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ISSN 2282-1694
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Numero 3 / 2023

Saggi

Mobilitazioni politiche tra welfare pubblico e lavoro sociale

Luca Negrogno


A fronte del superamento del ruolo redistributivo del welfare italiano si è aperta una fase di profonda incertezza sulla configurazione verso la quale tale processo di rinnovamento potrà assestarsi. L’incertezza e le contraddizioni di questa fase sono particolarmente evidenti nelle tensioni che attualmente interessano 1) la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori del welfare, 2) il ruolo della produzione di saperi nelle università e nei centri di ricerca, 3) il rapporto tra attori pubblici e privati. La focalizzazione su questi tre elementi di tensione permette di leggere i processi che attraversano le politiche sociali prendendo in considerazione i soggetti che in esso insistono, le dimensioni materiali (in primo luogo le condizioni di lavoro ma anche, legate ad esse, i problemi relativi al finanziamento, alla sostenibilità e alla equità) e simboliche (le variegate forme di “presa di parola” presenti nel discorso pubblico) entro cui operano e il rinnovamento istituzionale incerto che va configurandosi a partire dalla loro interazione, soprattutto in termini di valori orientativi delle prassi.

Identifichiamo qui il campo del welfare in modo “ampio” (Pavolini, Sabatinelli, Vesan, 2021), travalicando cioè i confini tra assistenza sociale, sanità, scuola e politiche abitative; nel tentativo di delineare una rappresentazione della situazione attuale nella sua complessità, cercheremo di tenere assieme varie formulazioni e prospettive sui problemi esistenti. La ricerca sociologica sempre più converge nel mostrare come le criticità nell’ambito delle condizioni di lavoro e l’aumento di pressione nell’ambito della cura debbano essere lette come vettori determinati di una nuova “frontiera della disuguaglianza sociale” (Arlotti, Parma, Ranci, Sabatinelli, 2020). Per comprendere come sia emerso questo aggravamento delle disuguaglianze sociali legate alle istituzioni di cura vanno analizzate insieme sia la configurazione pubblica dei servizi - vale a dire “l’istituzionalizzazione e regolazione dell’offerta dei servizi”, sia il “livello di incidenza del mercato privato (formale e informale) nell’erogazione degli stessi” (Arlotti, Parma, Ranci, Sabatinelli 2020).

L'attenzione alle dimensioni simboliche deriva dalla consapevolezza che per studiare il welfare sia necessario osservare come all'interno del dibattito pubblico si facciano strada particolari “formulazioni dei problemi” che possono essere lette come particolari attività performative legate a precisi posizionamenti e strategie politiche. Questo permette di cogliere la relazione esistente tra il modo in cui i problemi sono formulati, le soggettività che “prendono parola” - con i loro differenziali di potere - e l'orientamento delle soluzioni proposte.

Nella prima parte di questo articolo proporrò una ricognizione di questioni emergenti da varie mobilitazioni professionali verificatesi nel welfare pubblico nell’ultimo anno; successivamente proverò a fornire una panoramica delle produzioni emergenti dal mondo accademico su tali questioni; nella terza parte affronterò il nodo dei rapporti tra pubblico e privato nel welfare italiano; infine proporrò alcune riflessioni da cui partire per ulteriori lavori di ricerca.

Nella prima parte darò spazio alle “voci” che emergono dal mondo del lavoro sociale principalmente guardando al sindacalismo di base e alle esperienze politiche che vi hanno interloquito, ritenendo che sia necessario aumentare la rappresentazione pubblica delle posizioni oggi più subalterne nella “ineguale distribuzione di rappresentatività” (e di condizioni contrattuali) tra i diversi settori in cui il lavoro sociale formale è distribuito (Pavolini, Sabatinelli, Vesan 2021). Esiste infatti una grande produzione di discorso sulla crisi dei sistemi di welfare da parte degli ordini professionali e delle associazioni di categoria (relative soprattutto alle professioni mediche, infermieristiche e psicologiche) che contribuiscono a forgiarne la rappresentazione pubblica; tale produzione però contribuisce ad invisibilizzare la problematica distribuzione di lavoro ad alta e a bassa professionalizzazione che risulta essere una caratteristica sostanziale degli attuali sistemi di welfare. È quindi necessario che la riflessione teorica sviluppi un posizionamento critico capace di contrastare tale invisibilizzazione: nel dibattito italiano il tema delle condizioni e dei diritti del lavoro è sistematicamente sottorappresentato e molte delle distorsioni attuali risultano illeggibili senza un’operazione politica di consapevole riposizionamento.

A partire dalle voci del lavoro più spesso invisibilizzate, emerge la centralità del rapporto tra soggetti pubblici responsabili di servizi e lavoratrici\tori impiegati presso i cosiddetti “soggetti erogatori” (del privato sociale, profit e no-profit). Poiché, a partire dalle mobilitazioni sindacali, la descrizione di questo rapporto sembra risolversi nella configurazione dell’appalto e del relativo sistema di outsourcing ed esternalizzazione, un approfondimento di ciò che resta escluso in questa descrizione costituirà un nodo centrale del secondo e del terzo paragrafo, dedicati ai rapporti pubblico-privato e ai saperi esperti che su di esso si sono sviluppati negli ultimi anni. Anche per rispondere ad alcune delle criticità emerse nelle modalità di rapporto consolidatesi nel “welfare mix” dei primi anni 2000, negli ultimi 15 anni varie aggregazioni di soggetti attivi nel campo del welfare hanno con successo promosso riformulazioni significative di questa configurazione, promuovendo innovazioni gestionali e giuridiche orientate ai modelli della coprogettazione e coprogrammazione, parzialmente accolte e formalizzate dal Codice del Terzo Settore (d.lgs. 117/2017). Come approfondiremo in particolare nel secondo paragrafo, si tratta di un fenomeno da analizzare anche entro una lettura più complessiva dell’evoluzione del ruolo dei centri di ricerca nel policy making. Per contribuire allo sviluppo delle argomentazioni proporrò un focus specifico sulla città di Bologna: in virtù della sua storica tradizione (Ardigò, Cipolla, Pastori, Ruffilli, 1976), su molti dei temi trattati (modelli di partecipazione, integrazione tra università, pubbliche amministrazione e altri attori della governance locale, processi talora visti come spazi di possibile riformulazione di un'agenda politica progressista anche a livello nazionale) Bologna costituisce in Italia un unicum, in cui alcune dinamiche nazionali assumono una particolare densità empirica: alcuni specifici casi di studio contribuiranno a dare maggiore profondità descrittiva alle riflessioni teorie svolte.

Condizioni di lavoro e crisi della soggettività

Il declino delle professioni di aiuto (Pasquinelli, Welforum 2023[1]) interessa sia il settore pubblico, sia il settore privato e sembra riguardare in egual misura - anche se in forme diverse in termini di precarietà, condizioni retributive, accesso a forme positive di riconoscimento sociale - categorie professionali disparate. Varie analisi degli ultimi anni si sono concentrate sulle specifiche caratteristiche della crisi del lavoro sociale identificando forme di “dignità ferita” (Animazione Sociale, Editoriale, n.359, 2023), dipendenti non solo da dinamiche organizzative deteriorate, ma anche dal ruolo e dal valore politico riconosciuto ai servizi da parte della società in generale. In particolare, sembra essersi largamente ridimensionato quel “vantaggio competitivo” (Borzaga 2002) che nel welfare mix italiano aveva compensato con forti spinte alla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, anche nella loro qualità di associati alla propria cooperativa, la carenza di motivazioni estrinseche, tra cui principalmente quelle di natura economica, nel contesto del terzo settore - uno dei soggetti comunitari maggiormente implicati nell’attuale crisi culturale e istituzionale.

L’esperienza del malessere legato al lavoro sociale è stata ampiamente indagata: l’Inchiesta svolta da Who Cares nel 2020 ha indagato, attraverso metodi qualitativi, le dimensioni soggettive della sofferenza di lavoratrici e lavoratori. Dai processi di “gratuitizzazione” (De Angelis 2017) alla perdita di identità professionale (Marcolungo 2022), le analisi delle motivazioni della crisi hanno spesso messo in evidenza dimensioni settoriali o specifiche di una condizione di per sé frammentata e difficile da sintetizzare, rischiando di riprodurne la estrema specificità anche in termini di analisi. Una parte marginale del mondo accademico ha invece dato conto di questi fenomeni riconnettendoli a più ampie dimensioni politiche (della Porta, Diani 2020), valoriali e sociali (De Luigi, Busso 2019): alcune recenti riflessioni hanno insistito, facendo riferimento al quadro teorico femminista dell’etica della cura[2], sulla connessione tra la crisi del lavoro sociale e una più ampia “crisi della cura”, talvolta più esplicitamente interpretata come conseguenza dell’aggressione estrattivista operata da parte delle politiche neoliberaliste ai danni del complesso di pratiche rivolte alla riproduzione sociale. In accordo con quest’ultima posizione, il tentativo di questo intervento consiste nell’approfondire tale linea di analisi facendone uno strumento di lettura “ampia” del campo delle politiche di welfare in modo da formulare linee di ricerca rivolte al ruolo di tali politiche nel definire la qualità del legame sociale nel suo complesso.

