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ISSN 2282-1694
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Numero 4 / 2020

Saggi

Gli Enti del Terzo Settore ed il principio degli adeguati assetti organizzativi

Domenico Francesco Donato

Introduzione

Il Codice del Terzo Settore (d’ora in poi anche solo CTS), analizzato con l’ottica del cultore del diritto commerciale, registra la presenza di molte norme che sembrano testimoniare l’evidente volontà del Legislatore di “aziendalizzare” gli Enti attivi nell’economia sociale/civile. Anche a causa della tecnica del rimando legislativo sic et simpliciter ad altre norme dell’ordinamento giuridico – in particolare quelle del Codice Civile dedicate all’impresa – il CTS, però, rischia di creare qualche disorientamento a scapito degli organi amministrativi degli Enti del Terzo settore (d’ora in poi anche solo ETS) che, abituati a ragionare in ottica diversa dagli operatori dell’economia di mercato, cui, sotto alcuni profili, oggi, sono molto più vicini, potrebbero tenere in scarsa considerazione o, addirittura, disattendere, obblighi divenuti ineludibili, con grave rischio di incappare in responsabilità e conseguenze, anche di non poco conto, sia per essi che per gli stessi Enti che sono chiamati a gestire.

È il caso, ad esempio, del richiamo che il CTS fa riguardo numerose disposizioni del Codice Civile dettate in materia di responsabilità degli amministratori di S.p.A., oppure di conflitto di interessi degli amministratori di s.r.l.[1], o, ancora, sebbene per implicito, del principio degli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, di cui al novellato art. 2086, rubricato come “Gestione dell’impresa” ma, che, in realtà, a seguito della “parziale” entrata in vigore del Codice della Crisi dell’Impresa e dell’Insolvenza ex Dlgs. 14/2019, reca in sé ben altre funzioni ed obiettivi, almeno, stando alla lettera del sopraggiunto secondo comma: “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Ed è proprio sul rapporto tra l’art. 2086 cod. civ. ed il Codice del Terzo Settore che, in questo breve scritto, si tenterà di fare qualche riflessione utile per chi voglia attenzionare la problematica e dare un’adeguata strutturazione alla propria “attività sociale” evitando di incorrere in gravose responsabilità, sia nel caso di crisi economico-finanziarie sia nel corso della quotidiana vita dell’Ente amministrato in ragione di quelle che, la dottrina civilistica, inquadra come responsabilità da deficit organizzativo[2].

Cosa sono gli adeguati assetti organizzativi d’impresa. La situazione ante riforma ex D.lgs. 14/2019

Gli adeguati assetti organizzati, amministrativi e contabili per l’impresa non sono un portato recente.  Sin dalla riforma del diritto societario del 2003, infatti, il principio e gli obblighi che ne derivano era stato sancito dall’art. 2381 cod. civ. per le S.p.A. la cui disciplina in materia, a sua volta, era stata mutuata dalla normativa delle società di diritto “speciale”: società quotate, intermediari finanziari, banche, assicurazioni etc.

Volendo sintetizzare al massimo studi, dibattiti serrati ed opinioni degli anni precedenti la riforma del D.lgs. 14/2019, in relazione agli assetti adeguati nelle società per azioni[3], dovremo indicare gli “adeguati assetti” o l’“adeguatezza degli assetti” come una clausola generale, “ovvero una norma di rango primario[4]dotata di autonoma precettività”, che impegna gli amministratori, oltre il rispetto dei loro doveri a contenuto specifico, a realizzare, pur in assenza di prescrizioni normative ad hoc, ulteriori attività volte a far sì che l’impresa collettiva sia dotata di adeguati assetti, “ovvero di regole di organizzazione e di presidi operativi in ambito amministrativo e contabile funzionali a far si che l’attività di impresa sia esercitata, nel rispetto delle norme di legge e statuto, anche secondo criteri di efficienza ed efficacia dell’azione gestoria”[5]. D’altra parte, “l’impresa è per essenza attività organizzata”[6] secondo indicazioni già riscontrabili nella stessa nozione di imprenditore, di cui all’art. 2082 cod. civ., descritto come colui che svolge attività “organizzata al fine della produzione o dello scambio[7].

Andando oltre l’esegesi giuridico-normativo, per dare una visione di più immediata percezione, potremmo, succintamente, richiamare il concetto delineato da larga parte della scienza aziendalistica che descrive “l’assetto organizzativo come il complesso di direttive e procedure stabilite per garantire che il potere decisionale sia assegnato ed esercitato ad un appropriato livello di competenza”. Un assetto organizzativo si definisce “adeguato” quando presenta le seguenti caratteristiche: a) è basato sulla separazione e contrapposizione di responsabilità nei compiti e nelle funzioni; b) chiara definizione delle deleghe e dei poteri di ciascuna funzione; c) capacità di garantire lo svolgimento delle funzioni aziendali[8].

Quindi, un complesso di regole, direttive e procedure che, è bene chiarirlo subito, non riguardano esclusivamente le figure apicali dell’impresa e gli organi amministrativi e di controllo, che pure hanno il dovere generale di prevederle ed implementarle, ma, con diversi profili di responsabilità, permeeranno tutta la governance aziendale e costituiranno un criterio di condotta anche per i responsabili di uffici interni e preposti alle funzioni di controllo[9].

La riforma contenuta nel Dlgs. 14/2019, il nuovo art. 2086 cod. civ.: l’estensione della clausola generale a tutte le imprese esercitate in forma societaria e/o collettiva e gli obblighi che ne derivano

A seguito del D.lgs. 14/2019, con l’introduzione del secondo comma del novellato art. 2086 cod. civ. – “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale” – si è esteso il principio degli “adeguati assetti” a tutte le imprese esercitate in forma collettiva (quindi, non solo a quelle esercitate per mezzo di una società, di persone o di capitali) con un’importante conseguenza sul piano giuridico per chi le amministra.

