Parlare di co-programmazione dopo l’approvazione del Codice del Terzo settore significa entrare in un terreno solo in parte esplorato in passato attraverso l'esperienza dei Piani di zona. La cornice legislativa in cui si colloca la nuova co-programmazione si basa, infatti, su un rapporto tra pubblico e Terzo settore profondamente diverso da quello normato dalla legge 328/2000. L'art 55 specifica, infatti, che gli elementi di complementarità e di collaborazione tra pubblico e terzo settore non sono contingenti, ma fondativi dell'architettura del nuovo welfare. Con questo numero, la rivista introduce la rubrica del Forum. L’intenzione è di offrire uno spazio in cui osservatori privilegiati che vivono le diverse problematiche - non solo con l’occhio del ricercatore, ma anche e soprattutto attraverso l'esperienza del protagonismo attivo - discutono e riflettono sugli argomenti di volta in volta proposti.
A dialogare di nuova co-programmazione sono questa volta Felice Scalvini, Ugo De Ambrogio (IRS), Salvatore Semeraro (Consorzio SIR) ed Emilio Vergani (Socialhub).
Da questa prima interlocuzione emerge un quadro della co-programmazione come un fenomeno sfaccettato, ricco di opportunità e, contemporaneamente, inserito in una cornice di vincoli, tradizioni e pratiche non sempre facilitanti, e che possono costituire, se non affrontate, ostacoli rilevanti per l’attuazione del nuovo welfare collaborativo. In particolare, emergono come punti di attenzione le grandi differenze esistenti a livello territoriale e tra i diversi modelli di welfare locale, che impongono anche per il futuro di approfondire la riflessione e la ricerca per capire quali meccanismi di volta in volta attivare per promuovere il cambiamento.
[Scalvini] Forse la questione da cui partire non è il fatto che le coprogrammazioni siano poche, ma che, più in generale, manchi una seria cultura della pianificazione e della programmazione. Probabilmente sono poche perché, in mancanza di tale cultura, è difficile comprenderne l’utilità. Sembra quasi che programmare significhi ritoccare, in aggiunta o in diminuzione, taluni interventi sociali sulla base di presunzioni sulla maggiore o minore domanda di un certo servizio. Questa è purtroppo stata anche la natura della gran parte dei piani di zona. Paradossalmente la cultura della pianificazione è più diffusa in altri ambiti come quelli relativi alla infrastrutturazione fisica delle nostre città rispetto al welfare. Il punto di partenza dovrebbe essere invece la capacità di guardare ai decenni futuri e alle trasformazioni in corso: per fare alcuni esempi, quali saranno gli scenari migratori e come questo farà evolvere le nostre città di qui a 10 – 20 anni? Oppure, come impostare delle politiche per l’aging in grado di dare una risposta ad una società che invecchia? Interrogativi che richiedono prima di tutto di comprendere cosa avviene intorno a noi nei nostri territori, per poi ipotizzare strategie di risposta, come peraltro avviene in altri paesi. Al contrario, quello che più spesso si vede in giro sono “analisi dei bisogni” derivate da una mera raccolta dei bisogni attuali insoddisfatti - che peraltro diventano domanda quando i cittadini immaginano che possa esistere una risposta - non certo un ragionamento frutto di analisi capaci di proiettarsi nel futuro; e pare improbabile sedersi ad un tavolo e mettersi a fare insieme un lavoro che, tanto gli Enti pubblici che il Terzo settore non hanno realmente fatto nemmeno individualmente.
[De Ambrogio] Le ragioni del fatto che le coprogrammazioni sono attualmente ancora poche sono, secondo me, attribuibili a tre fattori: un fattore pratico, un fattore che definirei “culturale” e un fattore relazionale. Il fattore pratico è che la coprogrammazione ex art. 55, realizzata in modo conforme alle linee guida ministeriali, richiede apprendimento da parte degli uffici amministrativi delle Pubbliche amministrazioni (che devono imparare a farla) e tempo, nel senso che comunque un avviso pubblico deve essere pensato, pubblicato, bisogna attendere le candidature che vanno esaminate… e tutto ciò richiede, ad essere ottimisti, fra i 2 e i 3 mesi. Purtroppo, non sempre le programmazioni sociali legate a scadenze europee o regionali o nazionali, possono avere a disposizione questo tempo. Il secondo fattore di tipo “culturale” è legato alla effettiva capacità degli addetti ai lavori territoriali di fare una reale programmazione, ovvero una corretta “analisi dei bisogni”, non legata solo alla domanda esplicita dei cittadini, ma ad analisi statistiche, demografiche e sociologiche che orientino le scelte di politica sociale locale, una successiva valutazione dell’offerta ad oggi esistente e la conclusiva individuazione di linee strategiche di sviluppo. Oggi molto spesso questo tipo di metodologia programmatoria è disattesa, con la conseguenza di trattare le esigenze ed i diritti dei cittadini in modo frammentato e settoriale. Il terzo fattore, di tipo “relazionale” è legato al fatto che le coprogrammazioni prevedono una relazione di partenariato, paritaria, fra pubblico e terzo settore, diversa dalla relazione “consulenziale” sperimentata nei tavoli tematici dei piani di zona e pertanto i suoi esiti sono maggiormente vincolanti per le P.A. nel realizzare le linee e gli indirizzi proposti e sottoscritti. Tale aspetto, se non vi è piena consapevolezza fra gli attori, può indurre ad atteggiamenti difensivi e agire come fattore frenante per le PA, che possono preferire una più confortevole programmazione partecipata consultiva, e anche come fattore frenante per il terzo settore, non abituato ad essere parte attiva e paritaria nella programmazione; ne è prova il fatto che ancora non sono note (almeno a chi scrive) coprogrammazioni nate di istanze di parte ovvero nate su idea del terzo settore.
