Monticchiello (SI). È un’esperienza storica (ha inizio negli anni Cinquanta del Novecento), ancora in vita, che gode di ampia notorietà a vari livelli – anche mediatico – e su cui è inoltre disponibile una letteratura scientifica utilizzabile per approfondimenti[42]. I fatti di maggiore interesse per noi in due parole sono i seguenti.
Alla fine della mezzadria (anni Cinquanta) la campagna toscana comincia a spopolarsi per l’emigrazione dei più giovani verso i poli industriali. È anche la sorte di Monticchiello, che per di più era difficile da raggiungere in talune stagioni per l’esistenza di un’unica strada non agevolmente transitabile. Monticchiello rischia l’isolamento e in prospettiva l’abbandono. Un gruppo di residenti prende in mano la situazione e, allo scopo esplicito di spingere le autorità ad occuparsi della strada, s’inventa uno spettacolo di teatro popolare da tenersi nella stagione estiva. Da qui comincia la storia del teatro di Monticchiello, con la costituzione di una cooperativa di comunità (per maggiore precisione una ordinaria cooperativa di lavoro che era nei fatti, sin dall’inizio, pienamente di comunità secondo gli standard oggi correnti). Quest’impresa ha generato nel tempo esternalità positive sul territorio, attraverso la nascita di attività legate al turismo (ospitalità, ristorazione), che hanno avuto l’effetto di arrestare lo spopolamento e tra l’altro innescare una generale rivalutazione degli immobili (aumentare il patrimonio dei residenti).
In questa piccola storia c’è tutta l’essenza dell’impresa di comunità: «Fare qualcosa per la comunità con la partecipazione della comunità attraverso un’impresa» (Mori, 2018, p. 17). L’impresa a cui si riferisce la massima è l’impresa di comunità (non necessariamente, si badi bene, in forma cooperativa). Gli elementi di base che la caratterizzano sono: il beneficio comunitario (“per”) e la partecipazione della comunità (“con”). Ci sono poi diversi aspetti accessori, anche di rilievo, che non possiamo nemmeno menzionare (rimandiamo per questo a Mori cit.). L’aspetto su cui vogliamo brevemente soffermarci è il rapporto dell’impresa di comunità con la solidarietà di comunità.
Anche all’origine della cooperazione di comunità, come delle altre forme di cooperazione, c’è un bisogno comune, in questo caso comune a tutta una comunità, ovvero un bisogno comunitario. Questo è il dato di partenza, forse quello più fondamentale, in assenza del quale ha poco senso parlare di cooperazione di comunità. Sorvoliamo sui dettagli (bisogno esattamente di chi? tutti i membri della comunità? tutti contemporaneamente?). L’altro elemento essenziale è l’attivismo, più precisamente la partecipazione della comunità all’impresa, finalizzata alla produzione di beni/servizi che soddisfano, direttamente o indirettamente, il bisogno comunitario[43]. Si noti che esso si configura a tutti gli effetti come autoaiuto della comunità[44]. La partecipazione all’impresa può manifestarsi in diversi modi: partecipazione all’attività operativa, al finanziamento, alla gestione dell’impresa. I nomi lasciano intuire di cosa stiamo parlando e questo è per noi sufficiente (per i dettagli si rimanda ancora una volta a Mori cit.). Vogliamo solo evidenziare un aspetto della partecipazione comunitaria importante per il ragionamento che stiamo sviluppando.
Per avere partecipazione della comunità non è richiesto che tutta la comunità sia contemporaneamente impegnata nel fare che soddisfa il bisogno (come invece è nella mutualità tradizionale): si può avere solidarietà di comunità quando anche solo una parte di essa contribuisce alla produzione e perfino quando chi contribuisce a produrre il beneficio che soddisfa il bisogno comune non ne gode in quel momento. Nelle comunità normalmente ci sono dei beneficiari (attuali o potenziali) che non partecipano in nessun modo alla produzione del beneficio (al soddisfacimento del bisogno). Qualcosa di simile si verifica anche nella cooperazione sociale di tipo a), dove, come abbiamo visto, ci sono dei beneficiari potenziali che non partecipano ora, ma parteciperanno in futuro (vedi l’esempio dell’istruzione di sopra). Nella cooperazione di comunità questo legame viene reciso ed è possibile che alcuni membri della comunità non partecipino mai.
