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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2020

Saggi

Il mercato nel welfare, i suoi danni e le alternative

Andrea Bernardoni

Ringrazio Carlo Borzaga che mi ha supportato nell’ideazione e nella scrittura dell’articolo offrendo stimoli, contributi ed una preziosa supervisione.

DOI: 10.7425/IS.2020.02.03

Introduzione

Sanità, imprese pronte al nuovo modello USA. Questo era il titolo di apertura, in prima pagina, de Il Sole 24 Ore nell’edizione cartacea del 1 febbraio 2018. A commento del titolo il quotidiano di Confindustria spiegava ai lettori che l’industria italiana della salute guardava con attenzione all’accordo sul welfare aziendale annunciato pochi giorni prima da Jp Morgan, Amazon e Buffet che avevano deciso di costituire una società indipendente non-profit per ridurre gli oneri assistenziali a carico dei dipendenti e migliorare i servizi di welfare (Valsania, 2018). Anche in Italia, spiegava il quotidiano, per assicurare l’universalità delle cure sarebbe stato utile un patto tra imprese e lavoratori perché era già alta la percentuale di cittadini senza polizze sanitarie che rinunciavano a curarsi. Proseguendo la lettura, a pagina 3, nel taglio alto si trovavano due titoli esplicativi che permettono di cogliere in pieno il messaggio che il giornale voleva lanciare. Il primo titolo recitava: Risorse pubbliche stabili da 10 anni. Lo Stato finanzia con 114 miliardi il sistema nazionale ma la domanda di cure aumenta. Ad integrazione del primo titolo il secondo aggiungeva: Ruolo crescente dei privati. Le principali compagnie di assicurazioni studiano partnership con il pubblico. Continuando la lettura, nel taglio basso della stessa pagina, il lettore scopriva che “la capacità assistenziale dello Stato si è fortemente contratta passando in dieci anni dal 92% al 77% ed è esplosa la spesa out of the pocket”, cioè la spesa privata delle famiglie.

La lettura di questo articolo de Il Sole 24 Ore ci permette di capire, in pochi minuti, cosa era accaduto negli ultimi dieci anni nel welfare italiano e di cogliere l’interesse di alcuni grandi player per il mercato del welfare. Dopo poco più di due anni però la pandemia da Covid-19, che nei primi mesi del 2020 ha interessato il pianeta, ha capovolto il punto di vista dei media. Esemplare è il titolo dell’articolo scritto da Kaube e Muller-Jung per il Frankfurter Allgemaine Zeitung: Il paziente non è un cliente. In cui i due giornalisti tedeschi denunciano i limiti ed i fallimenti dei modelli di mercato in ambito sanitario perché “la distribuzione di alcuni beni e servizi, come ad esempio le cure sanitarie e l’accesso ai farmaci ed ai vaccini durante un’epidemia, non può seguire la logica della massimizzazione del profitto ma deve essere garantita a tutti”, anche alle persone più indigenti.

Il welfare sociale e sanitario è un settore in forte espansione, con una domanda di servizi in crescita ed un ruolo del pubblico che, negli ultimi due decenni e in particolare dalla crisi del 2008, si è fortemente ridimensionato. Che cosa ha prodotto e produrrà la progressiva apertura al mercato di settori sempre più ampi del welfare? L’ingresso in aumento dei privati for profit è davvero in grado di accrescere l’efficienza complessiva del sistema? Il maggiore ruolo delle assicurazioni è in grado di compensare efficacemente il sotto-finanziamento pubblico di alcuni servizi? Le imprese sociali, come si stanno collocando o possono collocarsi in questo nuovo scenario? Infine, la pandemia da Covid-19 provocherà una radicale inversione di rotta, oppure nei prossimi anni saranno confermate le tendenze alla mercatizzazione del welfare in atto?

In questo articolo si cercherà di rispondere a questi interrogativi. Nel primo paragrafo sarà effettuata un’analisi sintetica delle recenti evoluzioni del welfare, nel secondo paragrafo saranno lette criticamente le tesi che associano la maggiore apertura al mercato ad una maggiore efficienza del welfare e nel terzo paragrafo saranno proposte alcune indicazioni di policy che intendono definire nuove traiettorie di sviluppo del welfare “oltre il mercato”, senza però tornare ai modelli pubblico-centrici del Novecento.

Il welfare dopo la crisi

Nell’ultimo decennio le conseguenze indotte dalla crisi economica sono state particolarmente intense e hanno condotto ad uno scenario contraddistinto da un duplice ordine di tensioni: da un lato la contrazione delle risorse pubbliche per le politiche di welfare e dall’altro l’intensificarsi della domanda di servizi causata dalle profonde trasformazioni demografiche, economiche e sociali che hanno interessato il Paese.