[Vergani] Nelle regioni del sud il primo ostacolo alla introduzione della nuova co-programmazione non sta tanto nel prefisso “co”, quanto nella programmazione vera e propria, che troppo spesso è assente. Ciò lo si vede non solo nella pratica dei piani di zona ma, più in generale, in tutti gli ambiti dove la pubblica amministrazione dovrebbe esercitare il proprio governo. La programmazione è, probabilmente, il principale atto di razionalità strumentale applicata delle amministrazioni pubbliche e consiste nel collegare misure e risorse a obiettivi assunti come prioritari nella costruzione dell’agenda. Molto spesso, invece, tra i decisori prevale la cultura della decisione senza programmazione di medio-lungo periodo. Si prenda il caso degli incendi estivi: ricorrono tutti gli anni con puntualità, sono quasi sempre dolosi, producono danni per milioni di euro e richiedono ogni volta interventi di emergenza. Oltre al monitoraggio della Protezione Civile non c’è molto altro e si interviene come si può. Oppure si pensi alla mobilità: l’incendio di un terminal all’aeroporto di Catania ha richiesto un intero mese per il ripristino dei voli regolari e ha mandato in tilt tutto il sistema dei trasporti aerei della Sicilia – con grave danno per la spesa pubblica e l’indotto del turismo. Il secondo ostacolo alla co-programmazione è la fragilità strutturale del Terzo settore, il quale ancora, nel Mezzogiorno, fatica a riconoscersi il ruolo che il legislatore gli ha affidato. La pubblica amministrazione, in un sud privo di indotti produttivi importanti, è il principale datore di lavoro e ciò attribuisce a quest’ultima un potere, anche simbolico, difficile da mettere in discussione. Questo significa che vi è anche un problema di capacità propositiva e se manca l’iniziativa e la progettualità, si rischia di restare al punto di partenza. Il terzo ostacolo è riconducibile allo scarso coinvolgimento delle Università e dei centri di ricerca, che potrebbero fornire saperi e formazione e invece rimangono dedicate ai corsi e poco ai percorsi condivisi e democratici. Alcune esperienze – ad esempio il piano sociale di Crotone - segnalano come l’alleanza tra ricerca, terzo settore e amministrazione, anche in aree con basso investimento sulle politiche sociali, potrebbe realmente accelerare un cambio di marcia e un’innovazione nel modo di realizzare gli interventi. C’è però, innegabilmente, un sistema di resistenze culturali che va superato.
