Sostienici! Rivista-Impresa-Sociale-Logo-Mini
Fondata da CGM / Edita e realizzata da Iris Network
ISSN 2282-1694
impresa-sociale-2-2020-gli-studi-di-innovazione-sociale-e-i-loro-limiti

Numero 2 / 2020

Saggi

Gli studi di innovazione sociale e i loro limiti

Maurizio Busacca

Introduzione al tema di ricerca

In meno di dieci anni dalla sua comparsa come rilevante oggetto di ricerca, l’innovazione sociale si è trasformata in un vero e proprio “campo di ricerca” (van der Have, Rubalcaba, 2016). Questo cambio di passo ha alimentato forme interdisciplinari di indagine, il cui esito primario non è stato tanto quello di offrire punti di vista differenti su uno stesso argomento, quanto piuttosto quello di far emergere visioni originali e nuove, in quanto generate dall’incontro di prospettive e modi diversi di analizzare il fenomeno.

 

Van der Have e Rubalcaba individuano in letteratura quattro cluster di comunità accademiche che si occupano di innovazione sociale.

 

Community Psychology: articoli di psicologia di comunità che trattano il modello Experimental Social Innovation and Dissemination (ESID); questo gruppo di ricerca si focalizza sul processo e sul modo in cui i cambiamenti generalizzati trasformano la società.

 

Creativity Research: ricerca sulla creatività e studio del processo creativo dell'innovazione nella scienza e nella tecnologia; anche questo gruppo è orientato ad approfondire i processi.

 

Social and Societal Challenges: studi che si occupano di innovazione sociale in termini di soluzioni innovative alle sfide sociali (tecniche); un tema di ricerca dominante è la sostenibilità delle soluzioni relative a clima, ambiente e salute.

 

Local Development: ruolo dell'innovazione sociale nello sviluppo locale, comprendendo con il termine “locale” comunità e quartieri, città e regioni, ambienti urbani e rurali; un tema centrale in questo gruppo è il ruolo della governance e delle istituzioni, nonché la partecipazione, l'inclusione o l'empowerment dei cittadini.

 

Un aspetto determinante per rilevare la presenza di un campo di studi e non di un oggetto di ricerca è la rete che si viene a creare tra le quattro comunità di studiosi, rilevata analizzando le citazioni incrociate nei paper oggetto dello studio di van der Have e Rubalcaba (2016): le maggiori interconnessioni si rinvengono nella coppia “Local Development - Social and Societal Challenges”, indicando la forte relazione tra sviluppo locale e sfide sociali; un secondo ambito che presenta significative interconnessioni è quello “Creativity Research - Social and Societal Challenges”, indicando l’importanza dei processi relazionali nell’innovazione; significativamente minori o assenti le altre interconnessioni. Un ulteriore elemento che i due autori mettono in evidenza è che mentre i cluster Creativity Research e Community Psychology si dedicano prevalentemente allo studio di gruppi di persone, i cluster Local Development e Social and Societal Challenges si concentrano su livelli di aggregazione più estesi: città, regioni e società in generale.

 


Con la trasformazione dell’innovazione sociale in un fortunato campo di studi – testimoniato anche dalla crescente attenzione che le è stata attribuita da autorevoli studiosi, pubblicazioni e conferenze – è definitivamente uscita dall’angolo degli argomenti di nicchia ed è diventata un terreno di confronto anche per autori influenti.

Tuttavia, il vivace dibattito che si è prodotto attorno all’emergere della locuzione social innovation e delle iniziative ad essa connesse è stato sostanzialmente asincrono e scarsamente pratico-riflessivo. Il dibattito di policy e di impresa sociale ha anticipato di alcuni anni quello accademico e successivamente si sono incrociati molto di rado. La riflessione scientifica prodotta dagli studiosi si è concentrata soprattutto sulla ricostruzione delle forme di emersione del concetto e sullo sviluppo di una sua tassonomia, mentre il dibattito tra i policy maker e gli innovatori sociali si è in larga misura dedicato a questioni di policy design (Busacca, 2019). I practitioner si sono focalizzati soprattutto sugli strumenti più efficaci per favorire lo sviluppo di iniziative ascrivibili al framework “innovazione sociale” e – attraverso tassonomie, repertori di casi e definizioni – hanno operato per creare esemplificazioni al fine di poter replicare o migliorare le iniziative. Sul piano della letteratura scientifica, invece, l’innovazione sociale si è consolidata come una parola-ombrello che comprende iniziative tra loro molto diverse per origine e approdo. La ricognizione di articoli influenti nella letteratura accademica evidenzia quanto la natura fluida del termine si ripercuota sulla letteratura di riferimento, che si presenta molto diversificata per le definizioni che offre e gli ambiti disciplinari a cui appartiene. Alla luce di ciò, in questo saggio si tenta di costruire un ponte tra i due filoni di dibattito, con lo scopo di capitalizzare le riflessioni fin qui prodotte nei due campi e poterne sviluppare altre grazie al dialogo tra queste.

L’obiettivo e il disegno della ricerca

L’ambiguità teorica dell’innovazione sociale ha forti impatti sull’azione sociale, sia nell’ambito delle politiche pubbliche sia in quello dell’iniziativa imprenditoriale. In queste condizioni, infatti, l’innovazione sociale è diventata un concetto pigliatutto, utilizzato più per attribuire preventivamente capacità trasformative ai corsi d’azione che per analizzare il loro reale impatto in termini di trasformazioni sociali. È diventata un marchio attribuito a priori piuttosto che un aggettivo qualificativo assegnato a posteriori.

L’obiettivo primario di questo articolo è quello di offrire un contributo per l’avanzamento teorico nel campo dell’innovazione sociale, al fine di generare nuovi strumenti e approcci per accrescere la capacità riflessiva delle organizzazioni. Per fare ciò si è scelta una strategia fondata sulla catalogazione dell’azione organizzativa e di policy nel campo dell’innovazione sociale in base a specifici approcci teorici, identificati attraverso la revisione della letteratura scientifica dedicata. L’assunto portante di questa strategia è che alla base di ogni azione ci sia una teoria di riferimento, grazie alla quale è possibile comprendere gli obiettivi perseguiti dagli agenti attraverso un tipo di azione rispetto ad un altro. Pur trattandosi di un contributo prevalentemente teorico, quindi, si rivolge soprattutto ai practitioner e al loro frequente interrogarsi sui modi e i significati delle proprie azioni. Nel fare ciò ci si propone anche di ridurre la distanza tra il dibattito accademico-scientifico e quello pratico-organizzativo e di policy, sviluppando i presupposti di un sapere riflessivo utile per le diverse comunità epistemiche.

L’articolo è organizzato nel modo seguente: nei paragrafi centrali viene proposto un “viaggio” attraverso la letteratura sull’innovazione sociale più influente, frutto di una review condotta attraverso Google Scholar, Scopus e Web of Sciences e realizzata a partire dalla classificazione proposta da van der Have e Rubalcaba (2016). I contributi sono stati poi organizzati in sei “scuole”, riconducibili ad altrettanti ambiti disciplinari: management, urban studies, psicologia di comunità, sociologia della comunicazione, sociologia dell’innovazione economica e analisi delle politiche. Al termine di ogni paragrafo un box riassume alcuni esempi di politiche pubbliche o iniziative imprenditoriali che presentano tratti marcatamente ascrivibili a ciascuna scuola. La classificazione delle teorie e delle pratiche viene problematizzata e discussa nel paragrafo conclusivo, dove ci si concentra dapprima sui limiti più evidenti comuni agli studi di innovazione sociale e successivamente sugli impatti di questi sull’azione pubblica e imprenditoriale, tentando di ricostruire il filo rosso che connette concezione teorica, pratiche e problematicità.

