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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2020

Editoriale

Ripensare il welfare dopo la pandemia. Il possibile ruolo delle imprese sociali

Andrea Bernardoni

La pandemia di Covid-19 ha messo sotto pressione la rete dei servizi sociali e sanitari, esposti ad un’onda d’urto imprevista, ma non imprevedibile, che ha fatto esplodere la domanda di prestazioni sanitarie e di interventi sociali. Quello che abbiamo vissuto – e che stiamo ancora vivendo – ha svelato le fragilità del welfare italiano e, contemporaneamente, ha reso evidente la funzione ed il senso del welfare, presidio di diritti fondamentali come la salute e garanzia del benessere collettivo della comunità.

Nella pandemia, insieme alle criticità ed ai punti di debolezza, sono però emerse anche le risorse ed i punti di forza del nostro welfare e, più in generale del Paese, tra cui è possibile annoverare anche l’esistenza di una rete di imprese sociali ed enti del Terzo settore presenti in modo capillare in tutto il territorio nazionale che durante l’emergenza sono state in prima linea, in molti casi sono intervenute prima degli attori pubblici nell’affrontare le difficoltà delle famiglie: hanno saputo riorganizzare i servizi esistenti; hanno ideato nuove attività capaci di affrontare i bisogni generati dalla pandemia; hanno utilizzato la tecnologia per ripensare le modalità di produzione di molti servizi “a distanza” e, allo stesso tempo, hanno implementato nuovi progetti digitali rivolti a bambini, ragazzi, persone disabili ed anziani. Si sono impegnate nella costruzione di nuove reti sociali ed economiche e nel rafforzamento dei legami comunitari sfibrati dal confinamento forzato, così come hanno fatto le migliaia di volontari che in poche ore dall’inizio del primo lockdown hanno saputo organizzare la distribuzione di farmaci, cibo ed altri generi di prima necessità alle persone più fragili rimaste sole e senza punti di riferimento.

Questo intervento, partendo dall’analisi delle criticità del welfare sociale e sanitario, vuole aprire un confronto dal basso sul futuro del welfare, dopo la pandemia. Una riflessione che appare quanto mai necessaria considerando che i provvedimenti adottati nell’emergenza dal Governo sono concentrati esclusivamente sul potenziamento del Sistema Sanitario Nazionale senza, però, metterne in discussione le logiche di fondo che hanno determinato la situazione attuale e non prevedono il rafforzamento della rete dei servizi alla persona che invece costituisce un fattore strategico non solo per innalzare il livello di coesione sociale ma, più in generale, per la crescita economica del Paese.

Le fragilità del welfare sociale e sanitario

Il welfare sociale e sanitario del nostro Paese già al momento dell’esplosione della pandemia presentava diverse fragilità riconducibili ad una pluralità di fattori tra cui il sotto finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale e della rete dei servizi sociali ed educativi, la presenza di forti diseguaglianze territoriali in termini di risorse, servizi e performance e il forte squilibrio delle risorse destinate al welfare a favore dei trasferimenti monetari piuttosto che al finanziamento dei servizi.

Negli ultimi dieci anni in Italia il finanziamento pubblico del Sistema Sanitario Nazionale è cresciuto dello 0,9% annuo ad un tasso inferiore rispetto all’inflazione (+1,07%), un trend che ha fatto perdere nel periodo 37 miliardi di euro di risorse, ha determinato una riduzione della spesa sanitaria pubblica rispetto al prodotto interno lordo ed una contrazione della spesa sanitaria pro-capite passata da 1.893 a 1.746 euro nel periodo 2009-2019, facendo arretrare l’Italia nel confronto con altri Stati europei. Nel 2018 la spesa sanitaria pro capite in Germania ed in Francia era rispettivamente doppia e superiore del 60% a quella italiana[1]. L’impoverimento del welfare sociale è stato ancora più marcato di quello sanitario. Dopo la crisi del 2008 i fondi nazionali per le politiche sociali sono stati praticamente azzerati e non sono ancora stati interamente rispristinati, mentre la spesa sociale dei comuni che nel 2010 era stata di 7,127 miliardi di euro (un valore pari allo 0,46% del Pil nazionale) nel 2017 era pari a 7,234 miliardi di euro corrispondenti allo 0,41% del Pil con una riduzione superiore al 10%[2].