[Semeraro] Anche se con storie diverse, la programmazione della Legge 328/2000 (i piani di zona) e la coprogrammazione del Dlgs117/17, hanno visto diversi cicli applicativi. La fase programmatoria della Legge 328/2000 ha avuto una grande diffusione nel periodo 2000-2010 per poi affievolirsi in una dinamica più consultiva/concertativa che partecipativa. Nel caso della coprogrammazione ex articolo 55 Dlgs 117/17, lo spirito e l’entusiasmo per uno strumento che potesse incidere sulle politiche amministrative, è stato sovrastato dell’altro strumento previsto dall’articolo 55, la co-progettazione. La coprogrammazione come fase preliminare per le indagini sui bisogni, per la ricerca della risposta migliore ai bisogni indagati con la ideazione di interventi ed l’allocazione delle risorse pubbliche e la partecipazione con risorse altre (delle fondazioni di erogazione o della messa a disposizione di risorse non solo economiche ma altresì professionali del Terzo settore), è fattualmente un procedimento amministrativo poco utilizzato dalle amministrazioni che si occupano di politiche di welfare locale (e per niente utilizzata dalle altre amministrazioni previste che operano in settori di interesse generale. L’applicazione residuale della coprogrammazione a vantaggio della coprogettazione avviene in un panorama caratterizzato da almeno tre elementi. Il primo riguarda la possibile confusione tra strumenti di coprogrammazione e coprogettazione, utilizzati come quasi sinonimi, perdendo quindi la focalizzazione sulle politiche di medio e lungo periodo. Il secondo è il carattere incidentale e facoltativo della coprogrammazione, con la conseguenza di coprogettazioni monche di una sera analisi dei bisogni, la terza è la mancanza di regolamenti d’ambito o comunali che guidino le amministrazioni nell’utilizzo degli strumenti di amministrazione condivisa. Questo quadro implica la necessità di una messa a terra del mandato normativo, ma anche richiederebbe che il Terzo settore acquisisca una maggiore capacità di leadership e di regia di questi processi. In assenza di ciò, si rischia che l’amministrazione condivisa sia solo di facciata, mettendo a rischio le potenzialità della Riforma e delle possibilità per gli enti del Terzo Settore di incidere sulle politiche dei nostri territori.
[Semeraro] Quando il sistema della filiera dell’amministrazione condivisa è proceduralizzato e rispettato, i risultati positivi sono evidenti ed hanno una ricaduta sui territori in cui essa trova applicazione. Quando questo accade abbiamo analisi dei bisogni compiute e ideazione di attività coerenti con la risposta ai bisogni, una chiara determinazione delle risorse messe in campo per la sostenibilità futura, con la possibilità di incidere nei documenti di programmazione delle PPAA e coprogettazioni impostate non su modelli competitivi (vince un solo soggetto) ma collaborativi e partecipativi, in cui più esperienze vengono messe a fattor comune, ampia mobilitazione di risorse, interventi ibridi e contaminati sulla base dei diversi modelli e delle diverse esperienze, maggiore coinvolgimento del territorio, ecc. Al contrario, una coprogrammazione di facciata e già definita dalla PPAA porta alla costruzione di sistemi di intervento esclusivamente prestazionali che simulano procedimenti competitivi, determinando la perdita del valore aggiunto della “messa in comune” di esperienze, di modelli (anche organizzativi) di servizi, deprimendo l’efficacia a vantaggio di apparente efficientismo amministrativo.
[Vergani] Le esperienze di coprogrammazione sono molto limitate e non è facile fare un bilancio. Bisogna distinguere probabilmente tra le diverse aree. In quelle in cui c’è stato un investimento negli anni passati sul welfare e la partecipazione come la Puglia, l’art. 55 inizia a essere usato per promuovere coprogrammazioni innovative nel campo della tutela dei migranti sfruttati e delle loro condizioni di salute. In altre aree, dove manca questa tradizione e l’infrastrutturazione delle pubbliche amministrazioni è fragile, il problema è la gestione ordinaria dei servizi che già di per sé risulta estremamente difficile per cui il tema della coprogrammazione non si pone nemmeno, visto che sono altre le emergenze da risolvere, oppure solleva tali e tante questioni di ordine organizzativo da rischiare di produrre risultati poco positivi.
[De Ambrogio] Non ho seguito molte coprogrammazioni (anche perché ad oggi se ne sono fatte poche) e pertanto le mie esperienze si contano sulle dita di una mano; tuttavia, laddove ho visto la coprogrammazione ex art. 55 in azione, ho potuto coglierne le potenzialità legate essenzialmente alla possibilità di avere intorno ad un tavolo più punti di vista e fra di loro complementari rispetto al problema in campo, alla possibilità di esplorare, confrontandosi, diverse opzioni e modalità di soluzione dei problemi valutando le alternative possibili e considerando il consenso dei diversi attori rispetto a tali alternative, alle possibilità realizzative degli indirizzi/esiti della coprogrammazione nella logica secondo la quale, se le idee di sviluppo di una politica sono elaborate e condivise da più soggetti organizzativi (del pubblico e del terzo settore) poi saranno più soggetti quelli impegnati alla realizzazione nel territorio di tali idee.