In questi anni le tensioni sulla finanza pubblica hanno determinano anche in Italia una profonda riorganizzazione dei sistemi di welfare nazionale e locali. Questo riassetto è avvenuto, sostanzialmente, attraverso: a) una generale contrazione dei trasferimenti destinati agli enti locali per i servizi sociali, in particolar modo Regioni e Comuni; b) il contenimento del Fondo Sanitario Nazionale che, se da un lato ha permesso di controllare la spesa sanitaria pubblica, dall’altro ha provocato un importante incremento della spesa sanitaria privata e un silenzioso abbandono da parte di fasce sempre più importanti della popolazione delle cure mediche, in particolar modo quelle legate alla prevenzione.

Per comprendere la dimensione del grande arretramento del welfare pubblico avvenuto in Italia può essere utile analizzare i dati relativi alla spesa sociale e sanitaria negli anni successivi alla crisi del 2008. Per quanto riguarda la spesa sociale, i fondi nazionali per le politiche sociali che nel 2009 erano complessivamente pari a 2,234 miliardi di euro nel 2012 sono stati praticamente azzerati e portati a soli 115 milioni di euro (Conferenza delle Regioni, 2015). Questa significativa riduzione è stata solo in parte compensata dalle risorse apportate dagli enti locali. A prova di questa tendenza la spesa sociale dei comuni che, ad esempio, nel 2010 era stata di 7,127 miliardi di euro (un valore pari allo 0,46% del Pil nazionale) nel 2015, dopo alcuni anni di incremento, era ancora inferire ai valori del 2010 (6,932 miliardi di euro, corrispondenti allo 0,42% del Pil nazionale). Per quanto riguarda il sistema sanitario i dati presentati nel rapporto annuale che l’OCSE elabora su questo tema descrivono bene la situazione (OECD, 2017). In Italia nel periodo 2009-2016 la spesa sanitaria totale per abitante ha fatto registrare una contrazione media annua dello 0,3%, una delle peggiori performance dei paesi OCSE che hanno registrato, invece, un incremento medio dell’1,4%. Peggio dell’Italia in questo periodo hanno fatto solo Grecia e Portogallo. La contrazione della spesa sanitaria totale è imputabile alla riduzione della spesa sanitaria pubblica che, nel 2016, era ampiamente al di sotto della media dei 35 paesi OCSE maggiormente sviluppati. La spesa sanitaria privata, viceversa, nello stesso periodo è cresciuta significativamente.

In molti settori del welfare come, ad esempio, la salute mentale e la non autosufficienza la contrazione della spesa pubblica ha generato la riduzione dell’offerta, in altri casi un incremento non adeguato ai tassi di crescita della domanda e un radicale cambio del clima. Dopo anni di fiducia nello sviluppo e nel potenziamento della rete dei servizi si è diffusa, tra amministratori e operatori, la convinzione che si sia aperta una nuova fase caratterizzata da progressivi e costanti arretramenti. Nella non autosufficienza, ad esempio, coerentemente con questa visione gran parte dei percorsi di miglioramento qualitativo e dell’innovazione dell’offerta in atto nei vari territori sono stati rallentati o interrotti (Gori, 2017); nella salute mentale molte esperienze virtuose nate in seguito alla riforma promossa da Franco Basaglia, studiate e replicate a livello internazionale, sono state ridimensionate generando un progressivo decadimento della capacità di risposta della rete dei servizi.

In questo quadro è entrato in crisi anche il modello di welfare mix affermatosi negli anni Novanta e nei primi anni Duemila in cui, in particolar modo per i servizi sociali e sociosanitari, gli enti pubblici locali fungevano da acquirenti dei servizi e le organizzazioni del Terzo settore da erogatrici delle prestazioni a favore dei cittadini, apportando alla rete di servizi pubblici innovazione e maggiore flessibilità. A partire dall’inizio del secolo i rapporti collaborativi tra amministratori pubblici e operatori del Terzo settore si sono progressivamente burocratizzati e sono stati sempre più orientati dall’utilizzo di meccanismi competitivi come le gare di appalto. La contrazione delle risorse pubbliche, la trasformazione del modello di regolazione ed il cambio di clima tra gli operatori del settore ha aperto una fase di involuzione dei servizi di welfare pubblici che sono sempre meno adeguati alle reali esigenze dei cittadini. Quale conseguenza dell’arretramento dei programmi pubblici si sono creati nuovi mercati privati, in progressiva e costante crescita, in cui la domanda delle famiglie e delle imprese incontra l’offerta di operatori privati.