La disuguaglianza del welfare sociale e sanitario, un problema storico del nostro Paese, è divenuto ancora più marcato dopo la crisi economica dei primi anni Duemila ed in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione. Il secondo rapporto sulle diseguaglianze di salute in Italia mette in evidenza come il Paese abbia raggiunto uno stato di avanzamento ancora modesto nell’implementazione di politiche di contrasto a questo problema[3]. Analizzando la speranza di vita alla nascita, le differenze tra regione e regione sono molto marcate e diventano drammatiche se si prende in esame la speranza di vita in buona salute. Nella provincia di Bolzano si vive in buona salute mediamente sino a 70 anni mentre in Calabria solo fino a 52 anni[4]. Anche se la speranza di vita alla nascita è influenzata da più fattori, non tutti riconducibili all’intervento pubblico ed alle politiche di welfare, questo dato pone un problema di giustizia distributiva che dovrebbe rappresentare la priorità degli interventi che andranno a ridefinire il welfare dopo la pandemia e che non è legato alla sola spesa sanitaria ma coinvolge anche l’educazione, la cultura ed il welfare sociale. Anche in questo ambito le differenze regionali sono molto marcate, basti pensare che la spesa sociale pro capite dei comuni in Calabria è di 22 euro a persona mentre nella Provincia di Bolzano raggiunge i 589 euro a persona ed in Italia il valore medio è di 119 euro.

Nel suo complesso l’Italia destina alla protezione sociale una quota importante del prodotto interno lordo che nel 2017 ha raggiunto 29,1% a fronte di un valore medio europeo del 27,9%. Queste risorse, tuttavia, sono prevalentemente impiegate per finanziare i trasferimenti monetari e soprattutto per le pensioni di anzianità e vecchiaia che da sole rappresentano il 16% del Pil, mentre sono utilizzate solo marginalmente per finanziare la rete dei servizi sociali, tanto da collocare l’Italia tra gli ultimi Paesi in Europa per questa voce di spesa. Tale tendenza si è rafforzata negli ultimi anni quando tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese anziché finanziare i servizi hanno introdotto misure che sono andate a potenziare il volume dei trasferimenti monetari come il bonus da “80 euro” del Governo Renzi o “Quota 100” introdotta dal primo Governo Conte. Questo trend ha trovato conferma anche nella pandemia, quando il Governo, al crescere dei bisogni sociali delle famiglie, ha introdotto nuovi bonus anziché rafforzare la rete dei servizi presenti nei territori, penalizzando, in questo modo, le fasce della popolazione che vivono in condizioni socio economiche più disagiate e che hanno dovuto superare maggiori barriere per accedere alle misure governative come, ad esempio, tutte quelle volte a sostenere le attività estive dei bambini e dei ragazzi.

I limiti delle logiche di mercato nel welfare   

La pandemia ha reso evidenti anche i danni prodotti sul sistema sanitario e sulla rete dei servizi sociali dalla diffusione, avvenuta negli ultimi decenni, delle logiche e degli strumenti tipici del mercato nel welfare. Tale cambiamento culturale ed organizzativo iniziato, partendo dalla sanità, negli anni Novanta con il d.lgs. 502 del 1992 e poi con il d.lgs. 229 del 1999 ha messo al centro la dimensione tecnica e l’efficienza economica delle scelte, eliminando dal discorso pubblico sulla salute, sull’educazione e sull’inclusione sociale la dimensione collettiva e democratica del welfare.