Gli studi di management e i modelli per l'azione

Il settore del management è il primo – e ancora oggi il più influente – ad avere manifestato un forte interesse per l’innovazione sociale. Con la complicità dei primi studiosi che hanno trattato l’argomento e le loro forti interconnessioni con il policy making europeo, l’interesse per lo studio dell’innovazione sociale è cresciuto con un’innata propensione allo studio delle innovazioni organizzative, di processo e di prodotto volte a risolvere gravi problemi sociali, caratterizzandosi per una forte propensione alla costruzione di modelli utili sia per il policy making sia per gli aspiranti innovatori.

Tre lavori, rispettivamente di Murray e colleghi (2010), Cajaiba-Santana (2014) e Caroli e colleghi (2018), sono rappresentativi di un repertorio più ampio di contributi scientifici che offrono prove di modellizzazione dei processi di innovazione sociale.

Murray e colleghi (2010) offrono una descrizione generale, a livello macro, del processo di innovazione sociale scomposta in varie fasi, riprendendo e adattando il modello “S curve” adottato per spiegare l’innovazione in generale e inizialmente utilizzato da Mulgan (2006) per descrivere il processo di innovazione sociale. I tre autori danno al processo una forma a spirale a sei fasi, che vanno assunte come un’utile cornice per pensare ai differenti supporti di cui gli innovatori – tanto quanto le innovazioni – hanno bisogno per crescere. Anche se il loro schema li presenta come tali, questi momenti non sono sempre sequenziali e si possono registrare dei loop tra l'uno e l'altro. Le sei fasi vanno piuttosto assunte come un'utile cornice per pensare ai differenti supporti di cui gli innovatori – tanto quanto le innovazioni – hanno bisogno per crescere. Questa prospettiva, richiamata esplicitamente nel testo di presentazione dello schema, evidenzia l’interesse prevalentemente performativo e normativo dell’operazione di schematizzazione.

Caroli e colleghi (2018) adottano una prospettiva di analisi meso, attraverso la quale presentano una tassonomia per descrivere le iniziative di innovazione sociale e i loro elementi comuni. Con il termine iniziativa, gli autori considerano un'attività collettiva nata specificamente per trovare una soluzione a un bisogno sociale, con più attori che partecipano all'identificazione e allo sviluppo delle nuove soluzioni. Il primo livello della tassonomia è rappresentato dalle aree in cui sono inserite le iniziative e dalle tipologie di attori coinvolti nello sviluppo di tali iniziative. Il livello successivo identifica le caratteristiche principali delle componenti impiegate per tali attività per inquadrare le tipologie di innovazione: l'innovatività relazionale serve a costruire relazioni orizzontali e verticali all'interno della stessa organizzazione o con altre organizzazioni; l'innovazione tecnologica è legata al prodotto o servizio fornito e ai meccanismi di abilitazione che favoriscono i flussi di diffusione della conoscenza o ampliano la portata e le dimensioni della collaborazione. Il terzo livello di analisi studia l'impatto spaziale, che rileva le conseguenze in termini di diffusione dei risultati e degli effetti sulle comunità che beneficiano delle iniziative.

Cajaiba-Santana (2014) si addentra nel livello micro e coniuga l’analisi del comportamento degli attori con l’analisi delle strutture di riferimento. Il suo modello identifica tre diversi livelli. Al primo livello ci sono le innovazioni intra-gruppo sociale: sono correlate alle norme di base, ai valori, alle regole, alle abitudini e alle convenzioni di un determinato gruppo sociale. Il secondo livello è quello delle innovazioni sociali tra gruppi. A questo piano, troviamo diversi gruppi sociali collegati in relazioni collaborative e/o competitive. Il terzo livello consiste nello studio degli effetti dei livelli precedenti sul sistema sociale nel suo complesso, cioè dei movimenti sociali e degli studi di politica pubblica.

Tutti e tre i tentativi di modellizzare il processo di produzione dell’innovazione sociale sono caratterizzati da un forte funzionalismo. Ciò su cui queste tre differenti modellizzazioni convergono è la sottovalutazione dell’agency come processo multi-attore. In questi schemi l’innovazione sociale è una pratica che un attore o un insieme di attori realizzano, ma ciò che viene trascurato è che un attore non agisce isolatamente ma produce un’azione socialmente incorporata, che implica l’interazione con altri agenti, impegnati a loro volta nei propri corsi d’azione, i quali possono essere convergenti, conflittuali o paralleli. Secondo lo schema di Cajaiba-Santana, l’unico a considerare il fattore dell’agentività, essa è conseguenza della pratica sociale, quando la teoria sociale, al contrario, ci presenta l’agency come premessa alla possibilità di far accadere le cose, e quindi premessa alla pratica di innovazione sociale. L’innovazione sociale viene quindi spiegata da questi modelli trasformando la premessa nel risultato, con forti implicazioni sul piano della responsabilizzazione degli attori sociali: se l’agency è presentata come il risultato della capacità di progettare e realizzare una pratica sociale innovativa, ciò significa che chi non è in grado di far accadere le cose è manchevole per incapacità di immaginazione o di attivazione; solo se si riconosce che l’agency è anche una premessa alla possibilità di influenzare i processi sociali, l’innovazione sociale non viene ridotta all’attivazione individuale e all’attribuzione del rischio sociale in capo ai singoli individui. L’interesse per questa osservazione critica non è motivato né dalla qualità degli effetti performativi generati da simili tentativi di modellizzazione, che trascurano del tutto la dimensione del potere nella loro analisi, né dal fatto omettono di approfondire la qualità dei processi da cui dipendono le pratiche di innovazione sociale.

 

Box 1. Le iniziative ascrivibili alla scuola manageriale

 

Le iniziative che rientrano in questa categoria hanno soprattutto un orientamento imprenditoriale. Una prima tipologia riguarda gli incubatori sociali (ad es. FabriQ, Impact Hub, Avanzi-Make a Cube a Milano, SocialFare a Torino, Netural a Matera), le cui azioni sono orientate a supportare mediante finanziamenti e servizi la nascita o lo sviluppo di cooperative sociali, imprese sociali ex lege, startup a vocazione sociale e società benefit. Rientra in questa categoria anche l’uso sempre più frequente di (social) hackathon e di altri strumenti di accelerazione dei meccanismi di open innovation che favoriscono l’intensificazione delle conoscenze in entrata e in uscita nei processi di innovazione. Le pubbliche amministrazioni li usano spesso per stimolare la partecipazione dei cittadini; le imprese li usano per risolvere problemi associando dinamiche crowd a ricompense economiche o professionali.

 

Il principale limite realizzativo di queste azioni è riferibile alla loro sostanziale indifferenza al contesto. Gli schemi attuativi sono riproposti in modi sostanzialmente sovrapponibili in ambienti economici e contesti sociali totalmente differenti come strumenti che agiscono a livello micro (individuale e organizzativo). In questo modo tendono però a trascurare che l’azione economica è socialmente radicata, tende cioè a dipendere dalle strutture sociali e dai sistemi relazioni del contesto. L’aver scordato la lezione dell’embeddedness della nuova sociologia economica (Granovetter, 1985) potrebbe spiegare i risultati limitati di queste iniziative ben più approfonditamente di giustificazioni vaghe e generali come la mancanza di investitori e la sottocapitalizzazione dell’ecosistema imprenditoriale italiano.

 

Gli urban studies e l'azione collettiva

Sul fronte degli urban studies, Van Dyck e Van den Broeck (2013) attribuiscono al potere delle strategie spaziali, mirate a creare le condizioni per uno sviluppo sociale, la centralità del territorio come campo d'azione privilegiato negli studi di innovazione sociale. La loro ricostruzione evidenzia che il territorio ha acquisito un’importanza crescente come concetto analitico in questa letteratura, in particolare con riferimento agli studi sullo spatial innovation system, sullo sviluppo area-based e integrated-area. Nel loro lavoro i due autori tentano di dimostrare che l’innovazione sociale è un processo sociale inevitabilmente territorializzato. Per argomentare la loro ipotesi esplorano le origini dei diversi filoni di innovazione sociale e come questi hanno approcciato il territorio.

