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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2020

Saggi

L’Italia tra nazionalizzazioni, privatizzazioni e azionariato diffuso

Lorenzo Innocenti

Abstract

In Italia oggi si parla molto di un ritorno alle nazionalizzazioni. Il tema sembrava essere tornato in auge già da qualche tempo, in verità, ma gli effetti gravissimi che la pandemia sta scatenando sull’economia italiana ha inevitabilmente reso il dibattito in merito di più stringente attualità. Pare interessante dunque ripercorrere le ragioni che circa trent’anni fa avevano condotto il nostro Paese nella direzione opposta: alle nazionalizzazioni seguite alla crisi del 1929 erano state opposte le privatizzazioni massicce degli anni Novanta; privatizzazioni che – motivate da un contesto internazionale particolarmente complesso – avevano soprattutto lo scopo di portare l’Italia all’interno dell’Unione Economica e Monetaria prefigurata dal Trattato fondativo dell’Unione Europea (Maastricht, 1992).

Quante differenze presenta lo scenario odierno rispetto a quello del tempo? Quali benefici potrebbe portare una eventuale ri-nazionalizzazione di imprese operanti in determinati settori produttivi? Quali rischi si celano dietro una simile operazione? Nel presente scritto si cercherà innanzitutto di tracciare una breve storia del rapporto intercorso sino ad oggi tra Stato e Mercato in Italia, fissando i momenti decisivi nella parabola dello Stato imprenditore nel nostro Paese. Si osserveranno, quindi, le ragioni fondamentali che condussero alla svolta storica delle privatizzazioni (1992-2001) e si analizzeranno di seguito limiti e prospettive legate allo sviluppo di un azionariato diffuso in Italia (sorta di via mediana individuata dal Governo tra Stato e Mercato). Infine, si proveranno a stabilire alcune conclusioni, interpretando il caotico momento attuale alla luce degli eventi passati.

Keywords: privatizzazioni, nazionalizzazioni, Stato imprenditore, azionariato diffuso, politica industriale

DOI: 10.7425/IS.2020.04.11

Introduzione

Oggi si fa un gran parlare, in Italia, di un ritorno alle nazionalizzazioni. Era già da qualche tempo in verità che se ne discuteva (Nuti, 2019; Perrone, 2018), ma gli effetti gravissimi che la pandemia sta scatenando sulle economie di tutto il mondo ha inevitabilmente portato ad una accelerazione del dibattito. Ne ha parlato, tra i primi, il viceministro all’Economia, Laura Castelli (Fotina, 2020), e lo stesso capo del dicastero, Roberto Gualtieri, ha di recente aperto in maniera esplicita ad una simile prospettiva (Trovati, 2020).

In seguito a tali prime, timide aperture sono arrivati anche segnali concreti di una strategia complessiva e organica, con trattative per l’ingresso in posizione dominante di Cdp, tra le altre, in Autostrade per l’Italia, Alitalia e Ilva.

Ora, secondo il filosofo napoletano Giambattista Vico, la Storia è ciclica e si ripete costantemente seguendo le medesime, alternate traiettorie.

Queste discussioni sull’opportunità di privatizzare o nazionalizzare determinati enti più o meno strategici per gli interessi (economici, ma soprattutto politici) del Paese le abbiamo vissute già molteplici volte, in Italia. È dall’Unità (1861) che se ne dibatte. Anzi, da prima ancora.

Nel presente scritto si cercherà innanzitutto di tracciare una breve storia del rapporto intercorso tra Stato e Mercato in Italia, fissando i momenti decisivi nella parabola dello Stato imprenditore nel nostro Paese. Si osserveranno quindi le ragioni fondamentali che condussero alla svolta storica delle privatizzazioni (1992-2001) ed infine si proveranno a stabilire alcune conclusioni, interpretando il caotico momento attuale alla luce degli eventi passati.

Origini dello Stato imprenditore in Italia (1861-1933)

Se ad oggi risulta piuttosto diffusa l’opinione che “pubblico” e “privato” rappresentino aspetti separati, inconciliabili ed anzi spesso conflittuali della società di cui facciamo parte, è interessante notare come, nella pratica, il rapporto tra i due si sia sviluppato, nel tempo, in maniera invece piuttosto simbiotica e, soprattutto, estranea a ideologie e apriorismi.

In Italia i primi approcci di interventismo statale in materia economica risalgono al periodo precedente l’Unità e si concentrano sui settori considerati strategici per gli interessi della nazione (dalla produzione d’armamenti ai mezzi di comunicazione, sino alle vie di trasporto), pian piano espandendosi poi verso altri comparti.

Questa prima fase si caratterizza per una situazione di sostanziale monopolio in cui si trovano ad operare le aziende nazionalizzate, per la mancanza di una generale opera “programmatrice” di tali interventi, messi in atto di volta in volta, secondo opportunità o necessità, e non piuttosto per scelta ideologica. Per quanto gli indirizzi di politica economica di Cavour e dei suoi diretti successori della Destra Storica fossero in massima parte ispirati da teorie liberiste (e quindi volte alla limitazione dell’intervento statale in economia e allo sviluppo del libero mercato), la complessa situazione finanziaria del neonato Regno d’Italia non consentì loro, dal principio, l’applicazione di un programma coerente con simili assunti. Il tessuto industriale del nuovo Stato e, più in generale, la situazione economica con cui ci si trovò a dover fare i conti all’alba dell’Unità, erano quelli di una nazione arretrata, che andava semmai gradualmente preparata a quel regime di libera concorrenza su cui dibattevano economisti come De Viti, De Marco, Pareto, Pantaleoni e cui ambiva buona parte della stessa classe politica al potere.

Altro passaggio significativo nella parabola dello Stato imprenditore in Italia è la nazionalizzazione delle ferrovie. Fu il Governo presieduto da Giovanni Giolitti ad occuparsi, con la legge n. 137 del 22 aprile 1905, della definitiva nazionalizzazione del sistema ferroviario italiano; proprio lo statista di Dronero, che nel 1885 aveva fatto parte della Commissione parlamentare che avvallò la firma delle convenzioni e che anche in seguito aveva a lungo pubblicamente manifestato la sua predilezione per una soluzione che coinvolgesse i privati. Ancora una volta, evidentemente, la Ragion di Stato aveva prevalso. E d’altronde, come sottolinea il Papa “le categorie attivanti del processo di nazionalizzazione […] furono il risultato di un compromesso ispirato al rigetto dichiarato della teoria”.

Ancora, possiamo citare a mo’ di esempio la creazione dell’AGIP (1926) da parte di un regime fascista che pure, in quella fase specifica e in continuità con il più recente passato, ancora si faceva sostenitore di un sistema economico apertamente liberale.

Tale intervento si caratterizzò per due aspetti peculiari, in qualche misura insoliti per un caso di nazionalizzazione. Innanzitutto l’AGIP non operò mai in un regime monopolistico, ma – per quanto comunque assistita e protetta dallo Stato – si trovò ad agire in un sistema di libera concorrenza. In secondo luogo, la scelta di sostituirsi a privati nello sviluppo di un determinato settore economico (in questo caso, quello petrolifero) non venne dettata – come invece sempre era stato in Italia sino a quel momento – da crisi di società private o altre contingenze di carattere emergenziale, ma piuttosto da un preciso calcolo politico fatto dallo Stato. Stando alle parole del ministro delle Finanze di allora, Giuseppe Volpi:

«Il governo fascista è contro le statizzazioni, ma non si irrigidisce sulle formule, perché l’essere contrari alle statizzazioni non significa l’assenza o la neutralità dello Stato, quando, di fronte ai grandi problemi che interessano l’economia nazionale, l’iniziativa privata non abbia la possibilità di affrontarli. La ricerca dei giacimenti petroliferi importa mezzi eccezionali: non si può chiedere all’iniziativa privata quello che essa non può dare» (Pizzigallo, 1984 - p. 8).

Infine, passaggio decisivo nella parabola dello Stato interventista in Italia è la nascita dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente nato nel gennaio 1933, col fine di contenere e contrastare l’espandersi nella Penisola di una colossale crisi economico-finanziaria che rischiava di travolgere i principali istituti bancari tricolori e, assieme, le maggiori industrie del Paese.

