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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2020

Saggi

La valutazione dell’impatto sociale? Farla divenire uno strumento utile

Sara Depedri

Abstract

In questi ultimi anni, gli enti di Terzo settore sono stati ripetutamente e diversamente sollecitati a dotarsi di sistemi di valutazione dell’impatto sociale: prima per rispondere alle richieste dei finanziatori sui specifici progetti finanziati ed ora per recepire l’invito ministeriale previsto dal d.lgs. 24 luglio 2019. Ma quale metodo adottare? Le riflessioni scientifiche e metodologiche sul tema della valutazione dell’impatto sociale hanno portato ad un moltiplicarsi di approcci ed oggi gli enti devono orientarsi in un vasto panorama di definizioni e tecniche, cercando di comprendere quali si adattino meglio alle proprie necessità e quali utilità possano offrire i diversi strumenti. La risposta a “quale metodo adottare” è: “il più utile all’ente”, intendendo il più capace di far emergere il vero valore aggiunto sociale prodotto, di rendicontarlo all’esterno e di internalizzarlo nelle proprie funzioni obiettivo e strategiche.

Questo saggio propone una breve presentazione delle diverse metodologie e dei relativi strumenti di analisi con l’obiettivo di mettere in luce l’utilità di ciascuno e le capacità di identificare e rendere concretamente monitorabili e valutabili i complessi obiettivi sociali degli enti di Terzo settore. L’analisi si concentrerà, in primo luogo, sulla definizione di impatto sociale di cui l’ente si vuole dotare e sull’estensione delle ricadute sui beneficiari degli interventi alle ricadute sulla collettività e sull’ecosistema locale. Prendere coscienza dei propri impatti (tutti) – attivando un iter di valutazione partecipato e di apprendimento – porterà l’ente ad adottare processi di valutazione più complessi ma anche più utili alla definizione dei propri obiettivi e all’attivazione di una più completa pianificazione strategica. In questo modo, oltre che innescare un percorso di crescita, l’organizzazione potrà migliorare i sistemi di offerta di servizi di interesse sociale, attraverso un processo di confronto, di co-progettazione e di sostegno economico alla realizzazione di attività con impatti positivi per il territorio.

Keywords: impatto sociale, valutazione, pianificazione strategica, metodologie

DOI: 10.7425/IS.2020.04.03

Introduzione

Non obbligatorio per legge, ma identificato dal d.lgs. 24 luglio 2019 come un processo di misurazione di cui gli enti di Terzo settore “decidono di dotarsi” anche con finalità di comunicazione esterna verso i propri eterogenei stakeholder. Di potenziale interesse per le pubbliche amministrazioni, in sede di procedure di affidamento dei servizi e di relativa valutazione della qualità ed efficacia delle prestazioni. Azione ordinaria e complementare alla realizzazione dei servizi e al monitoraggio delle attività, per molti finanziatori e secondo quanto previsto dai format di presentazione di nuovi progetti oggetto di bando. Elemento sintetico ed unico per esprimere la resa sociale di un investimento, per i prospettati strumenti della finanza sociale.

Sono le diverse sfaccettature dell’utilità percepita e della rilevanza assegnata alla valutazione dell’impatto sociale oggi in Italia. Ma accanto a queste vi è forse una dimensione ulteriore e prioritaria: quella che identifica la valutazione dell’impatto sociale come uno strumento della pianificazione strategica dell’ente e del settore.

Una simile complessità di prospettive e di approcci ha inoltre due ulteriori implicazioni: da una parte, la valutazione viene ad essere calata su oggetti di analisi diversi, dagli enti nel loro complesso ai servizi e quindi ai progetti (come analizzato nel lavoro di Luigi Corvo e Lavinia Pastore nel presente numero di Impresa Sociale); dall’altra, proprio in base agli obiettivi dell’analisi e all’uso ex post che viene assegnato alla valutazione, ogni prospettiva può far privilegiare e trovare utilità diversa in metodologie differenti. Ciò ha come conseguenza per gli enti di Terzo settore il rischio di dover in breve tempo dotarsi di molteplici strumenti e prospetti di valutazione, solo in parte interloquenti tra loro.

Il presente articolo ha l’obiettivo di riflettere sull’utilità della valutazione di impatto sociale – non tanto in senso generale e teorico, ma soprattutto in senso applicato e pratico – per gli enti di Terzo settore che cominciano ad essere sollecitati dal contesto a dotarsi di strumenti e metodi propri di valutazione, così come sono solleticati dalle diverse proposte metodologiche che gli studiosi negli anni hanno cominciato a sviluppare per far emergere il valore sociale degli enti e dei servizi ad elevata utilità ed innovazione sociale.

Iniziare ad applicare all’interno della propria organizzazione la valutazione dell’impatto sociale significa concepirla fin dall’inizio non come mero adempimento, ma come strumento di utilità per la crescita propria e dei sistemi di offerta di servizi di interesse sociale. Con il vincolo, tuttavia, che questa utilità trovi poi effettivamente eco in chi promuove la valutazione, divenendo leva nei sistemi di co-progettazione tra pubblico e privato sociale e strumento oculato nell’assegnazione di fondi, nonché sostegno allo sviluppo di nuove attività.

I metodi applicabili: tra obiettivi e risultato

Negli ultimi anni, la valutazione dell’impatto sociale degli enti di Terzo settore ha cominciato a diffondersi anche in Italia ad opera di studiosi, ma anche in risposta alle richieste di nuovi finanziatori (fondazioni, per lo più, e bandi promossi a sostegno di attività di interesse sociale), nonché in seguito alle sollecitazioni del legislatore, a partire dalla L. 106/2016 e formalizzati nelle linee guida alla valutazione dell’impatto sociale (d.lgs. 24 luglio 2019). Si tratta tuttavia di una tematica strettamente correlata tanto ai processi rendicontativi relativi alle dimensioni sociali delle imprese (dai metodi di rendicontazione della Corporate Social Responsibility delle imprese, ai bilanci sociali degli enti nonprofit), quanto ai processi di valutazione degli investimenti, dei servizi e delle politiche pubbliche sviluppatisi con finalità di giudizio dell’efficienza e dell’efficacia dell’operato.