La spazializzazione dell’analisi e un rinnovato interesse per l’ontologia spaziale sono state influenzate dalla constatazione che gli effetti dei processi sociali differiscono da luogo a luogo e che lo spazio ha un impatto proprio su questi processi. Alla luce di questo approccio, gli studi sullo sviluppo e la governance assumono tratti di maggiore spazializzazione, focalizzandosi esplicitamente sui processi di governance intesi come norme e convenzioni che operano nelle negoziazioni per la distribuzione del benessere. Gli approcci all’innovazione sociale formano un particolare filone della letteratura sulla governance e lo sviluppo locale. Moulaert e Nussbaumer (2005) collegano l’innovazione sociale ai modelli di innovazione territoriale. I due autori propongono un approccio allo sviluppo che si basa sulla riproduzione di vari tipi di capitale sociale (non business). I due evidenziano il ruolo cruciale degli attori sociali e delle attività sociali e culturali non produttive. L’innovazione sociale è collegata a una combinazione efficace di fattori esogeni e risorse locali (Klein et al., 2009), che insieme rappresentano un fattore cruciale per trasformare le iniziative locali in azioni collettive. La mobilitazione di queste risorse crea le condizioni per lo sviluppo di partnership che stimolano la produzione circolare di conoscenza.

Il framework IAD (Integrated Area Development) rappresenta un importante punto di riferimento per gli studi di questo campo. Lo IAD si focalizza sulle modalità con cui la frammentazione dello spazio urbano può essere ricomposta attraverso l’attivazione cooperativa di differenti attori e delle loro rispettive aspirazioni. Questo modello suggerisce che gli effetti spaziali dell’innovazione sociale dipendono dal consolidamento o dalla riconfigurazione delle reti sociali. La prospettiva territorialista all’innovazione sociale mette così in evidenza la relazione tra la soddisfazione dei bisogni sociali e l’empowerment sociale attraverso la riproduzione delle relazioni sociali delle comunità.

Alla luce di queste interpretazioni, la definizione proposta da Moulaert et al. (2013) evidenzia che l’innovazione sociale comprende tutte quelle iniziative dirette ad affrontare cogenti problemi sociali attraverso il cambiamento nell’agire dei soggetti e delle istituzioni, pertanto attraverso la ridefinizione delle relazioni di società civile, Stato e mercato.

Un significativo, anche se indiretto, contributo in questa direzione di studi è stato dato da Vicari e Mingione (2017), i quali hanno evidenziato che le traiettorie di trasformazione delle città europee contemporanee si intrecciano sempre di più con le esperienze di innovazione sociale. I due autori utilizzano lo schema Polanyiano del doppio movimento per spiegare l’innovazione sociale. Si parla di doppio movimento perché viene descritta una dinamica contestuale di sradicamento (disembeddedness) e nuovo radicamento (riembeddedness) dei legami sociali. L’innovazione sociale che viene vagamente delineata nei paradigmi emergenti della città creativa e di quella intelligente presenta entrambi i lati di questo movimento. Da un lato sostiene i processi di diffusione delle pratiche di mercato anche in ambienti del welfare storicamente esclusi da relazioni di scambio; dall’altro lato sostiene i tentativi di dare vita a nuove forme di legame sociale e neomutualismo che cercano di aiutare gli individui a sopravvivere. L'innovazione sociale diventa così il prodotto di questo secondo movimento e la sua recente riaffermazione sta ad indicare che la società europea è in questa fase alle prese con un processo di ricostruzione che segue una stagione di distruzione dei legami sociali.

Questo filone di studi di innovazione sociale si presenta rilevante per due ragioni. La prima è che spazializza l'analisi dell'innovazione sociale, punto debole degli altri approcci, per i quali lo spazio è un fattore esogeno e predeterminato, che pone delle condizioni peculiari per l'azione. Per gli studiosi di questo filone, invece, lo spazio è influenzato dall'azione sociale, di cui è un prodotto, e al tempo stesso la influenza. Lo spazio viene così ad assumere le caratteristiche di un container che può fornire capitali economici e non economici, oltre che determinare le ragioni di incontro tra attori differenti. Collegato all’attivazione degli attori, si può evidenziare un ulteriore contributo originale di questo filone di studi, inerente la governance urbana e la partecipazione degli attori locali. L’innovazione sociale assume la funzione di un’azione trasformativa rispetto alle relazioni tra gli attori locali e quindi ha a che fare con il potere degli attori di influenzare o meno i processi locali. Questa caratteristica dell’innovazione sociale la trasforma in un processo non neutrale rispetto ai rapporti di potere e al modo di produzione e la configura come un’azione trasformativa.

 

Box 2. Le iniziative ascrivibili alla scuola degli studi urbani

 

Le iniziative riconducibili a questa categoria hanno natura collettiva e sono orientate alla rigenerazione urbana. Sono innescate sia attraverso iniziative di pubbliche amministrazioni o di fondazioni filantropiche (soprattutto per mezzo di bandi) sia mediante azioni di natura imprenditoriale (spesso nella forma cooperativa) o politica (anche attraverso forme illegali). L’azione di questi soggetti collettivi non si limita al recupero di asset sottoutilizzati ma si traduce in azioni che migliorano la qualità urbana (Nuvolati, 2018). I Laboratori urbani della città di Bologna, ora gestiti dalla Fondazione Innovazione Urbana, rappresentano un’altra tipologia di azione urbana collettiva inquadrabile nella categoria. Sono iniziative riconducibili all’esperienza del bilancio partecipativo e sono stati avviati a maggio 2017 per coinvolgere i cittadini all’interno del Piano Innovazione Urbana, attivando e gestendo percorsi partecipativi strutturati su specifiche aree e su alcuni edifici e spazi pubblici.

 

Il principale limite di queste iniziative è che si interrogano poco o nulla sulle dotazioni di capitale sociale e culturale necessarie per accedere a questi processi, che favorirebbero le classi sociali più istruite e dotate di maggiori risorse professionali ed economiche (Cruz et al., 2017). Questa situazione determina la possibilità di accrescere e non ridurre le differenze tra i cittadini con più capitale sociale e maggiormente inseriti nei processi di governo locali, a scapito di quei cittadini dotati di minori risorse economiche, culturali e sociali e quindi con più barriere all’accesso dei processi decisionali.

 

La psicologia di comunità e le reazioni al cambiamento

Nel corso degli anni ‘70, con la nascita della psicologia di comunità, si creano le basi per la nascita del framework ESID (Experimental Social Innovation and Dissemination), un processo multifase orientato all’azione e finalizzato a promuovere il cambiamento nei sistemi sociali, nel quale lo scienziato sociale svolge un ruolo attivo e collaborativo verso la comunità.

Il modello ESID esprime le idee promosse da alcuni dei primi studiosi di psicologia di comunità. Il termine innovazione sociale sperimentale prende spunto dall'opera di Fairweather (1967) e dal suo approccio alla psicologia di comunità che promuove strategie innovative per il cambiamento sociale. Il modello ha da subito attirato l’attenzione degli psicologi di comunità che in quegli anni si stavano affermando, in concomitanza con le pressioni sociali poste dalla crisi globale dei primi anni ‘70, e cercavano un nuovo modello di azione orientata al cambiamento sociale in una fase storica di grande trasformazione della società statunitense.