In ambito sanitario, ad esempio, la piena adesione all’idea di efficienza produttiva, tipica della logica mercantile, ha determinato un impoverimento della concezione di servizio pubblico su cui si era fondata l’istituzione, nel 1978, del Servizio Sanitario Nazionale. Il processo di aziendalizzazione degli ospedali e delle unità sanitarie locali ha reso queste organizzazioni degli apparati di produzione di prestazioni, a cui è attribuito un “prezzo” economico attraverso i DGR (diagnosis related group, sistema introdotto negli anni Ottanta negli Stati Uniti per dare una remunerazione economica delle singole prestazioni sanitarie alle assicurazioni private coinvolte nel programma Medicare), in concorrenza sia con le altre aziende ospedaliere pubbliche che con i soggetti privati accreditati. In questo nuovo contesto culturale ed organizzativo è la concorrenza tra gli operatori a garantire il raggiungimento dell’efficienza del sistema sanitario. Così facendo, l’idea di mercato ha fatto il suo ingresso in un mondo che era stato pensato e progettato come produzione collettiva di benessere sociale “fuori dal mercato”, in cui insieme alla salute si promuoveva la partecipazione, l’informazione, la conoscenza ed il controllo democratico dei servizi[5].

La pandemia ha mostrato in modo plastico il fallimento di questo modello, ben rappresentato da due casi esemplificativi: il sistema sanitario della Lombardia e quello della regione Calabria.

La Lombardia nella prima ondata pandemica è stata la regione che ha fatto registrare le peggiori performance sanitarie sia in termini di numerosità dei decessi che in termini di incidenza dei decessi sulle persone contagiate. Ci possono essere diverse spiegazioni di questo fallimento ma è evidente che, tra queste, grande importanza va attribuita alle specificità del modello sanitario lombardo. La Regione Lombardia ha spinto con grande decisione sull’aziendalizzazione delle strutture sanitarie pubbliche e sulla concorrenza tra strutture pubbliche e private accreditate. In questo modello, più che in altre regioni, le scelte sia delle strutture pubbliche che di quelle private sono state orientate dalla dimensione economica dei DRG, favorendo la concentrazione del personale, delle strutture e degli investimenti tecnologici in attività volte a fronteggiare patologie più remunerative e la creazione di poli di eccellenza altamente specializzati che operano in concorrenza gli uni con gli altri, trascurando le esigenze di cura meno convenienti e effettuando un limitato investimento sulla medicina territoriale. L’adozione decisa di un approccio centrato sulle logiche di mercato, sulle singole prestazioni e sul loro costo, ha inoltre determinato un ridotto investimento sull’integrazione socio sanitaria, aspetto critico in tutta Italia che però in Lombardia si è dimostrato particolarmente deficitario. Pur in presenza di un’elevata dotazione finanziaria e di un alto livello di efficienza tecnica ed economica il modello sanitario lombardo è stato tra i peggiori a livello globale per l’efficacia della risposta fornita nella prima ondata pandemica.

Una delle principali argomentazioni utilizzata dai sostenitori dell’adozione delle logiche di mercato nel welfare, a partire dalla sanità, è la necessità di rendere più efficiente la gestione delle strutture pubbliche, eliminando logiche politiche e clientelari. E una gestione efficiente dei servizi pubblici è la condizione essenziale per garantire la sostenibilità di lungo periodo della rete dei servizi di welfare. Saper impiegare al meglio le risorse disponibili costituirebbe un prerequisito anche per superare gli squilibri territoriali in materia di servizi sociali e sanitari. L’esperienza della Regione Calabria, tuttavia, dimostra che l’adozione di logiche di mercato non assicura affatto il raggiungimento di questo obiettivo primario per la tenuta democratica del Paese. In Calabria, così come in altre regioni del Meridione, nonostante l’adozione delle logiche aziendali da parte delle strutture pubbliche e la separazione tra il livello tecnico e quello politico, avvenuta anche grazie ad un periodo di commissariamento della “sanità” da parte del Governo centrale che dura da quasi 11 anni, gli incrementi di efficienza tecnica ed economica del sistema sanitario sono stati modesti ed il miglioramento dell’efficacia dei servizi sanitari nullo. La Corte dei Conti nel 2019 ha certificato un debito del sistema sanitario della Calabria verso i fornitori pari a circa 1,1 miliardi di euro ed un disavanzo annuale di 105 milioni di euro, mentre il Governo ha confermato l’inadeguatezza della rete dei servizi sanitari di questa regione adottando per la Calabria, nel corso della seconda ondata della pandemia, misure estremamente restrittive pur in presenza di un contenuto livello di contagi di Covid-19.