Le premesse dell’IRI risiedono nella particolare forma che l’economia italiana venne assumendo a partire dalla fine dell’Ottocento e che vide la formazione di grandi istituti di credito che sempre più si legarono (e confusero) con il sistema industriale. In particolare due di questi, la Banca Commerciale (Comit) ed il Credito Italiano (Credit) giunsero a controllare una gran parte delle maggiori aziende del Paese, vincolando dunque ad esse i propri interessi e (anche) le proprie sorti (Mattioli, 1962 - p. 28). Fino a che la fase economica si mantenne espansiva riuscirono a fare i propri affari, ma con la crisi del primo dopoguerra – aggravata definitivamente dal crollo di Wall Street del ’29 – questa situazione precaria ed artificiosa fece emergere tutte le proprie contraddizioni, rischiando di gettare l’intero settore economico-finanziario italiano in un baratro. Il sostegno economico dello Stato a banche e imprese si era fatto, a seguito della Prima Guerra Mondiale, sempre maggiore, soprattutto per mezzo della Banca d’Italia che, in tal modo, si era esposta in maniera ingentissima – nel tentativo si salvarli – nei confronti di tali istituti già gravemente compromessi (Ciocca, 2014 - p. 24). Si era creato così un circolo vizioso: la crisi delle imprese si era rapidamente trasmessa alle banche private e da loro proprio alla Banca d’Italia. Ancora una volta, pubblico e privato si trovavano fianco a fianco, i propri interessi non contrapposti ma sovrapposti, alla ricerca di una soluzione comune (Menichella, 1986 - p. 108).

La situazione giunse quasi al punto di rottura, tanto che Giuseppe Toeplitz, influente vertice della Comit, si risolse a recarsi in udienza da Mussolini, a Palazzo Venezia, in data 11 settembre 1931.

Toeplitz – che puntava ad un ampio sostegno finanziario da parte Stato che permettesse alla sua banca di mantenere una certa autonomia (e, di conseguenza, a lui di seguitare a controllarla) – presentò al “Duce” una sintetica relazione (preparata da Raffaele Mattioli, giovane e competente collaboratore dello stesso Toeplitz) con cui si prospettava il salvataggio dell’istituto, all’interno di uno schema più ampio di economia regolata, che si immaginava avrebbe reso il progetto più appetibile alla dirigenza fascista. Mussolini, che pure diffidava di Toeplitz, ben consapevole della gravità della situazione e preoccupato dalle conseguenze politiche che sarebbero potute venire dal crollo del sistema finanziario-imprenditoriale del Paese, prese sul serio la proposta e la passò al Ministero delle Finanze, allora retto dall’ex nazionalista, ebreo palermitano, Guido Jung. Jung e i suoi collaboratori elaborarono lo schema originario, alla ricerca di una soluzione efficace e quanto più possibile definitiva alla “mostruosa fratellanza siamese”[1] che s’era venuta a creare tra banche e imprese. La soluzione prospettata da Toeplitz, al contrario, appariva eccessivamente sbilanciata: allo Stato gli oneri inziali di risanamento, alle banche gli eventuali futuri proventi. Ma soprattutto Jung fu decisivo nel convincere Mussolini ad affidare la presidenza del nascente ente di risanamento ad Alberto Beneduce, capacissimo e controverso personaggio dell’Italia post-liberale, ex socialista, massone, fedelissimo di Francesco Saverio Nitti e Ivanoe Bonomi, tanto da riceverne importanti incarichi nei rispettivi governi, antifascista della prima ora, si era poi unito all’ampia schiera di “fiancheggiatori” che finirono per legittimare il Regime, fornendogli solide basi su cui appoggiarsi – pur senza mai richiedere la tessera del partito[2] ed anzi, venendo apertamente osteggiato da ampie componenti del fascismo, durante tutto il lungo periodo del suo incarico.

Beneduce è stato definito da più parti come un “uomo per tutte le stagioni”, vista la sua capacità trasformistica di adattarsi alle mutate circostanze, mantenendo incarichi di potere a prescindere dalla fazione politica di volta in volta al Governo. Questa sua abilità “mimetica” lo agevolò sicuramente nella sua carriera e spiega in qualche misura l’enorme potere che egli riuscì infine ad accumulare nelle sue sole mani[3]. Certamente era un uomo con un disegno e lo dimostra tutto il suo percorso, anche nella fase precedente alla presidenza dell’IRI: l’esperienza nel Consiglio d’Amministrazione dell’INA, Istituto Nazionale delle Assicurazioni, tra il 1912 ed il 1919; quella al Crediop, Consorzio di credito per le opere pubbliche, dal 1919; e ancora all’Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità, ICIPU, a partire dal 1924. Tutti enti a cui trasmise la propria impronta, ossia (in estrema sintesi) un modello misto pubblico-privato che puntava sulla riorganizzazione degli enti statali in base a criteri di produttività ed efficienza, sempre orientati però – oltre che al profitto – all’interesse pubblico, ragion d’essere prima ed ultima dello stesso Stato. Le “imprese Beneduce” ebbero infatti, nel tempo, alcuni caratteri distintivi che le accomunarono tutte, tra cui si riconosceva un corpo agile – secondo il principio nittiano: “poche persone, ben pagate”[4] – il rigetto, nei limiti dell’opportunità politica, di dinamiche clientelari nella scelta dei propri investimenti, l’ideale di fondo di una sorta di “superiorità morale” dello Stato sui privati, che gli fece affermare, nel rapporto della Sezione smobilizzi dell’IRI dell’anno 1934:

«Quando si raccolgono centinaia di milioni o miliardi di depositi il comando non può spettare a sparute pattuglie di azionisti nascoste nell’ombra, ma deve invece spettare allo Stato, che rappresenta la collettività: quella collettività che affida fiduciosa i propri depositi e che non può fruire di elementi di controllo che non siano lo Stato».

Certo questa sua visione non era – ancora una volta – condizionata da pregiudiziali ideologiche di sorta, tanto che Beneduce si batté sempre affinché il nascente Istituto per la Ricostruzione Industriale fosse governato da quella forma mista che sarebbe poi divenuta peculiare: ente pubblico le cui singole imprese, tuttavia, fossero rette da una conduzione privatistica e quanto più possibile autonoma dai vari ministeri. Questa forma, nella mente del suo ideatore, avrebbe dovuto portare (e difatti portò) a una sintesi tra l’attenzione per l’interesse collettivo tipica del pubblico e l’efficienza competitiva del privato. Nelle sue parole[5]:

«Criterio fondamentale che ha presieduto a tutta l’opera dell’IRI è stato quello della gestione su basi economiche: il fatto che talune aziende industriali siano venute a trovarsi nell’orbita dello Stato non deve liberarle dalla ferrea necessità, per ciascuna di esse, di far quadrare i costi con i ricavi, di mantenere cioè la gestione aziendale nei limiti imprescindibili delle necessità di bilancio».

L’IRI insomma – che per di più negli intenti originari doveva essere un ente provvisorio[6], utile soltanto a traghettare banche e imprese oltre quel difficile periodo, e che invece ebbe vita per oltre mezzo secolo – non fu voluta per qualche fine dirigistico dell’economia[7], ma originò piuttosto da una valutazione estremamente concreta, pessimistica e diffusa della situazione del grande capitale italiano. Come nota Ciocca[8]:

«[…] le ragioni oggettive di fondo, d’ordine economico, che portarono all’istituzione dell’IRI furono quindi essenzialmente […] conservare all’economia del Paese sia industrie che i capitalisti privati si erano dimostrati non all’altezza di gestire, sia banche che si erano dimostrate incapaci di alimentare quelle industrie in condizioni di equilibrio finanziario […] Nell’affermare il ruolo dello Stato a tutela del pubblico risparmio fu decisiva la coincidenza in Mussolini e in Beneduce […] di un giudizio severamente negativo nei confronti dell’alta finanza».

Ancora una volta, dunque, la scelta di far intervenire lo Stato in maniera tanto importante e duratura nell’economia venne presa dopo aver scartato tutte le altre, per ragioni pratiche, contingenti. Donato Menichella, nel suo rapporto del luglio 1944 al Capitano dell’esercito alleato, Andrew Kamarck affermava:

«[…] se lo Stato italiano (attraverso l’I.R.I.) si è trovato a possedere le azioni delle tre maggiori banche del Paese e molte grosse partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto in base ad un proposito dello Stato stesso di voler assumere la gestione di importanti complessi finanziari e industriali in luogo e vece di capitalisti privati e ad essi sottraendola imperativamente […]».

E anzi, ancora nel 1934, lo stesso Beneduce scriveva:

«[L’IRI] sa che il suo dovere è di vendere, di realizzare: perché sa che, nonostante ogni buona volontà che si ponga nella direzione e nell’amministrazione delle aziende e nonostante ogni vigile cura che si abbia di mantenere vive le responsabilità e le iniziative dei dirigenti, il clima dell’appartenenza a un grande Istituto statale non è il più adatto perché i dirigenti si sentano spinti nelle innovazioni e nelle iniziative che sono il fondamento del successo nelle aziende industriali».

Ma, per quanto si fossero dunque prospettate altre soluzioni e si fosse anche disposti a far fronte alla situazione in altro modo, l’aggravarsi della crisi, nel 1932, rese definitivamente evidente a Mussolini, Beneduce e Jung che la soluzione al problema non poteva che essere radicale. Ottenuta dunque piena fiducia – e, di conseguenza, pieno potere di azione – da parte di Mussolini, l’attenzione di Beneduce si concentrò in particolare sul sistema bancario, che si era rivelato la componente assieme più vulnerabile e dirimente di tutto quel complesso ingranaggio economico-finanziario. Il nuovo ente regolatore dell’economia italiana che andava nascendo doveva innanzitutto interporsi tra credito e imprese, separare l’uno dalle altre, risanare e rapidamente valorizzare le “energie produttive della nazione”. Fu su queste basi che l’IRI – istituito, il 23 gennaio 1933, presso degli “scarni uffici”, in via Veneto, a Roma – operò inizialmente.