Per tali ragioni, negli anni si sono moltiplicate metodi e metodologie atte a rendicontare e valutare l’impatto sociale[1]. Le macrocategorie in cui vogliamo accorpare i processi valutativi al fine di analizzarne le diverse utilità sono: le analisi controfattuali, i metodi costi-benefici e i processi di monetizzazione, i sistemi ad indici ed indicatori. Ciascuno presenta possibili vantaggi e limiti, dipendenti innanzitutto dalle caratteristiche del contesto cui vengono applicati, ma anche dalla completezza cui giunge il processo valutativo rispetto agli obiettivi di analisi. Sintetizzare tali elementi di peculiarità permette di comprenderne i possibili utilizzi e il necessario funzionale adattamento negli enti in base alle proprie scelte strategiche e utilità percepite.

L’approccio controfattuale[2] è spesso identificato dagli studiosi come il metodo più puro per valutare l’impatto di un’azione sui suoi beneficiari in termini di cambiamenti dei comportamenti e delle condizioni degli stessi (o della popolazione di riferimento in senso ampio). È un metodo usualmente applicato alle politiche pubbliche e a progetti e servizi di nuova realizzazione, in cui la valutazione si incentra sull’analisi dei cambiamenti sulla popolazione beneficiaria raggiunti grazie all’intervento rispetto all’assenza di intervento, risultando quindi utile per comprendere l’effetto dell’azione e il senso della sua replicabilità futura. Dal punto di vista della procedura di ricerca, in modo prevalente, si richiede la conduzione di un disegno sperimentale in cui viene identificato accanto al gruppo di beneficiari dell’intervento un gruppo di non beneficiari omogenei per caratteristiche ai primi (gruppo di controllo) e si monitorano entrambi in termini di comportamenti e condizioni pre-intervento e post-intervento. Il cambiamento netto imputabile all’intervento è così dato dal confronto tra la situazione pre e quella post di entrambe i gruppi, depurando il risultato dell’azione sui beneficiari diretti dai cambiamenti avvenuti in modo casuale e per effetto esterno, anche nel gruppo di controllo.

L’adozione di un approccio controfattuale negli enti di Terzo settore e ad opera degli stessi è spesso innegabilmente difficile e costosa, poiché solo in rari casi l’ente dispone al suo interno di un gruppo di controllo rispetto ai beneficiari del proprio intervento. L’approccio controfattuale, tuttavia, sembra essere più in grado di altri di esplicitare il cambiamento netto avvenuto ad opera degli interventi e per questo si presenta come molto utile laddove si vogliano studiare e dimostrare in modo più mirato i cambiamenti connessi in modo specifico ed esclusivo all’azione, dando peso quindi alle interferenze positive e negative che possano essere nel frattempo avvenute influenzando l’esito finale dell’intervento.

La replicabilità di una simile tecnica su altre azioni dell’ente richiederà specifici riadattamenti degli strumenti di analisi, con problemi quindi di piena comparazione con altri servizi e con costi, per l’ente, di riadattamento e replica. Inoltre è evidente come, in questo metodo, la valutazione sia mirata su un solo soggetto ed oggetto, avendo a riferimento esclusivo il cambiamento nella situazione del beneficiario diretto dell’azione, senza indagare le altre possibili dimensioni di impatto sociale su stakeholder differenti, non riuscendo quindi ad internalizzare nel processo di analisi e di scelta anche altre ricadute ed esternalità indotte. E ancora, a rafforzamento di quanto già affermato, l’applicazione di una controfattuale nell’ente permetterà di riflettere prevalentemente sul risultato finale, ma non sempre aiuterà a comprenderne la relazione con i processi attivati e a definire quindi gli interventi strategici correttivi delle azioni e dei modelli gestionali adottati.

La seconda macro-categoria di metodi di valutazione che vogliamo analizzare è quella che racchiude le tecniche di monetizzazione dell’impatto sociale, con l’obiettivo di tradurre economicamente le ricadute dell’azione e disporre quindi di risultati di sintesi sull’efficienza dell’azione. Attraverso le analisi costi-benefici si vuole valutare il risparmio (o costo) netto pubblico generato dall’intervento e questo dato permette di fornire – prevalentemente alla pubblica amministrazione o al soggetto finanziatore – una stima di quanto l’intervento è costato considerando il complesso delle entrate e delle uscite monetarie, dirette ed indirette da esso generate[3]. La tecnica richiede di considerare tutti i costi nominali ed i costi opportunità[4] pertinenti connessi all’intervento, le entrate per la pubblica amministrazione ed i trasferimenti economici in suo favore che ne sono derivati e i risparmi che lo stesso ha generato in termini di mancati costi rispetto alla situazione pre-intervento.

I fattori considerati nell’analisi sono esclusivamente valori monetari o economico-finanziari nominali, realmente sostenuti o non sostenuti; ne deriva quindi che, spesso, sono esclusi dal calcolo gli impatti e le ricadute qualitative e intangibili (a meno che questi non abbiano dato origine ad un’effettiva riduzione dell’accesso a servizi pubblici); al pari non verranno incluse le eventuali ricadute economiche e non su soggetti terzi non coinvolti direttamente nello scambio con la pubblica amministrazione (che rientrerebbero tuttavia a pieno titolo nella definizione di impatto sociale).

