Non sono io la persona giusta per proporre un’analisi dell’eredità scientifica di Carlo Borzaga, mancando di competenze specifiche su terzo settore e impresa sociale. Qui vorrei, invece, guardare alla più ampia eredità, intellettuale e umana, che ha lasciato.
Comincio da come interpretare il ruolo di scienziato sociale. Per metterlo a fuoco, ho cercato di immaginare le indicazioni che Carlo fornirebbe a un gruppo di giovani.
Primo, impegnatevi per ciò che vi sembra giusto, anche se significa andare controcorrente. Sotto questo profilo, né l’attuale diffusione, né l’esteso grado di riconoscimento del terzo settore debbono trarre in inganno: sono, infatti, fenomeni relativamente recenti. Se oggi il terzo settore in Italia è largamente presente e gode di una piena legittimazione giuridica e culturale, all’inizio degli anni Ottanta - quando Carlo ha iniziato a occuparsene - la realtà era ben diversa: si trattava di un ambito esiguo e non riconosciuto dal punto di vista legislativo. Chiuso in un angolo sul piano culturale, non era in alcun modo scontato prefigurarne lo sviluppo. Scegliere il terzo settore come missione a quei tempi – come fece Carlo insieme ad altri pionieri - significava puntare su un’area del welfare dal destino del tutto incerto, “semplicemente” perché sembrava un impegno utile ai più deboli. Inevitabilmente, l’immagine che abbiamo perlopiù negli occhi è quella del Carlo “vincitore” degli ultimi decenni, che ricopre incarichi di responsabilità, fonda centri di ricerca di eccellenza e così via. Ma il Carlo pioniere degli inizi non merita meno attenzione[1].
Secondo, non lasciate che gli ideali offuschino le vostre valutazioni: questo Carlo forse non lo direbbe, ma lo aggiungo io. In alcune occasioni, infatti, ho avuto l’impressione che i suoi giudizi sul terzo settore fossero eccessivamente lusinghieri e, simmetricamente, quelli sul pubblico esageratamente critici. Come se la genuina fiducia nel terzo settore appannasse la sua capacità di giudizio in proposito. Ad esempio, ricordo bene il lieve senso di disagio che avvertii leggendo “Qualità del lavoro e soddisfazione dei lavoratori nei servizi sociali: un’analisi comparata tra modelli di gestione”, curato da Carlo nel 2000[2], che mi sembrava restituire un’immagine troppo idealizzata del lavoro nel terzo settore, non corrispondente a quella che mi pareva la realtà. D’altra parte, l’eccessiva idealizzazione del terzo settore non fu certo esclusiva di Carlo e – in particolare negli anni Novanta e nel decennio successivo – risultò molto diffusa. Questo atteggiamento si rivelò, però, un boomerang quando, a seguito di alcuni scandali che vedevano coinvolta la cooperazione sociale (a partire da quello di “Mafia Capitale”, emerso nel 2014), prese il via una stagione di attacchi vigorosi, sferrati da più parti al terzo settore. Arrivando da decenni di narrazione idealizzata, ci si trovò impreparati ad affrontare la nuova situazione.
Terzo, partite dalle questioni e non dalle discipline. Carlo era professore ordinario di economia ma molti neppure sapevano quale fosse la materia universitaria che insegnava. Impiegava, infatti, un approccio interdisciplinare che intrecciava sapientemente – in base alle esigenze dei diversi argomenti - strumenti analitici di economia, sociologia, scienze politiche, studi organizzativi e altro ancora. Il suo metodo si articolava in tre passaggi: i) identificazione di un tema di rilievo da studiare, abitualmente riguardante impresa sociale e terzo settore, ii) raccolta dei dati empirici necessari, iii) analisi dei dati attraverso il mix di competenze più opportuno. A muovere Carlo, in altre parole, era l’urgenza di comprendere cose che reputava importanti e di farlo nel modo più rigoroso possibile, basandosi sull’evidenza empirica. È invece noto che, da una parte, l’università promuove la parcellizzazione delle competenze e dall’altra spinge le agende di ricerca a prendere forma sulla base delle appartenenze disciplinari. Due tratti, non a caso, abitualmente collocati tra i motivi della crisi accademica.