Lungi dal rappresentare solo una delle possibili facce del generale obbligo di diligenza e corretta amministrazione, con il nuovo art. 2086, infatti, l’adozione di “assetti adeguati” diviene un obbligo specifico (al pari di quelli tipici degli organi amministrativi previsti per legge o per statuto) e, si badi, non solo al fine di rilevare uno stato di crisi, bensì quale elemento strutturale dell’impresa medesima che, in relazione alle proprie dimensioni ed alla propria natura, dovrà dotarsene. L’inosservanza di tale obbligo, in presenza di danni da ciò derivanti, sarà fonte di gravi responsabilità per l’organo amministrativo, sia a composizione monocratica che collegiale. Tra gli obblighi primari degli amministratori, quindi, non vi è più solamente quello di agire diligentemente per il conseguimento dell’oggetto sociale, con delimitazione delle responsabilità alle azioni o inazioni strettamente legate all’ “attività gestoria” dell’impresa e finalizzate al raggiungimento dello scopo sociale, bensì, anche gli aspetti interni del funzionamento dell’impresa, “ed in particolare l’adeguatezza degli assetti organizzativi di cui deve farsi carico chi è chiamato ad amministrarla”[10], non solo con l’obiettivo di “consentire la pronta percezione di quegli indicatori che, come previsto dagli artt. 12 e segg. dello stesso codice della crisi, comportano l’obbligo di segnalazione all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (OCCRI), dando così vita alla procedura di allerta ed eventualmente di composizione assistita della crisi”[11], ma, anche e soprattutto, per soddisfare l’esigenza di carattere più generale, insita, come dicevamo poc’anzi, nella natura stessa dell’attività imprenditoriale in qualunque forma espletata: cioè dare vita ad un’attività economica organizzata, ove, appunto, l’aspetto organizzativo costituisce un elemento essenziale.

Ed è il caso di aggiungere che, proprio perché il legislatore è intervenuto su una norma del Codice Civile riguardante l’impresa in generale, benché non se ne ravvisi menzione nel novellato art. 2086, è evidente che anche l’imprenditore individuale non potrà prescindere dal farsi carico di questo aspetto (ed infatti, come già notato, l’art. 3 del Codice della crisi non manca di occuparsi, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi, anche dei doveri gravanti sull’imprenditore individuale).

La conseguenza della “novità” introdotta dall’art. 2086 cod. civ. è fin troppo evidente. Oltre agli atti esteriori di esercizio dell’impresa potrebbero essere sottoposti al vaglio del Giudice anche i comportamenti e/o le omissioni dell’amministratore in relazione alle scelte dallo stesso adottate, o tralasciate, riguardo la struttura organizzativa dell’impresa sia nel caso di crisi dell’impresa ma, come visto, anche nel corso della ordinaria vita della medesima.

Sicché, ipoteticamente, e tenendo conto che la natura e le dimensioni di ogni impresa sono caratteristiche così singolari da non consentire una generalizzazione delle fattispecie, si potrebbero immaginare almeno due scenari di responsabilità collegate all’obbligo di adozione di assetti adeguati: “una responsabilità per difetto di istituzione di adeguati assetti organizzativi, quando ciò abbia impedito di avvertire il manifestarsi e l’aggravarsi della crisi, e responsabilità per mancata tempestiva reazione, che potrebbe sussistere anche in presenza di assetti organizzativi adeguati se l’amministratore abbia poi trascurato di avvalersi degli strumenti di monitoraggio a sua disposizione o ne abbia colpevolmente ignorato o sottovalutato i segnali”[12].

Orbene, se nel primo caso, la violazione – rectius, l’omissione dell’adozione di adeguati assetti – potrebbe essere piuttosto evidente, subito, diciamo che la valutazione dei giudici sul grado di adeguatezza degli assetti si profila più complicata e non sempre in linea con gli orientamenti della migliore dottrina e della giurisprudenza che, in applicazione della famosa regola del “business judgement rule”, tendono ad escludere, sia pure con argomenti diversi ed in senso più o meno radicale, la sindacabilità giudiziaria riguardo le decisioni di organizzazione interna[13].

Gli adeguati assetti organizzativi ed il Codice del Terzo Settore

Anche gli Enti di Terzo settore sono tenuti ad avere adeguati assetti organizzativi?

Tenendo conto dei chiarimenti dei precedenti paragrafi, osserviamo che, pur non richiamandolo espressamente, il CTS fa un implicito rimando all’art. 2086 cod. civ., laddove, al Titolo IV, Capo III., art. 30, comma 6, dispone: “6. L’organo di controllo vigila sull’osservanza della legge e dello statuto e sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, qualora applicabili, nonché sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento”.

Ed è del tutto evidente che se l’art. 30 impone all’organo di controllo di vigilare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento, l’ETS che si costituisse in forma di Fondazione o Associazione dovrà dotarsene obbligatoriamente.

Tuttavia, riteniamo vi siano chiari segni del fatto che l’obbligo in questione, sebbene il richiamo dell’art. 30 trovi collocazione nel Titolo del CTS dedicato alle Fondazioni ed alle Associazioni, in realtà, riguardi tutti gli ETS, a prescindere dalla “forma” giuridica con cui decideranno di svolgere le proprie attività.

Per fare un esempio ad hoc, potremmo indicare quegli Enti Ecclesiastici e/o Istituti religiosi che decidessero di svolgere una delle attività di cui all’art. 5) del CTS senza un soggetto giuridico strumentale ma in via diretta. Anche questo tipo di “operatori dell’economia civile”, per le ragioni che indicheremo appresso, saranno chiamati al rispetto dell’art. 2086 cod. civ. anche se, come sappiamo, il CTS ha delimitato il campo della loro responsabilità nei limiti dei patrimoni che saranno destinata alle attività del Terzo Settore.