La guerra all’Etiopia, le sanzioni, l’autarchia e la conquista dell’Impero furono poi decisivi, però, nello sconvolgere i progetti originari e fu da allora che si iniziò a pensare all’IRI come ad un ente di carattere permanente, che potesse orientare in maniera organica e decisiva gli sforzi industriali della nazione (De Felice, 1981 - p. 331). Nonostante questo e nonostante il r.d.l. n. 905 del 24 giugno 1937 sancisse ufficialmente la trasformazione dell’IRI in ente permanente, Beneduce seguitò a difendere da ingerenze sia esterne (soprattutto da parte del Ministero delle Corporazioni, che a più riprese tentò di assumere sotto di sé il controllo dell’istituto) che interne (ci fu per un certo periodo un conflitto con l’Ilva, per quanto riguardava il comparto siderurgico) (d’Antone, 2011 - p. 226) l’operato dell’IRI, sostenuto in questo (ed era, si capirà, un aspetto fondamentale) dallo stesso Duce, che richiamò sempre come un pregio il concorso tra pubblico e privato di cui si faceva forza l’istituto.

Dal “Miracolo Economico” alla crisi dello Stato Imprenditore in Italia (1950-1986)

Trascorse le drammatiche esperienze della guerra e delle sue conseguenze durissime per Stato e popolo italiano, venne il momento di ricostruire.

Il ventennio 1950-1970 rappresentò non soltanto un periodo di straordinaria crescita per il Paese, ma anche la fase di massima espansione mai conosciuta dall’economia italiana nell’intera sua storia nazionale. Durante tale intervallo di tempo il PIL italiano crebbe ad un livello medio annuo molto prossimo al 6%, quello pro capite passò da un differenziale di 100 a 186 rispetto alla media dei Paesi dell’Europa occidentale ad uno di 100 a 148 (a parità di potere d’acquisto) sempre rispetto ai medesimi. I mutamenti economici e sociali furono dunque rilevantissimi, come testimoniato sia dai dati (tra il 1951 e il 1961 diciassette milioni di cittadini italiani cambiarono residenza, le città con più di 100.000 abitanti videro il raddoppiarsi della propria popolazione, vi fu in generale una tendenza nettissima all’inurbamento, con perdita di rilievo sia economica che culturale delle campagne) che dalle polemiche “anti-capitaliste” lanciate da certa parte dell’intellighenzia nazionale (Pasolini, 1975)[9].

A caratterizzare questo periodo furono, ancora una volta, figure notevolissime quali Oscar Sinigaglia, Vittorio Valletta, Giuseppe Luraghi, Raffaele Mattioli: grandi manager che trovarono il contesto ideale per imprimere la propria capacità di visione al sistema economico nazionale.

Il contributo dell’IRI a questo eccezionale sviluppo fu decisivo[10]. L’istituto riuscì ad accompagnare la crescita della grande impresa in una fase internazionale di grande espansione, coadiuvata in questo da una serie di fattori contingenti non secondari, come la politica valutaria restrittiva attuata dal governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, a partire dal 1947, ed il basso livello generale dei salari, che fino allo scorcio degli anni Sessanta permise alle aziende di contenere le spese, aumentando di conseguenza i profitti. Piero Gnudi recentemente ha affermato che “il miracolo economico fu provocato dal grande sviluppo industriale del dopoguerra e in Italia, allora, l’industria era l’IRI”; frase questa che coglie appieno sia gli aspetti positivi che quelli maggiormente critici di una simile situazione. Come scrive Troilo infatti:

«Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? Alitalia è la compagnia aerea dell’IRI. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo, come la Michelangelo o la Raffaello o la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’IRI. Noleggia una macchina veloce ed elegante, come un’Alfa Romeo? È dell’IRI. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’IRI, ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (IRI) ed il cemento della Cementir (IRI). Uscito dalla città prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’IRI. Assaggia i prodotti della Motta o dell’Alemagna? Sono aziende IRI. Dopo pranzo telefona a qualcuno della sua città, usando la prima teleselezione integrale da utente del continente? È una linea della Sip, cioè dell’IRI. Arrivato a destinazione, deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Banca Commerciale Italiana o il Banco di Roma o il Credito Italiano), è anch’essa dell’IRI» (Troilo, 2008).

Se da una parte l’IRI era riuscito infine a portare a compimento tutta una serie di progetti avviati al termine della guerra e a sostituirsi con successo ad una classe privata nazionale che nella grande impresa si era dimostrata mancante, dall’altra era cresciuto troppo, ma soprattutto lo aveva fatto in un contesto a cui si era adattato perfettamente ma che non era più ripetibile. Il così detto “autunno caldo” (1969) aprì una fase di rivendicazioni da parte della classe lavoratrice che avrebbe avuto approdi anche tragici per il Paese e che comunque andò via via a limare la competitività dell’industria nazionale; gli “shock” petroliferi del ‘73 e ‘76 mutarono poi le condizioni fondamentali in cui le imprese operavano, con il prezzo del greggio che aumentò in maniera vertiginosa in breve tempo; la fine del sistema di Bretton Woods, infine, che scatenò una vera e propria “guerra delle valute”, in cui gli Stati Uniti trasmettevano inflazione ai propri partner commerciali e questi dovevano scegliere a loro volta se rivalutare o svalutare la propria moneta[11], generando squilibri finanziari notevoli e dunque un contesto poco favorevole agli investimenti.

In un ambito tanto problematico non sorprende che la grande industria, per definizione poco recettiva ai cambiamenti epocali, abbia subito i contraccolpi maggiori, non solo in Italia, ma a livello internazionale (Frigero et al., 2013), e non solo per quanto riguarda le partecipate pubbliche, ma anche nel settore privato. Si andarono insomma definendo, negli anni Settanta, tutti gli elementi di crisi che avrebbero condotto al nuovo scenario economico globale, con una sempre più marcata finanziarizzazione dell’economia, l’affermazione della piccola-media impresa – più flessibile e dunque maggiormente adatta a sopravvivere in contesti problematici – e soprattutto di quel clima (anche culturale) favorevole ad una progressiva estromissione dello Stato dalle cose economiche che sarebbe culminato con il grande processo di privatizzazioni degli anni Ottanta-Novanta che pose fine alla stessa esperienza dell’IRI.

All’interno di tale complesso scenario, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale finì progressivamente per perdere quella rigida osservanza dei principi economicistici che l’aveva contraddistinto invece nel periodo precedente. La necessità politica di mantenere non solo in vita, ma anche in salute, le aziende a partecipazione statale – a fronte di una sempre maggiore perdita di competitività delle stesse – portò a decisioni che, talvolta, poco avevano a che fare con una corretta gestione economica generale. Capitò sempre più di frequente che le nomine in seno all’IRI fossero dettate da ragioni clientelari e che lo Stato arrivasse a ripianare le perdite delle singole imprese con sistematica facilità, generando nei vari dirigenti una condizione di moral hazard (Silva, 2013) che non poteva che nuocere a lungo andare.

Vi furono poi altre contingenze particolari, come la scelta, da parte degli organi di governo del Paese, di risolvere in maniera drastica l’annosa “questione meridionale”: la legge n. 634 del 29 luglio 1957 imponeva infatti di stanziare il 60% dei nuovi investimenti ed il 40% di quelli totali al Sud[12]. Si trattava di un provvedimento di enorme rilievo, che portò certo a dei benefici che però furono molto inferiori sia alle attese che alle necessità pratiche. L’IRI si adeguò alle nuove normative effettuando alcune grandi operazioni: la creazione di un grande polo siderurgico a Taranto[13]; la costruzione di un nuovo stabilimento dell’Alfa Romeo a Pomigliano; la localizzazione di importanti investimenti nel settore dell’alta tecnologia tra Campania, Sicilia, Puglia e Abruzzo. L’effetto di simili ingenti operazioni fu sì quello di stimolare l’economia delle aree interessate, ma senza che da queste si ingenerasse poi un circolo virtuoso di qualche tipo, uno sviluppo materiale ed anche culturale dell’attività d’impresa. La creazione di grandi impianti in una zona così storicamente poco recettiva ad un tipo di sviluppo simile fece sì che questi finissero per somigliare a delle “cattedrali nel deserto”, destinate a scomparire una volta che fossero terminate le sovvenzioni pubbliche. Di questo, già all’epoca, si rendeva conto una parte degli stessi vertici dell’IRI. Scriveva infatti nel 1975 Pasquale Saraceno, economista, per lungo tempo alto dirigente dell’istituto, Presidente della SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), figura eminente dell’economia nazionale:

«Che il sistema industriale italiano debba estendersi a tutto il paese così da dare occupazione anche alla forza lavoro disponibile nel Mezzogiorno, riducendo al minimo le correnti migratorie è opinione che, ormai, non suscita più serie obiezioni» (Saraceno, 1975 - pp. 108-111).