Le voci di una crisi

Vari osservatori constatano una crisi che attraversa ampi settori del servizio “pubblico”: negli ultimi anni sono aumentati gli allarmi a proposito della insostenibilità del sistema sanitario e di welfare nel suo complesso, contestualmente all’aumento dell’età della popolazione e dei problemi di salute cronici e invalidanti (GIMBE 2019, CGIL 2022, Gori 2022). Accanto a queste trasformazioni demografiche ed epidemiologiche, si fa anche sempre più pressante la denuncia delle diseguaglianze sociali e del loro impatto sulla distribuzione di salute e benessere (Fondazione con il Sud, Forum Diseguaglianze e diversità 2020, OXFAM). L'azione del welfare è stata da più parti indicata come inefficace per contrastare tali disuguaglianze e talvolta alcuni dei suoi dispositivi sembrano anzi tendere a riprodurle (CSI 2022, LABOSS 2023). Rispetto alle politiche scolastiche, le ricerche hanno messo in evidenza l'incapacità del sistema pubblico di istruzione di funzionare come perequativo rispetto alle disuguaglianze sociali (Schianchi 2021). Inoltre, la moltiplicazione di bisogni e funzioni (di cura, integrazione, rilevazione di bisogni “speciali”) addensatisi sul sistema scolastico, confrontata con l'arretratezza dei modelli di inclusione e la frammentarietà del concreto lavoro di rete tra servizi sociali, sanitari, scolastici ed educativi (Murdaca, A. M., Dainese, R., & Maggiolini, S. 2021) ha determinato una “crisi di mandato” (Gaspari, P., Ianes, D., Dell’Anna, S., Bocci, F., Serenella, B., & Stefania, P. 2022), i cui segni più evidenti sono emersi nel ventennale dibattito sull'identità professionale dell'insegnante di sostegno (Canevaro, A., & Ianes, D. 2023), dalle prese di posizione delle associazioni a difesa dei diritti delle persone disabili (Fish, 2023) e dalla crisi epistemologica del lavoro educativo impegnato nel settore (Disability studies, Shember 2020). Particolare intensità ha assunto questa crisi nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, a partire dalle “grandi dimissioni” (Coin, 2022) del personale che opera nella sanità pubblica, particolarmente evidente nell’assenza di personale medico nei Pronto Soccorso, nella frammentarietà della rete delle Cure Primarie, fino ai fenomeni spesso lamentati di assenza di risposte al disagio psicologico giovanile o al burden di chi svolge la funzione di caregiver di persone disabili.

In modi parzialmente sovrapponibili, tale crisi emerge da alcune iniziative politiche (si veda per esempio la Proposta di legge per l’internalizzazione degli assistenti all’autonomia e comunicazione nell’organico del ministero dell’istruzione, depositata in Parlamento durante la passata legislatura), sindacali (guardiamo alle tensioni che in questi mesi stanno attraversando il mondo sanitario e sociale) e delle organizzazioni di settore (gli Ordini Professionali). La focalizzazione che maggiormente caratterizza la “presa di parola” da parte di questi soggetti riguarda le condizioni di lavoro, il riconoscimento di ruolo e professionalità, le condizioni istituzionali di svolgimento del lavoro (come le possibilità di libera professione, i regimi di convenzione, l’inquadramento pubblico o privato in appalto, le garanzie relative alla sicurezza alle carriere, ecc.).

Complessivamente gli ultimi anni hanno mostrato che i percorsi di mobilitazione e produzione discorsiva emersi dal mondo del lavoro sociale non hanno saputo cogliere le cause strutturali delle crisi che via via si presentavano, ma hanno piuttosto contribuito a frammentare la geografia delle crisi stesse, non senza favorire ulteriori processi di depauperazione del mondo del lavoro e di approfondimento delle gerarchie sulle catene internazionali di divisione (e sfruttamento) del lavoro in campo assistenziale[3]. Si pensi per esempio al percorso di lobbying e mobilitazione esitato nell’approvazione della legge cosiddetta “legge Iori”, che, definendo in modo formalizzato la professione educativa, ha comunque lasciato aperta la strada alla presenza di lavoratori e lavoratrici non professionalizzati/e in ampi spazi di welfare come l’accoglienza alle persone migranti, oppure ha generato meccanismi paradossali di revisione “al ribasso” dei servizi da parte degli enti locali. L'indisponibilità di risorse umane formalmente professionalizzate ha persino portato alcuni comuni a parlare di “insostenibilità dell’Assistenza Educativa Scolastica” (ANCI Lombardia, marzo 2023) e il Comune di Milano, dando seguito a una possibilità aperta dalla Giunta Regionale, ha riconfigurato alcuni suoi servizi in deroga alla Legge Iori, accettando per lo svolgimento del lavoro educativo anche persone senza la nuova qualifica professionale richiesta dal 2018.

Alcune mobilitazioni del sindacalismo di base

L’attuale percorso relativo al rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale per le Cooperative Sociali (che vede in competizione varie piattaforme sindacali, di base e confederali) interviene in un periodo costellato da eventi traumatici per il lavoro sociale: alcune lotte nate in seno alle cooperative sociali hanno investito anche le pubbliche amministrazioni appaltanti (per esempio a Perugia e nella Provincia di Bologna per il servizio educativo a scuola, a Roma per il servizio educativo per l’autonomia e la comunicazione, nel Comune di Bologna nel settore degli asili nido e dei centri estivi). Le criticità evidenziate hanno riguardato spesso i “salari insufficienti” e gli “appalti al massimo ribasso”, la cui problematica è stata riconosciuta anche da vari settori del mondo cooperativo[4] che, in accordo con le maggiori sigle sindacali hanno posto il tema in occasione dell'approvazione del nuovo Codice degli Appalti.

All’interno della complessiva frammentazione e debolezza sono emerse alcune mobilitazioni in cui la questione delle condizioni di lavoro si è immediatamente declinata come richiesta di internalizzazione di servizi agli enti locali o alle istituzioni statali. Questo è accaduto a Roma nel 2020 con la delibera per l’internalizzazione degli Operatori educativi per l’autonomia in Consiglio comunale[5], ma anche in questi mesi con il già disegno di legge 236/2022, in attesa di essere discusso dalle commissioni parlamentari di competenza, che mira all’internalizzazione delle figure degli Assistenti all’Autonomia e Comunicazione (ASACOM)[6].

La mobilitazione Bolognese di ADL Cobas svoltasi nel 2022, pur non prendendo esplicitamente partito per l’internalizzazione dei servizi, ha sollevato la questione di una più stringente regolazione dei rapporti tra pubblico e privato proponendo l’adozione di una “Carta dei valori” per controllare le modalità di appalto degli stessi (Carta dei diritti del lavoro sociale, Bologna[7]). In direzione simile è andata la mobilitazione sindacale delle operatrici e degli operatori a Casalecchio di Reno (BO) nello stesso anno, in cui il tentativo di mettere in discussione le modalità di definizione dell’appalto educativo, se non ha prodotto particolari esiti in termini di mobilitazione settoriale, ha aperto ad una costruzione di alleanze sociali più ampie che hanno coinvolto nella mobilitazione cittadine e cittadini utenti e famiglie beneficiarie degli interventi. Altre esperienze di mobilitazione hanno congiunto all’azione sindacale esperimenti di autogestione e di attività di animazione culturale (è il caso del Collettivo CREPA[8], in cui la politicità della pratica educativa viene ricondotta non solo alla questione delle condizioni di lavoro di chi educa ma anche all’ambito del “diritto alla città” come spazio complessivamente pedagogico).

Il tema dell’alleanza tra chi lavora nel welfare e l’utenza risulta essere uno dei punti più controversi delle mobilitazioni del sindacalismo di base: se infatti in alcuni casi si sono cercate interazioni durante le mobilitazioni, le piattaforme rivendicative tendono ad attestarsi su una posizione difensiva rispetto alle possibilità “collaborative” insite in questo rapporto. Le criticità emergenti dalle mobilitazioni sindacali riguardano spesso anche l’inquadramento delle funzioni educative all’interno del quadro definito dalla L. 328/2000 e il ruolo di famiglie e destinatari dei servizi come soggetti contrattuali con potere decisionale; in alcuni casi dispositivi potenzialmente progressisti ed emancipatori come la partecipazione, la cogestione e la coprogettazione sono stati denunciati come strumenti di ulteriore frammentazione dei gruppi di lavoratrici e lavoratori e di riduzione del loro potere contrattuale. In questo senso, alcune posizioni del sindacalismo di base sembrano confermare i rischi, già ampiamente argomentati in letteratura, che la contrattualizzazione delle politiche sociali risultasse principalmente in una forma di voucherizzazione dei servizi, innervata di privatismo e foriera di profonde dinamiche di disintermediazione del rapporto tra utenza e chi lavora nel welfare, piuttosto che nell’apertura di percorsi emancipatori per chi usufruisce dei servizi stessi (Monteleone 2007).

È possibile dire che, se da una parte è grave e importante il tema sollevato dai sindacati (cioè l’insostenibilità di un contratto nazionale scaduto da tre anni, con istituti penalizzanti quali le notti passive, la maternità pagata all’80%, la banca-ore non regolata a livello nazionale e una retribuzione troppo bassa per l’inflazione esistente), questo nuovo round di crisi del welfare mix dà anche plastica dimostrazione di una più generale difficoltà a formulare una visione complessiva del mandato e dei rapporti tra gli attori in gioco, delle modalità attraverso cui si sostanziano i diritti persone “fragili” e delle condizioni istituzionali della loro esigibilità.