Non è tuttavia corretto pensare che questa sia stata una scelta priva di alternative perché resa necessaria dalla pressione di vincoli finanziari nazionali o internazionali. Dal 2014, infatti, i vincoli di bilancio si sono allentati e le leggi di stabilità del 2015, 2016, 2017, 2018 e 2019 hanno ampliato i programmi di spesa pubblica puntando però sui trasferimenti monetari piuttosto che sul finanziamento dei servizi di welfare. A prova di ciò può essere utile ricordare che nel periodo 2015-2018 il Governo ha introdotto una serie di misure fondate sui trasferimenti monetari, come il bonus da 80 euro a sostegno del reddito dei lavoratori con redditi bassi e medio bassi, il bonus bebè o il bonus nidi che assorbono un’ingente quantità di risorse pubbliche (Bernardoni, 2017).

Anche rispetto all’ambito specifico delle politiche sociali, il maggiore intervento introdotto tra il 2017 e il 2019, una misura universalistica di contrasto alla povertà – il SIA e il REI prima, il Reddito di Cittadinanza ora – pur adeguando la dotazione dei servizi per gestire il maggior lavoro connesso ai percorsi di inclusione, destina la grande maggioranza delle risorse a trasferimenti, nello specifico verso famiglie indigenti.

Nello stesso periodo, mentre si contraevano le risorse del Fondo Sanitario Nazionale e si spingevano le Regioni a reintrodurre i ticket sulla diagnostica, si sono concesse agevolazioni fiscali volte a incentivare la diffusione dei programmi di welfare aziendale che hanno tra le principali prestazioni offerte ai lavoratori proprio alcuni servizi sanitari leggeri. Appare quindi evidente che dopo la crisi lo Stato italiano, anziché rafforzare la rete di welfare pubblico o quella dei servizi sostenuti da risorse pubbliche, ha preferito utilizzare logiche e strumenti di mercato potenziando i trasferimenti monetari destinati alle famiglie, favorendo lo sviluppo del welfare aziendale ed incentivando l’ingresso delle assicurazioni e delle grandi società di capitali – spesso straniere – in questo settore (Bernardoni, Picciotti 2019).

Negli ultimi dieci anni i governi che si sono susseguiti alla guida del Paese (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II) anziché rafforzare la rete dei servizi hanno aumentato i trasferimenti monetari, convinti che “mettendo i soldi in tasca agli italiani” avrebbero massimizzato il consenso elettorale. Nello stesso periodo, prima dell’esplosione della pandemia, il tema della diffusione e della qualità dei servizi di welfare è uscito dall’agenda delle forze politiche. Per avere una prova di questa affermazione è utile ricordare, ad esempio, che a fronte di significativi tagli apportati ai Fondi sociali nazionali che finanziavano i servizi sociali degli enti locali, nessun governo ha mai immaginato di riorganizzare il funzionamento dell’indennità di accompagnamento delle persone non autosufficienti che ha un’incidenza ben più elevata dei Fondi nazionali destinati alle politiche sociali e presenta diverse aree critiche riconosciute da numerose analisi indipendenti tra cui ricordiamo: l’importo uguale per tutti gli utenti indipendentemente dal reale bisogno assistenziale; un sistema di concessione delle indennità inadeguato e estremamente discrezionale che ha permesso una concentrazione di utenti anziani in diverse regioni del meridione che non trova alcuna adeguata giustificazione tecnica; l’assenza di un sistema di monitoraggio dell’utilizzo del sostegno economico che impedisce di verificare come queste risorse siano effettivamente impiegate.

In questi anni il dibattito pubblico mainstream, anche quello maggiormente legato al Terzo settore, si è concentrato su innovazione sociale, finanza a impatto sociale e sul ruolo che le imprese private for profit o low profit possono avere nella modernizzazione del sistema di welfare da realizzare attraverso una progressiva crescita del mercato. L’idea base, che ha trovato sostenitori anche tra studiosi e operatori del Terzo settore, è che solo ampliando il ruolo delle imprese capitalistiche, magari socialmente orientate, sia possibile incrementare il livello di innovazione e di efficienza dei servizi di welfare superando in questo modo le logiche burocratiche degli attori pubblici e la scarsa autonomia e la dipendenza dal pubblico dei soggetti del Terzo settore. Particolare attenzione ha avuto, nel dibattito, anche il tema delle azioni da realizzare per mobilitare risorse private da impiegare ad integrazione del finanziamento pubblico, coinvolgendo a tal fine assicurazioni e società finanziarie. È rimasto invece molto più sottotraccia il tema delle risorse pubbliche per il welfare, non si è parlato di come garantire adeguati finanziamenti alla rete di servizi sociali, sociosanitari e sanitari, di come finanziare un programma nazionale per la non autosufficienza, di come migliorare i rapporti tra attori pubblici e privati, superando il sistema degli appalti, e di come riequilibrare i forti divari territoriali presenti nel welfare sociale e sanitario.