[Scalvini] La mia percezione è che quando, come mi sono sforzato di fare nella mia esperienza di amministratore locale del comune di Brescia, si lavora nell’ottica dell’amministrazione condivisa, le città svoltino. Ciò ha significato, nel caso di Brescia, molte cose: corresponsabilizzazione diffusa dell’insieme di soggetti che compongono il “distretto del benessere cittadino”; l’istituzionalizzazione, attraverso il Consiglio d’indirizzo del Welfare cittadino, della pianificazione condivisa; l’estinzione delle gare d’appalto (“Brescia comune zero gare” non è stato solo lo slogan che ha guidato quell’esperienza, ma è divenuto realtà); l’introduzione negli interventi rivolti agli anziani dell’accreditamento come esito della coprogettazione, valorizzando così la capacità del Terzo settore di creare reti e filiere per offrire risposte articolate; la redazione di un regolamento che, anche se poi formalmente approvato diversi mesi più tardi, ha costituito un punto di riferimento per la riflessione a livello nazionale; l’elaborazione di un Piano di zona che aveva le caratteristiche – che tutti dovrebbero avere – di un “piano strategico per il welfare della città”. Così facendo il cambiamento culturale sotteso e il clima collaborativo che ne deriva si afferma e diventa una pratica costante, non solo una sperimentazione contingente; e riesce a durare anche nel tempo: anche in assenza di una spinta politica, che dopo di me è mancata, comunque non poche delle novità introdotte sono state mantenute. Guardando anche oltre il caso bresciano, oggi vedo un concentrarsi su aspetti giuridici, procedimentali, fiscali, vedo discussioni sul regime IVA o meno della coprogettazione e molti altri temi sicuramente importanti, ma che in assenza di una tensione programmatoria rischiano di complicare la traiettoria dell’amministrazione condivisa, generando problemi quasi insolubili, ma artificiosi. Per esempio, l’articolo 55 definisce come esito possibile della coprogettazione solamente il partenariato o l’accreditamento, escludendo implicitamente l’affidamento. Invece si continua ad usare l’art. 55 per fare affidamenti, per i quali andrebbe invece usato correttamente il codice dei contratti pubblici. Con tutte le conseguenze del caso anche in sede giurisdizionale. Ma il punto è che la decisione circa l’utilizzo dei diversi strumenti disponibili dovrebbe essere oggetto di decisioni co-programmate a monte e non affidate alla iniziativa estemporanea di uno dei vari soggetti in gioco. Se non si programmano prima, le cose poi non funzionano. Mi pare ovvio.
[De Ambrogio] Gli elementi di novità ci sono e sono significativi. La prima novità risiede nel fatto che la coprogrammazione ha tra le altre, una funzione di responsabilizzazione del terzo settore come policy maker. Gli Ets, infatti, non sono più invitati ad un tavolo consultivo (come nel caso dei tavoli tematici dei piani di zona), ma fanno parte di un tavolo partecipativo, con maggiore potere di influenza sulle scelte di politica pubblica di un territorio. La seconda novità è legata al fatto che il pubblico si ritrova a negoziare propositivamente le proprie scelte programmatorie, avendo partner diversi da lui, nella condivisione delle scelte di politica pubblica. La terza è legata alla relazione fra i soggetti in campo che, per funzionare, non può essere che di reciproco apprendimento in un quadro di negoziazione, confronto, scambio e gestione di divergenze e conflitti; detto con una sola parola tale relazione non può essere che … collaborativa. Al proposito di seguito presento uno schema mutuato da un lavoro di Sari Van Poejle, una analista organizzativa olandese, la quale mettendo su un asse il maggiore o minore valore attribuito alle relazioni e sull’altro l’alto o lo scarso orientamento al risultato, individua lo stile collaborativo come tipico di coloro che sono fortemente orientati al risultato dando, allo stesso tempo, molto valore alle relazioni. Se ciò accade nella coprogrammazione questa risulterà efficace e rappresenterà senz’altro un valore aggiunto in termini di novità della qualità dei rapporti fra PA e ETS.
[Vergani] La coprogrammazione è un elemento di cambiamento quando dà corso a una innovativa lettura dei bisogni. Purtroppo, su questo, siamo ancora fermi a un approccio che potremmo definire “positivista”, secondo il quale i bisogni possono essere rilevati (come il peso o la temperatura) quando invece dovrebbero essere il frutto di ricerche (sul campo) e negoziazioni (con i portatori di interesse). Non ci servono solo elenchi di bisogni di questo o quel gruppo sociale, occorre ricostruirne l’origine che, molte volte, riguarda la perdita di un mondo - quello di provenienza per i migranti, quello dell’infanzia per gli adolescenti, quello della fabbrica fordista per chi proviene dalle pianure del Nord e così via. La coprogrammazione dovrebbe essere proprio il laboratorio nel quale finalmente si lasciano da parte le formulazioni standard dei bisogni (prese dal surgelatore) e si dà inizio a un lavoro di smontaggio dei luoghi comuni, di riconoscimento degli idola presenti nelle politiche sociali e si prova ad ampliare le domande; è noto infatti che l’errore commesso da molti professionisti, in vari ambiti, è quello di associare velocemente un’interpretazione a una situazione problematica per mostrare di avere una soluzione (terapeutica, urbanistica, educativa ecc.) pronta all’uso. La coprogrammazione abbandona la semplificazione per sperimentare quello che da più parti si chiama approccio complesso e per questo non riconducibile ad un solo vocabolario.