Proposte di legge corporative

Recentemente ha preso avvio la mobilitazione organizzata dal MISAAC (Movimento Nazionale per l’Internalizzazione degli assistenti all’autonomia e comunicazione) a sostegno del Disegno di Legge 236 del 2022 sull'internalizzazione della funzione di assistenza, di cui si è avviato il percorso di discussione parlamentare. La proposta, che già dal nome ha suscitato perplessità in quanto richiama ad una “funzione” che a livello regionale si è declinata in una molteplicità di profili professionali, ha attratto consenso proprio puntando sull’obiettivo di ottenere, attraverso l’internalizzazione del servizio e la sua restituzione in capo all’organizzazione scolastica, omogeneità professionale e certezza dell’esigibilità del diritto all’assistenza. La sottrazione dell’assistenza al welfare locale, se da una parte apre l’incognita della preparazione dell’istituzione scolastica a svolgere ruoli di assistenza in modo capillare ed esigibile da parte dei cittadini, segna un arresto nella riflessione politica sulla capacità di integrazione del welfare locale e propone un soluzionismo astratto rispetto alla complessità delle disparità territoriali. Tale questione è infatti emersa in modo preponderante nella rilevazione della povertà educativa (Babusci, 2020) e in relazione alla scuola come ambito in cui si esprime la segregazione territoriale delle disuguaglianze (Ranci, 2019).

Nella stessa direzione sembra andare la proposta di legge n. 3197, presentata alla Camera dei deputati il 6 luglio 2021, a firma della On. Varchi e altri, che istituisce l’ordine nazionale delle professioni pedagogiche ed educative[9]. L’effettivo riconoscimento della figura professionale viene ricondotto alla definizione della figura professionale del pedagogista e dell’educatore socio-pedagogico, con relativo albo professionale delle professioni pedagogiche ed educative. La proposta della costituzione di un Ordine nazionale nasce in risposta ai “bisogni educativi e formativi avvertiti nella nostra società, determinati, tra gli altri, dalla sempre più crescente complessità delle relazioni educative, nonché l’importanza della prevenzione delle varie manifestazioni di disagio, anche scolastico, di abbandono e di violenza, in tutte le sue forme, indicano la necessità di favorire il pieno sviluppo delle potenzialità degli studenti attraverso il sostegno delle capacità educative dei genitori e degli insegnanti”, e implica un “ampliamento delle funzioni sociali e dell’assunzione di nuovi ruoli da parte dei servizi socio-educativi” (Proposta di legge VARCHI ed altri: “Disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e istituzione del relativo albo professionale” (3197)). Questa tendenza riproduce quanto avvenuto sul piano sindacale, esasperando l’assenza di una riflessione più ampia sulle relazioni tra problemi contrattuali delle figure professionali e prassi emancipatorie, alleanze con l'utenza, messa in discussione del mandato di assistenza in termini di inclusione, autonomia, emancipazione. Del resto, l'aggregazione di consenso intorno a questo tipo di proposte giunge a coronamento di anni di mobilitazione del lavoro sociale caratterizzate da frammentazione in percorsi politici e ipotesi di rivendicazioni disconnesse, puntuali e corporative.

Complessivamente sembra che, sollecitato anche dalla crisi pandemica, l’intero settore della cura abbia mostrato l’insostenibilità della sua complessiva configurazione. Se infatti da una parte la crisi si manifesta come indisponibilità di professioniste e professionisti e carenza di competenze, le varie ipotesi di “presa di parola” che abbiamo fin qui passato in rassegna sono profondamente segnate da una crisi di visione strategica, di riflessione critica e autocritica sul mandato, di legittimazione culturale, di cui è sintomo l’inadeguatezza di mobilitazioni sindacali che si assestano solo sulla trincea difensiva delle condizioni di lavoro e di processi politici che danno a queste domande una risposta immediatamente corporativa e semplificatoria.

La produzione di saperi esperti

Il campo del welfare è oggetto di forte interesse da parte di attività di ricerca e produzione teorica, siano esse di matrice universitaria o legate al variegato mondo degli enti di ricerca legati alle organizzazioni di categoria e alle Fondazioni di origine bancaria e del Terzo Settore (Caselli, Arrigoni 2022). Per larga parte si tratta di una attività volta a costruire cornici teoriche orientate ad accompagnare le evoluzioni della particolare forma italiana di welfare mix.

Il principale spartiacque nella storia del welfare mix italiano può essere individuato nella crisi economica del 2008, quando cioè l'impianto delle forme di sussidiarietà e concorrenza regolata (“quasi mercato”) affermatesi nel quadro L.328/2000 sono andate incontro a una serie di pressioni economiche che, se da una parte hanno implicato crescenti spinte alla esternalizzazione sul mercato privato (Fazzi 2022, Busso, Dagnes 2020) e la diminuzione del peso relativo dei servizi non solo direttamente gestiti ma anche economicamente sostenuti dalle istituzioni pubbliche (Dorigatti, Mori, Neri, 2020), dall’altra hanno avuto effetti rilevanti sulla dimensione “soggettiva” di quelli che erano stati identificati come “enti erogatori”. Si è cioè verificato un crescente protagonismo “autonomo” del terzo settore e del mondo delle fondazioni bancarie come policy makers e come investitori nel settore del “mercato sociale” (Busso, Dagnes 2020) coincidente con una crescente rivendicazione di peculiarità da parte delle fondazioni come soggetti in grado di realizzare un miglior sistema di welfare, in termini di verifica di efficacia, equità e generatività; tali tendenze sono state in parte formalizzate attraverso la cosiddetta riforma del Terzo Settore, in cui alcuni significanti vettori di questa nuova centralità sono assurti a concetti orientativi delle politiche pubbliche nel loro complesso.

Nuove produzioni teoriche che opacizzano la miseria dei servizi

Sul versante del lavoro sociale questa tendenza ha dato luogo ad analisi focalizzate su possibili evoluzioni delle pratiche professionali che fossero compatibili con questa riconfigurazione istituzionale, sia nei termini di una maggiore razionalizzazione delle risorse sia in quelli di un auspicato aumento della loro generatività: dai miglioramenti organizzativi possibili in una dimensione di integrazione (non solo sociosanitaria, ma anche “dei territori”, con un occhio privilegiato per gli elementi di imprenditoria, in una proliferazione dei possibili campi di applicazione del rinnovato concetto di “impresa sociale” emerso in questo passaggio storico. Tale riconfigurazione è spesso avvenuta orientando lo sguardo su pratiche “comunitarie”, in cui la comunità veniva sia tematizzata come oggetto di lavoro sia considerata come origine “non statale” delle fonti di finanziamento dei servizi. Una notevole letteratura ha posto attenzione al rapporto tra le dimensioni soggettive delle lavoratrici e dei lavoratori (vocazionali, formative, etiche) e le innovative configurazioni di interventi territoriali che appariva possibile sviluppare fuori dalla logica del servizio pubblico[10]. In questo senso è utile notare come una specifica corrente progressista del terzo settore risulta negli ultimi tempi impegnata nella produzione di un discorso fortemente orientato a recuperare un alto livello valoriale presentandosi come vettore di sviluppo locale nei territori marginali, nelle periferie, negli agglomerati urbani del Sud o delle aree interne; sulla base di questa soggettività vediamo riconfigurarsi discorsi specificatamente “progressisti” che, sulla base delle riformulazioni etiche del ruolo sociale del lavoro sociale prima citato, si candidano a rappresentare una ripolarizzazione “politica” di quella che Franco Rotelli ha proposto di rinominare come “intrapresa sociale”, esplicitamente votata a svolgere pratiche emancipatorie e di contrasto alle disuguaglianze. Ad oggi non è ancora chiaro quanto questa “ripoliticizzazione” (Borghi 2014) saprà interagire con le questioni sollevate nel primo paragrafo, relative alle condizioni materiali del lavoro sociale, e se sarà in grado di accumulare un tale potere contrattuale da presentarsi come soggettività forte nella sfera pubblica e nella determinazione istituzionale delle policies.

Ad oggi la linea teorica che ha maggiormente interpretato la trasformazione “generativa” del welfare si è caratterizzata per una forte enfasi sulle dimensioni di nuova “professionalizzazione” in essa contenute. Con il superamento del welfare redistributivo l’azione di operatrici e operatori sociali si stacca dallo specifico delle attività di assistenza e si autorappresenta come proiettata verso un intervento ad ampio raggio sul “legame sociale” nel suo complesso; in questa temperie vengono recuperati e rimessi in circolo i contenuti storicamente legati all’emergere del lavoro sociale nell’alveo dei processi di deistituzionalizzazione, di contrasto alle forme di esclusione e di segregazione. Tuttavia questo recupero sembra oggi avvenire senza l’attenzione che sarebbe invece auspicabile rispetto alle dimensioni più politiche, relative alla giustizia sociale, di cui le originarie formulazioni di questi temi erano innervate: ne risultano posizionamenti spesso depurati dall’orientamento alla “riqualificazione del settore pubblico” (De Leonardis, Mauri, Rotelli, 1994) che le precedenti formulazioni di questi temi contenevano, soprattutto nei decenni immediatamente successivi alle grandi riforme di fine anni Settanta. In questo senso l’aspetto più problematico resta la già citata assenza, in questa linea di riflessione, del riferimento alle condizioni di vita di lavoratrici e lavoratori (se non nel quadro di un problema identitario e di rappresentazione sociale - declinato soprattutto in termini di possibilità di carriera individuale).