Il falso mito dell’efficienza del mercato nel welfare

Non avevo l’assicurazione, quanto mi sarebbe costato, avrei dovuto pagare in contanti. Due, tre mila dollari o più. Non avremmo più potuto cambiare la macchina”. Queste parole sono pronunciate da Rich – falegname bianco, sessant’anni, viso bonario e una folta barba grigia – durante i titoli di apertura del film documentario Sicko, diretto da Michael Moore e presentato fuori concorso alla 60esima edizione del Festival del Cinema di Cannes. Rich pronuncia questa frase mentre mostra alla telecamera la sega circolare che qualche anno prima gli ha reciso, in un sol colpo, il dito medio e l’anulare. Rich era privo di assicurazione sanitaria e quando è arrivato al pronto soccorso l’ospedale gli ha offerto una scelta: riattaccare il medio per 60 mila dollari oppure l’anulare per 12 mila. “Da inguaribile romantico Rich ha scelto l’anulare – afferma la voce fuori campo – per la modica cifra di 12 mila dollari, la punta del dito medio ora si gode la sua nuova casa in una discarica dell’Oregon”.

L’uscita di Sicko nelle sale, nel 2006, ha aperto un acceso confronto sulle storture del sistema sanitario degli Stati Uniti che nei primi anni del Duemila lasciava 50 milioni di cittadini privi di assistenza sanitaria.

Il sistema sanitario statunitense rappresenta l’esempio, estremo ed unico, in cui in paesi ad economia avanzata la salute di una popolazione è assicurata da operatori privati che operano seguendo logiche di mercato e quindi perseguendo tutti – dalle compagnie di assicurazione, agli ospedali, ai medici – la massimizzazione dei profitti o quantomeno un livello di profitti non inferiore a quello medio di mercato. Gli Stati Uniti, infatti, sono l'unico paese tra quelli a economia avanzata in cui non vi è alcuna forma di assicurazione sanitaria obbligatoria e dove il ruolo dello Stato nell’organizzazione e nella gestione della sanità è ancora residuale. A differenza dei paesi europei, dove la salute è un diritto garantito dallo Stato, nel sistema statunitense i cittadini per aver accesso alle cure sanitarie devono aver sottoscritto una polizza con una assicurazione privata. Chi non è coperto da un’assicurazione privata o da un programma assistenziale pubblico è escluso del sistema sanitario, come è accaduto a Rich. Nel sistema sanitario statunitense l’industria della salute formata da medici, imprese finanziarie, assicurazioni e imprese farmaceutiche ha il controllo dell’intera filiera. Lo Stato, pur dedicando ingenti risorse pubbliche per finanziare programmi come Medicare e Medicaid che garantiscono la copertura assicurativa ad anziani, disabili e altre fasce deboli della popolazione, ha un ruolo marginale nel definire il funzionamento del sistema sanitario che è regolato secondo logiche di mercato. Questo assetto, nonostante l’importate spesa pubblica per la sanità, rende il sistema particolarmente iniquo e lascia, ancora oggi, decine di milioni di cittadini senza copertura sanitaria.

Secondo quanto sostenuto dal pensiero economico mainstream, a fronte di un elevato livello di iniquità dovremmo attenderci dal sistema sanitario statunitense un elevato livello di efficienza dato che sono il mercato e le imprese private ad avere un ruolo chiave. Questa aspettativa non trova però riscontro nella realtà: il sistema sanitario statunitense infatti è di gran lunga il meno efficiente ed efficace tra quelli di paesi a economia avanzata.

Per comprendere meglio questo aspetto possiamo utilizzare i dati OCSE (2017). In primo luogo, nel 2016 gli Stati Uniti hanno speso in sanità 9.892 dollari pro-capite, valore più che doppio della media dei paesi OCSE (4.003 dollari pro-capite), quasi triplo rispetto alla spesa sanitaria dell’Italia (3.391 dollari pro-capite). In secondo luogo la spesa sanitaria degli Stati Uniti rappresenta il 17,2% del Pil a fronte di un’incidenza media nei paesi OCSE pari al 9%. In terzo luogo, pur non avendo lo Stato un ruolo diretto nell’organizzazione del sistema sanitario, la spesa sanitaria pubblica è vicina ai 5 mila dollari pro-capite, valore superiore alla spesa sanitaria media totale (pubblica e privata) dei paesi OCSE. A fronte di questo grande investimento pubblico e privato le performance di salute sono particolarmente basse, come dimostra il fatto che la speranza di vita alla nascita negli Stati Uniti è più bassa della media OCSE e molto inferiore alla speranza di vita registrata nella maggior parte dei paesi europei (OECD, 2017).