Si trae convincimento di ciò dall’ampio numero di articoli che il CTS, nella parte generale dedicata a tutti gli ETS, riprende, abbastanza pedissequamente, dalle disposizioni del Codice Civile dettate in materia di impresa in generale e commerciale, come anche di impresa esercitata in forma societaria e contenute nel suo Libro V, Titoli II e V.

Richiami così ampi che, quasi, potremmo azzardare un vero e proprio processo di “imprenditorializzazione” del Terzo Settore e di vera e propria “aziendalizzazione” degli operatori che vorranno fare parte come Enti registrati.

Si pensi, per esempio, agli obblighi di iscrizione nel registro degli ETS di cui all’art. 11, comma 1, del CTS, che prende le sue mosse da ragioni e finalità storicamente rintracciabili nell’esigenza di garantire ai terzi un certo grado di trasparenza della vita delle imprese che, ancora oggi, trova disciplina negli artt. 2195 e ss. cod. civ.

Stessa cosa per quanto riguarda l’art. 12 che impone agli ETS una denominazione sociale, qualunque essa sia, di cui fare sempre riferimento e menzione nella propria corrispondenza e nei propri atti. Come non pensare in questo caso all’art. 2250 del Codice Civile dedicato alle società e persino alle norme – artt. 2569 e ss. cod. civ. – che regolano registrazione, uso e circolazione dei segni distintivi dell’azienda.

Per non parlare degli articoli 13, 14, 15 e 16 del CTS che obbligano l’ETS, in forma più o meno stringente (chiaramente più stringente per gli ETS che svolgano attività di impresa commerciale) a redigere bilancio e scritture contabili, a redigere un bilancio sociale, a dotarsi di libri sociali obbligatori, con il chiaro scopo di dare evidenza e forma scritta ai processi decisionali e “passaggi” vitali dell’Ente che, inevitabilmente, ricalcano le principali norme del Codice Civile con cui si disciplina la vita dell’impresa in forma individuale e collettiva/societaria.

Dunque, le stesse norme generali del CTS dimostrano di assimilare, persino nelle loro rubriche (art. 15 denominato: libri sociali obbligatori), gli Enti del Terzo Settore alla figura dell’impresa, sia pure senza scopo di lucro e con finalità sociali ed altruistiche.

Da qui la logica conseguenza che gli “assetti adeguati” di cui all’art. 2086 cod. iv., previsti anche dall’art. 30 del CTS, per come risalta da un attenta e complessiva lettura dell’ordito normativo del CTS, non potranno che riguardare tutti gli Enti del Terzo settore, anche quelli costituiti in forma diversa dalla Fondazione e dall’Associazione, quantomeno, ogni qualvolta andranno ad acquisire soggettività giuridica.

D’altra parte, l’applicazione di tutte le norme che abbiamo appena citato del Codice del Terzo Settore presuppongono, quantomeno, un minimo di organizzazione, che abbiamo visto definire da autorevoli studiosi come l’essenza stessa dell’attività di impresa cui il Legislatore si è ispirato[14].

Senza dilungarci troppo, tanto per fare un banalissimo esempio, sarà difficile immaginare un bilancio e delle scritture contabile senza prevedere, quantomeno, un’ordinata tenuta di documenti ad opera di soggetti all’uopo incaricati e che, in nome di una maggiore efficienza, dovranno, anche in modo semplice, procedimentalizzare la propria azione per ripeterla con le cadenze temporali previste dalla normativa vigente. Così come sarà necessario procedimentalizzare le fasi di adozione delle decisioni perché ne rimanga la traccia necessaria che possa essere ricompresa nei libri sociali obbligatori.

Insomma, sono le stesse previsioni dettate nella parte generale che rendono ineliminabile l’applicazione dell’art. 30 CTS e dell’art. 2086 cod. civ., con il passaggio ulteriore per cui non sarà sufficiente dotarsi di una qualsiasi organizzazione, ma sarà obbligatorio dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, secondo natura e dimensione dell’Ente, nell’accezione di cui ai paragrafi che abbiamo succintamente riservato a questa parte della riforma del Dlgs. 14/2019.

Non solo, possiamo fare un passo in più dando evidenza di un tema che molti potrebbero considerare una forzatura.

Se, come abbiamo visto, già nella parte generale dedicata a tutti gli ETS, pur senza richiami espliciti, il Legislatore ha attinto a piene mani alla disciplina dell’impresa collettiva, con le norme dedicate specificatamente a Fondazioni ed Associazioni ha compiuto qualcosa di molto più significativo. Il CTS, difatti, in quella sua parte, ha largheggiato con il rimando espresso a norme del Codice Civile destinate alla disciplina delle società di capitali, che, come noto, costituiscono una delle principali forme dell’impresa nel nostro paese, (artt. 2372, 2373, 2382, 2392, 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis, 2395, 2396, 2397, 2407, 2408 e persino 2409, 2475-bis), così dando vita al fenomeno, riscontrato da più parti, della “societarizzazione” degli ETS[15].

Ora, non è questa la sede per verificare l’effettiva applicabilità delle norme “societarie” agli operatori dell’economia sociale, su cui non pochi valenti studiosi dubitano[16], ma, certo, la così detta “societarizzazione” è indice affidabile della volontà del Legislatore di assimilare – rectius, avvicinare –, almeno per alcuni aspetti, gli ETS – quantomeno Fondazioni ed Associazioni – non solo al sistema dell’impresa collettiva ma, addirittura, al sistema dell’impresa societaria; e, benché, i richiami espliciti della normativa codicistica trovino posto solo nel Titolo IV del CTS, anche stando alle lettura delle disposizioni di carattere generale che abbiamo dianzi esaminato, francamente, non ci sentiamo di escludere radicalmente che tale assimilazione ai tipi societari del Codice Civile non sia d’uopo anche per quegli ETS che, non operando come Fondazioni ed Associazioni, adottino altre forme collettive di gestione delle proprie attività sociali.