Per un ente di Terzo settore, il metodo ha quindi un’utilità principale che è quella di dimostrare al soggetto (prevalentemente pubblico) finanziatore o acquirente del servizio, che l’azione non ha avuto un costo netto finale equivalente al costo nominale dell’intervento (retta, importo della convenzione, ecc.) ma esso risulta spesso inferiore per via della presenza di impatti (o esternalità), determinando talvolta addirittura un risparmio netto (o beneficio economico) grazie alla presenza di ricadute su altri servizi ed interventi e di impatti (ad esempio l’aumento del benessere delle persone) che riducono le uscite pubbliche sotto altri profili correlati. Una leva di certo evidente ed immediata nella comunicazione con la pubblica amministrazione; un metodo che potrebbe influenzare le logiche di prezzo negli appalti laddove si vengano a considerare i risparmi indiretti generati da alcuni interventi o dal fatto che alcuni servizi siano affidati agli enti di Terzo settore. Un metodo tuttavia che potrebbe portare a distorsioni delle scelte organizzative laddove si verificasse che alcuni interventi generano risparmi superiori e vengano quindi premiate anche in questa logica le strategie efficienti a discapito di alcune strategie meno efficienti ma più efficaci (tipicamente quelle che si rivolgono ai soggetti più deboli). Per tali ragioni, forse i metodi costi-benefici (al pari delle controfattuali) sono più utili in sede di pianificazione di politiche ed interventi complessivamente intesi che di selezione di singole strategie o di singoli enti.

Passo ulteriore nel processo di monetizzazione è compiuto poi, metodologicamente, dalla tecnica SROI (Social Return on Investment) (Nicholls et al., 2012). Essa consiste in un processo di conversione in valore economico equivalente di tutti gli impatti sociali generati da un’azione, tale da giungere poi ad esprimere in modo sintetico e con valore unico la rendita sociale (o extra-finanziaria) degli investimenti, calcolata come rapporto tra investimento realizzato ed impatto sociale generato. Innanzitutto, quindi, per la realizzazione di uno SROI è necessario definire in modo concreto gli impatti generati, raccogliendo informazioni ampie e precise su tutti i cambiamenti avvenuti sui beneficiari diretti, ma anche sugli altri stakeholder interessati dall’intervento fino alla comunità. Vanno quindi raccolti dati sulla situazione ex ante ed ex post e – attraverso la promozione di un processo di valutazione partecipato – viene chiesto agli stakeholder di stimare il beneficio (o cambiamento) ricevuto con azioni comparabili e con quantificazioni. Ad ogni cambiamento viene associato quindi un costo equivalente attingendo da prestazioni simili o con ricadute simili, giungendo a conferire un valore economico ad ogni dimensione di impatto monetizzabile. Il processo è quindi complesso e si avvale di tecniche di ricerca miste, poiché richiede la realizzazione di questionari ed interviste o focus group per analizzare i cambiamenti e di disporre di tabelle standard di conversione economica delle variabili rilevate.

L’utilità di modelli che giungano a quantificare l’impatto in termini economici come lo SROI è evidentemente, innanzitutto, quella di “parlare lo stesso linguaggio” dei soggetti finanziatori e di affacciarsi quindi anche a nuovi mercati e strumenti di finanziamento. La valutazione sui nuovi mercati finanziari deve essere agevole e deve riuscire a tradurre quantitativamente ed economicamente anche le dimensioni più qualitative e sociali delle azioni, elementi al centro dello SROI. Inoltre, metodi come lo SROI permettono di internalizzare nel calcolo dell’efficienza dell’azione (intesa come rapporto tra risorse impiegate e prodotto complessivamente generato) anche dimensioni qualitative e ricadute sociali. Per un ente di Terzo settore, applicare lo SROI porta quindi a disporre di un valore economico rappresentativo del valore generato e ciò può aiutare la visibilità della propria azione all’esterno. Anche per questa metodologia rimangono tuttavia alcuni elementi critici rilevanti: se in generale il metodo ha trovato ampie ed eterogenee critiche da parte degli studiosi del Terzo settore (Cooney, Lynch-Cerullo, 2014; Marthens et al., 2015), in modo più mirato rispetto alla riflessione sull’utilità dei vari modelli di valutazione si osserva che né il risultato finale di sintesi dello SROI, né alcuni passaggi del suo processo risultano di particolare utilità agli enti che lo realizzano: così, la traduzione monetaria con costi standard riferiti a prestazioni ed interventi assimilabili per impatto non porta poi a riflessioni specifiche sull’economicità della gestione o a giudizi sull’averla condotta in modo efficiente; l’inclusione nel metodo dei cambiamenti solo di natura materiale (quarto principio dello SROI) può essere un limite nella comprensione della complessità delle ricadute tutte che le proprie attività comportano; o ancora l’uso esclusivo del rapporto tra investito e valore sociale non fornisce agli enti dati utili alla riprogettazione di processi e servizi. L’utilità del metodo a fini di riflessione interna sta piuttosto nella conduzione precisa e completa (e poi nella separata analisi) di alcune tecniche di ricerca suggerite dallo SROI, quali in particolare la raccolta di dati dagli stakeholder con metodi partecipati per verificare gli impatti sugli stessi.

Nella rassegna dei metodi per la valutazione dell’impatto sociale, ultima macrocategoria è quella dei sistemi di indici ed indicatori[5]. Da un punto di vista di strutturazione ed applicazione pratica agli enti, si rileva che tale tecnica ha cominciato a diffondersi e ad avere un riconoscimento certificato in primo luogo negli enti con obiettivi di profitto, ma la cui gestione adotta processi ritenuti sostenibili ed etici e genera ricadute positive anche di natura sociale ed ambientale. Per farne alcuni esempi, dalla fine degli anni ’90 la Global Reporting Initiative ha fornito precise indicazioni per la redazione dei rapporti di sostenibilità, identificando dimensioni di analisi e al loro interno indicatori ampi, qualitativi e quantitativi, atti a rendicontare (oltre che sull’efficienza e la performance gestionale) anche gli impatti economici indiretti, le performance ambientali e sociali, anche se con focus prevalente verso le pratiche nei confronti dei lavoratori. Nel 2002 il Progetto Governativo Corporate Social Responsibility and Social Commitment (CSR-SC) collegato al Libro Verde della Commissione Europea ha portato a promuovere l’adozione di una serie di indici ed indicatori per la valutazione volontaria da parte delle imprese del proprio grado di responsabilità sociale e ambientale, fornendo un articolato elenco di indici minimi comuni ed addizionali trasversali a settore e imprese, atto a far emergere le ricadute su ciascuna categoria di stakeholder con cui l’organizzazione si relaziona. Più recentemente, con l’istituzionalizzazione delle B-corp, si è promossa anche la certificazione del raggiungimento dei loro obiettivi di generazione di benefici sociali ed ambientali, applicando alle aziende un processo di valutazione dell’impatto (B Impact Assessment) basato su indici ed indicatori cui è assegnato un punteggio utile all’ottenimento della certificazione. Processi, quindi, che hanno progressivamente cercato di oggettivizzare con dati osservabili e descrivibili su scala di valutazione anche le ricadute sociali ed ambientali appunto.