Il sistema sanitario statunitense ha delle specificità tali da renderlo unico e difficilmente paragonabile ai modelli europei, tuttavia è utile ricordare le performance della sanità “a stelle e strisce” per evitare di accettare acriticamente le tesi di chi sostiene che una maggior apertura del welfare al mercato ed alle imprese private sia una condizione per aumentare il livello di efficienza, di innovazione e di sostenibilità dei servizi di welfare.

La compresenza di inefficienza e insufficiente copertura dei cittadini si spiega con la specificità dei servizi di welfare e in particolare con le diverse e forti asimmetrie informative tra produttori e professionisti da una parte e utenti dall’altra – anche quando questi sono costituiti, da una parte, da soggetti imprenditoriali privati e, dall’altra, da amministrazioni pubbliche – che lo caratterizzano. In presenza di asimmetrie informative chi acquista il servizio non è in grado – ex ante o ex post o in ambedue le situazioni – di valutare il suo reale valore o l’utilità che ne ricava e quindi la correttezza del prezzo richiesto o pagato. Un esempio classico di asimmetria informativa è quella esistente tra medico e paziente. Quando ci rivolgiamo a un medico per affrontare un problema inerente la nostra salute, non abbiamo strumenti per valutare se la diagnosi e la terapia proposta dal medico sia quella adeguata, la più efficace e la più economica. Allo stesso modo gli attori pubblici hanno strumenti limitati per verificare l’adeguatezza, anche economica, delle terapie e degli interventi effettuati in una struttura sanitaria privata e per limitare i margini per comportamenti opportunistici che le organizzazioni di offerta possono sfruttare a loro vantaggio, nello specifico per aumentare i profitti. Un discorso simile vale anche che per le compagnie assicuratrici che proprio negli Stati Uniti sono diventate famose per stipulare contratti annuali in modo da non doversi far carico di assicurati colpiti da invalidità o da malattie croniche. La presenza di queste asimmetrie – che da informative diventano di potere – fanno sì che il ricorso al mercato in sanità non garantisca né una ragionevole risposta ai bisogni, né una allocazione efficiente delle risorse.

Ma è proprio la presenza di asimmetrie informative una delle motivazioni – se non la principale – che spiega sia l’organizzazione pubblica delle assicurazioni e dei servizi sanitari adottata in quasi tutti i paesi europei, che la diffusa presenza di organizzazioni del Terzo settore nel mercato dei servizi di welfare. Queste organizzazioni infatti, a differenza delle società di capitali, non perseguono la massimizzazione dei profitti, ma hanno una funzione obiettivo più articolata che disincentiva l’adozione di comportamenti opportunistici da parte del management e dei soci. Per questa ragione, pur in presenza di asimmetrie informative, ci si attende che esse offrano maggiori garanzie di correttezza sia agli attori pubblici che ai beneficiari finali dei servizi.

Oltre il mercato: nuove strategie per lo sviluppo del welfare

Già prima della crisi in corso era chiaro e lo è ancora di più ora che nei prossimi anni dovranno essere compiute delle scelte molto rilevanti per il futuro della nostra società, che avranno degli effetti sia sulle condizioni economiche degli italiani che sulla tenuta sociale e democratica del Paese. In questo contesto saranno centrali le decisioni che saranno prese in materia del welfare. Anche se con lo scoppio della pandemia tutto sembra più confuso, il Paese è ancora di fronte alla scelta tra due modelli alternativi.

Da un lato vi è un modello fortemente orientato al mercato, centrato sulla domanda pagante dei cittadini, in cui le risorse pubbliche si riducono e i trasferimenti monetari sono preferiti ai servizi. In questo modello i bisogni sono soddisfatti nel mercato e i grandi player del capitalismo industriale, finanziario ed assicurativo sono chiamati a svolgere un ruolo sempre più rilevante nell’organizzazione sia della domanda che dell’offerta dei servizi di welfare apportando innovazione, managerialità e risorse aggiuntive. In questo modello le organizzazioni del Terzo settore sono chiamate ad adottare un orientamento business like, ad ibridarsi con le società di capitali, a confrontarsi con la domanda pagante adottando modelli gestionali marcatamente manageriali. Così facendo enfatizzano la funzione produttiva a discapito della funzione di advocacy e dell’azione politica che ha caratterizzato la fase di sviluppo del Terzo settore e delle imprese sociali nel nostro Paese. Già a fine anni Novanta diverse ricerche (Weisbrod 1998; Cutler, Horwitz, 1999) analizzando strategie e comportamenti delle organizzazioni non profit statunitensi avevano messo in evidenza i rischi di omologazione alle imprese for profit a cui sono esposte le organizzazioni non profit che operano prevalentemente nel mercato privato.