Il requisito che deve essere necessariamente soddisfatto è che chi ne gode faccia parte di quella comunità e che il servizio sia prodotto con risorse almeno in parte della comunità. Non è più richiesta l’identificazione tra produttore e fruitore a livello dei singoli individui, tipico della mutualità tradizionale, ma è sufficiente che questa vi sia a livello di comunità: è la comunità che produce, è la comunità che gode, nel senso che vi è una parte di essa, più o meno ampia, che produce e una parte, più o meno ampia, che gode, parti non necessariamente coincidenti tra loro e nemmeno con la comunità complessiva. Per analogia con la solidarietà intra-gruppo discussa al paragrafo precedente, possiamo chiamare questo tipo di relazioni intra-comunitarie “solidarietà di comunità”[45]. Con la mutualità tradizionale ha in comune il fatto che gli utenti/beneficiari sono almeno in parte anche “produttori” e da questa angolatura può essere vista come un’estensione di quella forma di mutualità. Lo schema che abbiamo descritto fornisce la cornice generale dell’impresa/cooperazione di comunità ma ovviamente la specificazione concreta dipende da come si strutturano i rapporti tra i singoli individui. Ad esempio in un’organizzazione d’impresa di comunità può esserci un gruppo mutualistico (come in tutti i casi in cui l’impresa di comunità è esercitata sotto forma di cooperativa)[46], che non coinvolgerà normalmente tutta la comunità, ma potrebbe anche non esserci. Altre modalità ancora sono possibili ma anche queste dovranno sottostare a determinati requisiti. Qui si apre una nuova linea di indagine che cade però al di fuori delle finalità di questo scritto e pertanto, arrivati a questo punto, ci fermiamo.
C’è un futuro per la cooperazione? Se c’è, riteniamo stia nella solidarietà. La solidarietà è la radice: se si perde la solidarietà, si perde la cooperazione. Si perde anche un potente fattore di cambiamento: le grandi innovazioni del passato in campo cooperativo sono venute da cambiamenti nel modo di pensare e attuare la solidarietà. Questo è vero non solo del passato ma presumibilmente anche del futuro: se non si trovano nuovi modi di praticare la solidarietà, la cooperazione non progredisce e alla fine regredisce. In quali direzioni si può evolvere la solidarietà? È difficile e forse anche vano cercare una risposta alla domanda. Possiamo però fare qualche considerazione in chiave prospettica sulle linee evolutive più recenti del settore.
Oggi la cooperazione è un settore complessivamente un po’ in affanno e con una percezione pubblica un po’ appannata. Questo riguarda in particolare le forme di cooperazione più vecchie e consolidate, mentre ai margini del settore si osserva una certa effervescenza, con l’affermarsi di nuove forme che godono di un’immagine generalmente positiva presso il pubblico. Ci riferiamo alla cooperazione di comunità, a cui abbiamo già fatto cenno. È da qui che possiamo attenderci un’inversione di tendenza e un nuovo futuro per la cooperazione e per il terzo settore in generale?