In ambito sociale la diffusione delle logiche di mercato ha creato un duplice effetto distorsivo sia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche ed enti del Terzo settore che in quello con i cittadini. Rispetto al Terzo settore, la collaborazione che aveva caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento favorendo il superamento, in tempi relativamente rapidi, di istituzioni totali – come quella manicomiale e la creazione di nuove filiere di servizi come quelle dedicate alla disabilità – è stata sostituita dalla competizione. In termini operativi questo cambio di approccio ha determinato: la diffusione su larga scala delle gare di appalto quale strumento per regolare i rapporti tra attori pubblici ed enti del Terzo settore; la centralità delle norme volte a garantire la concorrenza anche nel settore sociale ed il prevalere dell’efficienza economica e della correttezza formale sull’efficacia sociale degli interventi realizzati. Nel rapporto con i cittadini le logiche di mercato hanno favorito la diffusione di bonus e trasferimenti monetari piuttosto che il potenziamento della rete dei servizi, trasformando i cittadini da attori titolari di diritti che devono essere garantiti dalle istituzioni pubbliche, in clienti-consumatori che possono soddisfare il proprio bisogno scegliendo tra i diversi provider di servizi: regolari, irregolari o famigliari; pubblici o privati; profit o non profit. Ampliando in questo modo le diseguaglianze esistenti tra i cittadini con maggiori capacità di spesa e le fasce più povere della popolazione.

Le traiettorie del welfare futuro

È ragionevole pensare che il welfare dopo la pandemia cambierà radicalmente. In che modo? Lungo quali traiettorie? Utilizzando quali modelli? Con quali attori? Con quali risorse? Le risposte a queste domande hanno una forte dimensione politica. Ogni scelta che determina quali sono i bisogni sociali che una comunità può sodisfare, quali modalità e quali risorse possono essere utilizzate a tal fine non può che essere parte di un progetto che definisce un’idea di persona e di società ed ha una valenza autenticamente politica. Non sono scelte che possono essere compiute da tecnici, ma devono essere il frutto di un dibattito pubblico informato; non sono decisioni che definiscono le modalità più efficienti per organizzare delle prestazioni sociali e sanitarie, ma sono passaggi fondamentali che determinano la qualità del sistema democratico di uno Stato. Per questa ragione le organizzazioni del Terzo settore e le imprese sociali devono agire con più forza, in questa fase, la dimensione politica del proprio operato, promuovendo un confronto pubblico sul futuro del welfare e dando forma a proposte, progetti e politiche capaci di rispondere ai bisogni delle fasce più deboli della società. 

Ripensare il rapporto Pubblico-Privato

Un primo tema che la pandemia ha proposto con forza è la necessità di rivedere il rapporto Pubblico-Privato. Il Covid-19 ha reso evidenti i limiti delle politiche pubbliche, come ad esempio quelle sociali e sanitarie, ma allo stesso tempo ha anche alimentato la domanda di un maggiore intervento pubblico a cui, nei provvedimenti del Governo, è stato risposto prevedendo maggiori risorse per nuove assunzioni di medici, infermieri e operatori socio sanitari da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Negli ultimi due decenni, però, il ruolo del pubblico in ambito sociale e sanitario è stato fortemente ridimensionato: sul lato della domanda è cresciuta significativamente la spesa privata delle famiglie per prestazioni sociali e sanitarie e si è rafforzata la presenza dei grandi player della finanza e del mondo assicurativo; mentre, sul lato dell’offerta, è aumentato il peso dei privati for profit in ambito sanitario e delle organizzazioni non profit in quello sociale.