Dall’altro lato vi è un modello di welfare orientato ai diritti, in cui lo Stato e gli enti locali sono impegnati a rafforzare ed innovare la rete dei servizi in modo da garantire a tutti i cittadini l’accesso ai principali servizi sociali, sociosanitari, sanitari ed educativi. In questo modello, pur in presenza di un mercato plurale in cui operano soggetti pubblici, imprese for profit, organizzazioni del Terzo settore e imprese sociali, il ruolo degli attori pubblici rimane centrale nell’organizzazione della domanda e dell’offerta dei servizi di welfare. In questo quadro le organizzazioni del Terzo settore sono chiamate a collaborare con gli attori pubblici apportando un contributo originale in termini di innovazione e di efficienza, oltre che risorse aggiuntive a quelle pubbliche, svolgendo in pieno sia la funzione produttiva che quella di advocacy. Grazie al coinvolgimento attivo dei cittadini garantito dalle organizzazioni di Terzo settore, si possono innovare i servizi di welfare rendendoli più flessibili, centrati sui reali bisogni delle persone, accessibili, maggiormente equi ed efficaci e promuovere coalizioni sociali con l’obiettivo di dare visibilità e rappresentanza politica ai bisogni a cui il welfare non dedica da tempo adeguate risorse e non offre appropriate risposte.

Il primo modello presenta numerosi limiti resi evidenti dal caso USA che la pandemia ha amplificato, mentre il secondo rappresenta la strada per rafforzare il welfare senza però tornare ai sistemi incentrati quasi esclusivamente sull’intervento pubblico, che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, in cui le organizzazioni del Terzo settore avevano un ruolo residuale.

In un Paese sempre più povero, impaurito e diseguale, come è l’Italia, un modello di welfare in cui, utilizzando le parole di Michael J. Sandel (2012) professore di Filosofia Politica ad Harvard, “tutto è in vendita” acutizza le diseguaglianze ed ampli i rancori. In una società in cui tutte le cose buone, come ad esempio l’educazione dei figli e la cura degli anziani, sono comprate e vendute, avere i soldi farà sempre più la differenza.

Per aprire una nuova stagione del welfare piuttosto che puntare sul mercato, sulla domanda pagante, sui grandi player e sulla finanza è importante ripartire dai diritti dei cittadini, valorizzando le cose buone ed innovative che sono state sino a ora realizzate. Innovazioni poco visibili, che non hanno conquistato le prime pagine dei media, ma che hanno trasformato radicalmente il welfare come accaduto, ad esempio, nel settore della disabilità e della salute mentale. Innovazioni che sono state messe in discussione negli ultimi anni in cui i servizi sono stati impoveriti e standardizzati.

In questa prospettiva è opportuno puntare a costruire un Terzo Modello in cui operino, con pari dignità, attori pubblici, imprese for profit e organizzazioni non profit nel finanziamento, nella programmazione e nella gestione degli interventi di welfare, con ruoli e funzioni diversi ma coerenti con le caratteristiche delle diverse tipologie organizzative.

Per realizzare questa trasformazione di modello è necessario: cambiare la narrativa dominante; tornare a finanziare i servizi di welfare; coinvolgere in modo attivo i cittadini che da semplici beneficiari possono diventare coproduttori di nuovi servizi di welfare; costruire filiere di servizi flessibili e modulari; puntare sulle economie di rete piuttosto che sulle economie di scala.

Si illustrano brevemente ciascuna di queste condizioni.

Cambiare la narrativa dominante

Negli ultimi dieci anni, alla contrazione delle risorse per i programmi di welfare si è associata l’affermazione di una narrativa, utilizzata per giustificare i tagli, che ha descritto il welfare pubblico come inefficace ed obsoleto, gestito da attori con scarse capacità innovative e basato su rapporti opachi con le organizzazioni del Terzo settore. Per avere conferma di questa tendenza può essere utile pensare al modo in cui i media descrivono gli episodi di “malasanità” o l’insistenza sugli sprechi di risorse che sarebbe dimostrata dal diverso prezzo pagato per le siringhe dalle ASL. Al welfare tradizionale la narrazione dominante ha spesso contrapposto alcune iniziative di social innovation promosse o realizzate da fondazioni d’impresa, filantropi e imprese socialmente responsabili.