Le dimensioni materiali e istituzionali nel quale si colloca il problema delle tutele del lavoro, dei suoi inquadramenti contrattuali, delle condizioni di rischio per la salute (De Angelis, Di Nunzio 2021, Caselli 2022) sembrano così irrelate rispetto alla produzione di riflessioni innovative nella pratica del lavoro sociale, nonostante alcuni segmenti abbiano riconosciuto la necessità di approfondire le traiettorie di impoverimento e precarizzazione data l’impossibilità da parte delle amministrazioni di dare risposte a bisogni sociali crescenti (Pavolini, Sabatinelli, Vesan 2021); è anche riconosciuto come “il numero e la natura degli attori coinvolti nell’arena delle relazioni di impiego e ai tavoli di negoziazione nel comparto è radicalmente mutata, con complesse ricadute sull’architettura della contrattazione collettiva e sulla rappresentanza degli interessi” (Pavolini, Sabatinelli, Vesan 2021). Alcuni settori presentano specifiche distorsioni e arretratezze; ne sono un esempio la “valorizzazione (mancata) delle risorse umane nel Servizio sanitario nazionale” (Vicarelli 2020) e “situazioni particolarmente critiche per i lavoratori coinvolti in questo settore, in termini di precarizzazione contrattuale, part-time involontario, bassi salari. Tratti la cui diffusione tende vieppiù ad accrescersi in quei segmenti dei servizi della cura, in primis servizi domiciliari, nidi, attività alle dirette dipendenze delle famiglie, in cui il grado di istituzionalizzazione e regolazione è più debole, così come è molto rilevante il ruolo del mercato privato” e dove dunque le “ripercussioni sui beneficiari di un peggioramento relativo delle condizioni di lavoro possono risultare talvolta assai problematiche” (Marco Arlotti, Andrea Parma, Costanzo Ranci e Stefania Sabatinelli 2020).

Risulta evidente che alcuni processi che stanno impattando sulle politiche sanitarie e sociosanitarie e in generale sui sistemi di protezione sociale stanno portando la sociologia con una impostazione maggiormente “pubblica” a notare come “le politiche di welfare rischiano di rivelarsi regressive sia negli approcci e nelle prestazioni offerte che nelle competenze tecnico-professionali cui fare ricorso”; di conseguenza si rimarca spesso la necessità di un cambiamento nei paradigmi concettuali, nelle gerarchie dei bisogni, nella considerazione della soggettività della popolazione che usa i servizi (Genova e Moretti 2023).

La trappola della sostenibilità

Uno degli aspetti più controversi presenti nella produzione dei centri di ricerca che si sono occupati negli ultimi anni di “nuovo welfare” riguarda le forme di sostenibilità economica del sistema di interventi e protezioni sociali e le relazioni di dipendenza strutturale che esse intrattengono nel quadro del più ampio equilibrio delle politiche pubbliche. Il problema delle fonti di finanziamento del welfare italiano, emerso con gravità crescente nell’ultimo quindicennio, ma già presente alla luce delle trasformazioni sociali maturate negli anni Novanta, va ad impiantarsi sugli elementi sistemici di fragilità derivanti dalla coesistenza di familismo e universalismo imperfetto che caratterizza il nostro modello nazionale e approfondisce le lacune derivanti dal mancato compimento delle riforme maturate alla fine degli anni Settanta. Il sistema di protezione sociale, di fronte alle sfide del sottofinanziamento pubblico e alla progressiva destrutturazione del patto solidaristico tra classi sociali e generazioni (evidente nelle trasformazioni delle politiche fiscali e del peso relativo crescente dei trasferimenti monetari), non è stato in grado di formulare un sistema aperto di servizi alle comunità che potesse contrastare efficacemente le nuove forme di “disaffiliazione sociale” (Castel 2019). Con l’emergere della disoccupazione strutturale tipica dei sistemi produttivi post-fordisti e la contemporanea evoluzione dei modelli familiari, si sono andate affermando nuove fasce di esclusione e sono aumentate le disuguaglianze sistemiche ai danni di specifici territori e gruppi sociali, meno attrattivi per l’investimento di capitali.

In questo quadro, Fondazioni e Centri di Ricerca in vari modi ad esse connessi hanno tematizzato un “nuovo welfare” nel quale si son messe a sistema le innovazioni introdotte a partire dagli anni Novanta, dal crescente protagonismo del non profit, della cooperazione sociale, delle fondazioni stesse, istituzionalizzandone la strutturale indipendenza da un cospicuo finanziamento pubblico rivolto in ultima istanza a contrastare le disuguaglianze e compatibile con le nuove dimensioni di ineguaglianza sistemica tra territori e gruppi sociali collocati lungo diverse linee di demarcazione. Tale produzione scientifica si è quindi concentrata sulla varie declinazioni di questo nuovo welfare, sviluppando successive ipotesi di integrazione del privato, in una prima fase valorizzando la capacità allocativa del libero mercato (anni Novanta) poi sostenendo l’ampliamento della responsabilità pubblica pure in un contesto multi stakeholders (primi Duemila), poi disancorandosi da un approccio universalistico rivolto alla protezione dai rischi e proiettandosi verso il nuovo principio regolatore della produzione di opportunità. In questo ventennio di elaborazioni si sono contestualmente approfonditi modelli di intervento che superassero la distinzione delle categorie istituzionalmente definite di beneficiari; allo stesso modo si è promossa una riformulazione degli ambiti e degli oggetti di azione che modificasse l’ampiezza dei luoghi di intervento (ne è un significativo esempio il passaggio dalle politiche orientate a specifici gruppi di “people” all’orientamento verso un più stratificato e impersonale “place”. Non è certo un caso che andavano di pari passo modificandosi le forme di finanziamento previste, verso la modalità di funzionamento che è stata definita di “welfare comunitario”, possibile laddove si formalizzava l’affiancamento di forme di mutualismo assicurativo o di libero mercato al pilastro di finanziamento pubblico (Maino, Ferrera 2019). In altri termini, superata la centralità del finanziamento pubblico e il richiamo diretto a un mandato complessivo di riduzione delle disuguaglianze, le forme di welfare generativo si articolano come vettori di promozione della generatività dei territori, facendo leva su un’epistemologia in cui capitale sociale e vivacità economica del territorio costituiscono allo stesso tempo risorse strategiche e obiettivi delle pratiche di “inclusione”. Le ambiguità epistemologiche (Acanfora 2021) e il portato di invisibilizzazione di forme materiali di oppressione sistemica (Ghainsfort 2023) implicate dalle pratiche di inclusione, unite alla profonda divaricazione tra formulazioni discorsive e pratiche che in esse si presenta (Ferri, Monceri, Goodley, Titchkosky, Vadalà, Valtellina, Migliarini, D'Alessio, Bocci, Marra, Medeghini 2018) non possono essere trattate nello spazio di questa riflessione, si può tuttavia qui dire che le attuali strutture di produzione di saperi non hanno ancora efficacemente dato forma a spazi di ricerca (partecipativa, emancipatoria, attenti alla riduzione del power imbalance e lontani dall’estrattivismo) capaci di tenere sotto controllo le perplessità che questi rischi suscitano.

In definitiva le attuali tendenze del “welfare comunitario”, “societario” o “secondo welfare”, sulla base della nuova articolazione di asset economici e configurazione istituzionale del variegato mondo degli stakeholders, vivono grazie a flussi di capitale sempre meno governabili da un potere centrale, ma che sono piuttosto oggetto di costanti contrattazioni locali rivolte alternativamente alla loro armonizzazione o alla lora attrazione. Questo produce due ordini di conseguenze:

  • nuove forme di mediazione politica, che però hanno sempre meno a che fare con arene pubbliche deliberative, di cui si va sempre più limitando l’approfondimento qualitativo e l'ampiezza quantitativa delle questioni che vi sono poste come oggetto. La mediazione politica riguarda piuttosto la cura di reti grazie alle quali esistono e sono capaci di incidere efficacemente sulla governance gruppi compositi di potere economico e articolazioni amministrative, locali e globali, nella consapevolezza che le regole secondo cui un territorio possa attrarre flussi globali non sono contrattabili a livello locale ma la responsabilità della attrattività stessa è quasi completamente demandata al livello locale;
  • i rischi di “dualizzazione” (Rizza, Scarano 2020), vale a dire quel processo per cui una medesima politica si implementa in modi differenti a seconda delle disparità di condizione di partenza e di potere contrattuale di diversi gruppi di popolazione differente.

La governance attuale, con il complesso rapporto che istituisce tra politiche, mercato, consulenza, ricerca e forme tendenzialmente sempre più opache di “opinion building” apre una necessaria interrogazione sulla complessiva “crisi dello spazio rappresentativo” che caratterizza le “postdemocrazie neoliberali”. In conseguenza dell’erosione delle infrastrutture istituzionali della democrazia tradizionale, il Terzo Settore, tentando di ricostituirsi come soggettività “politica”, occupa i canali di intermediazione in forme spesso inedite (si pensi al ruolo delle Associazioni e dell’Università nella costruzione della Riforma della Non Autosufficienza, come vedremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo dedicato ai rischi di privatismo nell’azione pubblica); non siamo ancora in grado di dire oggi se questo processo apra ad una ricostruzione dello spazio della mediazione intesa come processo pubblico o se questa nuova definizione di quasi-corpi-intermedi assecondi ed amplifichi i principi della antipolitica neoliberale stessa. (Vittoria 2022).