Per ridefinire un nuovo rapporto Pubblico-Privato bisogna considerare le differenze esistenti tra le imprese for profit che operano nel welfare, concentrate prevalentemente nelle cliniche mediche, nella diagnostica e nelle strutture riabilitative ed in quelle per anziani, e le organizzazioni del Terzo settore e le imprese sociali, impegnate prevalentemente nel welfare sociale ed educativo e nei servizi socio sanitari rivolti a persone con disabilità ed anziani. Nel ripensare questo rapporto bisogna evitare il rischio di semplificare e ragionare per slogan del tipo “tutto pubblico” o “tutto privato” e – partendo dalle differenze esistenti tra attori pubblici, imprese for profit e organizzazioni non profit – costruire un modello che superi la dicotomia pubblico-privato. Realtà pubbliche, imprese private e organizzazioni del Terzo settore potranno intervenire con pari dignità nel finanziamento, nella programmazione e nella gestione degli interventi di welfare, con ruoli e funzioni diversi ma coerenti con le caratteristiche delle differenti tipologie organizzative e con regole stringenti per i finanziatori e le imprese for profit, in modo da evitare speculazioni finanziarie e comportamenti opportunistici da parte degli operatori privati (come accade, ad esempio, in campo sanitario dove in alcuni regioni assorbono buona parte dei servizi più remunerativi lasciando quelli meno remunerativi al pubblico).

La pandemia ha reso evidente la necessità di innovare e potenziare i servizi territoriali e l’integrazione socio sanitaria; questo duplice obiettivo potrà essere raggiunto in modo efficace solo coinvolgendo tutti gli attori che operano nel welfare, a partire dagli enti di del Terzo settore e le imprese sociali. Queste organizzazioni, infatti, come già in passato, possono offrire un contributo importante nella costruzione di servizi alla persona flessibili e modulari (pensati sulle biografie delle persone), che valorizzino le risorse presenti nella comunità e raggiungano l’efficienza gestionale puntando sulle economie di rete piuttosto che sulle economie di scala.

Rivedere il rapporto Stato-Regioni

Un secondo elemento centrale per il welfare futuro è la ridefinizione del rapporto Stato-Regioni. Numerosi osservatori hanno individuato nello scarso coordinamento tra il Governo centrale e gli esecutivi regionali uno dei principali limiti nell’affrontare la pandemia di Covid-19. Questa criticità è causata dall’elevato livello di autonomia di cui godono le regioni in ambito sociale e sanitario dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e da un non adeguato ruolo di controllo svolto dallo Stato, che in ambito sanitario ha presidiato prevalentemente la dimensione economica e in ambito sociale non ha mai esercitato un effettivo controllo sulle scelte regionali.

L’elevato livello di autonomia delle regioni ha prodotto 22 modelli di welfare regionali caratterizzati da significative differenze che, però, anziché ridurre le diseguaglianze territoriali in termini di servizi le ha ampliate. Alla base del nuovo rapporto Stato-Regioni deve essere posta la definizione, il finanziamento e il rispetto dei LEA – Livelli Essenziali di Assistenza – e dei LEP – Livelli Essenziali di Prestazioni – in tutti modelli di welfare regionali, con l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze tra regioni ed assicurare a tutti i cittadini pari diritti.

I Livelli Essenziali di Assistenza sono le prestazioni e i servizi minimi che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket); i LEA sono periodicamente aggiornati dal Ministero della Salute, l’ultimo aggiornamento è avvenuto nel 2017. Tuttavia, sino ad ora, il controllo dello Stato sulle Regioni non ha utilizzato il livello di servizi assicurati ai cittadini quale principale parametro di controllo, come provano i commissariamenti dei sistemi sanitari regionali avvenuti solo in caso di un mancato rispetto dei parametri economici.