Qualche dato per inquadrare il fenomeno. Secondo una delle rilevazioni più recenti in Italia vi erano a fine 2023 poco meno di 250 imprese di comunità (Euricse, 2024). Il tasso di crescita dell’ultimo quinquennio è elevato (si è passati da circa 150 agli attuali numeri, cit.), anche se di recente ha mostrato un rallentamento. Altri dati: concentrazione nelle aree rurali, basso valore economico della produzione, piccoli numeri di addetti. Tutti i dati attestano la marginalità economica del fenomeno nel panorama complessivo ma anche nel panorama del settore cooperativo. Ciononostante, è un sottosettore che gode in questo momento del favore del pubblico e delle associazioni di rappresentanza della cooperazione, se dobbiamo giudicare dal numero di eventi pubblici (convegni, presentazioni, iniziative formative, ecc.) e dal numero di scritti, rapporti, ecc., che appaiono in continuazione. È evidente che le aspettative sono elevate.
I dati strutturali – dimensioni piccole, bilanci modesti, localizzazione in aree difficili – militano contro una crescita significativa in termini economici e l’uscita dalla marginalità. Per uscire, verrebbe da dire, occorrerebbero attività economiche diverse da quelle attuali – che in buona sostanza sono turismo, agricoltura, cultura – capaci di supportare valori economici significativi. Occorrerebbe anche una localizzazione meno incentrata sulle aree interne. Guardando intorno, anche all’estero, si può trovare qualche esperienza che va in questa direzione.
La cooperazione di comunità si presta molto bene a livello teorico alla produzione ed erogazione di servizi pubblici locali. Esempi significativi in Italia nell’energia sono le cooperative elettriche (Spinicci, 2011a, b) e all’estero nel settore idrico alcune esperienze di gestione nonprofit (il gestore del Galles, Glas Cymru, è un caso molto noto e studiato). Il settore idrico è particolarmente significativo per le potenzialità ma l’attuale assetto normativo e regolatorio in Italia rende oggi praticamente impossibile muoversi nella direzione di gestioni comunitarie. Quest’osservazione chiama in causa la politica: in generale, senza opportune politiche pubbliche è difficile che si possa arrivare a uno sviluppo significativo del comparto. La politica d’altra parte è stata un attore non secondario anche dello sviluppo recente del comparto, per lo più attraverso interventi di natura erogativa[47]. Nessuno ha finora studiato quanto del fenomeno della cooperazione di comunità (quella recente) sia da ascrivere all’autonoma iniziativa privata e quanto invece al denaro pubblico erogato ma forte è la sensazione che quest’ultimo sia stato in molti casi il motore principale (un tema di grande rilievo è ovviamente la validità delle politiche attuate dal punto di vista dei costi e dei benefici, che richiederebbe un’analisi ad hoc, anche questa al momento mancante).
Anche la concentrazione nelle aree interne rurali è certamente un fattore di freno allo sviluppo del settore. Pensando alle alternative, vengono immediatamente in mente le aree del disagio urbano, le periferie. Ci sono già iniziative di tipo comunitario nelle periferie di diverse città, ma anche qui con i problemi dimensionali che si sono già detti (in più luoghi, ad esempio, si assiste alla nascita delle cosiddette portinerie di quartiere – l’ultima moda del comparto – carine, ma insufficienti per i grandi problemi delle periferie). La cooperazione di abitazione è una forma di cooperazione tradizionale, mutualistica pura, almeno nelle forme attuali. La cooperazione di abitazione potrebbe farsi carico del recupero del patrimonio edilizio pubblico non più in uso? Si possono immaginare schemi di cooperazione, che, sulla falsariga della cooperazione sociale, mettano assieme singoli utenti, comunità locali, enti pubblici locali? Ovvero, schematizzando: per il recupero di immobili mettere in campo solidarietà mutualistica più solidarietà altruistica più solidarietà di comunità? Teoricamente questo è un campo particolarmente idoneo all’esercizio dell’autoaiuto da parte delle comunità: la comunità che si attiva su beni di proprietà non privata individuale per beneficiare la comunità, attraverso la produzione di servizi mutualistici (abitazione) ed esternalità (recupero del degrado). È solo un esempio e non abbiamo spazio per approfondire ma ci sia consentita un’ultima annotazione. È vero che la cooperazione di comunità è il nuovo della cooperazione (anche se a un esame più attento non è poi così nuovo come generalmente si crede), ma forse anche il nuovo non basta ed occorre andare oltre, verso nuove forme del “nuovo”, se mi si passa il bisticcio. In tutto ciò occorre immaginare e disegnare nuove modalità della solidarietà, proiettati nel futuro ma in linea con l’evoluzione del passato. Occorre in una parola innovazione nella solidarietà e ritorniamo con questa annotazione là da dove siamo partiti.