E questo è in generale l’approccio dei metodi ad indici ed indicatori: si identificano le dimensioni obiettivo di analisi e al loro interno gli indicatori, gli indici e i fattori in grado di esplicitare quantitativamente e qualitativamente i risultati raggiunti. Quale esempio presente anche nei modelli che si stanno proponendo a livello scientifico ed applicato in Italia[6], un’indagata dimensione di analisi è la partecipazione degli stakeholder, che viene ad essere indicizzata in tassi di presenza degli stakeholder nella base sociale e negli organi amministrativi, indicatori di qualità dei sistemi per la rilevazione dei feedback da parte dello stakeholder, tassi medi di partecipazione alle assemblee e ai momenti di confronto, raccogliendo in questo modo dati (fattori, valori assoluti) sulle procedure e sugli esiti delle procedure di partecipazione e rappresentanza, eccetera. I dati (su cui vengono costruiti indici ed indicatori) sono usualmente raccolti con fonti dirette disponibili nell’ente, ma in modo più completo anche attraverso processi partecipativi degli stakeholder. Il sistema ha due obiettivi: quello di valutare l’ente in modo complesso, per singoli risultati raggiunti e in più direzioni e quello di essere riprodotto in maniera standardizzata (con la possibilità eventualmente di aggiungere propri indicatori specifici di attività) in molte imprese, permettendo la comparazione tra le stesse e la generazione di benchmark di settore per la definizione delle soglie minime di certificazione/di raggiungimento degli obiettivi sociali (soglie talvolta decise dal certificatore, altre volte frutto dell’analisi dei dati di sistema).

Per gli enti di Terzo settore, l’adozione di un sistema ad indici ed indicatori per la valutazione dell’impatto sociale può permettere di disporre di una serie di dati allineati con i propri obiettivi strategici, di monitorare e valutare progressivamente tali indici e gli scostamenti dai propri obiettivi, di comprendere la casualità tra alcune dimensioni, di verificare quindi il legame tra processi attivati, elementi di efficienza, di efficacia e di impatto. Un processo quindi allineato e funzionale alla pianificazione strategica dell’ente, ad una riflessione interna e a processi di cambiamento. Il metodo risulta invece spesso meno funzionale, invece, alla comunicazione esterna verso stakeholder non tecnici, poiché l’elencazione di una batteria di indici ed indicatori di performance (economica e sociale) richiede di essere interpretata ed analizzata, non esprimendo né un giudizio qualitativo né un giudizio sintetico unico dell’impatto sociale generato. Per tale ragione, la valutazione sintetica degli indicatori con assegnazione di una “certificazione” o di un punteggio è vista come l’elemento comunicativo di sintesi del proprio risultato e viene progressivamente promossa in alcuni settori e per taluni enti anche in allineamento con gli interessi di nuovi finanziatori e della social finance.

In sintesi, l’analisi dei principali metodi cui ricorrere per realizzare la valutazione dell’impatto sociale ha evidenziato come vi sia una certa correlazione tra risultato cui l’analisi giunge e l’utilità del metodo: se l’obiettivo dell’ente è quello di comprendere gli effettivi cambiamenti generati da un proprio intervento o servizio sui propri beneficiari, di certo le analisi controfattuali sono la tecnica più precisa; se lo strumento deve essere utilizzato con finalità comunicative sintetiche e di facile lettura – che  fanno emergere il valore economico della socialità delle azioni e risultano quindi efficaci nei confronti dei soggetti finanziatori – metodi come le analisi costi-benefici e lo SROI possono risultare più allettanti; se la valutazione deve essere in primo luogo funzionale allo sviluppo strategico più complesso e ad un’analisi a tutto tondo dei risultati, i sistemi ad indici ed indicatori tendono ad essere preferiti.

Tecniche, strumenti, analisi: la scelta in base alla propria definizione di impatto

La scelta degli enti non si ferma tuttavia al metodo da seguire, ma implica poi anche una decisione rispetto alle tecniche e agli strumenti da adottare nell’ambito del metodo stesso. Per alcuni metodi potrebbe essere sufficiente o nettamente prevalente il ricorso ad una tecnica esclusivamente quantitativa, che porti all’adozione di strumenti di monitoraggio interni – quali schede e questionari (seppur più complessi degli ordinari gestionali e degli strumenti informativi di supporto alla gestione ordinaria degli enti, quali i software per la gestione del personale). Per le valutazioni incentrate sulle ricadute sui beneficiari e sui principali stakeholder dell’azione sarà da prevedere anche l’adozione di tecniche qualitative o miste (mixed method e multicriteri) e di strumenti di ricerca ed analisi che garantiscano la partecipazione, quali questionari (di impatto e non meramente di soddisfazione) o interviste e focus group.

Si tratta di scelte in parte influenzate ancora dalla motivazione strategica che spinge gli enti ad applicare la valutazione, ma anche dall’accezione di impatto sociale che si assume a base della propria valutazione e che andrà ad influenzare le proprie strategie.

Come noto e ripetutamente riportato negli studi, nonché fatto proprio dal legislatore, “Per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Si tratta quindi di una definizione sufficientemente ampia, che si sposa con i diversi metodi sin qui illustrati, anche se presenta alcuni elementi specifici che andrebbero valorizzati nella scelta dei propri metodi e delle proprie tecniche di valutazione.