L’irrilevanza dell’assenza del lucro

Anche guardando all’“oggetto sociale” degli ETS e, sempre tenuto conto delle chiare volontà del Legislatore di cui agli artt. da 10 a 15 del CTS, si può trarre convincimento dell’obbligatorietà “erga omnes” degli adeguati assetti, perché l’assenza dello scopo di lucro tra le finalità sociali di questi Enti non ne elimina, per forza, la veste di impresa che il Legislatore sembra avergli voluto dare.

Come correttamente osservato da insigni studiosi la nozione di imprenditore dettata dall’art. 2082 cod. civ. non contiene alcun riferimento allo scopo di lucro ed anzi si è progressivamente affermata in dottrina e in giurisprudenza l’opinione che la fattispecie “impresa” non presupponga lo scopo lucrativo, “risultando a riguardo sufficiente il rispetto di un metodo di gestione idoneo a realizzare il pareggio tra costi e ricavi a salvaguardia dell’economicità dell’attività esercitata”[17].

Ed è proprio sulla scorta di tale premessa che, con riferimento agli ETS, la migliore dottrina, senza alcun imbarazzo, ammette la serena combinazione della finalità altruistica con gli elementi della economicità e l’efficienza tipici della gestione imprenditoriale[18]: “Se negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice si era negata cittadinanza all’idea che l’attività di impresa potesse essere svolta da associazioni e fondazioni, apparendo in contrasto con il loro elemento teleologico, è ormai opinione condivisa che l’attività realizzata non rappresenti l’elemento determinante ai fini della qualificazione funzionale. Piuttosto, questa rappresenta lo strumento attraverso il quale gli enti collettivi possono perseguire la propria finalità istituzionale, lucrativa o altruistica che sia(…) In definitiva, lo svolgimento di attività commerciali da parte di questi enti è ormai un dato non solo ricorrente, ma numericamente rilevante”.

Del resto, è opinione, condivisibile, quella di numerosi autori, per i quali il nuovo art. 2086 cod. civ. comporti per gli assetti adeguati una valenza di vero e proprio minimo comun denominatore che concerne tutte le imprese, “incluse quelle non commerciali e quelle non formalmente imprenditoriali, come associazioni, fondazioni e consorzi dediti in concreto all’esercizio d’impresa[19].

E per gli ETS che, per loro natura, meno si avvicinassero allo “strumento” dell’impresa?

La questione si complica un poco ma la tendenza non cambia molto.

Intanto è corretto premettere che, guardando alla nozione di impresa, come significativamente ampliata dal diritto di derivazione europea, fatto proprio dalla giurisprudenza italiana e da un rilevante numero di studiosi, è piuttosto difficile che oggi vi possa essere attività economica organizzata, anche minimamente e sia pure con finalità altruistiche, che non possa rientrare nel concetto.

Da molti anni, con il pieno avallo della giurisprudenza, che ha mutuato una nozione di matrice europea, il concetto di impresa è divenuto assai lato, molto di più di quanto tradizionalmente fosse descritto dall’art. 2082 cod. civ. Secondo la normativa e la giurisprudenza comunitaria si considera impresa: qualsiasi ente che esercita un’attività economica consistente nell’offerta di beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (cfr. in tal senso, Corte di giustizia CE, sentenza 26 marzo 2009, causa C-113/07 P, Selex Sistemi Integrati/ Commissione e Eurocontrol)[20], questo perché deve ritenersi impresa qualsiasi “entità esplicante un’attività economica, indipendentemente dallo stato giuridico e dal suo modo di finanziamento”, con l’ulteriore precisazione per la quale “costituisce un’attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto[21]. Prevale, quindi, una interpretazione funzionale della nozione di impresa per cui qualsiasi entità in grado di incidere con effetti di eliminazione, restringimento o distorsione della concorrenza è suscettibile di rientrare in tale novero.

Attingendo a questo concetto di “funzionalizzazione” della nozione di impresa, come dicevamo, è davvero arduo escludere qualcuno o qualcosa dal “mercato” e, quindi, dal novero imprenditoriale perché, se ci si riflette, anche la “semplice” gestione di una mensa per i poveri o di servizi di assistenza sociosanitaria gestita da volontari, condotta in modo organizzato e non occasionale, pur collocandosi come attività di utilità sociale fuori dal mercato specifico è, comunque, in grado di incidere sullo stesso mercato, magari, deprivando gli imprenditori del settore della propria “clientela” naturale.

Quindi, vediamo bene che, l’assenza di scopo lucro e/o l’assenza della forme imprenditoriali più tradizionali non necessariamente escludono in radice l’attività di impresa e gli adeguati assetti che essa comporta obbligatoriamente.

Come poc’anzi accennato, quindi, per la parte di attività rientranti nell’alveo dell’art. 5) del CTS, pur con tutte le limitazioni di cui all’art. 4) del CTS stesso anche Enti ecclesiastici ed Istituti religiosi saranno chiamati a dotarsi degli adeguati assetti organizzativi di cui all’art. 2086 cod. civ. proprio in ragione del richiamo che, sia pure implicito, il Codice del Terzo Settore opera della norma in commento.

Sotta quest’ultimo profilo non dobbiamo dimenticare, peraltro, di come la giurisprudenza formatasi proprio sull’applicabilità agli Istituti religiosi attivi nell’ambito dell’economia civile delle norme dettate in materia di crisi e/o insolvenza abbia sottolineato come perfettamente sottoponibili tali Enti alle procedure concorsuali oggi disciplinate dal Dlgs. 14/2019[22]. 