Carlo Borzaga è stato un uomo di pensiero e di azione – è giusto ricordare anche l’azione, tratto non secondario e non occasionale della sua biografia – nel campo del terzo settore. Pensiero per l’azione, mai pensiero per se stesso. Se vogliamo raccogliere la sua eredità, dobbiamo farlo su entrambi i piani. Borzaga era anche un innovatore e ha contribuito concretamente a rinnovare il mondo della cooperazione e del terzo settore. Questo impegno di una vita ha avuto un apice nello snodo critico di fine secolo che ha visto prima la nascita in Italia della cooperazione sociale e poi dell’impresa sociale. In quel momento, dopo un secolo di vita della cooperazione in Italia, durante il quale si sono avute evoluzioni importanti ma lente e nel segno della continuità, la legge sulla cooperazione sociale ha costituito un punto di rottura e di accelerazione, che ha dato avvio a una fase di innovazione nel sociale che non si è ancora conclusa. E anche per Borzaga l’uscita della legge rappresentò un momento di svolta con l’apertura di un nuovo fronte sul campo: Borzaga non si limitò ad affermare i principi della legge, ma si rimboccò le maniche e si mise in prima persona in sala macchine a costruire e guidare il processo di accompagnamento scientifico del movimento, partendo dal Centro studi CGM, per arrivare sino a Euricse. E fece ciò virando progressivamente i propri interessi di studio – lui che nasce come economista del lavoro, finisce come economista del terzo settore –, con una generosità totale, dando il suo contributo personale allo sviluppo del movimento in cui credeva. Due parole a parte sono doverose su Euricse, l’ultima sua creatura. Immaginato all’inizio (siamo nei primi anni duemila) più come un laboratorio del terzo settore che come think tank, strumento al servizio di una realtà dinamica ma tendenzialmente magmatica e con pochi luoghi di riflessione: in definitiva, anche Euricse per Borzaga è stata azione per e nel terzo settore.
Queste vicende contengono una lezione per l’oggi e per il futuro. Borzaga credeva nell’innovazione ma credeva anche nei valori fondanti. Innovare la solidarietà potrebbe essere la sintesi in due parole di quel che ha fatto. È un lascito e uno stimolo anche per noi, in un momento in cui cooperazione e terzo settore stanno cambiando, non sempre con una chiara direzione: la solidarietà è la bussola che dà una direzione e un senso. La scommessa la possiamo vincere se puntiamo su questo.
DOI: 10.7425/IS.2024.03.05
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[1] Qui inteso in senso lato; vedi Mori e Musella (2024) sui diversi modi di intendere il terzo settore.
[2] Citiamo per tutti Consorti et al. (2021).
[3] Su quello accademico ricordiamo il lavoro con Jacques Defourny, in part. Borzaga e Defourny (2001).
[4] Vedi: Borzaga e Ianes (2006), in part. cap. 4; scritti di vari autori nell’ambito della celebrazione del trentennale della cooperativa sociale in Impresa Sociale, n. 4, 2021.
[5] Vedi la sezione “Documenti” del n. 4/2021 di Impresa Scoiale.
[6] Devo questa citazione a Felice Scalvini.
[7] Ovvero solidarietà all’interno del gruppo mutualistico.
[8] Ovvero solidarietà verso l’esterno del gruppo mutualistico.