I LEP, invece, determinano i livelli essenziali minimi di prestazioni socio assistenziali che dovrebbero essere garantiti ai cittadini in tutto il territorio nazionale; sono stati previsti dalla L. 328 del 2000 ma non sono mai stati determinati dallo Stato, che in questo ambito ha rinunciato ad esercitare una funzione di coordinamento e controllo.

Dentro questo quadro è importante: prevedere un intervento straordinario dello Stato che permetta alle regioni che hanno un elevato debito sanitario di pagare i creditori in modo da azzerare i debiti pregressi, creando le condizioni economiche per potenziare la rete di servizi; modificare gli attuali criteri di ripartizione regionale del Fondo Sanitario Nazionale e dei Fondi sociali introducendo delle consistenti premialità a favore delle regioni più fragili in modo da creare le condizioni economiche per ridurre le diseguaglianze territoriali; incrementare il Fondo nazionale per i servizi sociali ed educativi ed inserire il potenziamento delle infrastrutture sociali tra gli assi di intervento del Next Generation UE.

La limitata spesa sociale dei Comuni per i servizi sociali se in assoluto rappresenta un elemento critico in questo momento può costituire un’opportunità, poiché un incremento di 5 miliardi di euro dei fondi nazionali destinati ai servizi sociali ed educativi che si aggiungono e non sostituiscono alle risorse già oggi spese dai comuni, associata alla definizione dei LEP, può generare uno shock positivo capace di potenziare la rete di servizi adeguandola ai nuovi bisogni sociali post pandemia; oltre che sostenere la crescita economica e produrre un significativo incremento dell’occupazione, in larga parte femminile. In questo percorso le organizzazioni del Terzo settore e le imprese sociali, lavorando in collaborazione con gli enti locali, possono mettere a disposizione idee, progetti, competenze ed effettuare, in tempi estremamente rapidi, gli investimenti necessari al potenziamento del welfare sociale.

Ripartire dalla collaborazione

La pandemia ha evidenziato il valore strategico della collaborazione e del coinvolgimento attivo dei cittadini per garantire la tutela della salute, mostrando come il benessere collettivo non è il risultato di una sommatoria di prestazioni, ma il frutto di una pluralità di comportamenti coerenti e responsabili. In questi mesi l’intera comunità è stata chiamata a collaborare responsabilmente alle misure di protezione dal Covid-19 rendendo evidente che la partecipazione dei cittadini è uno strumento di cui non si può fare a meno per realizzare politiche pubbliche efficaci.

Questa consapevolezza deve produrre un cambiamento culturale ed organizzativo volto a: ripensare i servizi di welfare partendo dall’idea che il singolo cittadino oltre a essere un utente di prestazioni sociali o sanitarie è responsabile, con le sue azioni, del benessere della comunità e quindi va coinvolto in modo attivo, anche sperimentando su larga scala forme di co-produzione dei servizi di welfare; rivedere il rapporto tra le amministrazioni pubbliche e gli enti del Terzo settore, impegnate nel favorire e rendere concreta la partecipazione civica dei cittadini, mettendo al centro di questo rapporto il principio di sussidiarietà e di collaborazione piuttosto che la concorrenza e la competizione.