Gli ETS come soggetti giuridici portatori di molteplici interessi: la doppia valenza degli adeguati assetti organizzativi

Vi sono anche altri elementi, oltre le disposizioni del CTS di richiamo, implicito o esplicito, alle norme codicistiche destinate all’impresa, che suggeriscono l’applicabilità dell’art. 2086 cod. civ. agli ETS: ossia il fatto che in questi Enti vi siano molteplici interessi presenti e da tutelare che, se vogliamo, rendono l’adozione di adeguati assetti organizzatiti contabili ed amministrativi oltre che un obbligo anche una opportunità consigliabile e moralmente necessaria.

Si è detto che la riforma dell’art. 2086 cod. civ. che ha esteso l’obbligo di assetti organizzativi adeguati a tutte le imprese esercitate in forma societaria e collettiva è stato motivato dalla necessità di tenere conto, nella conduzione e nella strutturazione di un’impresa, degli interessi non solo dell’imprenditore ma anche di tutti coloro i quali sono legati come portatori di interessi propri all’impresa medesima: creditori sociali, lavoratori, risparmiatori etc., tanto che il legislatore, andando oltre le norme già presenti e dettate per la fase dell’eventuale crisi, ha ritenuto di dover anticiparne la loro tutela anche ad una fase antecedente la crisi per non dire già alla fase genetica dell’impresa che, ove neocostituita, sin da subito dovrà attrezzarsi in rapporto alle sue dimensioni ed alla natura della sua attività[23].

Orbene, queste considerazioni possono ben valere anche per gli ETS, a prescindere dalla forma giuridica che abbiano o vogliano assumere considerata la presenza di numerose norme che, anche solo in riferimento alla governance degli ETS, apre all’inserimento nei processi decisionali anche di soggetti tradizionalmente estranei ad essi.

Non essendo questa la sede per una discettazione approfondita dell’argomento, che presenta non poche difficoltà e perplessità rilevanti[24], vi è che il combinato disposto degli artt. 1 ed 11 del CTS danno la precisa sensazione che il “più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e dei soggetti interessati alla (...) attività” non possano prescindere da una struttura già dotata di adeguati assetti organizzativi che si renda credibile e trasparente per i propri finanziatori e protettiva per i lavoratori attraverso sistemi atti a rilevare e prevenire stati di crisi ma, ancora di più, a rendere intellegibile il modus operandi dell’Ente stesso.

La responsabilità degli Organi amministrativi per la mancanza degli adeguati assetti organizzativi amministrativi e contabili

Le considerazioni appena svolte, anche per gli amministratori degli ETS portano ad una conseguenza abbastanza scontata: l’assenza di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili adottati in relazione alla natura ed alle dimensioni dell’Ente esporrà gli stessi amministratori a responsabilità: sia nei confronti dell’Ente medesimo, sia nei confronti dei terzi – creditori ma anche stakeholders in genere – quando ciò abbia compromesso l’integrità del patrimonio dell’ente che ha naturalmente funzione di garanzia generica per tutti costoro.

Come per le imprese organizzate in forma collettiva, tuttavia, ad andare sotto la lente dell’eventuale giudizio non saranno più soltanto le scelte compiute (o omesse) in ordine all’esercizio dell’attività, bensì, l’adeguatezza organizzativa interne e gestionale predisposta dagli amministratori.

Non solo, la responsabilità per l’omessa istituzione di assetti organizzativi o per l’adozione di assetti inadeguati che, è bene ricordarlo, sono preordinate anche alla rilevazione di eventuali crisi, andrà di pari passo con la responsabilità che deriverà in capo a quegli amministratori che, pur rilevato lo stato di crisi, non si siano tempestivamente attivati per porvi rimedio[25].

Un semplice esempio potrebbe essere utili per tradurre sul piano pratico quanto accennato sul piano teorico.

L’Amministratore di un ETS – sempre guardando a natura e dimensioni dell’Ente – che non si sia dotato di un valido sistema di monitoraggio per entrate ed uscite di cassa, dotato di alert che segnalino il ritardo o l’aggravarsi del ritardo degli introiti, di sicuro espone l’Ente ai rischi degli squilibri finanziari che potrebbero derivare dal disallineamento tra entrate ed uscite. In questo caso, la responsabilità dell’amministratore non sarà dipesa dal verificarsi dello squilibrio – che potrebbe essere dovuto a qualsivoglia ragione – ma sarà imputabile all’omissione riguardo l’adozione di un sistema di alert adeguato che, per tempo, potesse segnalarlo così determinando, da un lato, l’aggravamento dello stato di crisi e, dall’altro, la tardiva adozione di rimedi atti a garantire la soluzione della crisi, laddove possibile, per non compromettere irrevocabilmente il patrimonio dell’Ente e gli interessi dei diversi stakeholders.

Orbene, ci si può ben rendere conto di quale novità sia per gli ETS lo spirito che permea il Codice nato con il D.lgs. 117/2017 ed il richiamo ivi operato alle norme del Codice Civile che disciplinano l’impresa, in particolare l’art. 2086 cod. civ. di cui trattiamo.

Se, infatti, prima della riforma tali regole ed accorgimenti erano tipici esclusivamente degli ETS costituiti ab origine in forma di impresa collettiva, oggi, la prescrizione circa gli assetti organizzativi adeguati, applicabili estensivamente a tutti gli Enti, fa sì che si entri in una nuova era segnata non soltanto dall’intento solidaristico e dall’afflato volontaristico, ma anche da una vera e propria “professionalizzazione” delle attività e delle opere di “assistenza sociale”. Una professionalizzazione che, come visto, è gravida di conseguenze sul piano giuridico per l’Ente e, soprattutto, per si occupa della sua amministrazione stante il fatto che, eventuali debacle economico-finanziarie dovute all’assenza di un’organizzazione adeguata degli assetti gestionali verrà valutata come danno-conseguenza di un comportamento illegittimo e contra legem di chi ha il compito di amministrare, con imputazione a quest’ultimo di responsabilità, patrimoniali e non, anche rilevanti per ristorare l’Ente medesimo ed i suoi creditori.