Ma seguitava poi dicendo:

«Il dibattito è invece più che mai aperto sulle politiche da adottare per raggiungere il detto risultato; costruzione di infrastrutture, contributi agli investimenti di capitale, contributi ai costi di esercizio e altri incentivi non hanno infatti ancora determinato, nel Mezzogiorno, il voluto flusso di investimenti industriali. […] In conclusione, lo sviluppo industriale delle regioni meridionali ha una sola determinante: l’esistenza di una diffusa convenienza all’investimento industriale. Creata questa condizione si aprirà un largo campo ad iniziative delle imprese a p. s. nei casi in cui la convenienza ad investire nel Mezzogiorno non sia prontamente percepita dal capitale privato e, naturalmente, che non si tratti di impianti di piccola e media dimensione[14]. Il tipo di sviluppo che sarà così generato metterà capo nel Sud a un apparato industriale misto – pubblico e privato – omogeneo con quello esistente nel Centro-Nord […] Se questa concezione potrà animare la politica di industrializzazione del Mezzogiorno saranno certamente abbandonate le norme che fanno obbligo al sistema delle p. s. di localizzare nel Mezzogiorno determinate quote dell’ammontare complessivo dei loro investimenti» (Saraceno, 1975 - pp. 108-111).

Insomma, la spinta dello Stato poteva e anzi doveva manifestarsi al principio, per contribuire a produrre quella vitalità che il settore privato da sé non era riuscito a garantire[15], ma di lì avrebbe poi dovuto venirsi a creare un clima favorevole agli investimenti, in un contesto capace di autofinanziarsi nel medio periodo; cosa che, evidentemente, non avvenne.

Tutti questi fattori, uniti, contribuirono a creare una cornice di estrema instabilità e l’IRI finì per pagare una crisi economica non soltanto italiana, ma globale, in un contesto che era divenuto ormai estremamente interconnesso e che imponeva adattamenti tanto rapidi quanto radicali. I vecchi modelli non erano più validi ed i rimedi sino a quel momento utilizzati per correggere certi problemi strutturali del sistema economico italiano dimostrarono di non poter essere più replicati nel nuovo contesto. L’implementazione del Mercato unico europeo – con la rimozione delle barriere non tariffarie – e del processo di integrazione economica e monetaria cambiarono poi in maniera ancora più netta il modo di fare impresa in Europa, ponendo l’industria continentale di fronte ad un mercato estremamente più largo e competitivo rispetto al passato.

In questa cornice la reazione delle grandi conglomerate non solo italiane, ma europee, fu simile, con un generale arretramento della grande industria, una diminuzione della diversificazione produttiva ed una conseguente tendenza a concentrare le proprie energie su di un core business e infine un incremento della multinazionalità delle aziende, che cercavano sempre più di creare reti internazionali per riuscire a competere nel nuovo ambito globalizzato. In Italia, tuttavia, il mutamento fu più lento che altrove (Silva, 2013) (essenzialmente Francia, Germania e Regno Unito) e condizionò negativamente non solo l’andamento dell’impresa pubblica, ma anche di quella privata.

Tra lo scorcio degli anni Settanta ed il principio degli Ottanta, con la nomina di Pietro Sette alla presidenza dell’IRI e quella di Gianni De Michelis al Ministero delle Imprese a Partecipazione Statale, si iniziò a ragionare in maniera organica su come porre freno ad una crisi che non dava cenno di arrestarsi e anzi minacciava di divenire endemica[16]. I punti su cui i due scelsero di concentrarsi furono: un necessario ritorno ai princìpi di efficienza ed economicità dell’Istituto, che gli consentisse di autofinanziarsi, attirando capitali privati; una maggiore internazionalizzazione, con una più massiccia presenza diretta all’estero e una politica di accordi, acquisizioni e joint venture al di fuori dei confini nazionali (De Michelis, 1981); l’individuazione dei settori più promettenti (perlopiù quelli ad altro contenuto tecnologico), verso cui indirizzare i due terzi degli investimenti generali; un ridimensionamento dell’intervento nel Mezzogiorno, con una preferenza per lo sviluppo della piccola-media impresa e del settore dei servizi – in netta controtendenza, dunque, con quanto cercato di fare tra gli anni ‘50 e ‘70, ossia l’applicare un processo di industrializzazione massiccia al Meridione attraverso gli importanti investimenti cui si è accennato sopra.

Tali proponimenti risultarono ancora più marcati ed urgenti sotto la presidenza Prodi, che durò per due mandati – dal 1982 al 1989 – e che vide concentrarsi in quel periodo i tentativi più decisi di riformare l’IRI in maniera strutturale. Va sottolineato che un simile intervento era, all’epoca, motivato dalla ferma volontà di mantenere in vita ancora a lungo l’istituto e che gli smobilizzi anche importanti che pure ebbero luogo durante quegli anni erano appunto mirati a “ridare fiato” alla conglomerata, permettendole di tornare florida e soprattutto di concentrarsi sui settori maggiormente produttivi, tagliando i “rami secchi”.

Altro aspetto che va evidenziato – e che si ricollega con quanto appena detto sopra – è l’influenza che progressivamente assunse sul corso degli eventi il processo europeo di unione economica e monetaria: il Libro Bianco della Commissione Delors (1985) e l’Atto Unico Europeo (1986) dettero infatti il via ad un processo che si sapeva già allora inarrestabile e a cui l’Italia – come gli altri Paesi della futura eurozona – dovettero necessariamente adeguarsi, con tutto ciò che questo comportava in termini economico-finanziari[17].

Tra spinte interne ed esterne: le privatizzazioni in Italia (1992-2001)

Ora, senza entrare eccessivamente nel dettaglio, basterà osservare rapidamente alcuni aspetti di rilievo della parabola dello stesso IRI per trarre qualche monito senz’altro utile per il futuro. In particolare sembra di grande interesse, oggi, ricordare come mai tale ente venne definitivamente soppresso, nel 2002, dopo oltre un decennio di parziali ma sistematici smobilizzi. Si può dire che le spinte in tal senso (e, più in generale, alle privatizzazioni in Italia) furono in sostanza tre:

  • una interna, finanziaria;
  • una interna, politica;
  • una esterna, politico-finanziaria.

La prima era l’esigenza di abbassare il livello del debito pubblico italiano in un momento in cui i tassi di interesse internazionali si stavano alzando improvvisamente. Come ricorda De Cecco:

«A dire il vero, l’insostenibilità del debito pubblico italiano derivava dal fatto che esso aveva raggiunto dimensioni solo compatibili con tassi di interesse internazionali bassi proprio quando questi ultimi aumentarono non gradatamente ma all’improvviso e quasi di scatto, attingendo livelli inimmaginabili in tutto il periodo pluridecennale precedente» (Affinito et al., 2000).

Oggi i tassi di interesse sono bassi e questo appare propizio in una fase in cui inevitabilmente il debito pubblico si troverà a crescere per sostenere l’economia in crisi. Ma questo, d’altra parte, potrebbe ritornare ad essere una zavorra insostenibile nel momento in cui tali tassi dovessero nuovamente – e d’improvviso – tornare ad alzarsi. Da un simile pericolo aveva messo in guardia di recente la stessa governatrice della Bce, Christine Lagarde, ancor prima che l’epidemia di Covid-19 si trasformasse in pandemia, divenendo un problema diretto e improcrastinabile per l’Europa (Valentini, 2020).

La seconda spinta era la necessità di spezzare – almeno in parte – la dinamica clientelistica che sempre aveva unito enti a partecipazione pubblica e partiti politici di governo, ma che (come visto) a partire dagli anni Settanta era progressivamente degenerata, portando ad un’espansione incontrollata di enti quali l’IRI, molte delle cui aziende controllate operavano in campi tutt’altro che strategici per gli interessi del Paese e che rappresentavano poi – a livello finanziario – una perdita netta per la conglomerata.

A titolo di esempio si possono citare un paio di testimonianze. La prima è dell’ultimo Presidente dell’Istituto, il Dottor Piero Gnudi, il quale ha affermato[18]:

«[Negli anni Settanta] la crisi economica seguita alla famosa crisi del petrolio e poi l’avanzata del partito comunista, la paura che potesse arrivare ad ottenere ruoli determinanti all’interno del governo, fecero sì che l’IRI non venisse visto solamente come una componente produttiva del Paese, una parte a sostegno del Paese, ma anche come un sistema per comprarsi consenso, per garantire consenso alla maggioranza».

La seconda dell’ex ministro dell’Industria, Paolo Savona, il quale dopo aver osservato per anni il comportamento dei vari dirigenti delle aziende pubbliche, si definì “liberista per disperazione”.

