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ISSN 2282-1694
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Numero 2 / 2020

Editoriale

L’impresa sociale di fronte alla crisi

Redazione

Mentre la fase due tenta faticosamente di decollare, tra successive riaperture di attività e confini e misure di distanziamento che ancora persistono, è tempo di un primo bilancio su come le imprese sociali abbiano vissuto l’emergenza Covid-19 e come le istituzioni le abbiano sostenute.

Rispetto alle imprese sociali, al di là delle percezioni, solo successive indagini potranno documentare le effettive conseguenze economiche di una crisi che, come scriveva Carlo Borzaga, a differenza di quella del 2008 e imponendo esigenze di distanziamento, va a colpire direttamente le “azioni di relazione” – l’educare, l’animare, l’assistere, ecc. – che costituiscono il nucleo centrale dell’operatività di molte imprese sociali. Non a caso, tra gli intenti di Iris Network per la seconda metà del 2020 vi è la realizzazione di una prima indagine su questi aspetti e sulle strategie di risposta messe in campo.

Per ora – lo hanno raccontato nel nostro Forum Eleonora Vanni e Felicia Gemelli e lo comprova tra gli altri Isnet nel suo sito web – possiamo documentare le molte iniziative che vedono imprese sociali protagoniste della risposta alla crisi, prendendosi cura di soci, utenti, comunità territoriali di riferimento e proponendo attività per adattare i propri servizi alla crisi o organizzando in tempi rapidi nuovi interventi per fare fronte alle necessità delle fasce più deboli della popolazione, in particolare nei giorni durissimi del lockdown. Molti hanno reagito al restringimento delle possibilità di contatto sviluppando nuove strategie di relazione – si veda questo articolo di Tabacchi su come è stato reinterpretato il distanziamento in ambito educativo – e hanno reinventato forme inedite di confronto, come quelle che, nel nostro piccolo, abbiamo sperimentato con un’edizione a distanza del Colloquio Scientifico sull’impresa sociale, che ha fatto emergere, oltre alla qualità di molti contributi, il desiderio di non interrompere e anzi di rilanciare le possibilità di dialogo.

Vi è chi ha ripensato i propri servizi e chi, come le imprese sociali impegnate nella gestione di servizi residenziali, si è trovato a fronteggiare in prima linea i nodi più critici dell’emergenza Covid, offrendo spesso esempi di eccellenza nel contenimento dei contagi, seppur dimenticate dalla narrazione. Gli operatori di RSA e comunità alloggio, pur avendo pagato prezzi altissimi, sono stati, scrive Andrea Bernardoni, eroi di serie B, eroi dimenticati, per media che hanno (giustamente) celebrato medici e infermieri, dimenticandosi però (questa volta ingiustamente) di chi ha lavorato nelle strutture più esposte alle conseguenze del contagio.

A fronte di tutto ciò, qual è stato l’impegno delle istituzioni per preservare – sono ancora parole di Carlo Borzaga – questa infrastruttura sociale strategica del nostro Paese sia per l’oggi che, ancora di più per il domani? E cosa altro si potrebbe fare?

Cosa si è fatto

Su quanto fatto, il discorso è abbastanza semplice: né più né meno di quanto è stato offerto alle altre imprese del Paese. Non vi sono stati, in questi tre mesi, provvedimenti specifici relativi all’impresa sociale, ma le imprese sociali possono fruire, in quanto imprese, dei diversi strumenti – la cassa integrazione per i propri lavoratori, le misure di sostegno alla liquidità, le dilazioni degli obblighi fiscali, ecc. – previsti nel D.L. Cura Italia, nel D.L. Liquidità e nel D.L. Rilancio.