L'accresciuto interesse per la Partecipatory Action Research (Whyte et al., 1989) rispecchia i valori contenuti nell'approccio ESID. Nella PAR alcune delle persone dell’organizzazione o della comunità studiate partecipano attivamente con i ricercatori professionisti al processo di indagine fin dalle prime fasi di progettazione e discutono continuamente le implicazioni delle loro azioni. Questo approccio alla ricerca è stato condizionato da alcuni assunti fondamentali condivisi dagli studiosi che vi hanno aderito: 1) la convinzione che le scienze sociali servano ad aiutare la società ad affrontare i problemi; 2) la ricerca è un processo di apprendimento continuo; 3) la conoscenza si produce mettendo in dialogo il sapere comune e quello esperto; 4) la democratizzazione dei processi di produzione di conoscenza fornisce ai partecipanti nuovi e migliori strumenti di valutazione e progettazione (Greenwood et al., 1993).

Nel corso degli ultimi anni questi approcci si sono tradotti in una vera e propria metodologia soggetta a un fenomeno di mainstreaming, andando ad influenzare una quota crescente di studiosi di innovazione sociale (Busacca, 2018): si tratta di studiosi direttamente implicati nei processi sociali trasformativi/innovativi che essi stessi contribuiscono a sviluppare. Questo ruolo è da loro assunto con un duplice obiettivo: da un lato quello di favorire la produzione di conoscenza nell’azione e per l’azione, cioè di supportare gli attori locali oggetto della action research a produrre e gestire informazioni utili al processo di progettazione e valutazione del programma di trasformazione; dall’altro lato si tratta però, per loro, anche di una questione professionale, cioè di accesso ai “dati” e la partecipazione ai processi di innovazione sociale si trasforma anche nell’occasione di avere una maggiore e migliore capacità di ottenere informazioni utili alle loro ricerche. Infine, ma non da ultimo, la loro partecipazione a questi programmi di ricerca-azione rappresenta anche un’occasione di avere accesso a risorse economiche attraverso meccanismi di terza missione.

Un approccio nato nell’ambito degli studi di comunità si è così diffuso anche in settori disciplinari differenti e, con la complicità dei processi di consolidamento del modello della terza missione universitaria, è divenuto un importante pilastro metodologico nel campo della ricerca sociale trasformativa. Questo consolidamento è stato favorito anche da ampie riflessioni più generali e non disciplinari sul ruolo delle scienze sociali (Flyvbjerg, 2001) nel contesto di una società sempre più basata sulla conoscenza. Ai ricercatori che adottano questi approcci è richiesto di utilizzare la loro esperienza diretta e le loro conoscenze tecniche per coinvolgere gli attori nel processo di elaborazione di conoscenza, prodotta. Questo tipo di approccio propone di andare oltre il sapere scientifico di tipo analitico (episteme) o tecnico (techne) e attiva invece un sistema di azioni fondate su valori e decisioni assunte dal ricercatore in qualità di attore sociale con una propria razionalità basata sui valori (phronesis).

 

Box 3. Iniziative ascrivibili alla scuola degli studi di comunità

 

Rientrano in questa categoria le iniziative di terza missione dell’università nell’ambito dell’innovazione sociale (Busacca, 2020), per lo più fondate su meccanismi di partecipatory action research. Un esempio di questo tipo è Mapping San Siro, un progetto di ricerca-azione attivo dal 2013 nel quartiere di edilizia residenziale pubblica San Siro, a Milano, e promosso dal Politecnico di Milano. Ma questi progetti non riguardano solo le città e i quartieri. Il progetto Vado a vivere in montagna è uno sportello che consente a chi vuole sviluppare un disegno di vita e di impresa nelle terre alte del Piemonte di usufruire di una rete di servizi. In queste iniziative il sapere esperto-accademico entra in dialogo con le imprese, le istituzioni locali e i cittadini, organizzati e non (secondo il modello della quintupla elica; Iaione, 2016) per progettare nuove forme di azione locale.

 

Il limite principale di queste iniziative è che tengono in scarsa considerazione i modi e le ragioni della partecipazione accademica a questi progetti, che in molti casi è innescata da ragioni di natura professionale (l’accesso a campi di ricerca) ed economiche (per compensare la riduzione dei fondi statali destinati alla ricerca) e si concentrano soprattutto nell’evidenziare la presenza di sistemi locali dell’innovazione. Senza che questi studi lo mettano adeguatamente in evidenza, può verificarsi che la riflessività della ricerca sia sacrificata in nome della sua commerciabilità e quindi perda parte del suo potenziale innovativo per assecondare i desideri e gli obiettivi dei soggetti finanziatori.

 

I nuovi media e i pubblici produttivi

Nell’ambito degli studi di marketing fin dai primi anni 2000 si è progressivamente fatta largo l’idea che stia scomparendo la differenza fra consumatore e produttore, fra impresa e mercato, fra il marketing e il suo ambiente. Arviddson e Giordano (2013) riprendono il concetto di societing – e il collegato approccio sociologico al marketing – ed evidenziano che non è sufficiente limitarsi a una presa in considerazione degli attori, così diversi tra loro, che costruiscono il mercato e, conseguentemente, la società. Ciò che va riscoperto è il ruolo della società nel costruire il mercato. Anche in questa concezione risuona il doppio movimento polanyiano e ne scaturisce l’idea del societing come risposta imprenditoriale a una nuova condizione produttiva socialmente determinata.

L’idea alla base di questo approccio è che anche i consumatori e gli altri soggetti che entrano in contatto con le imprese sono in grado di agire nel mercato come nella società producendo e diffondendo significati, idee e progetti: non sono più i soli attori tradizionali del mercato, cioè le imprese, a determinare idee e significati che influenzano i consumatori; i consumatori possono interagire con le tradizionali organizzazioni di mercato con azioni che hanno ricadute anche sul mercato.

Per le imprese questa rivoluzione richiede di saper riconoscere la natura sociale e diffusa dei processi di creazione del valore. L’innovazione viene quindi ad essere non più solo di natura organizzativa, commerciale o di prodotto, ma soprattutto di natura sociale secondo uno schema che richiama l’idea di una costruzione sociale dell’innovazione (Trigilia, 2007).

Questo approccio favorisce una visione dell’innovazione sociale a più dimensioni: può rimandare infatti a un’innovazione socializzata, che crea socialmente – attraverso l’interazione tra più soggetti – nuovi saperi.

Un tema strettamente connesso a quello della socializzazione della produzione è quello dei pubblici. Il pubblico può essere definito come un ampio numero di estranei con un interesse in comune, capaci di creare valore comunicando tra di loro le opinioni riguardo un brand, un prodotto o un’azienda, andando così a generare un impatto sul loro valore economico; i valori dei membri del pubblico determinano quindi il valore dell’oggetto del loro interesse. I pubblici vengono così ad essere un modo efficace ed efficiente di organizzare la produzione sociale sotto forma di cooperazione produttiva. Sono efficaci perché i loro membri sono mossi da un ethos comune in grado di motivare i partecipanti alla produzione sociale, agendo su leve motivazionali più complesse e pervasive di quelle del lavoro tradizionale: come nell’impresa sociale, la leva motivazionale si affianca e supera quella monetaria basata sul salario e le progressioni di carriera.

L’importanza crescente della produzione sociale è stata all’origine anche di un secondo sotto-filone di studi, che con il primo condivide l’interesse per i processi di coproduzione e che gli studiosi Benkler e Nissenbaum (2006) hanno definito Common Based Peer Production, cioè comunità di co-produttori facilitate dalle innovazioni tecnologiche e dalla conseguente riduzione dei costi di trasferimento delle informazioni. I Common Based Peer Production sono sistemi socio-tecnici di produzione che emergono nell’ambito dei processi di progressiva affermazione di imprese distribuite e a rete quali forme organizzative emergenti. Gli esempi di Linux e Wikipedia rappresentano forme di organizzazione socialmente innovativa i cui prodotti hanno impatti sulla società. Un aspetto rilevante sollevato da questa prospettiva è la messa in discussione dell’impresa – e soprattutto dei suoi confini organizzativi – come istituzione più efficace ed efficiente per organizzare la produzione (Benkler, 2017). Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie di trasferire a distanza, in tempi quasi nulli e a costi bassissimi le informazioni favorirebbe il passaggio di informazioni tra individui che operano in organizzazioni differenti, i cui confini diventerebbero così sempre più porosi e permeabili. I sistemi Common Based Peer Production sono indicati come la prima fase di un nuovo processo di produzione di valore attraverso il coordinamento reso possibile dalle tecnologie di rete, dove le decisioni derivano dal libero coinvolgimento di individui e dalla cooperazione tra loro, che può avvenire anche al di fuori dei formali confini organizzativi e per motivazioni differenti dal ritorno economico.