Quelli del clientelismo e delle inefficienze sono rischi concreti anche oggi e l’unico modo per riuscire a scamparli è di dotarsi di meccanismi di controllo severi, oltre che di una classe dirigente preparata e con un forte senso dello Stato. Di questo parleremo più approfonditamente nel prossimo punto e in conclusione.

La terza e decisiva spinta, fu il “vincolo esterno” europeo. L’avvento della globalizzazione, il crollo del Muro di Berlino e la conseguente fine della Guerra Fredda impressero un’accelerazione improvvisa al processo di integrazione europea, con tutto ciò che questo significava in termini di unione economica e monetaria.

Come già accaduto in occasione dell’adesione allo Sme (1979), la determinazione italiana ad entrare a far parte dal principio del gruppo di Paesi che avrebbero condiviso la moneta comune fu figlia di valutazioni eminentemente politiche, per quanto da ciò derivassero inevitabilmente poi conseguenze anche e soprattutto economiche e finanziarie.

In Europa, in effetti, grandi mutamenti si erano preparati già a metà degli anni Ottanta. Un passaggio decisivo fu la nomina, il 18 luglio 1984, di un nuovo Presidente della Commissione Europea: Jacques Delors, socialista francese classe ‘25, destinato con la sua opera a dare un impulso nuovo e determinante al processo di integrazione europea.

Già al suo discorso di insediamento di fronte al Parlamento Europeo (14 gennaio 1985), Delors tracciò le linee guida del suo programma, auspicando per la Commissione un ruolo di maggiore interventismo rispetto al più recente passato, in maniera tale che questa si rivelasse concretamente centrale nell’ottica della costruzione europea. Era questo un disegno particolarmente ampio e ambizioso, ispirato da una visione effettivamente federale dell’Europa, in contrapposizione a quella di un altro statista francese, De Gaulle, che a suo tempo aveva fatto in modo di favorire invece lo sviluppo di un’Europa confederale, una “Europa degli Stati”. Nella visione di Delors, infatti, una Commissione più politicamente rilevante costituiva il primo passo verso un vero e proprio governo europeo, slegato quanto più possibile dal controllo dei singoli Stati membri e dunque da un’ottica meramente nazionale (e nazionalista).

La ragione di un simile diverso atteggiamento rispetto al passato va certo cercata negli enormi squilibri economico-finanziari che negli anni ‘70 erano giunti a colpire i Paesi capitalisti e che avevano condotto lentamente ma inesorabilmente all’abbandono del modello industriale fordista nonché ad una progressiva finanziarizzazione dell’economia. La svalutazione del dollaro e il trasmettersi del suo effetto inflattivo sulle valute dei suoi principali partner economici (i Paesi della CE, con in testa la Germania, ed il Giappone) fu in qualche modo il motore di questi squilibri, che condussero ai due “shock petroliferi” del ‘73 e ‘79 e a quella che la storiografia ricorda come “la guerra delle valute”. La reazione europea a tali criticità fu dapprima il così detto Serpente monetario (1973) e poi il Sistema monetario europeo (1979); due accordi, questi, volti a vincolare tra loro le monete dei Paesi della CE, il secondo dei quali accompagnerà per altro gli Stati aderenti sino al 31 dicembre 1998: all’adozione, cioè, dell’Unione Economica e Monetaria. Tali sconvolgimenti, del resto, agevolarono l’affermazione di nuove teorie economiche, una delle quali – quella così detta neoliberista riconducibile alla “Scuola di Chicago” di Milton Friedman – si sarebbe presto imposta come dottrina dominante proprio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, condizionando in maniera decisiva le scelte economiche dei Paesi capitalisti nei decenni ‘80 e ‘90. A tutto ciò sopra detto va aggiunta poi la fortissima accelerazione dello sviluppo tecnologico, all’interno di quella che è conosciuta come la Terza rivoluzione industriale. Questo complesso di fattori, unito, aprì le porte alla globalizzazione, con tutto ciò di buono e meno buono che avrebbe portato con sé. Significativo per dare una risposta a ciò che ci siamo domandati inizialmente e per comprendere poi anche quello che sarebbe avvenuto di lì a un decennio nella Comunità Europea, è quanto affermato nelle proprie memorie dallo stesso Delors:

«La montée des marchés et la dérégulation se feront avec ou sans nous. Le vent est là et il souffle fort. Il s’agit de savoir si le pilote du bateau peut résister au vent et trouver une trajectoire qui soit un bon compromis entre, d’un côté, l’evolution de l’environnement international et des idées, de l’autre, la défense de nos intérêts et du modéle européen».

La crescita spasmodica dei mercati attraverso la deregolamentazione, lo sviluppo tecnologico, l’affermarsi di paradigmi economici nuovi imponevano delle scelte drastiche anche in Europa, se i Paesi della Comunità volevano reggere l’urto della globalizzazione dunque, che lo si desiderasse oppure no.

Oggi questo vincolo appare temporaneamente superato. La provvisoria sospensione delle normative UE in materia di aiuti di Stato (Commissione Europea, 2020) concedono infatti in questa fase emergenziale l’adozione di un determinato tipo di politiche, senz’altro più espansive e del resto necessarie al rilancio dell’economia dei Paesi europei. Come ha già dimostrato ampiamente la crisi finanziaria (e poi economica) del 2007 infatti, la mano pubblica risulta indispensabile per difendere quell’interesse collettivo di cui i privati – per definizione – difficilmente arrivano a farsi carico. Eppure, è perlomeno lecito pensare che terminata questa fase di emergenza (per quanto lunga) la politica dell’Unione sugli aiuti di Stato alle imprese ritornerà la stessa di ieri.

Questo può essere un bene, del resto, visto quanto si accennava sopra sulla necessità di dotarsi di meccanismi di controllo severi, in grado di rendere realmente efficienti le aziende pubbliche. È del resto nota la frase di Guido Carli, a proposito:

«Per parte mia, ho informato la mia azione all’idea che per il nostro Paese la presenza di un vincolo giuridico internazionale avesse una funzione positiva agli effetti del ripristino di una sana finanza pubblica, ritenendo, pessimisticamente, che senza questo obbligo difficilmente la nostra classe politica avrebbe mutato indirizzo» (Carli, 1993).

Le prospettive di un azionariato diffuso in Italia 

All’interno del più vasto dibattito riguardante nazionalizzazioni e privatizzazioni si inserì – al principio degli anni Novanta – una discussione accesa e stimolante, ma, come vedremo, priva di conseguenze significative, relativa alle prospettive di una crescita di rilievo dell’azionariato diffuso tra le imprese del nostro Paese. Soluzione questa che si poneva, si può dire, a metà tra i due estremi della proprietà pubblica e privata, soprattutto per quanto riguarda quei beni (a ragione) considerati di interesse pubblico quali acqua ed energia.

Parte di tali discussioni si ritrova – tra l’altro – in uno dei documenti di governo maggiormente significativi tra quelli prodotti durante la stagione delle privatizzazioni in Italia: il Programma di riordino industriale redatto dall’allora ministro del Tesoro, Piero Barucci[19]. Nel documento appena citato si rinviene un’analisi lucida ed organica sia dello “stato dell’arte” dell’industria italiana che della direzione che questa avrebbe dovuto assumere nell’immediato futuro. Si trattava tuttavia di un progetto industriale di ampio respiro – e soprattutto di lungo periodo – che mal si conciliava con la contingenza particolare in cui ci si trovava in quel momento e che imponeva a Roma un percorso quasi obbligato (per le ragioni sopra analizzate) verso la privatizzazione di enti a partecipazione statale. Pochi erano, in effetti, i margini di originalità ed iniziativa a disposizione della classe dirigente nazionale del tempo.

Sono molti i passaggi di tale relazione che meriterebbero approfondimento o comunque menzione, in quanto tra quelle righe venivano analizzati con precisione potenzialità e limiti del nostro apparato produttivo e veniva tracciato un ambizioso disegno di politica industriale che, se rispettato, avrebbe dato uno spessore e una prospettiva diverse alla stagione delle privatizzazioni nel nostro Paese[20]. Per ragioni di spazio ci concentreremo, tuttavia, solamente sui passi necessari a spiegare l’argomento centrale di questo paragrafo.

Alla voce “Limiti e problemi del nostro sistema industriale”[21] venivano elencati, tra gli altri: la “mancanza di un mercato nazionale del capitale di rischio”; una “dimensione competitiva delle imprese quasi sempre insufficiente”; una “insufficiente cultura del mercato”.

Con riferimento al primo punto si sottolineava come tale mancanza di capitali impedisse di sostenere gli investimenti destinati alla razionalizzazione e al conseguente sviluppo del sistema industriale del Paese. Il confronto tra il volume degli scambi realizzati sul mercato nazionale rispetto al PIL e quelli delle altre maggiori economie globali era infatti impietoso: esso corrispondeva a meno della metà di quello francese, circa un quarto di quello britannico, un quinto di quello statunitense, un ottavo di quello tedesco e addirittura un decimo di quello giapponese.