Immaginiamo, ad esempio, un’associazione/fondazione/ente religioso che non si doti di un sistema di monitoraggio di entrate ed uscite, magari trascurando l’andamento dei pagamenti dei propri fornitori e/o la riscossione dei propri crediti e così ingenerando gravi passività di bilancio rispetto alle quali l’organo amministrativo resti inerte anziché assumere iniziative valide per la soluzione della crisi.

Ora, molti potrebbero sostenere che un amministratore mediamente avveduto ha sempre sotto controllo i propri conti, ma l’obiettivo del riformato art. 2086 cod. civ. ed i principi che il CTS ha deciso di mutuare è proprio quello di evitare che l’integrità economica di un Ente sia affidata unicamente alla buona volontà di un Organo amministrativo più o meno attento, bensì, ad un efficiente sistema di controllo costituito da attività procedimentalizzate che vadano oltre l’abnegazione del singolo: gli adeguati assetti.

Conclusioni e qualche possibile accorgimento da valutare

Qualche considerazione conclusiva

Anche se in modo non omogeneo e con parecchie incertezze, il CTS sembra approntare un sistema di regole che, mutuando ampiamente le norme disciplinanti l’impresa commerciale, collettiva e societaria, vuole, per quanto possibile, fare sì che gli ETS, a fronte dei “privilegi” fiscali ottenibili in ragione delle finalità sociali perseguite, si vadano a strutturare similmente all’impresa collettiva che, di certo, rappresenta uno dei maggiori esempi di attività organizzata per il perseguimento di uno scopo comune a più soggetti.

È chiaro, allora, che il nuovo articolo 2086 cod. civ. e l’obbligo degli adeguati assetti organizzativi contabili ed amministrativi dovranno divenire anche per il Terzo settore una regola virtuosa da seguire con attenzione sia pure in stretta connessione alla natura ed alle dimensione della propria realtà lavorativa.

Con i dovuti distinguo (esistono realtà del Terzo Settore già molto avanti per quanto riguarda i concetti di organizzazione e di compliance aziendale), sarà indispensabile un salto di mentalità per spostare le molte risorse in campo dal mero atto di buona volontà ad una vera e propria realtà gestita secondo criteri economici.

Pur tuttavia, non pochi potrebbero essere i vantaggi, non solo rispetto alla facilità di finanziarsi aiutata dalla fiducia che possono suscitare soggetti ben organizzati e trasparenti, ma anche rispetto a quello che è lo scopo primario degli adeguati assetti organizzativi: aiutare a rilevare per tempo situazioni di crisi prima che deflagrino in insolvenza sic et simpliciter. Senza contare lo schermo che gli adeguati assetti possono fornire a chi ha il delicato compito di amministrare rispetto a delle responsabilità che potrebbero divenire molto gravose in situazioni di collasso ma che, in ogni caso, non si potrebbero escludere anche in assenza di crisi stante la valenza di obbligo specifico e criterio generale di condotta dell’azione amministrativa.

Vi sono, tuttavia, non pochi nodi che, speriamo, possano essere sciolti quando verranno finalmente emanati i decreti attuativi del CTS.

Abbiamo visto che lo stesso articolo 2086 cod. civ. rapporta gli adeguati assetti alla “natura” e “dimensione” dell’impresa.

Anche gli ETS che volessero dotarsene, nel farlo, dovranno ben badare a questi due parametri.

Se il primo dei due – quello dimensionale – è facilmente “abbordabile” e non presenta particolari difficoltà interpretative (è ovvio che realtà maggiormente grandi ed articolate richiederanno uno sforzo organizzativo e degli assetti più complessi e ricchi di presidi di controllo), per il caso degli ETS, il vero discrimen lo farà il parametro della “natura”, poiché, anche se gli ETS vengono raggruppati in un sorta di unica categoria generale, certo, essi non sono tutti uguali e, spesso, rispondono a logiche e governance del tutto diverse[26]. È difficile, ad esempio, ritenere che un Ente ecclesiastico o Istituto religioso e una Fondazione – da strutturarsi, in base alle disposizioni del CTS, più o meno, come una società di capitali – possano avere in mente lo stesso concetto di adeguato assetto organizzativo.

Ad esempio, sappiamo che gli Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, per alcuni aspetti guardano all’ordinamento giuridico comune, mentre per altri, che a volte si intersecano con i primi, guardano all’ordinamento canonico.

Come possono adeguarsi gli statuti di Congregazioni ed Istituti religiosi, che rispondono alle regole canoniche, con i regolamenti resi obbligatori dal CTS?

Ancora, riguardo il profilo della governance interna, ad esempio, come applicare le tante norme del diritto dell’impresa e societario con Enti che, tanto per fare un esempio, non prevedono organi decisionali/gestori/amministrativi fondati sul principio assembleare (si pensi alle Fondazioni che non sono dotate di assemblee dei “soci”)?

Oppure, come coniugare il metodo democratico ed il principio di maggioranza relativa su cui si fondano le procedure di adozione delle decisioni nelle società di capitali con le previsioni delle costituzioni di Enti ecclesiastici e/o Istituti religiosi che prevedono un “regime” monocratico se non monarchico (Si pensi ai Vescovi delle Diocesi oppure ai Superiori di una Provincia religiosa)?