Riteniamo invece che sia giunto il momento di cambiare il discorso pubblico sul welfare evidenziando in modo oggettivo aspetti positivi e negativi, punti di forza e punti di debolezza, limiti ed opportunità dei servizi tradizionali e delle esperienze più innovative. In altre parole è giunto il momento di costruire il discorso pubblico partendo dalle evidenze empiriche piuttosto che dallo storytelling. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla sanità. La sanità italiana, se consideriamo gli indicatori di salute, è tra le migliori al mondo, nonostante negli ultimi anni sia stata sistematicamente sotto-finanziata. Il problema non è quindi la “malasanità” e le inefficienze del pubblico, che sicuramente ci sono, ma il livello di finanziamento pubblico del sistema sanitario che si è costantemente ridotto ed è al di sotto della media dei paesi OCSE e molto distante da quanto Germania e Francia dedicano alla sanità pur senza raggiungere livelli di qualità delle cure molto superiori ai nostri.

C’è voluta la pandemia per cambiare radicalmente il discorso pubblico sulla sanità: l’emergenza sanitaria causata da Covid-19 ha reso evidenti gli effetti del sotto-finanziamento del sistema e, per la prima volta dopo decenni, il tema del finanziamento pubblico del sistema sanitario è entrato nell’agenda politica. In questo quadro agli operatori sanitari è stato offerto un vasto riconoscimento mediatico, i medici e gli infermieri sono stati descritti come “eroi in prima fila a combattere contro il virus”. I riflettori dei media, tuttavia, hanno illuminato solamente una parte del welfare e dei sui protagonisti lasciando nella penombra, ad esempio, il welfare sociale e gli operatori del Terzo settore. Per queste ragioni partendo da quanto accaduto con la pandemia sarà necessario costruire un nuovo discorso pubblico sul ruolo e sul valore di tutti i servizi di welfare. 

Tornare a finanziare la rete dei servizi di welfare

Per rendere i diritti esigibili è necessario dotare il Paese di una rete di servizi di welfare diffusa nel territorio ed accessibili a tutti. In questa prospettiva dopo anni in cui la rete dei servizi è stata sotto-finanziata è giunto il momento di tornare a investire nei servizi di welfare spostando, se necessario, risorse dai trasferimenti monetari ai servizi. Lo squilibrio tra trasferimenti monetari e servizi di welfare era già stato evidenziato negli anni Novanta (Guerzoni, 2008) e in questi decenni la situazione non è cambiata. Come abbiamo visto, dopo la crisi del 2008 è addirittura peggiorata poiché le risorse per i servizi di welfare sono diminuite mentre quelle destinate a finanziare i trasferimenti sono aumentate. Il sotto-finanziamento dei servizi di welfare ha ampliato i divari territoriali fotografati annualmente dall’Istat nel rapporto sulla spesa sociale dei Comuni ed ha ritardato l’introduzione di misure necessarie come l’istituzione di un programma nazionale per la non autosufficienza.

Coinvolgere in modo attivo i cittadini

In questa nuova fase un ruolo determinante deve essere attribuito ai cittadini che vanno messi nelle condizioni di divenire dei veri e propri co-produttori, co-finanziatori e co-imprenditori. Diversi studi mostrano come il punto di vista dei cittadini e degli utenti sia essenziale per innovare i servizi di welfare e superare il problema del cosiddetto “miopismo organizzativo” che colpisce le organizzazioni rigide e scarsamente capaci di cogliere i segnali di cambiamento presenti nella società. Per queste ragioni, coinvolgendo cittadini e utenti le organizzazioni, pubbliche e private, possono anticipare i rischi e cogliere le nuove opportunità presenti in un contesto in rapida evoluzione, ridisegnando la rete di servizi di welfare (Pestoff, 2012). In questa prospettiva le organizzazioni del Terzo settore saranno chiamate a svolgere un ruolo determinante supportando sia i processi di advocacy che i processi produttivi ed imprenditoriali dei cittadini attivi, realizzando, in coerenza con l’Art. 118 della Costituzione, una trasformazione dal basso del welfare, divenendo attori centrali del nuovo modello.

Costruire filiere di servizi flessibili e modulari che mettono al centro le biografie delle persone

Negli anni Duemila si è aperto un processo di standardizzazione dei servizi, che si è accentuato negli anni della crisi ed ha reso molte tipologie di servizi sociali e socio-sanitari sempre meno attente alle esigenze delle persone per cui, sulla carta, sono pensati, rendendoli in alcuni casi disumani. Per questa ragione è necessario ripensare i servizi, ragionare non più per singola tipologia ma per filiere, costruendo un’offerta flessibile e modulare capace di accompagnare i percorsi di vita delle persone. Bisogna cambiare paradigma e anziché far adeguare la vita delle persone agli standard dei servizi è necessario adeguare l’organizzazione del welfare alle esigenze dei cittadini. La personalizzazione dei servizi di welfare è un tema ricorrente dei documenti di programmazione nazionali e territoriali. Non vi è Piano Sanitario e Piano Sociale regionale che non dichiari di voler porre “le persone al centro” e di voler costruire un “welfare comunitario”, ma queste dichiarazioni sono poi frequentemente disattese dalle scelte concrete delle amministrazioni pubbliche che, dopo la crisi del 2008, hanno reso i servizi di welfare più rigidi, burocratici e chiusi.