Rispetto al secondo punto veniva sottolineata la “ricchissima e diffusa presenza” di piccole e medie imprese che, assieme alla crisi della grande impresa pubblica, avevano creato un vincolo allo sviluppo di complessi industriali di dimensioni adeguate ad “affrontare la competizione su mercati sempre più estesi e a competitività crescente”. L’industria italiana era caratterizzata infatti da una vera e propria polverizzazione di imprese – oltre 4 milioni quelle iscritte ai registri, all’epoca: reazione quella, secondo il ministro Barucci, ad una rigidità del mercato del lavoro superiore a quella presente negli altri principali partner europei. La dimensione dunque familiare dell’impresa in Italia (famiglie “grandi o piccole, consolidate o emergenti che fossero”) appariva allora incapace di sostenere quel dinamismo economico e pure sociale che sarebbe stato richiesto in un simile momento di transizione.

Sul terzo punto riportiamo le esatte parole del ministro Barucci:

«La cultura prevalente del Paese ha condotto all’emarginazione di quelle componenti che facevano del principio del libero mercato il perno della nostra costituzione economica. Per decenni si è avuta una contrapposizione fra pubblico e privato, che si è fatta non tanto rigidità ideologica quanto ricerca a ritrovare motivi di convenienza diversi e molteplici, che hanno portato a costruire categorie meta-economiche, politicamente e socialmente convincenti, ma incapaci di dare all’Italia aziende competitive».

Su questo punto si tornerà anche in seguito. Per ora basterà dire che la estesa sfiducia riguardo alla presenza di una adeguata cultura del mercato nel nostro Paese sarà alla base del fallimento del tentativo di affermazione di una base solida di azionariato diffuso all’interno del sistema industriale nazionale. Eppure, tra le pagine del “Programma di riordino”, laddove veniva discusso de “Il sistema industriale italiano ed i presupposti per la sua ristrutturazione competitiva” la prospettiva di un azionariato diffuso veniva indicata come parte della soluzione ai mali industriali del Paese. Nel documento veniva sottolineato infatti quanto l’Italia restasse “una riserva importante di risparmio privato”; risparmio che, tuttavia, era normalmente indirizzato verso il finanziamento dell’indebitamento pubblico, attraverso l’acquisto di quei titoli di Stato che offrivano rendimenti sicuri e tendenzialmente stabili. Compito del Governo doveva dunque essere quello di far nascere “un nuovo circuito finanziario” nazionale, in grado di spingere e poi sostenere il processo stesso delle privatizzazioni, secondo il principio di azionariato diffuso di stampo appunto anglosassone (la così detta public company). La speranza era dunque quella che un maggiore coinvolgimento dei privati – nelle cui mani risiedeva appunto la gran parte della ricchezza nazionale – potesse andare a finanziare il debito pubblico, solo per altra via: non più direttamente, ma sgravando lo Stato dal peso di un sistema industriale che non era più conveniente sostenere in maniera tanto massiccia. Tale coinvolgimento dei privati avrebbe potuto e dovuto dare nuovo slancio all’economia e agli investimenti, poi, permettendo di superare quel “deficit infrastrutturale” che, assieme alla “scarsa qualità dei servizi pubblici rappresentano le cause invisibili della lenta diminuzione di competitività del sistema industriale nazionale”.

Ancora, poche pagine oltre, tale concetto veniva ribadito e ulteriormente circostanziato[22]:

«Si distinguono, innanzitutto, obiettivi che debbono caratterizzare l’esito del processo di privatizzazioni con riferimento sia al chi deve partecipare al capitale di rischio, sia al ruolo che nella gestione delle imprese debbono avere i dipendenti. Per questi ultimi dovrà essere trovata la giusta motivazione perché diventino parte attiva e intelligente del processo. Ne consegue che il processo deve mirare a creare le condizioni perché si possa avere un azionariato diffuso, che è la premessa perché possa realizzarsi in Italia un efficiente ed ampio mercato del capitale di rischio».

Che di fronte al momento della verità – l’avvio effettivo delle privatizzazioni, appunto – il discorso attorno all’azionariato diffuso fosse vivo e vivace ci viene confermato da una rapida analisi dei quotidiani del periodo. Attraverso le pagine dei giornali, infatti, riusciamo a rinvenire un dibattito via via crescente e composito, per quanto evidentemente caotico e spesso anche slegato dalla specifica realtà italiana, troppo condizionato cioè da modelli che si erano imposti all’estero ma che difficilmente avrebbero potuto attecchire anche nel nostro Paese – a meno di riforme strutturali importanti che ne favorissero il radicamento.

Era questa, del resto, la posizione di certa parte degli industriali italiani, se è vero che, in un articolo del 1991 (Petrini, 1991 - p. 45) – significativamente intitolato “È l’ora del capitalismo diffuso” – troviamo una aperta dichiarazione favorevole di Confindustria, in tal senso. L’organizzazione degli industriali, attraverso la voce del suo vicepresidente, Luigi Abete, e del direttore generale, Innocenzo Cipolletta, presentò dunque una sorta di manifesto su public company e azionariato popolare, immaginando “un sistema-paese con un mercato finanziario più grande, alimentato da masse di risparmiatori disposte ad investire nelle imprese il proprio capitale di rischio”. Se infatti i grandi gruppi industriali avevano già la possibilità di mantenere una vantaggiosa presenza a Piazza Affari, “di quotarsi al listino di Borsa e di trovare sul mercato i mezzi per ripatrimonializzarsi”, lo stesso non valeva per le aziende di minori dimensioni. Sembrava giunto tuttavia “il momento di dare il via ad una sorta di grande riforma per mettere in grado anche le piccole e medie imprese di aprirsi un canale privilegiato verso il risparmio”.

“Tutti parlano di capitalismo diffuso” affermava, nello specifico, Abete, ma l’impianto normativo italiano non consentiva un grande balzo in tale direzione. Occorreva, dunque, “una politica istituzionale, finanziaria e fiscale che favorisca questi processi”. La proposta di Confindustria si articolava in cinque strumenti particolari: i Fondi pensione; i Fondi chiusi; una normativa per incentivare l’investimento in azioni; l’introduzione delle cambiali finanziarie; la creazione dei Fondi immobiliari. Sarebbe servito soprattutto un riequilibrio della politica fiscale, con l’introduzione – ad esempio – di norme analoghe alla così detta legge Monory, “la normativa varata in Francia alla fine degli Anni Settanta che ha introdotto agevolazioni fiscali a favore del risparmiatore-famiglia”.

La stampa nazionale, poi, nell’anno successivo parlava addirittura di una nuova “costituzione finanziaria” (Petrini, 1992 - p. 43), lasciata in dote dal Parlamento uscente al Paese e che avrebbe consentito “anche ai piccoli risparmiatori di avvicinarsi alla Borsa con maggiori speranze di guadagno”; i passaggi di mano delle società quotate, infatti, non sarebbero più stati “un affare “privato” dei grandi gruppi e i piccoli azionisti [avrebbero potuto] beneficiare del cosiddetto premio di maggioranza”. 

Gli stessi dirigenti delle grandi aziende pubbliche iniziarono in quel periodo a sbilanciarsi, attraverso aperte dichiarazioni, in favore di un ingresso del capitale diffuso nelle partecipate statali. Esempi autorevoli di una simile tendenza sono Lorenzo Pallesi, presidente dell’INA[23] e Franco Nobili, presidente dell’IRI, che – pur con le cautele che sempre lo contraddistinsero in quella fase – affermò addirittura:

«Sono favorevole alle privatizzazioni, ma devono essere chiari il processo e gli strumenti. L’orientamento è quello di andare alla costruzione di public company, con un azionariato molto diffuso. Tale processo dovrà interessare anche le grandi aziende private. In futuro le grandi aziende non saranno né dello Stato, né di gruppi privati, ma saranno dei piccoli azionisti» (Borriello, 1992 - p.50).

Una previsione forse troppo ottimistica, ma che dà l’idea di quale fosse il grado di fiducia verso il capitalismo popolare in Italia, allora, e che pure trova una qualche corrispondenza con il modello attuale, ad esempio, della Cassa Depositi e Prestiti italiana (Giacchetti Fantini, 2018; Bassanini, 2015), sempre più centrale nella nostra economia e che, come spesso ripetuto dai suoi vertici, si basa sulla forza di 27 milioni di risparmiatori.

A chiudere il cerchio, poi, dopo l’approvazione di Confindustria arrivava anche quella dei sindacati, con il segretario generale della Cgil, Ottaviano del Turco, che plaudeva all’iniziativa dello stesso Pallesi[24].