Innanzitutto, la valutazione è quantitativa e qualitativa: quindi, da un punto di vista di processo e tecniche di valutazione, si potranno e dovranno applicare sia strumenti quantitativi che qualitativi, integrando o rendendo complementari (ove possibile) questionari e rielaborazioni dati con interviste e focus group. Da un punto di vista di risultati, si dovranno e potranno riportare elementi economici e non, monetari e non, quantitativi ma anche narrativi, ove pertinente e opportuno per approfondire e spiegare il risultato.

Si tratta quindi di un’azione che va ad intersecarsi con la rendicontazione sociale e che può diventarne parte integrante (come ad esempio riportato esplicitamente anche nel decreto 23 luglio 2019 – coordinamento con il bilancio sociale). Attingere a strumenti diversi di valutazione ha ovviamente dei costi per gli enti, ma l’utilità pare evidente: giungere ad una presentazione complessa e a tutto tondo degli impatti, in cui si valorizzino non solo i risultati chiaramente quantificabili, ma anche quelli più qualitativi, intrinseci ed impalpabili, benché sempre con il vincolo che gli stessi siano affidabili (si intende “informazioni veritiere, precise ed eque, con specifica indicazione delle fonti dei dati”, terzo principio delle linee guida) e che si riconducano a parametri quantitativi tutte le dimensioni e le informazioni misurabili (quarto principio). Disporre di analisi complesse quantitative e qualitative ha quindi una funzione strategica per gli enti poiché porta l’attenzione sia al proprio interno che nei confronti degli interlocutori esterni sulla duplice (o molteplice) natura dei risultati dell’azione.

La valutazione è poi di breve, medio e lungo periodo e vanno quindi previste la realizzazione di “fasi di valutazione” e l’applicazione di strumenti e tecniche (anche non rivolti agli stessi soggetti o oggetti di analisi) a sessioni temporali distinte. Nel breve si potranno leggere (con opportune fonti interne o raccolte dati e strumenti anche partecipati) le dimensioni del risultato di servizio, del benessere immediato generato; nel medio e nel lungo periodo andranno intercettati gli impatti veri e propri, intesi come cambiamenti stabili sugli stili di vita o sui comportamenti. La valutazione diverrà in questo modo utile a riflettere e ad internalizzare nel proprio processo progettuale non solo ciò che l’ente realizza nell’immediato ed è esplicitamente inserito come obiettivo diretto, pianificato e volontario delle azioni promosse, ma anche gli effetti indotti o indiretti, quelli non previsti, quelli rilevabili soltanto dopo un certo periodo di tempo.

Di certo la valutazione si fa quindi ambiziosa: percorso pluriennale, ma anche dotato di meccanismi sufficientemente elaborati che rendano possibile intercettare le ricadute a qualche anno di distanza dall’esercizio dell’azione e che quantomeno tentino di depurare i comportamenti e gli stili di vita rilevati a quel tempo di eventuali elementi di interferenza e di contesto che li possano avere ulteriormente influenzati. Che il percorso di valutazione si presenti tuttavia come un processo pluriennale ha piena coerenza anche con l’utilizzo dello stesso nella progettazione e nella rendicontazione di enti e di servizi; esso risponde ai tempi necessari perché i cambiamenti effettivamente avvengano. E per tali ragioni, una visione e una valutazione pluriennale del servizio vanno non sono solo richiesti all’ente, ma anche adottati dal finanziatore/investitore affinché si possano verificare oggettivamente le ricadute tutte dell’azione.

Infine, la valutazione deve intercettare quali sono i soggetti su cui vanno rilevati gli impatti perché ritenuti “rilevanti” rispetto alle azioni realizzate (secondo principio delle linee guida alla valutazione di impatto sociale). La comunità di riferimento può estendersi, quindi, a portatori di interesse diversi a seconda dell’azione promossa. Essa può essere intercettata: nei beneficiari diretti dell’azione per i progetti più circoscritti e mirati; negli stakeholder interni dell’ente (soci, lavoratori, volontari…) laddove questi influenzino significativamente le azioni e ne siano a sua volta influenzati dato l’elevato livello di coinvolgimento; negli stakeholder anche esterni; nella comunità in senso ampio nel momento in cui la presenza nei territori e le interazioni tra l’azione/l’ente e la collettività esterna siano attesi generatori di impatti (positivi o negativi) significativi per il territorio. Che la valutazione si estenda quindi dai beneficiari diretti agli stakeholder tutti avrà un’utilità funzionale a dimostrare come vi sia un valore sociale aggiunto delle azioni rispetto a quello descritto dalla mera realizzazione del servizio, generato dal modo in cui l’ente sta all’interno del territorio e produce e co-produce con lo stesso. Per l’ente, inoltre, giungere ad internalizzare nella propria progettazione in modo oggettivo questi obiettivi di ricaduta sulla comunità vorrà anche dire porre al centro delle proprie azioni in modo pianificato le conseguenze tutte, interrogandosi su potenziali non sufficientemente sfruttati e sul legame tra processi attivati e risultati prodotti (non dando per scontato che attivare certe modalità di lavoro e reti generi sempre ricadute positive).

La definizione di impatto sociale appena descritta trova poi ulteriori declinazioni e specifiche. Quella fornita dal decreto 23 luglio 2019 (citate linee guida alla valutazione di impatto sociale) porta a considerare la valutazione di impatto sociale come un prodotto finale della catena produttiva del servizio (nello specifico di un servizio di utilità sociale), da cui si osserva il riferimento esplicito alla catena di creazione del valore sociale (o Impact Value Chain). La catena (la cui analisi specifica viene rimandata ai numerosi contributi già presenti in letteratura) è infatti composta da cinque anelli che illustrano il processo di generazione degli eterogenei risultati di un’attività (o ente o progetto) che sono anche esplicitamente richiamati dalle linee guida[7]. Il primo anello è rappresentato dalle risorse, economiche ed umane, immesse all’interno dell’azione; il secondo descrive le modalità secondo cui le risorse sono organizzate, ossia i processi e le tecniche di management (partecipazione, comunicazione, gestione); il terzo anello conduce ai risultati più concreti e quantitativi direttamente prodotti dall’attività; le ricadute più qualitative e di benessere vengono descritte nel quarto anello; e si giunge quindi nel quinto a riflettere sui cambiamenti di medio-lungo periodo identificati come impatti.