Vi è poi una misura che, seppure non indirizzata alle imprese sociali ma con carattere settoriale e relativa ai servizi di welfare, potrebbe nella sostanza interessare prevalentemente queste imprese; si tratta dell’art. 48 del D.L. Cura Italia, poi riscritto come art. 109 del D.L. Rilancio, che prevede, nell’ultima formulazione, la possibilità di riconvertire i servizi di welfare sospesi per effetto delle misure di prevenzione del contagio (ad esempio un centro diurno) in altri servizi (es. a domicilio o via web), resi nel rispetto delle misure di sicurezza. Sino ad oggi questa ragionevole misura ha dato frutti limitati perché i Comuni, in forte difficoltà economica, hanno spesso preferito non sostituire con alcunché i servizi interrotti e recuperare le risorse finanziarie impegnate. Un bilancio più definito sarà comunque possibile solo nelle prossime settimane, ben sapendo che il successo della misura dipenderà in gran parte dall’entità dei trasferimenti a vantaggio dei Comuni per fare fronte all’emergenza.

Cosa si potrebbe fare

Rispetto alla seconda domanda, al “cosa si potrebbe fare”, le molte cose scritte in queste settimane da persone vicine al mondo dell’impresa sociale, hanno due caratteristiche comuni: l’essere proposte prive di costi e l’essere misure già esistenti, ma di fatto non disponibili o non pienamente attuate, o l’essere comunque misure già sperimentate con successo in passato. Vediamone una sintetica review.

In diversi articoli Felice Scalvini ha sostenuto la necessità di dare attuazione alla Riforma del Terzo settore: gli incentivi fiscali per le imprese sociali – la detassazione degli utili accantonati a riserva indivisibile e la deducibilità della capitalizzazione – sono, a tre anni dall’approvazione della Riforma, ancora inapplicabili per l’inerzia del Governo nel notificare tali misure a Bruxelles; notifica che, nota Scalvini, costituisce essa stessa un eccesso di prudenza che si potrebbe forse ragionevole superare, essendo le misure in questione analoghe ad altre già accordate.

Lo stesso Scalvini è intervenuto sul tema dei fondi dedicati all’imprenditorialità sociale; anche in questo caso un fondo esiste, venne deliberato dal CIPE nell’agosto 2015, e giace di fatto inutilizzato; al tempo stesso, ricorda Scalvini, esistono esperienze virtuose – il riferimento è al moltiplicatore della capitalizzazione previsto da Jeremie in Lombardia e al fondo di sostegno di nuove imprese sociali che combinava risorse per l’avvio dell’attività con una tutorship da parte di imprese esistenti del Programma Fertilità – che tracciano una via, sinora inapplicata, per utilizzare al meglio questi fondi e quelli che potrebbero essere ricavati da un uso intelligente dei fondi strutturali europei.

Andrea Bernardoni e Marco Gargiulo si sono fatti portavoce di un appello, firmato da oltre 1000 imprenditori sociali che, accanto alle misure sopra richiamate, si concentra sulle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore, auspicando – sono ancora parole di Bernardoni – “un new deal fondato su collaborazione e territorio”. Una prima richiesta è quella di valorizzare appieno le possibilità di instaurare relazioni fondate su strumenti come la coprogrammazione e la coprogettazione, esistenti e agibili, anche se ancora circondati da una certa diffidenza da parte degli enti locali (si veda anche questo articolo di Marocchi in risposta ad alcune posizioni critiche su questi strumenti). La seconda richiesta è quella di un utilizzo straordinario e diffuso di proroghe nei servizi di welfare per evitare che la combinazione tra crisi finanziaria dei Comuni e delle imprese sociali produca meccanismi di ribasso selvaggio che andrebbero a danno di utenti, lavoratori e imprese non disposte a ricorrere al dumping (anche questo tema e sviluppato sul Forum di Impresa Sociale da Marocchi); dando così il tempo al sistema di riassorbire almeno parzialmente le perdite e di riorganizzarsi come specificato nel punto precedente, secondo principi collaborativi.