Quarto, date un contesto al vostro pensiero. A rendere così desiderabile parlare con Carlo era, tra l’altro, il suo sguardo ad ampio raggio sui fenomeni. Da un lato, i riferimenti a quanto avvenuto nel passato erano frequenti e risultavano indispensabili per capire il presente. Peraltro, uno dei libri di Carlo che ho amato di più è stato proprio quello – scritto con Alberto Ianes – sulla storia della cooperazione sociale[3]. Dall’altro, considerava le dinamiche del terzo settore nel più vasto quadro delle politiche di welfare. Una simile impostazione portava a mostrare, ad esempio, che la previsione di co-programmazione e co-progettazione previste dall’art. 55 del codice del terzo settore in astratto era del tutto positiva, mentre appariva ben più problematica se considerata all’interno delle dinamiche del welfare locale[4]. La prospettiva spazio/temporale segnava anche la sua produzione scientifica, in antitesi con la diffusa tendenza a focalizzarsi sul “qui” e “ora”.
Quinto, non accettate lo scollamento tra realtà e rigore scientifico. Nel 2008, Carlo ha fondato Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), che ha conquistato una posizione di leadership, a livello nazionale e internazionale, nelle tematiche concernenti la cooperazione e l’impresa sociale. Tuttavia, prima ancora dell’oggetto, quello che mi ha sempre affascinato di Euricse è il metodo. Euricse svolge attività di ricerca teorica e di ricerca applicata, di formazione e di consulenza. Si tratta, in altre parole, di un Centro con le mani ben in pasta nella realtà del welfare locale e delle politiche e – allo stesso tempo – fulcro di una scrupolosa elaborazione concettuale e scientifica. Vi sono dunque due anime, realtà e rigore scientifico, che interagiscono: nel resto d’Italia, invece, tendono abitualmente a procedere separate. Infatti, nel nostro Paese la discussione sul welfare è stretta tra due pericoli simmetrici: la realizzazione di analisi formalmente meticolose, ma non sufficientemente legate alla realtà (focus esclusivo sulla sfera scientifica, il riferimento è qui l’università) e la produzione di spunti concreti, stimolanti ma non calati nel quadro di un’elaborazione ampia e sistematica (focus esclusivo sul sapere pratico, il mondo extra universitario). La questione arriva da lontano e riguarda – utilizzando le parole di Mons. Nervo, primo presidente di Caritas Italiana – la difficoltà di «far incontrare la cultura ‘nobile’, fondata sullo studio sistematico e la rigorosa ricerca scientifica, e la cultura ‘povera’, che nasce dalla riflessione sul lavoro sul campo»[5]. D’altra parte, solo la compenetrazione di queste due culture può rendere possibile la comprensione dei fenomeni. Questo è ciò che fa Euricse, riflettendo lo spirito di Carlo, scienziato e uomo del fare, che non poteva essere l’uno senza essere anche l’altro.
Sesto, non indignatevi per come vanno le cose, provate invece a cambiarle. Carlo non era il tipo di professore che punta sullo sdegno, esibito ai convegni o sui media, ma privilegiava sempre il faticoso sforzo di promuovere concreti miglioramenti nel welfare, applicando le conoscenze maturate nell’attività scientifica. L’elenco delle attività extra-ricerca che ha svolto spazia dalla costituzione e gestione di cooperative – come la Cooperativa Villa S. Ignazio (1979), la Cooperativa Risto3 (1979) e la Cooperativa Le Coste (1989) – a ruoli di leadership in soggetti di rappresentanza del Terzo Settore – come Federsolidarietà e Consolida – alla promozione di nuove norme che aveva contribuito a elaborare – si pensi alla sulla legge 381/1991 sulla cooperazione sociale e a svariate leggi trentine – allo sforzo a favore dei giovani, con l’attivazione del primo master universitario in gestione delle imprese sociali. Innumerevoli sono stati dunque i suoi incarichi, al di fuori dal mondo accademico, in sfere direttamente legate al terzo settore e al welfare, ed enormi l’impegno, il tempo e l’energia che vi ha profuso. Carlo, infatti, aveva ben chiaro che l’importante non è essere contro qualcosa bensì provare a fare qualcosa.