Pubblico e privato tra imprenditoria, “valore sociale” e finanza

Ugo Ascoli (2020) ha chiarito che la tendenza degli ultimi anni, di “istituzionalizzazione del terzo settore” come esito dell'evoluzione del welfare mix non è stata messa in discussione dal momento pandemico, nonostante l’emergere delle falle gravi del sistema dei servizi e della debolezza dello stesso terzo settore nei settori in cui il settore pubblico ha abdicato allo svolgimento di un ruolo-guida. Agli anni caratterizzati dalle “scelte di retrenchment” e da una limitata “‘ricalibratura’ della spesa e dei servizi di welfare”, nonostante l’impianto fortemente regolatorio della legge 328/2000, negli ultimi vent’anni lo squilibrio tra pubblico e privato nel welfare ha originato una situazione di inadeguatezza complessiva a garantire risposte ai bisogni sociali, i cui esiti sono le forme ben note della “rivincita del mercato” e della “crisi dell’universalismo”, soppiantato da un modello individualistico-consumista, rispetto al quale il terzo settore ha forti spinte ad adattarsi. Una sorta di path dependency per cui la subalternità tra pubblico e privato sociale dà luogo ad una rinnovata ricerca di nuove vie di sostenibilità che arrivino ad informare la struttura dell’azione pubblica stessa.

L’emergere di nuove articolazioni tra pubblico e privato

La formulazione di un problema di “insostenibilità” delle politiche pubbliche si pone come abbiamo visto nell’alveo della condiscendenza con le strategie di definanziamento del welfare statale, si connette al ritrarsi di politiche fiscali progressive e giustifica l’arretramento dell’esigibilità dei diritti all’assistenza e alla salute (Gimbe 2019). Il dibattito scientifico sul welfare propone “vie d’uscita” dalla crisi che si articolano attraverso la diversa combinazione di una serie costante di elementi:

  • l’imprenditorializzazione variamente intesa, spesso declinata attraverso la “generazione di valore sociale” e i conseguenti percorsi di “valutazione di impatto sociale”, in cui si afferma una epistemologia ibrida con quella delle misurazioni di mercato (“l’integrazione tra le imprese dell’economia sociale con il mercato in senso proprio, per mezzo di aggregazioni che ne aumentino la massa critica e la competitività”, Pirani, Zandonai 2017);
  • l’emancipazione dall’assistenzialismo, intesa sia come ingiunzione alle persone assistite a rientrare nei cicli produttivi, sia come allargamento delle popolazioni target finalizzato ad intercettare i bisogni specifici delle popolazioni “produttive”;
  • l’affermarsi della preoccupazione preminente per l’equità, che diviene - anche in riferimento all’emersione di problematiche demografiche, all’allarme per i “capitali immobilizzati” costituiti dal risparmio di (alcune) famiglie - lo strumento retorico attraverso cui si punta a nuove configurazioni degli steccati tra “sanitario”, “sociosanitario”, “sociale” e “comunità”.

Attorno ai nuovi saperi così costituiti si consolidano aggregazioni in cui, oltre a forti player del privato, delle assicurazioni e delle università, convergono l’associazionismo di utenti, operatori e familiari, segmenti di amministrazioni pubbliche, sindacati, gruppi di professionisti e correnti di forze politiche. Alcune proposte innovative maturate nell’ambito dei decenni più pioneristici e militanti del volontariato e della cooperazione sociale hanno trovato esiti di policy making negli anni più recenti grazie ad alleanze così composte. Un esempio significativo di come queste aggregazioni rimodulino e disarticolino i tradizionali steccati politici è offerto dalla Campagna “Prima la Comunità” la quale, innervata dalle esperienze di prossimità e cura rivolte alle persone marginali dal volontariato cattolico, in continuità con i principi della deistituzionalizzazione psichiatrica e a difesa dei valori fondanti del servizio pubblico nazionale, ha trovato una importante sponda governativa nella formulazione legislativa delle “Case di Comunità”, dopo aver aggregato attorno a sé una costellazione ampia di soggetti, tra cui anche gli storici promotori dei percorsi di aziendalizzazione della sanità come il CERGAS Bocconi.

A dimostrazione delle contraddittorie potenzialità aperte dal PNRR rispetto alle mobilitazioni per la sanità pubblica comparse durante la sindemia (Vallerani 2022), questo tipo di aggregazioni da una parte mettono a valore le forme di cooperazione e di attivismo locale che negli scorsi decenni hanno sperimentato alternative solidaristiche agli approcci più assistenzialistici, residualisti e segregativi[11] del welfare statale, dall’altra risemantizzano i contenuti della razionalizzazione aziendalistica che ha dominato il dibattito sulla riforma dei sistemi di protezione sociale pubblici negli anni Novanta, rendendone più ampi e più opachi i confini e offrendosi come contesti di attivismo anche per “movimenti dal basso” nati per compensare a livello locale le lacune delle politiche pubbliche.

Il welfare dell’investimento sociale, proponendosi come dispositivo capace di traghettare oltre le secche del mix promosso dalla Legge 328/2000, si realizza dunque come una forma di state-making, come ha mostrato la sua parziale formalizzazione nella Riforma del Terzo settore del 2016 e nel successivo Codice del Terzo settore del 2017. Se le fonti primarie di diritto mantengono centrale la funzione redistributiva, i dispositivi legislativi che declinano le forme innovative di welfare comunitario insistono su ambigui concetti-ombrello e quasi-concetti come impatto sociale (Oosterlynk 2019, Saruis, Colombo, Barberis, Kazepov 2019) che, mentre contribuiscono ad opacizzare le pratiche, assumono come posta in gioco la riformulazione di palinsesti di servizi e delle loro articolazioni istituzionali (Pizzo, 2022). Emergono, di conseguenza, specifiche arene che riorientano il policy making sfumando i confini tra pubblico e privato, nell’ottica del new public management.

In un contesto, caratterizzato da una grave opacità nella misurazione degli esiti delle politiche di welfare, risulta particolarmente attraente l’obiettivo di “sviluppare una metrica coerente di definizione degli obiettivi di misurazione dell’implementazione” (Longo, Maino, 2022) nel quadro di richiami valoriali come quelli forniti dal “community building” (Manzini 2021, Longo 2021). Tuttavia, quando questo processo tende a produrre politiche pubbliche resta del tutto insondato il vincolo epistemologico e amministrativo in virtù del quale l’investimento pubblico riesce ad affermarsi solo in quanto leva di creazione di profitto per l’investimento privato. Nelle politiche urbane un processo di questo tipo ha accompagnato lo sviluppo di azione pubblica finalizzata al social housing, contestualmente alla dismissione di politiche rivolte alla tutela del diritto all’abitare (Bricocoli, Cucca 2016). Possiamo vedere in questo caso come un sapere immesso nel dibattito pubblico da aggregazioni di ricerca pubbliche e pubblico-private abbia accompagnato e promosso la subordinazione delle politiche abitative ai processi di valorizzazione immobiliare, esitando in processi di gentrificazione e di espulsione delle popolazioni povere dai quartieri delle città “rigenerate” (Tozzi, Caselli 2023). Interessante notare come le retoriche pubbliche e i saperi esperti sul social housing si siano affermati anche come portatori di opportunità innovative ed emancipatorie a vantaggio di popolazioni strutturalmente marginalizzate dalle risposte statali, attivando attorno ad esse reti di lavoro sociale sperimentale orientato alla bassissima soglia, alla prossimità e all’autogestione. Tuttavia, se misuriamo queste politiche sul metro della riduzione sistematica delle disuguaglianze o dell’impatto sui determinanti sociali di salute e benessere, risulta impossibile guardare alla reale dimensione sistemica di tali interventi, spesso confinati nell’ambito delle cosiddette “buone pratiche” e aliena a qualsiasi ipotesi di sistematizzazione.

Politiche collaborative come forme innovative di state-making

Con la riforma della non autosufficienza, tradottasi alla fine del 2022 nell’ultimo DDL del Governo Draghi, si può notare un ulteriore passo avanti in questo processo: a fronte dell’auspicio di Cristiano Gori[12], secondo cui tra gli obiettivi della riforma c’è “una domiciliarità pensata per la non autosufficienza, che dura per tutto il tempo necessario, non monoprestazionale ma con una dimensione di assistenza complessiva”, la questione dell’assenza di politiche abitative strutturali per le popolazioni fragili - che è ampiamente riconosciuta come il primo motore di impropria istituzionalizzazione - viene sfumata attraverso un generico ampliamento della tipologia di intervento “social housing” attribuita strutture che possono ospitare insieme anziani non autosufficienti e giovani “disagiati” in un contesto definito di “domiciliarità”. Poiché la ricerca ha già messo in luce come l’ambigua categoria di social housing, implementata nel contesto italiano, non riesca di per sé a garantire esiti redistributivi nelle politiche abitative (Bifulco, De Leonardis, Borghi, Vitale 2006, Vitale 2009) è da segnalare con grandi perplessità che il testo della legge citi in modo vago la “promozione, anche attraverso meccanismi di rigenerazione urbana e riuso del patrimonio costruito, attuati sulla base di atti di pianificazione o programmazione regionale o comunale e di adeguata progettazione, di nuove forme di domiciliarità e di coabitazione solidale domiciliare per le persone anziane (senior cohousing) e di coabitazione intergenerazionale, in particolare con i giovani in condizioni svantaggiate (cohousing intergenerazionale), da realizzare, secondo criteri di mobilità e accessibilità sostenibili, nell’ambito di case, case-famiglia, gruppi famiglia, gruppi appartamento e condomini solidali, aperti ai familiari, ai volontari e ai prestatori esterni di servizi sanitari, sociali e sociosanitari integrativi”.