[9] Ne faceva parte anche Felice Scalvini, allora dirigente di Confcooperative, che con Borzaga avviò allora un lungo sodalizio incentrato su questi temi.
[10] Si veda su questo Borzaga e Ianes (2021).
[11] Significativo a questo proposito è che alla solidarietà Borzaga abbia dedicato un libro (Borzaga e Ianes, 2006).
[12] Approvata dal XXXI Congresso dell’Alleanza, Manchester, 20-22 settembre 1995. Quella attuale è l’ultima versione di una serie (precedenti versioni: 1937, 1966).
[13] Rinviamo al documento di accompagnamento ICA (2015) per approfondimenti. Per un commento dal punto di vista giuridico si veda Fici (2013).
[14] Come era esplicitamente riconosciuto nella prima versione della Dichiarazione (ICA, 1937). In mancanza di una scelta riguardo all’ordine di rilevanza, il documento apre la porta a diverse interpretazioni e di fatto accoglie sotto il suo cappello diverse concezioni della cooperazione, corrispondenti a diverse gerarchie di valori.
[15] L’ordine nell’elencazione non va preso come un ordine d’importanza, che nel documento rimane un punto aperto. Certamente vi sono altri valori importanti oltre alla solidarietà su cui non ci soffermiamo. Il nostro interesse per questa deriva dal fatto che, come vedremo, è possibile leggere lo sviluppo della cooperazione attraverso l’evoluzione di questo concetto.
[16] “... convergenza o identità di interessi, idee, sentimenti ...”, Nuovo Devoto-Oli, 2024.
[17] Anche nell’uso comune la solidarietà include tra i suoi significati la reciprocità, come riconosce il Dizionario Treccani (solidarietà come “rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività ...” [corsivo nostro]).
[18] È sufficiente qui ricordare la nozione di solidarietà del diritto civile, totalmente eccentrica rispetto ai significati finora visti.
[19] Vedi a titolo di esempio il piccolo trattato teologico di Massimo Naro sulla reciprocità (Naro, 2018).
[20] Borzaga usa invece, apparentemente nello stesso significato, le espressioni solidarietà chiusa e solidarietà aperta (Borzaga, 2021, p. 7).
[21] Mutualità e mutualismo sono nell’uso corrente impiegati in modo intercambiabile e anche noi seguiamo questo uso.
[22] Per una ricostruzione storico-etimologica si veda Maggi (2011), pp. 25-26.
[23] Notiamo che nel Codice civile, che è la fonte primaria della nozione giuridica di mutualità riferita all’impresa cooperativa, la reciprocità invece non è mai nominata. Questo non impedisce di stabilire rapporti tra la mutualità del codice e la reciprocità, ovviamente su piani diversi da quello giuridico.
[24] Attenzione: quella delineata è la forma primordiale del mutuo soccorso, utile a fini descrittivi, ma le società di mutuo soccorso odierne non sono organizzate in questo modo, cfr. sotto nota 29.
[25] Per alcuni padri del pensiero cooperativo come Proudhon (1865) il mutuo soccorso rappresenta il prototipo della cooperazione mutualistica.
[26] Cioé l’individuo fisico visto come consumatore, non come investitore (questi due sono i ruoli economici di base degli individui fisici). Il consumo va inteso in senso lato e ricomprende tutte le attività che l’individuo svolge per ricavare un’utilità diretta, comprese quelle vitali, dal mangiare alla cura della salute. Rimane fuori invece tutto ciò che concerne la gestione del patrimonio personale. Rimangono pure fuori dal nostro ragionamento i soggetti diversi dalle persone, come ad es. le società (anche se nella fase più recente della storia del movimento cooperativo si sono sviluppate esperienze di cooperazione tra imprenditori, anche collettivi, nella forma della società cooperativa del Codice civile).