L’apporto originale di questo filone di studi è rappresentato dalla capacità di mettere in evidenza la reciproca influenza tra innovazione (tecnologica e organizzativa in primis) e sociale (sia come aggettivo sia come sostantivo).

 

Box 4. Le iniziative ascrivibili alla scuola della coproduzione

 

Rientrano in questa categoria quelle iniziative che usano le tecnologie abilitanti, sia digitali che non, per attivare forme di peer production. CheFare, ad esempio, è una piattaforma on/off-line che aggrega e attiva idee, punti di vista, progetti e analisi critiche di ricercatori e attivisti e li orienta verso l’azione culturale e sociale trasformative. In modo differente, lo sono anche gli spazi di coworking, come ad es. Kilowatt, che favoriscono la collaborazione tra coworkers. La stessa Rivista Impresa Sociale può essere iscritta in questo elenco in virtù del suo ecosistema di ricercatori, operatori sociali, cooperatori e innovatori. Queste iniziative hanno esiti trasformativi sui luoghi e intensificano il senso di comunità tra i loro membri.

 

Il limite di queste iniziative è duplice: da un lato si ripropone lo stesso limite già evidenziato per le iniziative della scuola degli studi urbani, ovvero l’elevata dotazione di risorse che è necessaria per partecipare a questi processi; dall’altro lato, in virtù della grande attenzione e importanza attribuite alla comunicazione in questi progetti, è sempre molto complicato capire se quei discorsi restino tali o se invece siano capaci di generare impatti significativi sulla qualità della vita delle persone.

 

La sociologia dell’innovazione economica e le nuove forme di integrazione tra società ed economia

La sociologia dell’innovazione economica è arrivata per ultima allo studio dell’innovazione sociale (Barbera, Parisi, 2019), ma con un bagaglio analitico estremamente complesso e articolato e, soprattutto, con una lunga serie di studi precedenti che pur non avendo adottato esplicitamente il framework dell’innovazione sociale hanno trattato fenomeni che vi riconducibili.

Il tema comune a questi approcci è la sostanziale adesione all’ipotesi polaniana di integrazione-disgregazione della relazione tra società ed economia. Secondo Pais e Provasi (2015) e Vicari e Mingione (2017) ciò a cui si sta assistendo è l’emersione del movimento di ricostruzione dei legami sociali dopo che per oltre quarant’anni di neoliberismo sono stati distrutti a favore delle relazioni di mercato. Ciò avverrebbe in modo coerente con le grandi trasformazioni del passato e viene reso evidente con lo scoppio della crisi internazionale del 2008, in seguito alla quale il secondo movimento è emerso con forza e si è manifestato sotto forma di politiche e iniziative di innovazione sociale.

Il più ampio oggetto di studi di questo filone è al centro del lavoro degli studiosi che si sono occupati di sharing economy (Arcidiacono, Gandini, Pais 2018). In questo campo, le iniziative di innovazione sociale sono frequentemente sovrapposte a iniziative di economia collaborativa, intesa come un ampio e diversificato repertorio di azioni che vanno dalle piattaforme digitali globali a piccole e localizzate attività off-line, che si sono affermate come un paradigma abilitante per nuove forme di reciprocità (Pais, Provasi, 2015). Nello sviluppo di questo filone di studi è stato frequentemente fatto ricorso al lavoro di Granovetter, che ha dato un forte impulso sociologico per la comprensione dei modi nei quali le innovazioni si producono e diffondono in funzione di un mix di fattori di contesto e di agency (Barbera, Pais, 2017).

Solo parzialmente connesso a questi temi, un altro ambito di interesse di questi studi è rappresentato dai coworking, fenomeno emergente nei processi di riorganizzazione dei luoghi di lavoro (Andreotti, 2018). Questi spazi offrono la possibilità di sperimentare e sviluppare conoscenza nel corso dell’azione ed allargare i propri network collaborativi e, in tal modo, possono contribuire a sviluppare in un territorio un’atmosfera creativa. Lo studio di Montanari e Mizzau (2018) evidenzia il ruolo importante assolto dal soggetto gestore, che svolge un fondamentale compito di facilitazione tra la comunità di user e gli altri attori economici e sociali più o meno istituzionalizzati. Tale funzione è al centro anche del lavoro di Ivaldi et al. 2018 e Spinuzzi et al. 2018. In queste organizzazioni i community manager operano per facilitare la collaborazione e la creazione di reti tra pari.

Solo di recente, con Barbera e Parisi (2019), l’attenzione della sociologia economica si è posata sugli innovatori sociali, che in precedenza erano già stati studiati nell’ambito degli approcci manageriali. Nella ricostruzione dei due autori, gli innovatori sociali sono una popolazione tipicamente urbana, attiva soprattutto in città medio-grandi, confermando l’idea della città come luogo dell’innovazione. Secondo i loro studi la popolazione degli innovatori sociali è composta per metà da persone nate dopo il 1980, sono giovani e con scarsi squilibri di genere (60% uomini - 40% donne). Sono in possesso di titoli di studio molto elevati: l’84% dei casi in possesso di Laurea (50,8%) o Master/Dottorato (33,2). Un altro elemento che caratterizza gli innovatori sociali è l’elevato capitale culturale di cui dispongono le loro famiglie di origine, che rappresentano una importante “dotazione di partenza” di cui gli innovatori sociali possono disporre, con forti implicazioni sui processi di auto-attribuzione. Sul piano delle loro condizioni professionali, poco meno della metà degli innovatori sociali sono lavoratori dipendenti, gli altri sono lavoratori indipendenti - imprenditori, lavoratori in proprio, professionisti, soci di cooperativa, collaboratori coordinati e occasionali. I dipendenti occupano prevalentemente posizioni dirigenziali mentre i lavoratori indipendenti operano raramente come imprenditori con dipendenti e soprattutto come lavoratori in proprio e soci di cooperativa, quindi in posizioni fragili sul piano del rapporto di lavoro. Le motivazioni che spingono questi individui a mettere in secondo piano gli interessi salariali e di condizione occupazionale per dedicarsi al bene comune sono soprattutto di natura valoriale ed etica. L’importanza di svolgere un ruolo concreto per la collettività emerge anche dall’immagine di imprenditore che i loro intervistati hanno in mente. Un’altra caratteristica personale che qualifica gli innovatori sociali è l’elevata fiducia interpersonale, coerentemente con la necessaria capacità di fare rete e collaborare quali abilità fondamentali per poter giocare un ruolo chiave nei processi di innovazione sociale. Questi innovatori operano in/con organizzazioni di varia natura e dimensione, accomunate dall’essere radicate dentro processi di sviluppo di comunità che mobilitano attori pubblici e privati, profit e non profit. Frequentemente operano, in qualità di consulenti o imprenditori di politiche, in regime di pluricommittenza, rendendo permeabili i confini organizzativi delle singole realtà.