Nel momento in cui un lemma ambiguo e dalle incerte ricadute pratiche diviene pietra angolare di un testo di legge, diventa necessario approntare strumenti analitici capaci di individuarne gli effetti nel campo pratico e simbolico, adeguati a cogliere la densità normativa che da queste pratiche si generano. Sarà dunque necessario prestare particolare attenzione a coglierne 1) i possibili esiti “progressisti”, cioè se questa innovazione costituirà un vettore di superamento della compartimentazione tra interventi relativi a politiche abitative, sanitarie e sociosanitarie (è stato Fazzi 2021 a segnalare come tale compartimentazione, che i processi di coprogettazione sviluppati negli ultimi anni non sono riusciti a superare, è uno dei motivi della riproposizione di soluzioni istituzionalizzanti nelle politiche per gli anziani); 2) la distribuzione e la localizzazione di questi interventi: se cioè gli interventi innovativi di social housing e coabitazione previsti dalla legge interesseranno il patrimonio dell’Edilizia Residenziale Pubblica - oggi maggiore ambito di coltura delle richieste di istituzionalizzazione - oppure si svilupperà solo entro generiche soluzioni di mercato.

Auspicando che i decreti attuativi risolvano questa incertezza in una dimensione chiaramente pubblica, orientata alla riqualificazione del patrimonio di edilizia popolare e di chiarimento dei modi istituzionali attraverso cui sviluppare progettazioni che funzionino come alternative e preventive rispetto all’istituzionalizzazione, non possiamo per ora non notare che è difficile dire se l’attuale commistione di auspici e concetti ambigui basterà a realizzare politiche sociali universalistiche innovative o se non si risolverà piuttosto nella creazione di nuove mini strutture residuali e ulteriormente ghettizzanti da una parte e di profittevoli investimenti sulla “nuova domiciliarità” dall’altra, secondo il principio della inverse care law (Hart, 1971), come nella storia è già avvenuto con la residenzialità psichiatrica intermedia.

Complessivamente osserviamo che le soggettività che prendono parola nell’ambito dell’innovazione istituzionale del welfare, coagulando in sé spinte valoriali e pressioni materiali contrastanti - componibili spesso solo a livelli microlocali, in esperienze la cui “messa a terra” impone uno sguardo limitato sulla valutazione complessiva degli esiti quado non una impenetrabile cecità rispetto alla dimensione pubblica della propria azione - richiedano forme molto più esigenti e penetranti di ricerca “pubblica”. In questo senso vanno collocati anche i dubbi sulla governance delle innovative Case della Comunità come articolazioni territoriali fondamentali del SSN: se è vero che le politiche sanitarie italiane mostrano costantemente il rischio di “articolata disconnessione tra l’implementazione dei principi avanzati di una delle più avanzate riforme sanitarie in Europa e la pressione a restringere e ricalibrare l’area delle politiche sociali e sanitarie” (Giorgi 2022) le Case della Comunità rischiano di essere un vettore ambivalente di trasformazioni, delle quali è impossibile ad oggi prevedere se la loro incidenza andrà verso un ulteriore sviluppo della profittabilità privata del prestazionismo sanitario (Agnoletto 2020) o verso una rimodulazione collettiva dei significati sociali di salute e benessere (Maciocco, Brambilla 2022).

A rappresentare il più significativo esempio di ambivalenza nella nuova configurazione istituzionale del welfare innovativo stanno i concetti di coprogettazione e coprogrammazione, da intendersi come le più compiute formalizzazione del principio della partecipazione nella produzione di politiche pubbliche (contenute nella Riforma del Terzo Settore e recente confermate dalla Corte di Cassazione). Sugli esiti di questa formalizzazione esiste ancora una notevole incertezza (Euricse 2023); se infatti i principi di coprogettazione e coprogrammazione hanno permesso lo sviluppo di esperienze di maggiore vicinanza con i problemi sociali, di prossimità e capacità di intervento immediato sui bisogni (la cui polarità contraddittoria con la visione di lungo periodo è stata indagata da Arrigoni, Caselli 2022), capacità generativa - riconosciuta agli enti di terzo settore nel momento in cui si riconosce loro il ruolo di attori responsabile del policy making, “al pari dell’ente pubblico” (Santuari 2022) - non è ancora chiaro l'andamento a medio termine di questi processi sul piano dei diritti e delle condizioni di chi lavora nel welfare, della effettiva innovazione delle pratiche, degli esiti in termini di emancipazione delle popolazioni “fragili” e di redistribuzione della ricchezza sociale.

Il caso di Fondazione Innovazione Urbana a Bologna

L’esempio bolognese attraverso cui la rilevanza dei processi qui richiamati si mostra su tutto il novero delle politiche sociali è fornito dalle linee d’azione della Fondazione Innovazione Urbana (FIU). Si tratta di un Ente che, aggregando funzioni e produzioni discorsive del settore universitario, della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria, si pone come motore generativo di politiche pubbliche ad ampio raggio, intrecciando questioni abitative, urbanistiche, educative, sanitarie, di welfare comunitario, culturale e di animazione sociale. Lo sviluppo dell’azione di FIU nella governance locale costituisce negli ultimi anni un vettore di accentramento dei processi partecipativi e multistakeholders delle politiche pubbliche, dopo anni in cui la governance improntata ai principi di sussidiarietà aveva assunto tratti marcati di delega e deresponsabilizzazione dell’attore pubblico. Oggi invece il discorso di Fondazione Innovazione Urbana punta su concetti come “sussidiarietà circolare” ed “economia sociale” per indicare chiaramente un cambio di passo rispetto alle precedenti forme eccessive di delega all’iniziativa privata e alla società civile. Impossibile non notare infatti come i primi anni Duemila, coincidenti con il successo del concetto di “welfare mix”, abbiano visto, nelle politiche urbanistiche come nelle politiche sociali, svilupparsi nei servizi ampie forme di privatismo e nelle politiche della città una riduzione estrema delle possibilità programmatorie da parte della pubblica amministrazione. L’azione di FIU rappresenta invece una risposta a queste dinamiche, il tentativo di riarmonizzare le spinte della governance diffusa con una rilevante azione pubblica di regia e indirizzo. Tale risposta si concretizza principalmente attraverso due direttive: il peso politico degli interessi economici viene “internalizzato” in una sorta di spazio deliberativo ibrido che ne valorizza la specificità, ma ne riconduce anche parte dell’azione all’obiettivo di produrre politiche sociali “sostenibili”; i processi di “amministrazione condivisa”, legalmente formalizzati a livello locale, aprono spazi “privilegiati” al terzo settore e alla società civile in un trade off con il forte controllo politico sui contenuti dei processi partecipativi.

Di fronte a una azione di questo tipo la domanda dirimente che una sociologia pubblica dovrebbe porre riguarda il mobile e sfumato equilibrio tra la funzione pubblica delle politiche e il principio di suddivisione tra vantaggi ed esternalità di quella parte di sviluppo economico a trazione della rendita immobiliare. Lo spazio di agibilità in cui i decisori politici possono formulare orientamenti espliciti per l’azione pubblica abita una faglia mobile in cui le politiche urbane sono oggetto di una costante contrattazione tra le funzioni sociali-abitative e la profittabilità dell'investimento privato. Fino a che punto si può auspicare che l’arena di tale contrattazione sia pubblica? Può un organismo come FIU aspirare ad essere il dispositivo di “pubblicizzazione” e “ripoliticizzazione” di tale attività negoziale? In virtù dell’infrastruttura pubblica che la sorregge, si può pretendere che tale dimensione si ponga come variabile indipendente rispetto alle numerose variabili che ne informano l’azione?

Ad oggi l’attività di negoziazione si accompagna con la produzione di nozioni e flussi argomentativi che, mentre riarticolano i confini delle varie dimensioni del welfare locale, fanno perno su temi ambivalenti come quello della partecipazione, tema che potrebbe diventare il prossimo oggetto di contesa politica con la possibilità di una qualsivoglia “azione pubblica” come posta in gioco. È evidente che l’ancoraggio strutturale di questo discorso risieda nelle attuali fonti di finanziamento del welfare locale, di cui gli oneri di urbanizzazione sono tra le voci di entrata più cospicue; è anche evidente che la nebulosità di concetti-ombrello e quasi-concetti rischia di invisibilizzare strutturalmente il posizionamento dei locutori e i differenziali di potere tra di essi, producendo come esito non voluto quello di fare da terreno di coltura alle forme più reazionarie di antipolitica neoliberalista, in una drammatica eterogenesi dei fini.