Di azionariato diffuso si discusse poi anche in sede parlamentare, in occasione della conversione del d.l. 31 maggio 1994, n. 332, in l. 30 luglio 1994, n. 474[25]; legge che introdusse per la prima volta l’istituto della golden share nel nostro Paese e che pareva intendesse puntare con decisione sull’affermazione delle public company in Italia. Tra le voci critiche rispetto a una simile ipotesi, tuttavia, troviamo quella del senatore Visentini (gruppo misto), che pare emblematica nel mostrare difficoltà e limiti incontrati da tale istituto nell’affermarsi nel nostro Paese. Visentini affermava, infatti: “La legge […] evidentemente mostra un’aspirazione che è fuori dalla storia e dalla realtà, cioè che grandi società per azioni possano venire condotte dall’azionariato risparmiatore e dall’azionariato diffuso”. Tale impostazione era superata da quasi un secolo ormai, a suo dire, tanto che nei Paesi “moderni” l’azionariato imprenditore non esisteva quasi più. L’azionista risparmiatore infatti non aveva interesse a guidare l’azienda, ma solo “ai dividendi e alle quotazioni di Borsa”. “Leggevo qualche giorno fa che una grande banca tedesca, la Bayerischen Hypotheken und Wechsel Bank riferisce in un suo rapporto che, avendo chiesto ai suoi clienti (370.000 depositanti di titoli) se volevano dare un’indicazione sull’esercizio del voto, ha avuto solo 212 risposte”. Per altro, con il limite al 5% al possesso azionario e “creando una diga di protezione per chi già siede nel consiglio di amministrazione con la tranquillità che nessuno potrà sostituirlo” si era “buggerato” l’azionista risparmiatore, impedendo il verificarsi di scalate azionarie che – attraverso la conseguente speculazione – avrebbero fatto crescere il valore dei singoli titoli.

Simili critiche, dunque, ci fanno ritornare a quella “insufficiente cultura del mercato” cui si è fatta menzione sopra e che veniva evidenziata dal ministro del Tesoro del tempo, Barucci, tra le cause strutturali della debolezza economica relativa del Paese. Le difficoltà presentate dalla prospettiva di una proprietà diffusa; il rischio per aziende ritenute strategiche per l’interesse nazionale di presentarsi con una amministrazione debole e divisa di fronte a possibili azioni speculative; i tempi estremamente ristretti entro cui doveva muoversi il governo nello stilare un piano organico di privatizzazioni e sotto la spinta ormai ineludibile del “vincolo esterno”: tutti questi elementi, uniti, contribuirono ad impedire che una solida e diffusa base azionaria popolare si diffondesse in Italia, affondando saldamente radici nella cultura del Paese.

Conclusioni 

Per concludere: abbiamo visto come sia sbagliato approcciarsi alla materia riguardante l’intervento del pubblico in economia da un punto di vista ideologico. Nella storia del nostro Paese, la classe dirigente ha sempre valutato in maniera molto pragmatica a riguardo, orientandosi da una parte (Stato) o dall’altra (Mercato) a seconda della precisa fase storica e tenendo come propria “stella polare” la massimizzazione del profitto per l’intero apparato economico e finanziario nazionale.

La contingenza che stiamo attraversando ricorda in qualche modo quella del ‘33, anno di creazione dell’IRI. Allora una guerra mondiale (1914-1918) e una crisi finanziaria internazionale (1929) avevano imposto l’intervento statale a sostegno e salvataggio di enti precedentemente privati. Oggi una crisi finanziaria internazionale (2007) e una guerra mondiale (2020)[26] paiono spingere nella stessa direzione.

Ciò non è bene né male, in sé.

La differenza sta nel modo in cui si intenderà procedere a tali interventi strutturali. Quello che pare necessario è ricordare le ragioni che, nemmeno tre decenni fa, ci avevano condotto alla scelta opposta.

Occorrerà nazionalizzare quegli enti effettivamente strategici per gli interessi del Paese, che non possono essere quelli di ieri e che pure un domani potrebbero essere diversi ancora. Per fare un esempio piuttosto attuale: l’assurgere della Sanità a settore di importanza capitale per il bene economico e politico del Paese (invece, ad esempio, dell’industria bellica) non ha precedenti nella nostra Storia e sarebbe stato difficile da pronosticare appena pochi mesi fa.

Occorrerà fare attenzione a questo aspetto strategico, dunque.

E, come secondo punto, sarà indispensabile tenere a mente il monito lanciato ormai quasi un secolo fa dal primo presidente dell’IRI, Alberto Beneduce, troppe volte disatteso nel tempo:

«Criterio fondamentale che ha presieduto a tutta l’opera dell’IRI è stato quello della gestione su basi economiche: il fatto che talune aziende industriali siano venute a trovarsi nell’orbita dello Stato non deve liberarle dalla ferrea necessità, per ciascuna di esse, di far quadrare i costi con i ricavi, di mantenere cioè la gestione aziendale nei limiti imprescindibili delle necessità di bilancio».

A corollario di tutto quanto sopra detto, si è visto con quale interesse e quale fiducia si guardasse – al principio degli anni Novanta – all’idea di un azionariato diffuso in Italia: soluzione questa che appariva in certa misura mediana tra le nazionalizzazioni e le privatizzazioni. Ora, se è vero che “l’insufficiente cultura del mercato” nel nostro Paese e la fretta con la quale la classe dirigente del tempo fu costretta a predisporre un piano organico di privatizzazioni contribuirono, allora, a comprometterne in maniera decisiva l’affermazione, va del resto considerato che un eventuale tentativo di concentrarne la dilatazione nell’ambito dei servizi di pubblica utilità – unito alla volontà di agire secondo una logica strutturale e non solo contingente, da parte del legislatore – potrebbe dare esiti affatto differenti, in futuro. Il referendum abrogativo del 2011 sulla privatizzazione del sistema idrico ha in effetti mostrato una sensibilità e una consapevolezza diffusi riguardo a certi temi di interesse pubblico; sensibilità e consapevolezza che potrebbero essere convogliate verso forme pratiche di proprietà cooperativa rispetto a certi tipi di bene quali appunto acqua ed energia, ma anche beni naturali ed artistici[27].

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Sono poi stati consultati documenti contenuti presso l’Archivio Centrale dello Stato, l’archivio storico del giornale La Repubblica. Inoltre il 20 maggio 2019 è stato intervistato il dott. Piero Gnudi, ex presidente dell’IRI.