Gli interrogativi che abbiamo posto dovranno necessariamente trovare risposta o attraverso l’inserimento nel CTS di norme maggiormente dettagliatee che non siano meri rimandi Codice Civile, oppure, necessariamente – e il riferimento è soprattutto per gli Enti ecclesiastici – le opere e le attività dovranno necessariamente svolgersi attraverso la costituzione di Enti “strumentali” cui affidarsi – quindi Fondazioni ed Associazioni – perché meglio possono essere plasmati secondo quell’indirizzo di aziendalizzazione che il Legislatore ha voluto dare per il Terzo settore impone.

Alcuni suggerimenti

Nonostante i dubbi e le questioni ampiamente irrisolte che restano sul tappeto, qualche orientamento operativo riteniamo sia il caso di darlo attingendo, ad esempio, alla pluridecennale esperienza maturata dalla scienza aziendalistica in materia di risk management degli Enti che potrebbe fornire un utile contributo cui guardare per la strutturazione di adeguati assetti organizzativi.

Il punto di partenza in argomento è senza dubbio il controllo di gestione per rendere la conduzione dell’Ente più consapevole. Partendo dal presupposto che questo strumento è valido per tutti gli Enti, ma ognuno deve adattarlo a sé tenendo conto di vari elementi quali la dimensione, il settore di attività, la localizzazione, le competenze disponibili e, non ultimo, l’onere economico che dovrebbe essere inferiore ai benefici che se ne ricavano. Lo strumento valido per avere un corretto controllo di gestione è, per l’appunto il risk management: l’insieme di risorse (umane, tecniche e procedurali) volte a individuare, prevedere, controllare e attenuare il rischio d’impresa nelle sue molteplici manifestazioni, «anche perché affrontare il rischio significa mettere in condizione l’azienda di superarlo o quanto meno di limitarne gli effetti nocivi; e questo implica la predisposizione di una serie di possibili contromisure da adottare alla bisogna che rientrano nel novero degli strumenti del controllo di gestione, a cominciare dal più volte richiamato «assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato»[27].

Nella pratica, l’adozione di un sistema di risk management, indipendentemente dalla sua complessità e articolazione, prevede di porre in essere una serie di azioni in sequenza che permettano di raggiungere detto obiettivo:

  • Mappature dei rischi: preliminarmente, facendo attenzione alle fasi dei processi che sono dietro le attività svolte dall’Ente, sarà utile condurre un’indagine volta a “mappare” i rischi/criticità insiti/e in ciascun processo analizzato, così da avere dinanzi un’idea chiara delle possibili variabili di eventi dannosi.
  • Analisi dei rischi: dopo la fase precedente, atta a rilevare le situazioni di rischio, sarà bene condurre un’analisi delle stesse al fine di rintracciarne cause ed effetti possibili.
  • Azioni da intraprendere: è qui che interviene la fase più delicata perché si dovranno adottare e quindi implementare le decisioni più utili ad eliminare e/o limitare i rischi riscontrati nel corso della prima fase. È appunto qui che intervengono quelle scelte dell’Organo amministrativo che, in una eventuale fase patologica di crisi, potrebbero essere valutate al fine di verificare l’adeguatezza o meno degli assetti adottati.
  • Comunicazione e formazione: è la fase dedicata ai dipendenti/collaboratori dell’Ente cui si dovranno comunicare efficacemente le decisioni adottate ed i presidi deliberati al fine di eliminare o non ripetere le criticità riscontrate rispetto alle quali sarà fondamentale anche svolgere una altrettanto efficace attività formativa volta ad ottenere la massima collaborazione possibile da parte degli operatori per scongiurare i rischi più comuni e pericolosi per l’Ente.

Gli strumenti appena indicati rappresentano sicuramente quel minimo comun denominatore cui ci si dovrebbe ispirare per tendere al raggiungimento dell’«assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato» di cui abbiamo ampiamente trattato, pur tenendo sempre presente che non sarà possibile un’applicazione uniforme per tutti in ragione delle peculiarità che differenziano ciascun ETS.

Naturalmente, sarà ben possibile adottare anche elementi organizzativi più complessi proporzionalmente alle dimensioni ed alla natura dell’“impresa”. Anzi, lo sforzo del bravo Amministratore dovrà tendere proprio all’individuazione degli strumenti di controllo e gestioni più confacenti alla realtà che gestisce proprio perché solo in tale ultimo caso potrà ragionevolmente ritenere di essersi avvicinato al concetto di adeguatezza che, nell’immediato futuro, rappresenterà sempre più il discrimen tra una condotta amministrativa considerabile come diligente ed una condotta censurabile suscettibile di gravi responsabilità per l’autore.