[Semeraro] La coprogrammazione, nelle pochissime esperienze in cui ha avuto un’applicazione di sistema, è riuscita a portare innovazione determinando un cambiamento di paradigma nei rapporti tra gli stessi enti del Terzo Settore e la PPAA, poiché ha prodotto un ripensamento dei servizi, un ripensamento dei ruoli tra gli enti del TS ed un ripensamento delle politiche pubbliche spesso solo schiacciate dagli impegni dei bilanci. In un caso specifico (“Qubi, le ricette contro la povertà delle famiglie con minori”), nella città di Milano, la coprogrammazione ha evidenziato tali caratteristiche, attraverso un lavoro specifico sulle Reti e la Governance, l’analisi dei contenuti dei servizi nel rapporto con i destinatari al fine di individuare anche nuovi bisogni, la cura e l’investimento nel contesto territoriale. Tale percorso ha portato alla redazione di un “documento di sintesi del percorso di co-programmazione preliminare alla fase di coprogettazione”. Tale processo ha coinvolto circa 50 soggetti del Terzo Settore presenti sui vari quartieri di Milano. La coprogrammazione, come fase preliminare alla successiva coprogettazione, se ben organizzata, promossa e partecipata su posizioni di parità tra Enti del TS E PPAA, riesce a costruire il sistema dell’amministrazione condivisa anche su sistemi parcellizzati di politiche pubbliche locali e su singoli contesti di intervento delle stesse politiche.
[Semeraro] In questa fase di sperimentazione degli istituti dell’amministrazione condivisa è ancora prematuro affermare che la coprogrammazione abbia prodotto cambiamenti strutturali e non occasionali nelle politiche amministrative locali e regionali. Al contrario possiamo affermare che la coprogrammazione ha iniziato, in alcuni casi, un percorso di innovazione istituzionale ponendo le premesse per una chiara definizione del processo coprogrammatorio, anche attraverso una disciplina regolamentare, che determini un cambio di paradigma nella costruzione dei documenti unici di programmazione delle PPAA. Questo porta ad avviare processi partecipativi nuovi e diversi dalla programmazione sociale della Legge 328, che vedono gli enti del Terzo Settore protagonisti attivi, in qualità di portatori di interessi della comunità, per costruire risposte, co-definendo politiche territoriali in grado di progettare modelli di intervento in un rapporto fiduciario tra PPAA e TS ed una logica sistemica e non di alterità del Terzo Settore. Questo si associa anche ad un significativo rafforzamento del rapporto delle rappresentanze del Terzo Settore con le istituzioni regionali, che sta dando i primi frutti con atti normativi espressione di un’azione coprogrammatoria sia nell’ambito delle politiche sociali che nel campo delle politiche socio sanitarie: dal Fondo Inclusione Sociale per le persone con disabilità, in cui la coprogrammazione regionale ha effettivamente permesso una analisi specifica di interventi sul tema dell’inclusione sociale per le persone con autismo, alla costruzione di un piano regionale sulle non autosufficenze che ha posto le basi per aumentare la spesa sui servizi, al processo di riforma dei servizi accreditati socio sanitari e sanitari nell’ambito della disabilità. Certamente possiamo rilevare che, nei pochi casi in cui si è avviato un processo coprogrammatorio, l’apporto del Terzo Settore ha determinato una migliore analisi dei dati, un’integrazione bi-direzionale delle informazioni tra pubblica amministrazione e Terzo settore, una maggiore prospettiva di allocazione delle risorse e scenari trasformativi dei servizi tradizionali. Quali saranno i cambiamenti che tali esperienze, ancora scarsamente diffuse nei territori e nelle istituzioni, produrranno nel medio e lungo periodo è ancora presto per dirlo, ma sicuramente si è avviato un processo di cambio del paradigma dell’amministrazione intesa come campo esclusivo dell’autorità amministrativa.