Tale catena è stata utilizzata dagli studiosi, in primo luogo, per valutare l’efficienza dell’attività (data dalla relazione tra input e output), l’efficacia della stessa (data dalla relazione tra outcome e anelli precedenti della catena) e gli impatti, intesi come gli effetti che determinano il vero valore aggiunto sociale dell’attività, in un processo complesso che permette di verificare anche i rapporti di causalità tra le varie dimensioni e riflette in modo completo sulle conseguenze ed i cambiamenti prodotti sull’ambiente socio-economico con cui si trova ad interagire l’ente. La stessa è poi adottata in letteratura con fini di progettazione dei cambiamenti ed oggetto quindi della propria pianificazione strategica (applicazione della Theory of Change). Ciò significa che gli impatti vengono posti come un obiettivo esplicito negli enti, che essi vengono inclusi nell’analisi preliminare dei bisogni da soddisfare attraverso le proprie attività, portando la logica di pianificazione e di cambiamento appunto dal breve al medio-lungo periodo e dal singolo individuo alla collettività. L’impatto, nella teoria del cambiamento e nella catena, non è più un prodotto accessorio e casuale dell’azione, ma diviene al pari di output ed outcome (di servizi e benessere) un obiettivo diretto esplicito che richiederà alle organizzazioni anche dei cambiamenti di processo ed organizzativi al fine di essere anch’esso massimizzato poiché prioritario nell’agire di un ente con finalità sociali. Inoltre, se in sede di pianificazione ex ante di nuove azioni ed interventi l’ente potrà non avere presente e definire quindi tutti i possibili impatti (positivi e negativi) che ne seguiranno, i processi di monitoraggio e soprattutto di valutazione ex post dovranno far emergere anche le ricadute inattese e queste potranno poi essere inserite ad oggetto di analisi e nelle proprie funzioni obiettivo in sede di correzione dell’intervento o di riprogettazione, facendo sì che le esternalità progressivamente vengano internalizzate. In un simile percorso di crescita e presa di coscienza, l’ente viene a dotarsi di strumenti volti a rendicontare e valutare sia il raggiungimento di espliciti e predeterminati fini di cambiamento sociale, che ricadute indotte e non intenzionali della propria attività.

Un ulteriore contributo alla definizione puntuale di impatto sociale per gli enti nonprofit e al “cosa mettere” quindi nei propri obiettivi e nei propri processi è fornito dai contributi scientifici. Un interessante approccio – che ha trovato applicazioni concrete in alcuni modelli sperimentali – è quello di Ebrahim e Rangan (2010), nel quale le ricadute delle nonprofit sono clusterizzate su quattro livelli: (i) i risultati di nicchia (quelli generati su un target specifico di utenti), che sono tipicamente oggetto di analisi della qualità dell’azione e ricadono quindi tra gli obiettivi più diretti delle azioni intraprese dalle nonprofit; (ii) i risultati integrati (ricadute complesse sui beneficiari dei servizi determinate dalla realizzazione di più azioni che colpiscono sfere diverse del soggetto), che possono determinare anche ricadute indirette su altri stakeholder di progetto o sulla collettività; (iii) i risultati istituzionali (generati da attività di advocacy e con conseguenze sulle politiche e la regolamentazione locali); (iv) i risultati sull’ecosistema (intesi come effetti sullo sviluppo locale, sulla comunità e sul sistema nel suo complesso), generati da azioni complesse che rendono la pianificazione strategica sfaccettata poiché caratterizzata da molteplici obiettivi che devono essere gestiti in maniera sinergica.

Mentre tale approccio teorico assume, prevalentemente, che gli enti nonprofit tenderanno a generare e a perseguire solo uno di questi livelli di impatto, in coerenza con la propria forma giuridica e con la propria mission, nella realtà si tende ad osservare che molti enti di Terzo settore sono portati a produrre impatti sotto più profili e livelli contemporaneamente. Spesso si tratta di conseguenze generate in modo indiretto e non pianificato, non inserite come obiettivi espliciti, ma vere e proprie esternalità; e spesso si tratta di impatti influenzati almeno in parte dal contesto locale.

L’analisi teorica ed empirica prodotta negli ultimi anni (anche e soprattutto a livello nazionale) porta ad esempio a verificare che la natura degli enti di Terzo settore come soggetti spesso in rete o in relazione con enti pubblici e privati (spesso privato sociale) nel proprio territorio amplifica la ricaduta delle proprie azioni: non solo risultati diretti sui beneficiari, ma anche ricadute più estese sul loro benessere quando si agisce in un processo integrato con altri enti e si partecipa ai processi di co-pianificazione dei servizi, nonché impatti indotti sul livello di capitale sociale e sulla qualità della vita nel territorio e al pari sulle politiche locali.

Quanto questi diversi livelli di impatto siano poi esplicitamente internalizzati negli obiettivi diretti, controllabili dell’ente è comunque poi variabile: vi sono enti la cui mission risulta molto ampia ed effettivamente estesa sul livello delle ricadute sull’ecosistema, ma ciononostante talvolta l’obiettivo di produzione di impatti non è esplicitamente previsto nelle proprie strategie operative, e l’impatto diverso da quello di nicchia diviene quindi un’esternalità incontrollata di propri comportamenti e modalità di agire. Quando invece i vari livelli di impatto vengono esplicitamente e pienamente considerati e inseriti nel processo valutativo, da una parte l’ente riuscirà a dimostrare in modo più completo all’esterno (ad esempio ai propri finanziatori) le ricadute tutte e il valore sociale aggiunto della propria azione; e dall’altra, riuscirà in sede di pianificazione strategica a far convergere tali eterogenee ricadute in espliciti obiettivi, internalizzando l’esternalità e verificando anche la relazione tra impatti generati e processi attivati.