[27] Vicini alle cure mediche sono per natura il pronto soccorso e il trasporto/recupero d’emergenza in terra e in mare, per far fronte al quale cominciarono a costituirsi nell’Ottocento le prime società di pubblica assistenza (es. la Società di pubblica assistenza e salvamento Croce Verde Viareggio, anno di fondazione 1889) e in epoca ancor più lontana si costituirono le prime Misericordie (forma di pubblica assistenza originariamente sviluppatasi in Toscana). Questi enti non avevano la natura formale di società di mutuo soccorso ma la loro natura sostanziale, dal punto di vista sia organizzativo sia operativo, era quella.
[28] Oggi troviamo quest’organizzazione ad es. nel soccorso alpino.
[29] È importante qui una precisazione: la modalità di organizzazione del soccorso, credito, assicurazione che vede la partecipazione operativa diretta dei membri del gruppo mutualistico è solo una di una molteplicità di modalità tecniche di svolgimento delle attività, tipica della fase primitiva. In seguito, anche questi settori della cooperazione si sono organizzati in modo simile al consumo, di cui parleremo fra poco.
[30] Com’è noto, l’impresa si colloca nell’ambito della produzione, ovvero, dal punto di vista economico, un’attività che impiega capitale (beni strumentali) e lavoro per creare beni/servizi destinati a soggetti diversi da chi è materialmente coinvolto nell’attività.
[31] Uno dei primi a riconoscere nella solidarietà il fondamento della cooperazione di lavoro è il già citato Proudhon (v. cit., p. 113 ss.; p. 164 ss.).
[32] L’affermazione esplicita della solidarietà come base delle forme tradizionali di cooperazione, per quanto non frequente, si ritrova sia nella letteratura economica sia in quella giuridica. Come esempio della prima si può prendere Cafaro (2001) che enfatizza la solidarietà come fondamento del credito cooperativo. In campo giuridico ad es. Consorti et al. (2021) afferma la solidarietà come base del mutuo soccorso (“...i soggetti di «mutuo soccorso» certamente caratterizzati dallo scopo solidaristico”, p. 76).
[33] Rimandiamo a Farina (2011) che contiene molte notizie sulla vita, il contesto storico e le opere di don Guetti, nonché un’estesa bibliografia.
[34] Accanto al filone “comunitario” della cooperazione che nasce dalle comunità, c’è il filone che nasce dalle lotte sociali, come ad esempio la cooperazione di lavoro che si sviluppa in Emilia a partire dalle lotte dei braccianti (“cooperazione di lotta”).
[35] Per una schematica sintesi si può vedere Mori (2020, p. 100 ss.); per una ricostruzione più articolata v. Fici (2005).
[36] In campo giuridico ve ne sono almeno due principali (vedi Fici cit.). Ci sono poi le interpretazioni economiche, che ruotano intorno alle esternalità. Il recupero lavorativo di soggetti inabili al lavoro è un beneficio per la società nel complesso, perché rimuove un problema sociale. Parimenti l’allargamento dell’offerta in snodi critici come l’istruzione e la sanità è anch’esso un beneficio per la società. Sono questi benefici sociali – esternalità positive, nel linguaggio economico – a creare un interesse generale al perseguimento di queste attività.
[37] Ricordiamo il collegamento con l’importante tema della sussidiarietà, su cui non c’è qui la possibilità di addentrarci.
[38] Si osservi la consonanza con quanto Filippini scriveva nel 1981, dieci anni prima della legge: “... per rispondere ai nuovi bisogni emergenti dal corpo sociale … Si comincia a parlare ed a fare un lavoro associato, disinteressato, solidale a servizio di persone che sono nel bisogno: non più cioè una mutualità tra noi (un aiuto vicendevole per servire interessi o finalità nostre) ma una solidarietà con gli altri (un aiuto vicendevole, disinteressato per servire i bisogni degli altri) ...” (Filippini, 1981).