[Scalvini] Nella mia esperienza come assessore al welfare nel comune di Brescia l’aspetto decisivo è stato il passaggio da una concezione in cui l’ente pubblico si concepisce come il produttore – diretto o per delega - dei servizi di welfare territoriale ad una in cui si parte dal riconoscimento del “distretto del benessere” territoriale composto da cooperative, associazioni, fondazioni, enti ecclesiastici, imprese, professionisti, ecc. operanti nell’ambito del welfare e in settori limitrofi. Di questo sistema - a Brescia circa 7500 addetti, 7000 volontari, 377 milioni di valore economico -, composto da centinaia di soggetti organizzati (senza contare i produttori individuali di welfare, dagli psicologi alle badanti) fa certamente parte – uno tra molti - anche il Comune, così come altri soggetti pubblici operanti sul territorio. Da questo punto di vista, però, il tema centrale non è come rafforzare le risorse a disposizione dell’ente locale, ma come far crescere il sistema nel suo insieme. Il welfare locale è, in questa visione, un sistema complesso al quale concorrono, non sempre consapevolmente, una pluralità di soggetti che debbono essere portati a riconoscersi reciprocamente e a lavorare secondo visioni, programmi e progetti condivisi; il ruolo dell’ente locale si ridefinisce quindi, invece che come produttore di servizi, come quello di soggetto in grado di stimolare, integrare e sostenere la rete dei soggetti che compongono il distretto del benessere. Se matura questo approccio si produce il cambiamento. Che si traduce innanzitutto in un’azione programmatoria collettiva.
[Vergani] L’esperienza delle coprogrammazioni previste dall’art. 55 al Sud è ancora troppo limitata, per cui è difficile dire quale impatto riusciranno ad avere le nuove procedure nel medio periodo. I cambiamenti richiedono tempo e investimenti strutturali non solo modelli di programmazione partecipati, le due cose devono andare di pari passo e rispetto a questo i problemi indicati prima e il tema del sottofinanziamento delle politiche sociali nel Mezzogiorno rappresenta un ostacolo di non poco conto. Bisognerà vedere quanto l’applicazione dell’art. 55 sarà accompagnata da politiche coerenti e per questo serve del tempo per capire se si darà luogo a cambiamenti strutturali oppure a innovazioni localmente limitate e di breve durata. Questo vale peraltro sull’intero territorio nazionale considerata l’esperienza dei piani di zona che hanno sortito esiti positivi solo in aree limitate del paese e i cui risultati sono stati condizionati dalla disponibilità temporanea di risorse.
[De Ambrogio] Non ho a disposizione ancora sufficienti esperienze di coprogrammazione per rispondere a questa domanda dal punto di vista dei contenuti di politica sociale identificati dalle coprogrammazioni di successo. Da un punto di vista processuale, i cambiamenti in corso sono invece già evidenti: coprogrammare bene, significa innovare i modi di pensare le politiche pubbliche, con attori più ampi di prima, con maggiore potere di influenza sulle decisioni da prendere, con maggiore capacità di attuare le decisioni prese, da diversi nodi di una rete larga di soggetti territoriali. Le esperienze che conosco hanno dimostrato che tali modalità sono efficaci e, una volta consolidate, da esse non è opportuno tornare indietro.
[Vergani] Anche in questo caso le evidenze empiriche sono ancora difficili da analizzare. La sussidiarietà è però un concetto che si declina rispetto alle diverse culture della partecipazione e alla presenza di capitale sociale a livello locale. Anche in questo bisognerebbe tenere conto che molte realtà del sud sono diverse dal resto d’Italia. Il rapporto tra politica e cittadini assume connotazioni culturali e storiche particolari e anche la dimensione programmatoria deve fare i conti con lo stato di fragilità di molte amministrazioni. Non è un caso che un ruolo di promozione della sussidiarietà sia svolto più che da altre parti da istituzioni che fanno capo alla chiesa cattolica, che è un attore ancora riconosciuto a livello sociale. Questo non vuol dire non ci siano tentativi a livello locale di ridisegnare il rapporto tra cittadini e istituzioni e l’esperienza pugliese mostra che si può cercare di strutturare anche a livello di politica regionale la dinamica partecipativa ma sempre tenendo conto di quelle è il punto di partenza e di cosa significhi culturalmente promuovere partecipazione nelle diverse aree del paese.
[De Ambrogio] Questo è sicuramente un nodo ad oggi ancora non risolto. Nelle esperienze che ho conosciuto fino ad oggi le coprogrammazioni sono state essenzialmente un atto politico svolto da professionisti tecnici (delle PA e degli ETS) e il livello politico istituzionale (sindaco, assessore) se ne è tenuto essenzialmente fuori. Evidentemente i politici coinvolti hanno ritenuto che la coprogrammazione fosse un compito da affidare agli attori professionisti locali e che il loro ruolo potesse essere di stimolo ed avvallo delle decisioni prese. Non è detto né scritto da qualche parte (per quanto mi risulti) che le cose debbano andare sempre così e pertanto quale sia il preciso processo decisionale che porti ad una scelta di programmazione di politiche pubbliche sociali, fatta giovandosi dell’Istituto della coprogrammazione, oggi non appare del tutto chiaro. Mia personale opinione è che ciò che ho visto in azione, ovvero una presenza “defilata” del sindaco o assessore sia stato funzionale alla buona coprogrammazione, non ha creato squilibri o sudditanze nel processo di confronto scambio e presa di decisione che pertanto è risultato efficace. Ovviamente tutto ciò è molto legato alla soggettività delle persone ed alla loro capacità di esercitare in modo efficace il proprio ruolo; tuttavia, mi sembra utile che la questione venga al più presto se non regolamentata, almeno istruita e siano rese esplicite le opzioni possibili per affrontare coprogrammazioni rispettose degli istituti di rappresentanza democratica e allo stesso tempo che mantengano le potenzialità date dalla messa in pratica della sussidiarietà.