L’utilità della valutazione ed internalizzazione di questi diversi livelli di impatto va quindi letta in un sistema di causalità e non solo nel suo risultato finale: ricadute integrate, istituzionali e sull’ecosistema (benché soggette a forti interferenze esterne) tenderanno ad essere più elevate quanto più un ente investirà in processi ed azioni che pongano lo stesso in relazione con i soggetti istituzionali e gli altri attori economici e sociali della comunità. Da cui, ponendo ex ante nella propria funzione obiettivo anche la creazione di impatti e ricadute non solo di nicchia, si tenderà ad investire maggiormente in relazioni esterne proficue. Valutando invece ex post gli impatti in termini di risultati raggiunti e di processi attivati per raggiungerli, si potranno anche giudicare i gap tra risultato e investimento procedurale fatto, indagando se le cause di interferenza sono dovute a limiti nell’ente piuttosto che nei soggetti e nei comportamenti dei soggetti (pubblici e privati) con cui si è interagito, con il fine ultimo di ri-progettare eventualmente anche in modo congiunto (co-progettando) al fine di migliorare le ricadute delle azioni sulla comunità[8].

In conclusione, si osserva che, certamente, nel momento in cui la definizione di impatto sociale, come emerso da questo breve ed esemplificativo excursus, si fa più complessa, includendo stakeholder e possibili dimensioni di ricaduta diversi, anche il processo di valutazione negli enti di Terzo settore richiederà di raccogliere i dati necessari da fonti e con strumenti e tecniche misti e complessi, funzionali appunto all’intercettazione di dimensioni, di indicatori e di indici specifici e dipendenti dalla propria mappatura degli stakeholder e dalla connessa definizione individuale di “comunità di riferimento” (da L. 106/2016).

Il consiglio e l’approccio metodologicamente più completo sarà quello di estendere comunque i processi di valutazione delle ricadute non solo rispetto ai propri “obiettivi individuati” (come nella definizione sempre da L. 106/2016), ma di considerare le esternalità tutte, gli impatti diretti ed indiretti, esplicitati nei propri obiettivi, ma anche indotti dalla propria presenza nei territori e dalle interazioni con i suoi diversi attori (cittadini e persone giuridiche). Solo in questo modo la valutazione diverrà utile nel processo di apprendimento e di cambiamento degli enti, a livello di pianificazione, ma anche nella comunicazione pubblica così come in sede di rapporto con i soggetti finanziatori e con le pubbliche amministrazioni.

Conclusioni

Se gli enti di Terzo settore “decidono di dotarsi” (d.lgs. 24 luglio 2019) di propri sistemi di valutazione dell’impatto sociale ciò non deve essere ovviamente fatto soltanto o in modo prevalente per adempiere alle richieste del regolamentatore o di singoli bandi e finanziamenti, poiché in tal caso la rispondenza ad obiettivi esterni tenderà ad aumentare il costo della realizzazione del processo valutativo e a ridurne l’utilità. Se l’ente fa invece proprio il senso della valutazione e la pone tra le sue procedure ordinarie, esso riuscirà a dotarsi (progressivamente e attraverso processi che si implementeranno ed arricchiranno nel tempo e grazie alla sperimentazione) di metodi, indici ed indicatori più rispondenti ai propri obiettivi specifici e in grado quindi di identificare con maggiore precisione il proprio valore sociale, facendolo conoscere alla comunità, agli stakeholder tutti, e talvolta chiarendolo anche in modo più preciso al proprio interno.

Perché tale processo avvenga, vi devono essere principalmente due adattamenti metodologici nell’ente e due adattamenti di sistema.

Il primo – alla luce di quanto appena premesso sull’utilità interna della valutazione – è quello di riflettere coscientemente e in modo partecipato (con il coinvolgimento il più possibile dei propri stakeholder) sulla propria funzione obiettivo e sulle dimensioni di impatto della propria azione. Definire quali sono i livelli e gli indicatori di impatto da internalizzare nei propri obiettivi porterà ad interrogarsi su quanto l’azione dell’ente vada mirata in modo assoluto sulla risposta ai bisogni dei propri utenti (e di conseguenza dalla pianificazione alla valutazione l’ente debba avere come oggetto la persona e le sue necessità), ovvero se l’ente sia posto al centro di un processo sociale in cui le relazioni con altri enti e soggetti, la dimensione di contesto e di comunità assumono una rilevanza ed un valore esplicito, tale da divenire obiettivi ed oggetti di pianificazione e non soltanto elementi accessori indotti inconsapevolmente. Ne deriva, come già osservato, che i metodi e gli strumenti di valutazione da adottare saranno scelti sulla base della capacità degli stessi di far emergere e internalizzare al meglio le proprie identificate ricadute. Come il presente articolo ha cercato di portare alla luce, i diversi metodi e strumenti di valutazione hanno propri vantaggi, limiti ed utilità; in base alle proprie sensibilità e alla propria propensione e preferenza, l’ente potrà optare per metodi che seguano più la logica finanziaria o più quella delle politiche sociali; e in base appunto ai principi ed obiettivi definiti dall’ente di Terzo settore nel proprio statuto e nella propria mission, gli impatti andranno tradotti in dati osservabili e monitorabili nel tempo.

Il secondo adattamento riguarda la gestione della co-presenza di metodi e processi valutativi al proprio interno. Soprattutto laddove gli enti siano più complessi per tipologie di servizi o territori o ancora forme di finanziamento, si potrebbe riscontrare il problema concreto di dover adottare più metodologie e strumenti diversi di valutazione. Se ciò è funzionale a rispondere a singole azioni (il servizio con le sue esclusive specificità, il bando con processi ad hoc di valutazione…) e alla verifica del raggiungimento di loro specifici obiettivi, è comunque utile per gli enti disporre di dati almeno in parte comparabili e quindi di indici ed indicatori almeno in parte comuni ai propri servizi. Può essere, in altre parole, utile agli enti strutturare in primo luogo una propria metodologia trasversale – cui associare i relativi strumenti di raccolta – alla quale poi aggiungere una lista di indici ed indicatori di servizio, di settore, di progetto, o semplicemente di risposta a richieste da parte dei soggetti esterni. Oltre a generare evidenti economie di scala, la condivisione delle metodologie permetterà la condivisione di conoscenze tra aree (e tra responsabili e operatori delle stesse), ma anche una lettura comparata dei risultati, che se associata all’interpretazione delle relazioni causa-effetto tra risorse disponibili-processi-ricadute di ciascuna azione, permetterà di ragionare sui cambiamenti da attivare e sui processi da imitare in una logica di apprendimento e definizione ragionata delle best practices, con rafforzamento della propria pianificazione strategica. Ragionamento quest’ultimo che può di certo traslare dal singolo ente alla rete o al sistema degli enti di Terzo settore.