Puntare sulle economie di rete piuttosto che sulle economie di scala

In economia l’espressione economie di scala indica la relazione esistente tra l’aumento delle dimensioni dell’impianto di produzione e la riduzione del costo medio unitario di produzione di un bene. Negli anni Duemila nel settore del welfare si è molto puntato sulle economie di scala per efficientare l’offerta e ridurre il costo dei servizi (con questa visione scuole, ospedali e strutture sociali sono state concentrate nei fondivalle e nei grandi centri urbani). Tuttavia, in settori ad alta intensità di lavoro in cui il rapporto tra operatore e utente è spesso legato a standard fissi, le economie di scala producono risultati estremamente contenuti in termini di aumento della produttività e determinano delle esternalità negative estremamente elevate: basti pensare ai processi di spopolamento delle aree rurali causati anche dalla riduzione di servizi vitali come quelli educativi sanitari e sociali. Per questa ragione è opportuno puntare sulle economie di rete, piuttosto che su quelle di scala, con l’obiettivo di tornare a portare nei territori i servizi di welfare puntando sulla polifunzionalità degli spazi mettendo in rete soprattutto attori pubblici ed organizzazioni del Terzo settore. In questa prospettiva ad esempio le scuole potrebbero essere collegate con le biblioteche, con i servizi per disabili, con le associazioni culturali e sportive di un territorio, ottimizzando in questo modo l’utilizzo delle strutture e garantendo la presenza di presidi sociali, educativi e culturali in tutto il territorio nazionale. La pandemia da Covid-19 ha reso evidenti anche i limiti sanitari delle economie di scala nella gestione delle residenze per anziani, all’interno delle quali si è consumata una vera e propria strage (Pasquinelli, 2020), favorita da una rete di RSA di dimensioni medie e grandi che nel 43,1% dei casi hanno una capienza che va dai 50 ai 99 posti letto e nel 21,4% dei casi una capienza addirittura superiore ai 100 posti letto (ISS, 2020).

Conclusioni

Il processo di apertura di crescenti segmenti di welfare alle logiche di mercato, avvenuta per apportare maggiore efficienza in un settore caratterizzato da bassa produttività e per attrarre risorse private delle famiglie e delle imprese in modo da compensare la riduzione delle risorse pubbliche, oltre a non avere dato buona prova dove applicato, rischia di mettere in discussione l’idea stessa di welfare universalistico e, così facendo, di contribuire al logoramento del tessuto democratico del Paese. In questo scenario, le organizzazioni del Terzo settore e le imprese sociali si trovano a scegliere tra due alternative: concentrarsi – come qualcuno propone – sulla nuova domanda privata pagante a cui vendere beni e servizi non più garantiti dal welfare pubblico, oppure rafforzare la loro funzione originaria ed essere tra i promotori di una nuova fase del welfare, lavorare per rimettere al centro del discorso pubblico il tema dei diritti impegnandosi per trovare nuove risposte ai bisogni dei cittadini che, in molti casi, non si possono trasformare in domanda pagante. È questa seconda opzione quella più convincente e la crisi pandemica in corso sta rafforzando questa convinzione. In altre parole, le organizzazioni del Terzo settore e le imprese sociali non sono chiamate a adottare logiche di mercato che non sono loro proprie, bensì, come hanno fatto in passato, a svolgere una funzione trasformativa della società: promuovere l’innovazione dal basso del welfare e al tempo stesso impegnarsi affinché l’acceso ai servizi, nuovi e vecchi, sia un diritto per tutti i cittadini piuttosto che un privilegio per pochi. Nell’Italia post pandemia da Covid-19 la funzione trasformativa delle organizzazioni del Terzo settore e delle imprese sociali sarà ancora più importante poiché dovranno essere ripensate intere filiere di servizi come, ad esempio, quelle legate agli anziani o all’infanzia ed il contributo delle organizzazioni del Terzo settore sarà fondamentale per renderle realmente aderenti ai bisogni dei cittadini, valorizzando le risorse della comunità evitando il ritorno al welfare pubblico centrico del Novecento.

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