[Semeraro] Come già detto sopra, la coprogrammazione come pratica di sussidiarietà e procedura di amplificazione della partecipazione della società civile organizzata alla determinazione delle politiche pubbliche stenta a trovare un flusso di connessione soprattutto rispetto al processo programmatorio della pubblica amministrazione, che si esprime, nell’esempio dei comuni, nel documento di mandato e nel Documento Unico di Programmazione (DUP). Oggi la coprogrammazione è più un procedimento amministrativo che interviene sui singoli processi decisionali e di contesto ovvero su specifica istanza di parte del Terzo Settore; non si riscontrano invece, per quanto a mia conoscenza, casi in cui il processo coprogrammatorio abbia, anche solo parzialmente, inciso sul sistema delle politiche pubbliche complessive connesse alle attività di interesse generale. Né l’indicazione del D.M. 72/2022 (“La co-programmazione dovrebbe generare un arricchimento…, agevolando la continuità del rapporto di collaborazione sussidiaria, come tale produttiva di integrazione …, da ultimo, costruzione di politiche pubbliche condivise e potenzialmente effettive,”) risulta trovare spazi di adesione complessiva da parte della politica (Sindaci, Assessori, Giunte). Lo scarto tra la coprogrammazione “di sistema” che coinvolge le politiche pubbliche già nella fase di costruzione dei documenti di programmazione complessiva della PPAA e la coprogrammazione “di intervento” su singoli contesti o su singole politiche contingenti, risulta ad oggi molto amplio.
[Vergani] Il Mezzogiorno è un territorio - per cultura e storia - molto differente da altre parti del paese. Per fare avanzare la cultura dell’amministrazione condivisa occorre, a mio avviso, farla passare dal frame dominante nei territori del Sud. Si tratta di un aspetto che può facilmente sfuggire a chi non abita quei territori e che, invece, ricorre in ogni ambito, occupando ogni giorno giornali, telegiornali, iniziative pubbliche, libri, ricorrenze e molto altro (in modo a tratti ossessivo). Si tratta della coppia concettuale “mafia/antimafia”, una formula che va presa molto sul serio da chi vuole promuovere cambiamento, perché tiene insieme storia e cronaca, etica e politica, memoria e futuro, Bene e Male. Se si riesce a inserire la cultura dell’amministrazione condivisa nel campo di forze che vede l’illegalità organizzata da un lato e, dall’altro, il fronte della lotta alle mafie, allora questa cultura non verrà sentita come estranea alla vita pubblica ma verrà riconosciuta come una risorsa legittimata che può aiutare a passare da una società del favore a una società dei diritti. In altre parole, la cultura dell’amministrazione condivisa, ostacolata nella sua applicazione dai numerosi vincoli strutturali che sopra abbiamo brevemente richiamato, per superare le mura della città ha bisogno del suo cavallo di Troia, l’antimafia appunto. La pratica della coprogrammazione – per quanto utile, innovativa, efficace – non obbliga a una scelta di campo, viene percepita come un’opzione praticabile al Nord e, in generale, molto faticosa per il Sud. Quando invece si pone l’alternativa - per quanto densa di zone grigie, beninteso - mafia/antimafia allora gli attori in campo non si sottraggono e compiono subito la loro scelta di campo (utilizzando soprattutto il registro del mito più che quello dell’analisi). A sostegno di quanto dico mi vengono in mente due riflessioni: per un verso notiamo che la coprogrammazione potrebbe anche essere intesa come una pratica che promuove trasparenza e vigilanza sulle azioni dei centri decisionali; dall’altro, se la coprogrammazione nasce per intercettare meglio i bisogni di un territorio e portarli in agenda, allo stesso tempo rende più difficile anteporre gli interessi di pochi (i “soliti noti”) ai bisogni reali di segmenti significativi della società. Mi rendo conto che tutto questo discorso meriterebbe un esame approfondito, che spero possa iniziare presto. In altri anni oramai lontani, il compito di importare la cultura dell’amministrazione condivisa all’interno della vita pubblica sarebbe spettato alla macchina-partito, oggi diventata del tutto irrilevante; per questo occorre trovare un’altra chiave di accesso, altrimenti anche questa importante occasione si perderà per i rami delle norme scritte ma inapplicate.