[39] In questa c’è un gruppo mutualistico funzionalmente omogeneo, composto dagli utenti dei servizi sociosanitari ed educativi, che sono i portatori del bisogno immediato, ad esempio i genitori dei bambini che abbisognano di istruzione. C’è poi un secondo gruppo che è quello degli utenti futuri, dunque un gruppo potenziale: nell’esempio dell’educazione, dopo i bambini attuali e i loro genitori, che sono gli attori effettivi, ne verranno altri che prenderanno il loro posto. Questi ultimi saranno avvantaggiati dall’istituzione del servizio educativo a cura dei genitori attuali: domani potranno goderne, diventando nuovi soci. Il punto è: al netto di incentivi di varia natura (ad es. un trattamento fiscale di favore) c’è un motivo per cui i genitori di oggi dovrebbero mettere su un servizio attraverso una cooperativa che sarà poi lasciata ad altri (i bambini cresceranno e a tempo debito i genitori usciranno dalla cooperativa, ricevendo indietro solo la quota di capitale versata)? Anche senza fare un’analisi approfondita, è chiaro che un motivo è l’altruismo, che può portare a scegliere una forma che avvantaggia i futuri scolari – esterni al gruppo mutualistico –, anziché partecipare a una società lucrativa (che può essere ceduta pro quota) o semplicemente acquistare il servizio da un terzo, ovvero l’opzione 1 discussa al par. 2. Si può osservare di passaggio che questa forma di solidarietà è presente anche nella cooperazione tradizionale. Si noti però che, a differenza di altre forme di cooperazione, nel caso della cooperativa sociale di tipo a) la solidarietà altruistica ha come destinatari non un particolare gruppo di individui funzionalmente o professionalmente delimitato, ma tutta la comunità: è la natura dei servizi prodotti – educazione, sanità – che ha in sé questa dimensione comunitaria (sono beni di interesse generale per la comunità), che non è presente in altre esperienze cooperative. Dunque, anche nella cooperativa di tipo a) il richiamo all’“interesse generale della comunità” non è meramente nominalistico ma rispecchia un dato sostanziale.
[40] Quando si parla di comunità il rischio concreto è, se non si mettono paletti, di parlare di tutto e alla fine di nulla. Qui, anche per motivi di spazio, dobbiamo limitarci e scegliamo di limitarci al campo dell’impresa.
[41] Si noti che “cooperazione d comunità” come si è affermata nell’uso corrente non è confinata alla forma legale di cooperativa, ed è di fatto sinonimo di “impresa di comunità”, vedi Mori (2018).
[42] Per una descrizione dettagliata del caso rimandiamo a MISE (2016). La comunità di Monticchiello ha anche un ricco sito da cui sono ricavabili molte informazioni: https://teatropovero.it/.
[43] È anche chiaro che per fare cooperazione di comunità non basta appiccicare l’etichetta “comunità” ad es. su una normale cooperativa di lavoro (ci sono esempi concreti che potremmo citare in proposito): la partecipazione – che è legata a doppio filo all’autoaiuto – della comunità, indipendentemente dalle modalità, è essenziale.
[44] L’autoaiuto (self-help) è un altro dei valori fondanti, ed anzi primari, della cooperazione tradizionale secondo la Dichiarazione ICA. Lo è anche della cooperazione di comunità.
[45] Attenzione al significato specifico che qui diamo all’espressione. Sono tuttavia possibili anche altri significati. Ad esempio, secondo un’accezione corrente una comunità è solidale quando c’è un “rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno che collega i singoli componenti di una collettività nel sentimento appunto di questa loro appartenenza a una società medesima e nella coscienza dei comuni interessi e delle comuni finalità” (Dizionario Treccani, 2024). Questa solidarietà è spesso presente dove c’è un’attività comunitaria come quella di cui ci stiamo occupando.
[46] Questo è il caso più frequente tra le imprese di comunità che si osservano.
[47] Un’idea dell’entità delle erogazioni a livello italiano può esser ricavata da Euricse, cit., tab. 11, p. 16.
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