Note

  1. ^ La celebre definizione è dello stesso Mattioli.
  2. ^ Che accetterà poi, ormai gravemente malato, soltanto nel febbraio 1940.
  3. ^ Beneduce venne soprannominato, a seguito dell’articolo di un giornale inglese come “il dittatore dell’economia italiana”.
  4. ^ Il motto è riportato in una missiva di Beneduce al ministro delle Finanze, Paolo Thaon de Revel, datata 31 dicembre 1935, AsIRI, s. l. 2, f. 3, copialettere, doc. 1126.
  5. ^ Relazione del Presidente sul bilancio al 31 dicembre 1935-XIV, p. 14, asIRI, serie nera, b. 18.
  6. ^ Mussolini, all’atto della firma del decreto istitutivo, pare abbia domandato a Jung e al giurista Alberto Asquini: “Quando lo chiuderemo questo convalescenziario?” citato in (Ciocca, 2014 - p. 47).
  7. ^ Moltissime sono le conferme in questo senso all’interno sia di documenti ufficiali dei protagonisti di quest’esperienza, che di opere di studiosi. Ne citiamo una per tutte: “Va escluso che il duce intendesse attuare attraverso l’IRI una politica economica esplicitamente dirigista, e quindi non solo con un arco cronologico più esteso rispetto a quello occorrente per la soluzione dei problemi più urgenti sul tappeto, ma anche con una forte caratterizzazione statalista” (Ciocca, 2014).
  8. ^ (Ciocca, 2014 - pp. 44-46). / Mussolini appunto condivideva questo punto di vista, tanto che, in occasione delle trattative tra Stato e privati per lo smobilizzo della SIP, di fronte all’ostinazione di questi ultimi di ottenere la società alle proprie condizioni (nettamente negative per la controparte, a fronte degli ingenti sforzi fatti per risanarla), il “Duce” sbottò: “Non diamogli niente, questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!” (Franzinelli, Magnani, 2009 - p. 232). / Anche Menichella torna spesso su questo punto nelle proprie relazioni, parlando in termini francamente pessimisti del grande capitale italiano. Nel già citato rapporto presentato il 2 luglio 1944 al Capitano Andrew Kamarck (economista statunitense, membro dell’esercito alleato, inviato in Italia nella Seconda Guerra Mondiale) scrisse: “[…] anche se lo Stato avesse voluto fare cessione di tutto il patrimonio dell’I.R.I., non esistevano allora, come non esistono oggi in Italia, capitalisti capaci di compiere uno sforzo finanziario così imponente come quello necessario […]” (Menichella, 1986 - p. 138).
  9. ^ Un’altra opera fortemente critica verso tale processo di urbanizzazione e le sue conseguenze economiche, fisiche e sociali è la pellicola Le mani sulla città, di Francesco Rosi.
  10. ^ Nel ventennio del miracolo il fatturato in termini reali dell’IRI aumentò, per addetto, quasi del 7% l’anno. Sebbene l’IRI operasse in rami d’attività difficili, largamente disertati dal capitale privato, il progresso di produttività fu rapido, in particolare fino al 1962. Gli addetti alle attività non finanziarie passarono da 190mila nel 1950 a 237mila nel 1962. Aumentarono a un ritmo (1,9% l’anno) superiore a quello (1,3%) delle unità di lavoro nell’intera economia. Nello stesso periodo il fatturato crebbe, a prezzi costanti, a un tasso annuo (11%) poco meno che doppio rispetto a quello con cui si sviluppò il Pil del Paese.” (Ciocca, 2014 - pp. 144-145).
  11. ^ L’Italia optò per le celebri “svalutazioni competitive” che, se ne favorirono certo le esportazioni, causarono d’altra parte una serie di squilibri macroeconomici che fecero sentire i propri effetti nei decenni successivi (Parboni, 1985).
  12. ^ Tali percentuali verranno poi aumentate nel 1971, mediante articolo 7 della legge n. 853 del 6 ottobre: la percentuale dei nuovi investimenti da stanziare al Sud passò infatti all’80%, mentre quella degli investimenti complessivi al 60%.
  13. ^ Scrive a proposito Amatori: “A Taranto la questione è per certi aspetti diversa. Nella decisione iniziale, alla fine degli anni Cinquanta, convergono, dopo le prime perplessità, management e autorità politica. Nella stessa logica “nazionale” che aveva ispirato Oscar Sinigaglia, realizzare un grande impianto siderurgico al Sud è insieme un’operazione politicamente rilevante ed economicamente giustificata. Il problema dell’economicità della scelta si porrà invece con la decisione del secondo raddoppio, nel 1970. Materia di vertenza, interna al gruppo e rispetto alle pressioni politiche, è la decisione di ubicare a Taranto il previsto incremento di capacità produttiva. In questo quadro pesarono indubbiamente, più che la razionalità economico-produttiva – che avrebbe suggerito la scelta di Piombino – la possibilità di assicurarsi il finanziamento dell’investimento e, naturalmente, la consapevolezza che il mondo politico avrebbe visto con favore una decisione che comportava un aumento dei livelli occupazionali in una delle aree “sensibili” del Mezzogiorno.” (Amatori, 2012 - p. 48).
  14. ^ Di opinione affatto diversa era invece Giorgio Ceriani Sebregondi, capace dirigente di IRI, Ansaldo e SVIMEZ, morto prematuramente, che sosteneva piuttosto per il Mezzogiorno uno sviluppo “da basso”, che coinvolgesse da principio le piccole realtà e che creasse dunque un retroterra propizio all’attività imprenditoriale diffusa (Casula, 1990; Ceriani Sebregondi, 1965).
  15. ^ Saraceno giunse a teorizzare il concetto di “onere improprio” per le imprese a partecipazione statale, attraverso il quale difendeva il carattere “speciale” delle aziende pubbliche, che non potevano – visti gli ambiti di interesse collettivo in cui si trovavano ad operare – seguire in tutto e per tutto quei princìpi di economicità osservati invece dalle società private. A questo proposito: “L’azienda nazionalizzata non è dunque sollecitata dal proprio ordinamento a rendere espliciti i costi relativi ai fini politici che essa persegue, a rendersi conto degli oneri conseguenti a possibili inefficienze e quindi a perseguirne l’eliminazione; a fine esercizio sarà il Tesoro dello Stato che coprirà il deficit, così come è il Tesoro che si deve dare carico di procurare all’azienda i mezzi finanziari di cui ha bisogno. […] Il fatto è che l’ordinamento delle aziende nazionalizzate non riflette le esigenze di un’impresa, ma quelle di un’opera pubblica. Cioè di un’attività che non viene rigorosamente valutata in termini di economicità; si investe nei servizi postali così come si investe per la costruzione di un ponte. […] Naturalmente il sistema può nell’interesse generale uscire senza sprechi dalla logica del profitto (ed è per questo che esso è sorto e si è sviluppato) solo a condizione che il potere politico indichi con chiarezza i condizionamenti cui vuole assoggettare le aziende del sistema, copra gli eventuali costi comportati da tale uscita e controlli che i condizionamenti siano dovutamente osservati.” (Saraceno, 1975 - pp. 130-131).
  16. ^ Nel 1979 le perdite totali dell’IRI (bilancio consolidato) assommavano a 1.346 miliardi di lire; l’anno successivo erano già cresciute a 2.401 miliardi, quasi raddoppiando. Per citare un solo esempio, emblematico, della situazione relativa alle singole imprese partecipate: la Società Agricola Maccarese rimase in costante perdita dal 1959 e nel 1980, in conseguenza del peggioramento generale dell’economia, aveva raggiunto un disavanzo di 600 milioni al mese (Silva, 2013 - p. 394).
  17. ^ In Italia, oggi, infine, ci troviamo di fronte ad un altro problema. La Commissione CEE di Bruxelles ha cominciato negli ultimi anni a considerare come elemento distorsivo alle imprese pubbliche (i cosiddetti aiuti di Stato alle imprese). L’Italia, che non ha assunto decisioni drastiche di riduzione del volume degli aiuti, è stata la prima ad attirare l’attenzione della Commissione. Ancora una volta, come spesso è accaduto nella nostra storia, eventi esterni incidono su quelle che dovrebbero essere le nostre decisioni: la frammentazione del nostro potere diventa un elemento per cui le decisioni non vengono prese da noi, ma vengono prese in gran parte da altri o, quantomeno, sotto l’impulso di stimoli esterni. Il fatto nuovo oggi è che a Bruxelles c’è qualcuno che sta prendendo decisioni che ci obbligheranno in qualche modo a cambiare i confini fra pubblico e privato anche all’interno del nostro Paese. Naturalmente coloro che stanno prendendo queste decisioni non lo faranno guardando al nostro interesse. Lo faranno probabilmente nel loro interesse. Ritengo che questa situazione di incertezza, di rinvio, di frammentazione delle strutture decisionali non giovi proprio a nessuno.” (Prodi, 1992).
  18. ^ Intervista del Dottor Piero Gnudi con l’autore. Bologna, 20 maggio 2019.
  19. ^ Ministero del Tesoro, Programma di riordino di IRI, Eni, Enel, Imi, Bnl ed Ina, 14 novembre 1992.
  20. ^ Nel commentare gli esiti della stagione delle privatizzazioni in Italia e sostenendo che comunque queste rappresentarono un modo per rafforzare lo Stato, più che il Mercato, Cassese affermò infatti: “Questa spiegazione serve più per la Francia e per il Regno Unito che per gli Stati Uniti. Mentre l’Italia, con le sue politiche a metà, resta a metà anche con le spiegazioni.” (Cassese, 1991 - p. 386).
  21. ^ Ivi, pp. 12 e ss.
  22. ^ Ivi, pp. 22-23.
  23. ^ Il mio sogno? Fare dell’Ina una public company ad azionariato diffuso, una formula che darebbe vantaggi a tutti: all’Istituto, che potrebbe autofinanziarsi ed operare senza più vincoli sul mercato; allo Stato, che beneficerebbe dell’aumento del valore di mercato del gruppo; agli assicurati, che avrebbero la possibilità di diventare a loro volta azionisti dell’Ina. Ma per far questo è prima necessario trasformare l’Istituto in società per azioni, scorporando l’impresa Vita dall’ente pubblico e trasformandola in spa”. In effetti, come spiegato più avanti, nell’articolo: “L’Ina è regolata dal diritto pubblico, non da quello privato. Ora in Italia il diritto pubblico è concepito come un sistema per regolamentare l’esercizio di funzioni pubbliche, non l’esercizio dell’impresa. E pretendere di competere sul mercato con le altre imprese governate dal codice civile, essendo regolati dal diritto pubblico, è assurdo: è una battaglia persa in partenza” (Signoretti, 1992a - p. 49).
  24. ^ In proposito, Del Turco dichiarò infatti: “Il piano è valido non solo per le ipotesi in sé, ma anche perché è in grado di dare utili indicazioni a tutto il mondo imprenditoriale italiano. Nel nostro paese, infatti, l’unico tentativo di creare una public company fu fatto da Mario Schimberni quando era a capo della Montedison; ma la cosa spaventò a tal punto, che tutto crollò in breve tempo. L’idea di Pallesi potrebbe quindi far superare al capitalismo italiano una fase storica, aprendone un’altra.” (Signoretti, 1992b).
  25. ^ Senato della Repubblica, Resoconto stenografico, 25 luglio 1994.
  26. ^ Sono diversi i leader mondiali che hanno definito in tale maniera la pandemia. Lo stesso ex presidente della Bce, Mario Draghi, ha da ultimo affermato: “Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta ad un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la Seconda Guerra Mondiale”. Discorso tenuto al Meeting di Rimini il 18 agosto 2020.
  27. ^ Si pensi all’effetto che potrebbe avere un simile tipo di operazione su una realtà come quella, ad esempio, di Venezia: città sempre più soggetta ad azioni speculative e con una proprietà privata che tende ad espandersi in maniera sistematica (Dezza, 2019; Settis, 2012).
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