[Scalvini] In coerenza con quanto detto prima, penso che sul fronte della coprogrammazione sia decisiva la capacità di coinvolgere, in posizione non subordinata, centri studi e università, soggetti cioè in grado di portare un valore aggiunto allo sforzo di comprendere l’evoluzione delle dinamiche del territorio; non si tratta di chiedere “come spendere dei soldi” o di farsi suggerire strategie di ottimizzazione delle risorse, ma di comprendere in che direzione andare. Questo coinvolgimento deve però avvenire a partire da un mandato e una riflessione degli enti pubblici e del terzo settore, che devono essere in grado di porre le questioni giuste; si tratta di rapportarsi in modo competente, trovando esperti adeguati e indirizzando i percorsi di ricerca: bisogna governare i processi intellettuali e scientifici. Accanto a ciò è necessaria un’intensa attività di studio e formazione che coinvolga la dirigenza pubblica e il mondo del Terzo settore, perché per andare verso lo scenario che ho provato a delineare servono consapevolezza e competenze che oggi purtroppo spesso ancora mancano.
[Semeraro] Il passaggio per rendere realizzabile in pieno l’amministrazione condivisa è innanzitutto di tipo culturale dentro il tema più generale della sussidiarietà orizzontale che vede coinvolti tutti i soggetti (pubbliche amministrazioni e Terzo settore) in un processo regolatorio e regolamentare. Si tratta da una parte di mettere in asse la coprogrammazione con i principi dell’autonomia regolamentare della pubblica amministrazione e d’altra di promuovere una nuova stagione di “effettività” (per riprendere il concetto già espresso nel DM 72/2022) dei processi programmatori della pubblica amministrazione con il coinvolgimento del Terzo Settore, sia nelle sue espressioni di rappresentanza, sia con i soggetti operativi. Ad oggi, sono ancora poche le esperienze regolamentari dei comuni, degli ambiti sociali territoriali che disciplinano i rapporti tra Enti del Terzo Settore e PPAA. Così come sono poche le Leggi regionali, che dentro il quadro della legge nazionale, dettano disposizioni in materia di amministrazione condivisa (Emilia-Romagna, Umbria, Molise, Lazio e Toscana). Una nuova stagione dell’effettività, dopo la fase della sperimentazione, ha la necessità di avere disposizioni chiare non solo a livello di Regolamenti locali, ma anche una disciplina regionale che riesca delineare una chiara ed esplicita volontà della politica di rendere effettiva la partecipazione del Terzo Settore come interlocutore politico generale.
[De Ambrogio] Vi sono diversi aspetti su cui investire per fare avanzare la riforma dell’amministrazione condivisa e in particolare consolidare l’Istituto della coprogrammazione. Primo, bisogna mettere maggiore attenzione e cura agli aspetti metodologici (analisi dei bisogni, valutazione dell’offerta, elaborazione di strategie) e relazionali della amministrazione condivisa avvicinando procedimenti amministrativi e percorsi metodologici partecipativi; secondo, è bene prestare attenzione affinché non si costruiscano coprogrammazioni «di plastica» ovvero che non sono frutto di un reale confronto, scambio e negoziazione, ma hanno esiti già previsti e “verniciati” di falso partecipazionismo; terzo, bisogna investire nelle valutazioni delle coprogrammazioni (e coprogettazioni) anche come veicolo di coinvolgimento di ulteriori stakeholder per es. i beneficiari degli interventi (co-valutare?); infine, è necessario coinvolgere in modo proattivo e chiaro il livello politico chiarendo ed esplicitando come è distribuito il potere decisionale. Gli strumenti da utilizzare per promuovere tali avanzamenti, oltre che gli atti di tipo normativo (campo nel quale oltre ai recenti provvedimenti, nazionali sono utili atti regionali e regolamenti locali) sono a mio parere la formazione e la co-valutazione. La formazione possibilmente proposta in modo congiunto a PA e ETS, come forma di sensibilizzazione, intervento culturale, promozione della presa di coscienza del fatto che la riforma è una opportunità “rivoluzionaria” e irrinunciabile; la co- valutazione, intesa come coinvolgimento di più soggetti non solo nella programmazione, ma anche nella valutazione delle politiche, superando una rigida suddivisione fra valutatore, valutato e committente e pensando alla valutazione come azione collettiva di apprendimento per riconoscere lo sviluppo delle politiche e, dopo aver considerato l’evoluzione dei bisogni, rilanciarle attraverso nuovi indirizzi migliorativi.
DOI 10.7425/IS.2023.03.02
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