Mutatis mutandis, siamo di fronte al rischio di irresponsabilità della politica che anni fa era stato indicato come fattore determinante delle possibili “trappole del welfare” (Ferrera 1999): aprire pubblicamente l’interrogazione sul rapporto tra la qualità dello sviluppo economico e il benessere sociale della collettività sarebbe una via per scongiurare questi rischi. Si tratterebbe di inventare nuove forme pubbliche attraverso cui una amministrazione locale può “governare” la relazione tra investimenti/profitti privati e la cura delle infrastrutture che consentono la riproduzione sociale: un compito forse titanico nella sua semplicità. Ad oggi il Comune di Bologna, attraverso la Fondazione Innovazione Urbana, ha creato un contenitore, uno spazio di governance che, trascendendo le compartimentazioni novecentesche, permette una dimensione di scambio tra vivacità degli investimenti immobiliari, legittimazione scientifica/accademica e politica locale. L’aumento e la velocizzazione di “leve d’azione” da parte della politica locale che la Fondazione Innovazione Urbana consente, insieme legittima, formalizza e amplifica questo processo. Se scegliessimo di restare all’interno di un quadro interpretativo novecentesco questa operazione si potrebbe leggere sia come “progressista”, in quanto amplia la capacità di azione pubblica sull'economia, sia come “reazionaria”, in quanto formalizza la destrutturazione dell’ambito pubblico potenziando la legittimità di policy making del privato. È tuttavia evidente che nessuna di queste letture può risultare esaustiva nelle attuali configurazioni della governance, rispetto alle quali sembra di non disporre ancora di un preciso sapere pubblico. Rispetto ai temi che segnalava Rizza 2009, sulla possibilità di legare in modo virtuoso democratizzazione, decentramento e sviluppo dei sistemi locali di welfare, la situazione di Fondazione Innovazione Urbana apre una serie di interrogativi nuovi e dalle ricadute ancora indecidibili: per esempio la valorizzazione delle mobilitazioni solidaristiche e mutualistiche concorre certo ad una ristrutturazione delle modalità di attivazione civica (Carlone 2023) e, nel garantire un ruolo di questi processi nella governance, implica lo sviluppo di “comunità competenti” (Caldarini 2008) di cui avvalersi nei processi partecipativi. Detto ciò, resta da capire in che modo questa valorizzazione incida sugli stili deliberativi (Pellizzoni 2008) e in che modo l'accesso a questi processi sia dipendente o possa al contrario modificare i cleavages di segmentazione sociale (Bergamaschi 2021) e le disuguaglianze esistenti. Se la forma di uno spazio deliberativo cambia le modalità di azione degli stakeholders del terzo settore, del mutualismo, delle reti civiche autorganizzate aumentando la componente “riflessiva” della loro azione (Vitale 2021) questo dovrebbe essere “osservabile” sulla base della qualità delle arene deliberative che si aprono nella città. Nel caso lombardo esaminato da Vitale, che qui usiamo come parziale strumento di paragone, “la presenza di un’arena deliberativa ha permesso (...) di ripensare agli interlocutori della propria azione”, in quanto in essa sono stati tematizzati “i problemi sociali e i problemi di governo delle politiche sociali (cosa viene governato? Cosa non viene governato e viene lasciato al solo scambio sociale/politico?)”. Come si vede, si tratta di domande politiche, rispetto a cui resta pressante l’interrogativo rispetto a chi, come e dove possa contribuire a costruire le risposte.

Quali spazi si aprono per un nuovo rapporto tra azione pubblica e partecipazione?

Non è chiaro né cosa c’è né cosa si candidi a sorgere sulle macerie del welfare redistributivo. Le azioni di creazione di comunità sviluppatesi a margine della destrutturazione dello Stato Sociale fordista sono oggi alla ricerca di rinnovata identità all’interno di un campo caratterizzato da spinte ambivalenti. Alcune ipotesi di riformulazione di tale identità oscillano oggi tra proposte di riappropriazione dello spazio pubblico, anche in dialogo con azioni radicali (si vedano le ipotesi organizzative come LabSUS, che ha raccolto e messo in dialogo varie forme di occupazioni illegali nella proposta di costruzione di una regolamentazione popolare sui beni comuni), e modelli di azione di cui ancora non si vede se razionalizzazione, aziendalizzazione, valutazione di impatto e misurazione possano dare luogo a effetti altri rispetto quelli subalterni alla mera finanziarizzazione. A questa incertezza fa da specchio quella relativa alle possibilità di azione pubblica progressista da parte di Stato, Regioni ed Enti Locali: come costruire oggi una azione rivolta alla giustizia sociale nell’intreccio tra le politiche sanitarie e sociosanitarie, dove ad oggi il complesso delle azioni finalizzate all’equità sembra risolversi nell’obiettivo di garantire la tenuta di mercati profittevoli? La stessa domanda che riguarda l’ambito sanitario e sociale potrebbe essere riformulata rispetto all’ambito assicurativo/previdenziale, urbanistico/abitativo, formativo/del capitale umano, ecc.

La riflessione sull'impresa sociale sviluppatasi in questi anni rischia di non avere strumenti per vedere i processi di esclusione e marginalizzazione che si generano nei tessuti urbani al centro dei vari social, green, pink e “cooperativewashing, mentre nelle periferie e nei contesti della dismissione assistenziale continuano a proliferare vite e lavori di scarto. Resta monca la riflessione sulle potenzialità generative del terzo settore fino a che non si tematizza che molti interventi innovativi - che nelle periferie e nei quartieri in via di rigenerazione hanno accompagnato nuovi investimenti misti pubblico-privati con la realizzazione di interventi di welfare comunitario, collaborativo e partecipativo - si sono realizzati contestualmente al displacement delle comunità socioeconomicamente più deboli che insistevano precedentemente in quei territori, per le quali gli investimenti generativi sono stati solo strumenti di esclusione. Difficile evidenziare questi processi se la composizione del mondo della ricerca, cui prima abbiamo fatto cenno, vive condizioni di dipendenza strutturale da essi. Centri di ricerca e produzione scientifica vivono del lavoro di quegli stessi soggetti presenti nelle aggregazioni di governance impegnate a presentare le buone prassi inevitabilmente rappresentate da queste innovazioni. Niente di più facile che di essi siano emerse solo le caratteristiche più progressiste e foriere di impatto sociale positivo (Bifulco, Borghi 2023).

Sospinta anche dalle esperienze di mutualismo, che hanno portato nuova linfa alle elaborazioni del mondo cooperativo, una parte significativa del terzo settore progressista ha preso parte al percorso iniziato a Trieste il 21, 22 e 23 ottobre 2022 con il convegno “Cos'è l'impresa sociale”[13]. Non mancano ambiti contigui in cui si va approfondendo la riflessione sull’etica della cura e il bisogno di riflettere su come rinnovare il proprio ruolo politico. A Trieste molti interventi hanno insistito sulla centralità delle prassi locali per dirimere il posizionamento politico delle esperienze: sul fatto, per esempio, che la cooperazione “non fa assistenza, ma sviluppo del territorio”. Carmen Roll, storica cooperatrice triestina in relazione con i locali servizi di salute mentale, ha detto in un dibattito: “Mimmo Lucano rappresenta l'esperienza di impresa sociale in Italia come noi la intendiamo. Dobbiamo tenere conto che questa esperienza è stata condannata a 12 anni di carcere”. Come si è già detto, si tratterebbe in questo settore di “separare il grano dal loglio”, pretendere una forte presa di distanza e un'autocritica da chi ha colluso con la dismissione del welfare e invisibilizzato i differenziali di potere, per aprire prospettive diverse insieme.

Su questi temi è stato importante anche l'incontro, avvenuto a Padova l’1 e 2 ottobre 2022, del Laboratorio Welfare Pubblico: un'aggregazione di attiviste, attivisti, persone attive nella ricerca universitaria e nel sindacato che ha sperimentato un modello aperto di dibattito attraverso una call pubblica finalizzata a costruire insieme 2 giorni di confronto nella locale facoltà di sociologia. Al centro dell'ipotesi di lavoro del laboratorio c'era “il nesso tra le condizioni di chi lavora e la qualità dei servizi e dunque l’accesso ai diritti sociali per chi ne beneficia” e, di conseguenza, la possibilità di mettere “in discussione alla radice il sistema delle esternalizzazioni” e “la convinzione che questo vada fatto insieme da chi lavora nei servizi e da chi lavora nelle università e studia le trasformazioni del welfare in senso critico”. La commistione tra ricerca e lavoro sociale è stata declinata sul modello delle “comunità scientifiche allargate”, “che avevano rivoluzionato i saperi sul lavoro operaio negli anni Settanta e che oggi andrebbero reinventate all’altezza dei tempi, facendoci ispirare da altri che – in giro per il mondo – ci provano”. Secondo il documento di lancio del Laboratorio, l'obiettivo era “portare una proposta culturale e politica sul welfare: non una proposta astratta, ma incarnata in pratiche di ricerca, di lavoro e di fruizione dei servizi che mettano a fuoco le ingiustizie che percorrono i due mondi che abitiamo – quello dei servizi di welfare e quello della produzione di conoscenza sul welfare – per poterle combattere con alleanze trasversali”[14].