Il primo adattamento utile nel sistema, infatti, potrebbe proprio essere quello di sviluppare progressivamente una metodologia almeno in parte condivisa tra gli enti. Come presentato brevemente in questo articolo, per le imprese dotate di corporate sociale responsibility e le B-corp sono già stati studiati e applicati metodi di certificazione o di calcolo delle proprie ricadute sociali, con l’obiettivo principale di disporre di elementi comunicativi validati e quindi almeno in parte più “veritieri ed equi” (principio delle metodologie di valutazione) del proprio posizionamento rispetto alle tematiche sociali ed ambientali. L’adozione di un nucleo di indici ed indicatori di impatto sociale comuni per gli enti di Terzo settore (o per tipologie di enti di Terzo settore) potrebbe non solo fornire ai singoli enti un supporto metodologico ed una “certificazione”, ma soprattutto potrebbe consentire – attraverso l’analisi aggregata dei dati confluiti a sistema – l’identificazione di benchmark e di best practices utili agli enti di Terzo settore per riflettere in modo strategico nel sistema e come sistema. Ed in questa direzione si stanno muovendo alcune sperimentazioni e metodi a livello nazionale, ma si potranno posizionare sempre più anche le reti di enti, così da utilizzare poi i processi valutativi anche nella progettazione e co-progettazione.

Quale secondo adattamento di sistema, anche le istituzioni (pubbliche e private) che attualmente e in futuro promuoveranno la valutazione dell’impatto sociale e ne incentiveranno lo sviluppo negli enti di Terzo settore[9], dovranno giungere effettivamente ad utilizzarle, saperle leggere in modo funzionale a sostenere gli enti generatori di maggior impatto e promuoverle in modo corretto tra gli enti. Il primo rischio è che la valutazione rimanga esclusivamente un requisito per accedere a finanziamenti o ai processi di accreditamento, che sia richiesta come pratica e magari si richieda addirittura il costoso ricorso a tecniche e metodi non sperimentati prima dagli enti, ma che ex post i report o risultati della valutazione non siano usati nei successivi processi di rifinanziamento o di assegnazione di premialità nei confronti degli enti che avranno dimostrato di raggiungere risultati migliori o (auspicabilmente) superiori a determinate soglie. Il secondo rischio è quello che gli indici ed indicatori preferiti e sollecitati da enti pubblici e finanziatori, se calati dall’alto, non riescano a cogliere le reali dimensioni di impatto sociale e di valore aggiunto degli enti di Terzo settore, fossilizzandosi sulle dimensioni che già in passato definivano la qualità di un servizio di interesse sociale o ponendo l’attenzione su indici di più facile lettura come quelli monetari o monetizzabili, ma non sempre esplicativi del vero impatto sociale prodotto. Il terzo rischio è che le istituzioni usino i risultati della valutazione di impatto come strumento competitivo tra gli enti, e se tra gli indici della valutazione non venissero considerate le ricadute istituzionali e sull’ecosistema la conseguenza potrebbe essere un allontanamento tra gli enti, una riduzione delle dinamiche di condivisione e una diminuzione quindi di importanti dimensioni ed obiettivi di impatto sociale.

Per tali ragioni, la valutazione dell’impatto sociale degli enti di Terzo settore diverrà davvero utile quando il sistema delle istituzioni tutte sarà sufficientemente maturo e quando si sarà diffusa una cultura del dato e della sua interpretazione che internalizzi le eterogenee e complesse ricadute degli enti nei processi di progettazione e di co-progettazione.

Bibliografia

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Note

  1. ^ Per brevi rassegne e classificazioni delle metodologie si veda: Bengo, Arena, Azzone, Calderini (2015), Grieco, Michelini, Iasevoli (2014).
  2. ^ Per un approfondimento sul metodo si veda ad esempio Stame (2001).
  3. ^ Per un esempio di applicazione del metodo costi benefici, Chiaf (2013) con applicazione dell’analisi all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
  4. ^ Si definisce “costo opportunità” il valore della migliore alternativa tralasciata dal soggetto considerato. In tale contesto, si fa riferimento all’inclusione nell’analisi costi-benefici di mancati guadagno o mancati costi di interventi alternativi a quello oggetto di valutazione.
  5. ^ Per una rassegna di metodi sviluppatisi nell’ambito della CSR si veda ad esempio Diez-Cañamero et al. (2020).
  6. ^ Per alcuni esempi applicati e metodi promossi a livello nazionale si vedano ad esempio Chiaf (2015), Depedri (2016), Zamagni, Venturi, Rago (2015).
  7. ^ Il decreto riconosce in generale la centralità di identificare – attraverso metriche e strumenti propri e a scelta dell’ente – le dimensioni di valore che le attività perseguono. Le stesse sono comunque (più avanti nel testo delle linee guida) identificate in processi di partecipazione, attività, servizi, progetti, input, output ed outcome, in modo parallelo a quanto proposto appunto dalla Impact Value Chain.
  8. ^ Chiaro è il riferimento proprio all’investimento in relazioni con altri enti e alla qualità dei processi comunicativi, o allo svolgimento di funzioni di advocacy, i cui risultati dipendono molto dal processo non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi.
  9. ^ Esplicito è qui il riferimento all’inserimento della valutazione di impatto nei processi di accreditamento, come promosso dalla Legge sul Terzo settore e come già recepito da alcune pubbliche amministrazioni e Regioni.
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