 

Box 5. Le iniziative ascrivibili alla scuola dell’economia collaborativa

 

Afferiscono a questa categoria quelle iniziative che accrescono e intensificano i processi di governance territoriale e ampliano il numero e la tipologia di attori in essi coinvolti. Alcuni esempi significativi sono Milano Sharing City, Co-Bologna e Open Toscana (Bernardi, 2018a; 2018b; Busacca, 2018; 2020). Di fronte alla complessità crescente delle sfide sociali, che richiedono innovazione per essere affrontate, questi progetti mobilitano attori tra di loro molto differenti nella costruzione e nell’implementazione di visioni e progetti collettivi. Un altro esempio di iniziative riconducibili a questa categoria è quello delle sempre più numerose piattaforme che aggregano e offrono servizi di welfare, come WeMi a livello territoriale o Tre Cuori a livello aziendale. Queste piattaforme abilitano interazioni complesse tra attori non abitualmente in dialogo e promuovono soluzioni win-win.

 

Il loro principale limite è che, volontariamente o meno, tendono ad assecondare il processo di imprenditorializzazione delle città (Harvey, 1989) perché aggregano e veicolano in primo luogo le idee e i progetti di quei soggetti che hanno accesso alla governance urbana e che in quanto tali sono in larga parte iscrivibili nei modelli di sviluppo socio-economico mainstream. Nel fare questo, se è vero che da un lato socializzano il mercato (nel doppio senso che intensificano la produzione sociale e ne accrescono l’attenzione al sociale) dall’altro lato muovono anche le relazioni sociali verso logiche di mercato.

 

L'approccio storico-evolutivo e le politiche pubbliche in Europa

L'innovazione sociale si presenta come un concetto ricorrente che emerge nel dibattito politico e scientifico in occasione di periodi di grande trasformazione sociale. L'elemento caratteristico di questo comportamento è il diverso significato che assume ad ogni emersione, andando di volta in volta a delineare un diverso approccio al cambiamento sociale, da critico nell'800 a favorevole nella seconda metà del '900. Alcuni studi sono particolarmente utili per tentare di ricostruire il significato assunto in occasione dell'ultima recente ri-emersione.

Nicholls e Edmiston (2018) collocano l’innovazione sociale nel quadro delle principali strategie europee quali Europa 2020 e le sue principali iniziative bandiera e il suo obiettivo primario (smart, inclusive and sustainable economic growth), la Social Business Initiative e le sue iniziative destinate a sostenere l’innovazione sociale per creare le condizioni per una florida economia sociale (a favourable climate for social enterprises and key stakeholders in the social economy) e il Social Investment Package, che stabilisce che l’innovazione sociale e le sperimentazioni di politiche sociali devono essere incorporate nel policy making e connesse alle priorità sociali attraverso metodi di attivazione individuale per contrastare le cause di emarginazione. Nel quadro di queste strategie, l’innovazione sociale diventa un pilastro fondamentale dei Fondi Strutturali (European Structural and Investment Funds), in particolare del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e del Fondo Sociale Europeo (FSE), oltre che di strumenti finanziari molto più piccoli come il programma EaSI (Employment and Social Innovation Programme). Oltre ai programmi di finanziamento appena introdotti, l’innovazione sociale è trasformata in pilastro delle politiche europee da diversi organismi dell'Unione Europea che sono coinvolti in iniziative che sono destinate a creare uno spazio economico per gli attori e le organizzazioni impegnate nell'innovazione sociale. I due autori ricostruiscono un lungo elenco di progetti che l’Unione Europea ha finanziato tra il 1998 e il 2013 nel campo dell’innovazione sociale e più recentemente ha rivolto la propria attenzione – e i conseguenti finanziamenti – verso azioni sociali di base e partecipative. Nei quadri strategici dominanti dell'Unione Europea l'innovazione sociale è identificata come mezzo (e un fine) per soddisfare i bisogni sociali in un contesto di risorse scarse. Pertanto, si può affermare che l'Unione Europea ha sostenuto il potenziale degli attori impegnati nell'innovazione sociale come strategia per rafforzare la dimensione sociale dell'unione economica e monetaria. Ciò è avvenuto quindi in totale continuità con i quadri di politiche di sviluppo regionale e di rafforzamento del capitale umano e non solo di politiche sociali.

Da una prospettiva molto differente, Jenson (2015) colloca l’affermazione del concetto innovazione sociale nell’ambito dei processi di trasformazione provocati dall’avvento e poi dalla crisi di economie e politiche neoliberali. L'innovazione sociale emerge come concetto al fianco di altri come coesione sociale, inclusione sociale e investimento sociale. L’autrice individua nella debolezza del quasi-concetto innovazione sociale il suo punto di forza dal momento che è abbastanza indeterminato da renderlo adattabile ad una varietà di situazioni e sufficientemente flessibile da poter assecondare gli orientamenti di differenti ideologie politiche. Come gli altri concetti elencati poco sopra, l’innovazione sociale è stata sviluppata nell’ambito della ricerca di nuovi modi di ordinare i rapporti tra Stato e società di fronte a nuove emergenze sociali e a nuove strategie politiche. Da un punto di vista analitico, questo riordino può essere descritto come una riconfigurazione del “diamante del welfare” e il rafforzamento dei vertici riconducibile al mercato.

Jenson, approfondendo il caso delle politiche per il lavoro, evidenzia due strategie di politiche che determinano il progressivo rafforzamento del vertice del “mercato” del diamante: un tipo si fonda sul minor coinvolgimento diretto delle agenzie pubbliche, che pure continuano a finanziare gli interventi, nella progettazione e nell'implementazione delle azioni (come nel caso dei servizi in accreditamento e caratterizzati da prestazioni che seguono logiche di mercato); il secondo tipo si fonda su politiche di sostegno all'impresa sociale, supportata in quanto ritenuta maggiormente efficace ed efficiente nell'organizzazione dei sistemi di erogazione dei servizi (come nel caso dei sistemi di finanziamento basati su bandi o su incentivi fiscali).

Nei due casi, le innovazioni sociali danno vita ad un fenomeno che può essere interpretato sia come la mobilitazione di risorse private e civiche per affrontare problemi pubblici – come sono descritte dalla maggior parte degli studiosi – sia come un impiego di risorse pubbliche a supporto di agenti e rapporti di mercato.

 

Box 6. Le iniziative ascrivibili alla scuola delle politiche pubbliche

 

Rientrano in questa categoria quelle iniziative in cui l’innovazione sociale è realizzata per mezzo di politiche pubbliche piuttosto che attraverso l’azione collettiva o imprenditoriale della società civile. Fanno parte di questa fattispecie le alleanze o le reti locali del (secondo) welfare (Maino 2017), cioè quei sistemi multi-attore che sperimentano nuove forme di produzione e distribuzione dei servizi di welfare, come accade in numerosi progetti del bando Cariplo Welfare in Azione, nei Distretti famiglia del Trentino o nelle Alleanze territoriali per la famiglia del Veneto. In modo diverso ma analogo, anche la Scuola dei quartieri a Milano sperimenta nuove forme di socializzazione della produzione e distribuzione del welfare, così come le Case del Quartiere a Torino. Il punto in comune tra queste iniziative è che i cittadini non sono i beneficiari delle politiche pubbliche ma ne sono costruttori nella logica dell’everyday maker cioè attraverso le loro pratiche di vita quotidiane.

 

Il limiti principale di questi approcci è che le iniziative non sono praticamente mai – il caso trentino è un’eccezione – inscritte all’interno di quadri di policy robusti, nel senso di adeguatamente finanziati e duraturi, ma nella maggior parte dei casi sono iniziative che hanno architetture istituzionali e finanziarie molto fragili e che quindi sono facilmente sacrificabili a beneficio di altro in caso di crisi finanziarie o politiche, come recentemente dimostrato dal drenaggio di risorse provenienti da queste aree verso il settore sanitario per fronteggiare l’emergenza Covid-19.