In sostanza, interventi regolativi privi di costi o attuazioni intelligenti di misure comunque già legiferate, ma non ancora attuate; queste le richieste del mondo dell’impresa sociale. Richieste, però, rimaste sino ad ora inascoltate, quasi che in un Paese, dove a fronte della crisi tutto pare concedibile e tutto derogabile, questi interventi facciano riemergere perplessità e resistenze.

Considerazioni

Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. … Siamo troppi. …. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. … Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura…” Queste parole agghiaccianti sono state scritte all’alba della Prima guerra mondiale per sostenere le virtù e la bellezza della guerra, glorificata anche nel Manifesto del Futurismo come la “sola igiene del mondo”.

Purtroppo è così, ad ogni disgrazia questo tipo di pensieri da qualche parte fa capolino. Vi sono profeti che guardano con più o meno segreta simpatia le disgrazie, ritenendo che in fondo esse facciano soccombere i deboli e gli inutili, dando invece spazio ad una nuova e migliore generazione.

Questa filosofia aberrante non è assente nemmeno oggi in relazione alle imprese sociali.

Vi è, strisciante, un pensiero da combattere: che essendo, secondo questa narrazione, le imprese sociali a ben vedere conservative, parassitarie, inefficienti, parapubbliche, ecc. – lo sconvolgimento generato dal Covid possa in fondo portare al bene: alcune imprese sociali soccomberanno a causa della crisi – quelle appunto più arretrate, ed è giusto che sia così – e resteranno le migliori: magari in numero minore, ma attrezzate per competere sul mercato allo stesso livello e secondo le logiche delle imprese profit, innovative, dinamiche, aperte all’uso delle nuove tecnologie. Questo insieme disordinato di pensieri catalizza false convinzioni sia sulle imprese sociali (per smentirle basterebbe leggere il volume Cooperative da riscoprire che affronta e smonta una serie di pregiudizi diffusi sul tema) sia sugli effetti della crisi (che, anche semmai la logica sopra esposta fosse minimamente accettabile, come le bombe belliche generalmente non stronca i peggiori, ma quelli cui capita di trovarsi sotto l’esplosione); ed è figlia di un’ideologia che concede volentieri (giustamente) comprensione ed empatia al commerciante costretto a chiudere un negozio, all’imprenditore rovinato dalla crisi, all’operaio che resta disoccupato; ma che (chissà perché) originalmente diventa spietata e rigorista verso le imprese sociali che pure rappresentano un’infrastruttura fondamentale del nostro Paese.

Quanto è diffusa questa dottrina tra policy maker, responsabili di programmi e azioni di sostegno all’impresa sociale e forse, per una curiosa Sindrome di Stoccolma, tra gli stessi imprenditori sociali? Quanto questa dottrina è responsabile del fatto che azioni sostanzialmente prive di costi, in un panorama in cui tanti hanno chiesto e ottenuto risorse ingenti, non siano ancora entrate nel dibattito politico? E compaiano poco o per nulla anche nelle proposte di soggetti pur sensibili alle tematiche sociali, che oggi però vedono come unico approdo un rilancio del ruolo dello Stato (nell’economia, nella salute), dimenticando come questi decenni abbiano evidenziato il ruolo del Terzo settore nel perseguire interessi pubblici.

Sia detto per inciso: Giovanni Papini, quello che auspicava il “caldo bagno di sangue nero” di cui sopra, la guerra non la fece mai, essendo stato riformato per miopia; e in anni successivi, quando i morti ci furono davvero, si pentì amaramente di quanto detto.

Ecco, appunto. Vi è da sperare che a pontificare sulle imprese sociali non vi siano troppi soggetti che dalle fatiche quotidiane di chi si sforza di operare per l’interesse generale sono lontani. E che non ci si trovi, nemmeno tra troppo tempo, a rimpiangere quanto poco si sia fatto per sostenere e rilanciare un patrimonio prezioso per il nostro Paese.

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