Arrivo così al significato del proprio agire. Al funerale, è stata distribuita un’immaginetta con una foto di Carlo e una frase che i suoi cari ritengono sintetizzi il senso della sua esistenza. Si tratta di una delle Beatitudini declamate da Gesù nel Discorso sulla Montagna: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Vangelo di Matteo, 5,6)”. Evidentemente l’essere saziati non comporta di vedere i propri ideali di giustizia realizzarsi in modo compiuto, la lotta contro l’ingiustizia è impari per gli uomini. Essere saziati richiede, però, di dare un senso pieno alla propria vita attraverso un impegno costante per la giustizia e per i più deboli.
Questa opzione di senso – mi pare – si traduceva per Carlo nell’essere uno scienziato sociale che si chiedeva sempre il perché di ciò che faceva o che intendeva fare, e andava avanti solo se riteneva che, in qualche misura, le sue azioni avrebbero comportato miglioramenti per i per i più vulnerabili.
Una simile impostazione si nutriva di una fede insieme profonda e riservata. Con il passare degli anni, la mia insofferenza nei confronti degli studiosi – e dei politici – che esibiscono la propria religiosità è cresciuta. La fede, così come ogni altro valore, non si dichiara, si pratica. Ciò vale sempre e ancor più in un Paese come il nostro nel quale il lavoro da fare per migliorare il fragile sistema di welfare certo non manca. Ecco perché ho sempre molto apprezzato l’insieme di fede/riservatezza/impegno che caratterizzava Carlo.
Leggendo il versetto delle Beatitudini, mi è venuta alla mente un’affermazione di Richard Titmuss, il padre dei moderni studi sulle politiche sociali, i cui testi - consumati avidamente in gioventù - mi hanno influenzato in profondità. Titmuss affermava che: “Noi studiamo le politiche sociali, e questo è il mio punto di vista, perché siamo interessati alle condizioni delle parti più deboli della società, e alle azioni che si possono realizzare per migliorarle. Il nostro auspicio è che lo studio delle politiche sociali possa contribuire alla realizzazione di questo obiettivo[6]”.
Mi sono allora interrogato sul possibile punto di congiunzione tra Carlo e una personalità di tutt’altro background come Titmuss. All’inizio non capivo, poi mi sono poi accorto che la risposta era davanti ai miei occhi: perché studiare il welfare se non per cambiare il mondo?
[1]) Borzaga C., Gori C., Paini, F., (2024), Dare spazio. Terzo settore, politica, welfare, Roma, Donzelli.
[2]) Borzaga, C. (a cura di), (2000), Qualità del lavoro e soddisfazione dei lavoratori nei servizi sociali: un’analisi comparata tra modelli di gestione, Roma, Fondazione Italiana per il Volontariato.
[3]) Borzaga C., Ianes A., (2006), L’economia della solidarietà. Storia e prospettive della cooperazione sociale, Donzelli, Roma.
[4] Borzaga C., Fazzi L., Rosignoli A., (2024), Co-progettare i servizi sociali: nuove traiettorie del welfare locale in Italia?, in “Politiche Sociali”, 1, pp. 3-24.
[5] Nervo G., 2003, Cultura «nobile» e cultura «povera»: reciproche integrazioni e arricchimenti nella formazione, in «Studi Zancan», Padova, pp. 21-37.
[6]) Titmuss, R. M., 1968, Committment to welfare, Londra, Alllen and Unwin, p.187.
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