 

I principali limiti degli studi di innovazione sociale e i loro effetti sull’azione di policy: alcune riflessioni conclusive

Gli studi di innovazione sociale fin qui descritti sono accomunati da un intenso orientamento performativo, cioè contribuiscono alla creazione del proprio oggetto di ricerca. Di fronte alla vaghezza della locuzione “innovazione sociale”, gli studi cercano di delineare le caratteristiche delle azioni che sono annoverabili come innovazione sociale e così facendo costruiscono una tipologia di iniziative con caratteristiche comuni in termini di attori, azioni e scopi. Questa performatività ha una triplice funzione: in primo luogo serve per fare chiarezza su un termine vago e ambiguo; in secondo luogo è utile al policy making per perimetrare lo spazio sociale degli impatti attesi delle politiche; in terzo luogo serve agli studiosi per condividere un ambito di studio. Un tale processo si contraddistingue per l’effetto generativo che innesca attraverso il rafforzamento della duplice condizione dell’innovazione sociale quale scopo delle politiche pubbliche europee e mezzo per raggiungere finalità più generali. L’innovazione sociale oltre che un pilastro è quindi anche una issue delle politiche europee: il posizionamento dell’innovazione come scopo e mezzo al centro delle politiche europee alimenta la ridefinizione di una agenda di policy e la convergenza di una pluralità di attori vecchi e nuovi su questa issue.

Per supportare – e favorire – questa convergenza gli studi di innovazione sociale presentano una seconda caratteristica comune: il funzionalismo. Gli studiosi analizzano, ricostruiscono e presentano criticamente modelli di funzionamento delle innovazioni sociali nel tentativo di ricostruire schemi ricorrenti di ruoli e funzioni ricoperti dagli attori. Gli studi di impronta managerialista sono esemplificativi di questo approccio: il loro primario obiettivo è quello di schematizzare per creare modelli pronti per l’uso e pertanto più facilmente replicabili. Infatti, se l’innovazione sociale è uno scopo e un mezzo per raggiungere fini più generali allora la sua promozione diviene un obiettivo da perseguire anche attraverso la facilitazione e l’abilitazione degli attori potenzialmente attivabili i quali, riconoscendo gli schemi di funzionamento dei modelli proposti e individuando in essi un potenziale di sviluppo e crescita, potrebbero decidere di perseguire strategie di innovazione sociale. L’idea che le definizioni di innovazione sociale veicolano è che essa rappresenti una soluzione a problemi sociali complessi che non sono ancora stati risolti dallo Stato o dal mercato. Inoltre, queste definizioni sono generative di regole e pratiche sociali che contribuiscono a definire quegli stessi fenomeni.

Il rapporto tra scopi e caratteristiche dei principali filoni di studi di innovazione sociale spiegano le ragioni dello stretto spazio critico nelle analisi dedicate (Busacca, 2013). Lo studio critico, per sua stessa natura, tende a prestare maggiore attenzione agli aspetti non evidenti e ambigui del proprio oggetto di studio. Nella sua fase di emersione, però, l’innovazione sociale per consolidarsi come pilastro delle politiche pubbliche europee per scelta di un’ampia coalizione di attori composta da policy maker, consulenti, studiosi, imprese sociali, ha avuto bisogno di discorsi e retoriche di rafforzamento piuttosto che di critiche puntuali, anche se finalizzate a operazionalizzare al meglio i dispositivi ad essa associati. L'innovazione sociale non è analizzata in sé e per sé ma in quanto soluzione. Inoltre, essendo trattata come intrinsecamente positiva, non viene posto il problema delle sue motivazioni e dei suoi obiettivi, che sono assunti come dati: risolvere nuovi e gravi problemi sociali.

Questa condizione aiuta a comprendere le ragioni della debolezza teorica degli studi di innovazione sociale. Il rafforzamento degli elementi teorici avrebbe ridotto la caratteristica polisemica del termine e conseguentemente la possibilità di un’adozione ampia del concetto da parte di attori che attribuiscono al termine significati e soprattutto sistemi di valori differenti. In termini di usabilità del concetto, infatti, la sua natura vaga è un elemento che opera a vantaggio della sua diffusione rendendo possibile l’adozione del concetto da parte di soggetti molto differenti tra di loro: per alcuni l’innovazione sociale rappresenta il coinvolgimento diretto della società civile nella progettazione ed erogazione dei servizi di welfare; per altri il rafforzamento delle organizzazioni dell’economia sociale; per altri ancora l’attivazione di nuovi attori precedentemente marginali nei processi di governo locale; per altri l’innovazione nel policy design; per altri ancora la capacità di incidere nelle relazioni di potere tra gli attori locali. Fintanto che l’innovazione sociale si presenterà come un quasi-concetto o un termine ombrello, ognuna di queste visioni potrà declinare a proprio uso la locuzione. Andando invece a stringere le maglie teoriche attorno al concetto si andrebbe necessariamente ad escludere alcuni significati e utilizzi del termine, limitando così la sua diffusione e radicamento. Questo punto di forza, però, in una fase ormai matura del processo di rafforzamento del concetto si trasforma in debolezza perché, privo di una solida teoria di riferimento, si presenta come un pilastro fragile e facilmente sostituibile da nuove strategie. Il paragone con le strategie di social investment può aiutare ad evidenziare questo limite. Il consolidamento e il rafforzamento di queste ultime ha richiesto un intenso lavoro teorico di ridefinizione delle teorie del welfare (vedi ad es. il diamante del welfare) e delle teorie relative agli impatti delle politiche sociali (vedi ad es. le teorie dell’empowerment e della capacitazione). Nel caso dell’innovazione sociale questa opera non è ancora stata realizzata e pertanto il concetto si è rafforzato senza che parallelamente si rafforzassero anche le utili teorie complementari.

In particolare, i limiti evidenziati per le iniziative ascrivibili alle sei scuole sono riconducibili alla debolezza di due ambiti di sviluppo teorico. Il primo riguarda la relazione tra innovazione sociale e sistemi di produzione. Relativamente a questo aspetto non è ancora stata approfondito il rapporto tra innovazione sociale e trasformazione dei sistemi di produzione in termini di capitalismo della conoscenza e produzione distribuita e a rete. I meccanismi di esclusione da questi processi si ripropongono nella maggior parte delle esperienze di innovazione sociale, che corrono così il rischio di andare ad aumentare la stratificazione e l’immobilità sociale proprio là dove invece la riduzione delle disuguaglianze e l’aumento delle opportunità sono due obiettivi prioritari dell’agenda dell’innovazione sociale.

Il secondo, invece, riguarda la relazione tra innovazione sociale e spazio-territorio-luoghi. Rispetto a questo secondo punto, lo spazio è stato fino ad oggi considerato dagli innovatori sociali e nel corso delle iniziative di innovazione sociale come un container dal quale estrarre o dove depositare capitale economico, sociale e culturale. Tuttavia, i rapporti di mutua influenza tra innovazione sociale e spazio sono ancora profondamente inesplorati e questo non determina solo la riproposizione di pratiche simili in contesto profondamente differenti, ma anche una visione limitata del contributo che l’ambiente può dare come fattore abilitante di processi creativi oltre che relazionali.

Dunque, se la vaghezza iniziale della locuzione social innovation è stata funzionale a favorire la sua ampia diffusione in diversi circuiti (politici, accademici, imprenditoriali, associativi, ecc.), rischia ora di trasformarsi in una pericolosa indeterminatezza che la rende un efficace termine “pigliatutto”, ma poco utile per discriminare tra differenti tipi di azioni e, ancora più importante, tra diversi esiti. Azioni che favoriscono iniziative di natura imprenditoriale agiscono su attori e attraverso leve molto differenti da quelle che promuovono la coproduzione di beni comuni urbani; iniziative che favoriscono l’allargamento delle arene del welfare a nuovi attori hanno ben pochi punti in comune con iniziative che attivano il dialogo tra pubblici e piattaforme digitali. In tal senso, e alla luce delle debolezze teoriche delle pratiche evidenziate nei box presentati nell’articolo, l’impianto argomentativo di questo saggio ci aiuta a capire quanto sia diventato oggi necessario interrogarsi sugli esiti delle azioni più che sulle intenzioni o gli obiettivi e, a partire dai concreti effetti trasformativi, ricostruire le aree e le forme di impatto generati dalle differenti logiche di azione, andando così a mettere in evidenza che l’innovazione sociale non esprime una propensione innovativa neutrale rispetto agli attori e ai contesti ma viene declinata di volta in volta in funzione di questi e con risultati differenti.