Importanti in tal senso sono le novità introdotte dall’art. 55 del Codice del Terzo settore e dalla sentenza N. 131 della Corte Costituzionale che ha riconosciuto e rafforzato gli strumenti della coprogrammazione e della coprogettazione che, utilizzando le parole della Consulta, “favoriscono l’instaurazione di un canale di amministrazione condivisa alternativo a quello del profitto e del mercato”. L’applicazione dell’art. 55 è un elemento centrale di un nuovo welfare che punta sulla collaborazione e sulla partecipazione della società civile, in questa prospettiva, come già affermato da Borzaga e Scalvini, le imprese sociali sono chiamate a coprogrammare le politiche pubbliche elaborando visioni, strategie e proposte capaci di cogliere i nodi più rilevanti delle trasformazioni in corso. Sono cioè sollecitate a svolgere un’azione politica mettendo al centro l’interesse generale della collettività nel suo insieme, oltre la semplice produzione di alcuni servizi di welfare o la difesa di interessi particolari. In un sistema di welfare che punta sulla collaborazione e che vuole rafforzare la rete dei servizi territoriali sarà centrale il contributo delle migliaia di cooperative sociali che hanno fatto la scelta strategica di rimanere legate ai territori e alle comunità in cui sono nate e dove si sono sviluppate, differenziandosi da altre realtà che invece, negli ultimi venti anni, sono cresciute partecipando a gare di appalto in tutto il territorio nazionale, competendo più sul prezzo che sulla qualità dei servizi di welfare erogati.

Negli ultimi decenni la cultura, le logiche ed i modelli organizzativi tipici del mercato sono entrati anche nell’organizzazione dei servizi e degli interventi di welfare. Questo processo ha determinato la vittoria del paradigma della competizione sia tra le strutture pubbliche che nei rapporti tra attori pubblici e organizzazioni private; ed ha indebolito gli strumenti a disposizione dei cittadini per esercitare un efficace controllo democratico sia sui servizi sanitari che su quelli sociali.

Nel primo caso, infatti, il management delle strutture sanitarie pubbliche è nominato dalle Regioni, gode di piena autonomia gestionale, e non rendiconta la propria azione ai cittadini che possono così esercitare solo una debole funzione di controllo democratico indiretto sull’operato del management esclusivamente in occasione delle elezioni regionali. Nel secondo caso, dato che la gran parte dei servizi sociali è gestita dai Comuni, c’è una maggiore vicinanza con i cittadini ed in alcuni servizi, come gli asili nido, possono essere previste anche forme di partecipazione diretta dei genitori nella programmazione e nella valutazione delle attività svolte.

Il diffondersi della cultura competitiva, però, ha reso anche i servizi sociali sempre più chiusi e legati al rispetto formale delle norme, dei parametri tecnici e, nel caso di servizi che sono gestiti da soggetti privati, dai contratti che regolano questo rapporto. Nella pandemia i limiti di questo modello sono risultati evidenti. In assenza di una solida cultura collaborativa tra attori pubblici e privati molti servizi di vitale importanza come l’assistenza scolastica ai bambini e ragazzi con forti disabilità durante il lockdown della primavera scorsa sono stati sospesi per mesi, nonostante l’immediata disponibilità delle organizzazioni del Terzo settore a riconvertire gli interventi in modalità compatibili con la necessità di contenere la diffusione del virus. Nel ridefinire il welfare futuro sarà quindi importante lavorare per cambiare cultura, logiche e modelli organizzativi e sostituire il paradigma della competizione con quello della collaborazione. 

DOI: 10.7425/IS.2020.04.01

Note

  1. ^ Memoria della Corte dei Conti sul Decreto-Legge n. 18/2020 recante misure di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19 (AS 1766), 25 marzo 2020, Roma.
  2. ^ Istat (2020), La spesa dei Comuni per i servizi sociali, Anno 2017, Report Istat, 18 febbraio 2020, Roma.
  3. ^ Costa G., Bassi M., Gensini G.F., Marra M., Nicelli A.L., Zengarini N. (2014), L’equità nella salute in Italia. Secondo rapporto sulle disuguaglianze sociali in sanità, Franco Angeli, Milano.
  4. ^ Istat (2020), Rapporto annuale 2020. La situazione del Paese, 3 luglio 2020, Roma.
  5. ^ Pioggia A. (2020), Diritto sanitario e dei servizi sociali, Giappichelli, Torino.
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