Se la vocazione al cambiamento sociale, che oggi non informa il servizio gestito dallo Stato, si trova asfissiata nella contrapposizione con le derive “gestionali” e “conservative” del Terzo settore stesso (Borzaga, Fazzi 2022), tenderà inevitabilmente a interpretare tali istanze di cambiamento riversandole nella nebulosa commistione tra finanziarizzazione e rigenerazione, compromettendo ogni possibile spazio per la discussione sullo statuto pubblico del welfare. D'altra parte, in un ambiente caratterizzato dalla incerta commistione tra “imprenditorializzazione” dell’intervento sociale e “aziendalizzazione” del servizio pubblico, nella moltiplicazione disorientante dei livelli di policy making che impattano sulla vita delle comunità, la ricerca difensiva di percorsi di “reinternalizzazione” risponde semplicisticamente all’assenza di un dibattito reale sulla dimensione pubblica delle ipotesi di “nuovo welfare” prodotte contestualmente alla dismissione della sua univoca titolarità statale.

Già solo la definizione del concetto di “servizi essenziali” pone problemi etici, epistemologici e pratici - evidenti nel ventennale dibattito su LEA e LEPS o LIVEAS (Taroni, 2021) - tali da rendere molto rischiosa una strategia politica che punti alla loro “internalizzazione”. Quali dispositivi potrebbero infatti garantire che la definizione di “essenziali” non contribuisca a schiacciare i servizi stessi sulle pratiche più assistenziali e disabilitanti? In altre parole, come difendere lo statuto pubblico del welfare senza accogliere le elaborazioni provenienti dalle esperienze comunitarie e generative, pur nella loro ambiguità? Eppure, tale risposta parziale e limitata - la domanda di internalizzazione - continua a costituire uno strumento di visibilità e soggettivazione per lavoratrici e lavoratori le cui condizioni di sfruttamento sono un grave detrimento per l’esigibilità dei diritti stessi dell’utenza, oltre che per la loro sicurezza e salute. Il recente emergere sulla scena di movimenti di autorappresentanza (come il Disability Pride e quello delle persone Neurodivergenti) potrebbe essere il nuovo vettore utile a rinnovare la discussione sulle pratiche dei servizi stessi, sul loro potenziale emancipatorio o desoggettivante, da aggiungere necessariamente alla riflessione sulla sua forma istituzionale. In assenza di una riflessione all’altezza di questi temi, perdono di senso e chiarezza anche i richiami sulla “difesa del pubblico” come quelli contenuti nelle recenti prese di posizione a difesa del Servizio Sanitario Nazionale (Gimbe, CGIL, Regione Emilia Romagna, Agenas), di cui alla fine si fatica a capire quale idea abbiano del rapporto tra pubblico e privato, di come questo rapporto possa evitare di risolversi in una condizione di subalternità culturale, programmatoria e politica del primo al secondo.

Si fa strada la necessità di una riformulazione del concetto di pubblico capace di cogliere le tensioni attuali della governance e guardare apertamente al delicato equilibrio tra costi e valori, impatto e diritti, opportunità e protezioni, evitando che la naturalizzazione operata dal problema della “sostenibilità” chiuda ogni possibilità di sviluppo ai discorsi che nascono da queste tensioni. Riaffermando il valore pubblico del lavoro si aprirebbe invece la possibilità di ricominciare a tematizzare le questioni della critica al mandato sociale (Basaglia 1981), delle pratiche di “commoning” come orizzonte superiore alla sterile polarità tra stato e società civile, della relazione tra servizi e diritti (De Leonardis 1998, Caselli 2020). Tale ipotesi di lavoro permette di analizzare e contestualizzare le continue allarmistiche denunce sulla crisi del lavoro sociale e di cura nel suo complesso. Questa crisi c’è, è evidente, e si inscrive nella più generale crisi della cura (Fraser 2017, Caselli, Giullari, Mozzana 2021) e va letta come un effetto della ristrutturazione neoliberalista delle società capitalistiche intervenuta dopo la fase di decommodification (Streeck, Bickerton, Gourevitch 2012) degli anni gloriosi del welfare.

Le crisi nel welfare mix all’italiana sono un fenomeno per cui bisogna disporre di una capacità d'analisi ampia, ben oltre la ristrettezza delle attuali arene pubbliche, per evitare che le formulazioni dei problemi siano solo veicoli performativi delle varie “vie d’uscita” già trovate (Desrosières 2011), rispondenti volta per volta agli interessi delle aggregazioni pubblico-private di think tank, fondazioni, gruppi economici e politici, tra gli obiettivi dei quali negli ultimi anni la difesa della funzione redistributiva del settore pubblico non è stata una priorità. Una ricostruzione di tale funzione non può non riconnettersi alla sfida posta dalla necessità di un nuovo modello globale di salute, che sia vettore di un approccio alle politiche sociali e sanitarie ecosistemicamente integrato (Favretto, Balduzzi 2021) e a sistemi di welfare in cui la “sostenibilità” non sia solo uno strumento di risemantizzazione della profittabilità (Giustiniano, Domenico 2022). La necessità di ricollocare la riflessione sul welfare nel campo dei “fondamentali” richiede forme di nuova “politicizzazione” in grado di “toccare e mettere in discussione il quadro generale in cui il welfare va collocato (...) in cui sono cruciali non solo la redistribuzione di risorse e poteri ma anche, a monte, i meccanismi di formazione della ricchezza e i rapporti di potere, e la base normativa su cui essi poggiano” (Bifulco, Arrigoni, Busso, Caselli, Ficcadenti, Mozzana, Polizzi 2022).

 

DOI 10.7425/IS.2023.03.09

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[1] https://www.welforum.it/fuoridalcoro/crisi-del-personale-il-lavoro-da-ripensare/

[2] Si vedano a proposito: Galanti C. (2021) Mobilizing As Professionals Or As Workers? Collective Action Of The Healthcare Personnel In Italy During The Pandemic Between Professional Identity And Class Solidarity, European Sociological Association (ESA) Conference.

[3] Si veda a proposito l’analisi femminista sulla tanatopolitica nell’articolazione e distribuzione del lavoro di cura presente in Fragnito e in Mbembe. In particolare, le autrici qui richiamate focalizzano l’attenzione su come i dispositivi di “formalizzazione” del lavoro di cura abbiano favorito l’approfondirsi di livelli “sommersi” di lavoro domestico sottocontrattualizzato, desoggettivante e invisibilizzato (si veda Maddalena Fragnito, “Care Necropolitics. And How to Dismantle the Master’s House”, Working Papers Seminar at Duke University, 9 December 2022). Sul rapporto tra lavoro domestico ed “esercito industriale di riserva” si veda “Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza” a cura di Beatrice Busi, EDS, Centro Riforma Stato; in particolare rispetto alle mancate sinergie nei processi di riforma e riconoscimento del lavoro. A tal proposito sarebbe interessante indagare quanto nelle Regioni che hanno legiferato in tema “caregiver” per sostenere il lavoro assistenziale domestico e favorire la sua emersione, sia restato di sommerso tra le mura domestiche. Alcune suggestioni interessanti su questo tema vengono dalla ricerca “Il lavoro che usura. Migrazioni femminili e salute” di Veronica Redini, Francesca Alice Vianello, Federica Zaccagnini (Angeli 2020).

[4] https://corrieredibologna.corriere.it/notizie/economia/23_marzo_06/gamberini-e-il-presidente-di-legacoop-tutelare-il-lavoro-no-gare-al-ribasso-4c0a58fe-baa8-11ed-bc1c-91e02789e6f8.shtml

http://www.confcooperative.marche.it/avvenire-appalti-basta-massimo-ribasso/

https://www.lombardia.confcooperative.it/Dettaglio/ArtMID/523/ArticleID/4567/Cooperazione-e-sindacati-contro-gli-appalti-al-ribasso-Pi249-tutele-per-lavoratori-e-servizi-nel-nuovo-Codice

[5] https://abitarearoma.it/la-delibera-sullinternalizzazione-degli-oepa-operatori-educativi-per-lautonomia-in-consiglio-comunale/

[6] Per una discussione si veda https://www.radiocittafujiko.it/internalizzare-a-scuola-i-profili-o-le-funzioni-un-disegno-di-legge/

[7] La vicenda è raccontata qui https://zic.it/le-lotte-nel-welfare-il-caso-bolognese/

[8] Collettivo di ricerca e pratiche pedagogiche, https://www.che-fare.com/almanacco/politiche/comunita/creapa-collettivo-mutualismo/

[9] https://www.anpe.it/2021-09-11-ordine-nazionale-delle-professioni-pedagogiche-ed-educative-proposta-di-legge-3197.html

[10] Si veda https://prospettivesocialiesanitarie.it/arretrato.php?id=481 e https://www.animazionesociale.it/it-schede-3370-verso_un_agora

[11] Si veda a proposito Fazzi, Il maltrattamento dell’anziano in RSA.

[12] https://www.vita.it/it/article/2023/03/22/la-riforma-della-non-autosufficienza-spiegata-nel-concreto/166208/

[13] https://www.impresasociale2022.net/

[14] Che cosa è welfare pubblico? Invito a una scuola-laboratorio https://napolimonitor.it/che-cosa-e-welfare-pubblicoinvito-a-una-scuola-laboratorio/

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