DOI: 10.7425/IS.2020.02.05

Bibliografia

Andreotti A. (2018), “La ridefinizione degli spazi e dei luoghi del lavoro: il caso dei coworking”, in Nuvolati G. (a cura di), Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita, Firenze University Press, Firenze.

Arcidiacono D., Gandini A., Pais I. (2018), “Sharing what? The ‘sharing economy’ in the sociological debate”, The Sociological Review, 66(2), pp. 275-288. DOI: 10.1177/0038026118758529

Arvidsson A., Giordano A. (2013), Societing Reloaded: pubblici produttivi e innovazione sociale, Egea, Milano.

Barbera F., Pais I. (2017), Postfazione all’edizione italiana. Mark Granovetter e la sociologia economica italiana, in M. Granovetter (a cura di), Società ed economia: Modelli e principi, Università Bocconi Editore, Milano, pp. 253-266.

Barbera F., Parisi T. (2019), Innovatori sociali. La sindrome di prometeo nell’Italia che cambia, Il Mulino, Bologna.

Benkler Y. (2017), “Peer production, the commons, and the future of the firm”, Strategic Organization, 15(2), pp. 264-274, DOI: 10.1177/ 1476127016652606

Benkler Y., Nissenbaum H. (2006), “Commons-based peer production and virtue, Journal of political philosophy, 14(4), pp. 394-419, DOI: 10.1111/j.1467-9760.2006.00235.x

Bernardi M. (2018), “Temi guida: innovazione sociale e sharing economy: il caso milanese”, in Nuvolati G. (a cura di), Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita, Firenze University Press, Firenze.

Bernardi M. (2018), “Sperimentazioni di amministrazione condivisa: il caso di Bologna”, in Nuvolati G. (a cura di), Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita, Firenze University Press, Firenze.

Busacca M. (2013), Oltre la retorica della Social Innovation, Impresa Sociale, n. 2,2013, pp. 39-54. DOI: 10.7425/is.2013.2.04

Busacca M. (2018), “Università imprenditoriale e innovazione sociale a Milano e Venezia”, Economia e Società Regionale, 3, pp. 109-131.

Busacca M. (2019), Innovazione sociale. Città, politiche e forme di ricostruzione del mercato, Bruno Mondadori, Milano.

Busacca M. (2020), “The Social Innovation dispositif”, in Borelli G., Busacca M. (a cura di), Society and the City: The Dark Sides of Social Innovation, Mimesis International, Milano (in corso di pubblicazione).

Cajaiba-Santana G. (2014), “Social innovation: Moving the field forward. A conceptual framework”, Technological Forecasting and Social Change, 82, pp. 42-51. DOI: 10.1016/j.techfore.2013.05.008

Caroli M.G., Fracassi E., Maiolini R., Carnini Pulino S. (2018), “Exploring social innovation components and attributes: a taxonomy proposal”, Journal of Social Entrepreneurship, 9(2), pp. 94-109. DOI: 10.1080/19420676.2018.1448296

Cruz H., Rubén Martínez M., Blanco I. (2017), “Crisis, urban segregation and social innovation in Catalonia”, Partecipazione e conflitto, 10(1), pp. 221-245.

Fairweather G.W. (1967), Methods for experimental social innovation, Wiley, New York.

Flyvbjerg B. (2001), Making Social Science Matter, Cambridge University Press, Cambridge.

Granovetter M. (1985), “Economic action and social structure: The problem of embeddedness”, American Journal of Sociology91(3), pp. 481-510.

Greenwood D.J., Whyte W.F., Harkavy I. (1993), “Participatory action research as a process and as a goal”, Human Relations, 46(2), pp. 175-192.

Harvey D. (1989), “From managerialism to entrepreneurialism: the transformation of urban governance in late capitalism”, Geographiska Annaler, 71B, pp. 3-17.

Jenson, J. (2015), “Social innovation: redesigning the welfare diamond”, in Nicholls A., Simon J., Gabriel M., Whelan C.C. (eds.), New frontiers in social innovation research, Palgrave Macmillan, London,11 pp. 89-106.

Iaione, C. (2016), “The CO‐City: Sharing, Collaborating, Cooperating, and Commoning in the City”, American Journal of Economics and Sociology75(2), pp. 415-455.

Maino F. (2017), Secondo welfare e innovazione sociale in Europa: alla ricerca di un nesso, Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia, pp. 19-42.

Montanari F., Mizzau L. (a cura di) (2016), I luoghi dell’innovazione aperta. Modelli di sviluppo territoriale e inclusione sociale, Fondazione Brodolini, Roma.

Moulaert F., MacCallum D., Hillier J. (2013), “Social innovation: intuition, precept, concept”, in Moulaert F., MacCallum D., Mahmood M., Hamdouch A. (eds.), The International Handbook on Social Innovation: collective action, social learning and transdisciplinary research, Edward Elgar Publishers.

Moulaert F., Nussbaumer J. (2005), “Defining the social economy and its governance at the neighbourhood level: A methodological reflection”, Urban Studies, 42(11), pp. 2071-2088.

Murray R., Caulier-Grice J., Mulgan G. (2010), The open book of social innovation, Nesta e The Young Foundation, London.

Nicholls A., Edmiston D. (2018), “Social Innovation Policy in the European Union”, in Heiskala R., Aro J. (eds.), Policy Design in the European Union, Palgrave Macmillan, pp. 161-190.

Nuvolati G. (2018), Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita, Firenze University Press, Firenze.

Pais I., Provasi G. (2015), “Sharing Economy: A Step towards the Re-Embeddedness of the Economy?”, Stato e Mercato, 35(3), pp.347-378. DOI: 10.1425/81604

Trigilia C. (2007), La costruzione sociale dell’innovazione: economia, società e territorio, Firenze University Press, Firenze.

van der Have R.P., Rubalcaba L. (2016), “Social innovation research: An emerging area of innovation studies?”, Research Policy, 45(9), pp. 1923-1935. DOI: 10.1016/j.respol.2016.06.010

Van Dyck B., Van den Broeck P. (2013), “Social innovation: a territorial process”, in Moulaert F., MacCallum D., Mahmood M., Hamdouch A. (eds.), The International Handbook on Social Innovation: collective action, social learning and transdisciplinary research, Edward Elgar Publishers, pp. 131-141.

Vicari-Haddock S., Mingione E. (2017), “Innovazione sociale e città”, Sociologia Urbana e Rurale, 113 pp. 13-29. DOI:10.3280/SUR2017-113002

Whyte W.F., Greenwood D.J., Lazes P (1989), “Participatory action research: Through practice to science in social research”, American Behavioral Scientist, 32(5), pp. 513-551.

Sostieni Impresa Sociale

Impresa Sociale è una risorsa totalmente gratuita a disposizione di studiosi e imprenditori sociali. Tutti gli articoli sono pubblicati con licenza Creative Commons e sono quindi liberamente riproducibili e riutilizzabili. Impresa Sociale vive grazie all’impegno degli autori e di chi a vario titolo collabora con la rivista e sostiene i costi di redazione grazie ai contributi che riesce a raccogliere.

Se credi in questo progetto, se leggere i contenuti di questo sito ti è stato utile per il tuo lavoro o per la tua formazione, puoi contribuire all’esistenza di Impresa Sociale con una donazione.