DOI: 10.7425/IS.2020.04.12

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Note

  1. ^ Cfr. Barillà (2019 - pp. 1046 e ss.), il quale esprime profondo scetticismo sull’applicabilità delle norme dettate in materia di responsabilità degli amministratori da Codice Civile agli ETS.
  2. ^ Per un quadro del tema, cfr. il saggio di Rabitti (2016 - pp. 955-999).
  3. ^ Per approfondire sull’argomento appaiono fondamentali i contributi di Irrera (2005), Riolfo (2011 - pp. 139 e ss.), Buonocore (2006 - pp. 5 e ss.), il quale fa riferimento agli assetti adeguati come ad un vero e proprio criterio di condotta cui gli organi societari si devono attenere per le attività di loro spettanza. Per un’ampia panoramica dell’argomento cfr., inoltre, Meruzzi (2016 - pp. 41-80), Montalenti (2019 - pp. 483 e ss.), Arato (2019 - p. 77).
  4. ^ Buonocore (2006 - pp. 5 e ss.); per chi volesse il tema delle clausole generali e la loro applicazione in materia societaria, vedi Fois (2001 - pp. 421 e ss.), Meruzzi (2014 - pp. 473 e ss.).
  5. ^ Cfr. Testualmente Meruzzi (2016 - pp. 41-80).
  6. ^ Ibid.
  7. ^ Con posizioni diverse sulla centralità dell’organizzazione come requisito stesso dell’impresa cfr. Galgano (2013 - pp. 28 e ss.), Cetra (2014 - pp. 33 e ss.), Bonfante, Cottino (2001 - pp. 424 e ss.).
  8. ^ Ex multis, per una ampia trattazione del tema, cfr. Balestri (2005).
  9. ^ Meruzzi (2016 - p. 9), Manes (2009 - pp. 267 e ss.); per un interessante approfondimento su delega di funzioni, concetti, interpretazioni e distinguo con figure similari dell’istituto in materia di modelli di organizzazione gestione e controllo ex D.lgs. 231/2001, inoltre, cfr. l’ottimo lavoro di Mulè (2020 - pp. 309 e ss.).
  10. ^ Cfr., testualmente, Rordorf (2019 - pp. 929 e ss.); ampiamente in argomento e con spunti particolarmente interessanti si segnalano i lavori di Spolidoro (2019 - pp. 253 e ss.) e Fortunato (2019 - pp. 952 e ss.).
  11. ^ (Rordorf, 2019 - pp. 929 e ss.)
  12. ^ (Rordorf, 2019 - pp. 929 e ss.)
  13. ^ Sull’argomento si segnalano i lavori di Benedetti (2019 - p. 413 e ss.) e Calandra Buonaura (2020 - p.5 e ss.), il quale opportunamente precisa: “A mio avviso, occorre distinguere gli assetti organizzativi funzionali all’adempimento di un dovere specifico imposto dalla legge (è appunto il caso delle misure organizzative richieste per la rilevazione tempestiva dello stato di crisi, di quelle necessarie al fine di garantire la tutela della salute e dell’incolumità dei lavoratori o per prevenire il compimento di reati o per fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico dell’impresa), per i quali l’adeguatezza può misurarsi, sempre tenendo conto della natura e delle dimensioni dell’impresa, sull’idoneità al conseguimento del risultato richiesto dalla legge, vale a dire l’adempimento del dovere a cui sono funzionali, dalle misure organizzative, anche relative alla prevenzione di rischi, per le quali non esiste un analogo vincolo di risultato, ma soltanto la necessità, come per qualsiasi altra scelta di gestione, che sia rispettato il dovere di diligenza. Per i primi, non si può negare che vi sia una limitazione della discrezionalità degli amministratori la cui scelta tra diversi modelli organizzativi è condizionata dal contenuto peculiare che assume la regola dell’adeguatezza in funzione dell’obbligo specifico di cui si richiede l’adempimento. Non è così per le seconde, con riguardo alle quali la scelta organizzativa potrà essere sindacata, sotto il profilo dell’adeguatezza, con gli stessi criteri con cui si valuta il rispetto dei principi di corretta amministrazione, vale a dire verificando se la stessa sia supportata da un processo decisionale diligente e razionale, senza la pretesa di sostituirsi agli amministratori nell’individuazione del modello organizzativo più idoneo o di desumere l’inadeguatezza semplicemente dalla constatazione dell’incapacità di impedire un evento dannoso”.
  14. ^ (Rordorf, 2019 - pp. 929 e ss.)
  15. ^ Ibba (2019 - pp. 62 e ss.), Tola (2019 - p. 393)
  16. ^ (Barillà, 2019 - pp. 1046 e ss.)
  17. ^ Cfr. testualmente Mosco (2017 - pp. 216 e ss.), il quale così si esprime a riguardo: “È ormai noto che l’impresa non si identifica né sotto il profilo teorico, né sotto il profilo operativo con un’attività svolta per finalità speculative, tanto che l’impresa non lucrativa è oggi, non solo in Italia , una realtà fondamentale dal punto di vista sociale e ormai importante anche da quello economico . Si tratta di un fenomeno complesso, nel quale convivono figure con finalità, tratti organizzativi e requisiti identificativi profondamente diversi il cui elemento comune è o dovrebbe essere l’obiettivo di non perseguire ‘fini di speculazione privata’, ma di sostituire la massima creazione egoistica di valore con la produzione di beni e servizi alle condizioni più favorevoli, in termini di responsabilità sociale, di qualità, di costo, per chi ne fruisce, compatibilmente con l’economicità e l’efficienza della gestione imprenditoriale”.
  18. ^ Ibid.
  19. ^ (Ambrosini, 2019)
  20. ^ (Ricolfi, 2010 - pp. 588 e ss.)
  21. ^ Guizzi (2010 - pp. 5-56), Ghezzi, Olivieri (2013), Mazzoni (2010).
  22. ^ Ex multis, la storica sentenza del Tribunale di Roma n. 432 del 30 maggio 2013.
  23. ^ (Rordorf, 2019 - pp. 929 e ss.)
  24. ^ Si occupa specificatamente della questione con ampia attenzione agli aspetti dei rapporti con i lavoratori, Tola (2019 - pp. 393 e ss.).
  25. ^ Si rinvia agli autori citati nelle note da 1) a 13) che ampiamente trattano delle responsabilità per mancata adozione di adeguati assetti ex art. 2086 cod. civ.
  26. ^ Della peculiarità degli Enti ecclesiastici come operatori del Terzo settore, per la disciplina precedente il Codice del Terzo Settore, cfr. Parisi (2004 - pp. 867 e ss.); più di recente cfr. Parisi (2019); sui rapporti tra ETS e metodo democratico degli Organi interni consulta anche Tuccari (2019).
  27. ^ Cfr., ampiamente sul tema, Manca (2020 - pp. 629 e ss.).
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