Il documento raccoglie il confronto tra le Imprese sociali socie della rete UP Umanapersone sugli scenari e sulle strategie di impresa sollecitato dai profondi cambiamenti in atto. Riprende e sintetizza le riflessioni condivise nelle Assemblee svoltesi tra il 2021 e il 2023, nonché la discussione sviluppata tra novembre 22 e gennaio 23 insieme dai Consigli di Amministrazione e/o altri organi delle Imprese socie. Un ringraziamento particolare va ad Antonio Chelli (Presidente Fimiv - Legacoop), Flavio Delbono (Un. Bologna e Direttore Master in Economia della Cooperazione), Giorgio Fiorentini (Docente senior Cergas Bocconi Milano, esperto in imprese sociali), Elena Gori (Un. di Firenze - Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa – e Un. di Bolzano) e Gianfranco Marocchi (direttore di Impresa sociale e vicedirettore di Welforum.it) per le sollecitazioni offerte nel percorso che ha portato alla realizzazione di questa riflessione collettiva. Il documento è stato approvato nella sua forma definitiva nell’assemblea di UP Umanapersone del 16 giugno 2023.
Perché questo documento. Il tema di questo documento è semplice e diretto. Ad oggi manca una politica industriale dell’impresa sociale: manca cioè una consapevolezza diffusa di dove l’impresa sociale sia oggi, delle sfide che si trova e troverà ad affrontare e, soprattutto, di come affrontarle e di dove vorrà essere tra dieci anni.
Nella mancanza di una riflessione compiuta su questi temi, le imprese sociali vivono alla giornata: operano scelte sulla base delle contingenze, provano a reagire alle criticità che via via si presentano, senza però una visione chiara della direzione da intraprendere. E, senza tale orientamento, è difficile distinguere tra soluzioni momentanee che nel medio periodo non fanno altro che diffondere le criticità e strade innovative in grado di sostenere lo sviluppo imprenditoriale e sociale nel lungo periodo.
Anche le imprese sociali della rete Umanapersone hanno condiviso la sensazione di “navigare a vista” e da questa consapevolezza ha preso avvio un percorso di riflessione interna che ha portato alla redazione di questo documento. Ma queste imprese hanno ritenuto al tempo stesso utile condividere le proprie riflessioni con le altre imprese sociali e i loro stakeholder, nella convinzione che i temi trattati abbiano una valenza che va al di là dei percorsi evolutivi di specifiche reti.
L’auspicio è quindi quello di aprire un dibattito che coinvolga altre imprese sociali, le organizzazioni di rappresentanza del movimento cooperativo, le pubbliche amministrazioni partner, i soggetti del territorio con i quali le imprese sociali interagiscono nella loro azione imprenditoriale, i cittadini.
Come è strutturato il documento. In questo documento sono discussi diversi nodi problematici, evidenziando le sfide interne al mondo dell’impresa sociale e i nodi delle politiche che lo riguardano. Ciascuna delle sfide evidenziate porta con sé potenziali problematicità, ma anche opportunità per costruire un tassello della politica industriale dell’impresa sociale. Non vi sono risposte precostituite e definitive, ma un quadro analitico da sviluppare insieme ad altri, nella logica di un documento aperto pensato per stimolare il confronto. Nel capitolo conclusivo le tematiche evidenziate sono riprese e rilanciate proponendo alcune piste per la futura discussione. Nei prossimi mesi ci si impegnerà a favorire la circolazione di questo documento attraverso i media di settore e quindi ad organizzare occasioni di confronto sia nel territorio toscano, in cui Umanapersone è radicata, sia a livello nazionale, con il coinvolgimento dei principali stakeholder, nella speranza che questa riflessione sino ad ora interna possa essere di stimolo anche ad altri.
La cooperazione sociale attraversa una fase di profondo cambiamento sociale, istituzionale ed economico che mette in discussione i nostri assetti organizzativi, culturali ed economici.
È quindi necessario misurarsi, senza semplificazioni, con tali cambiamenti, individuare le dinamiche ad essi sottostanti e ipotizzare scenari futuri in modo da non subire passivamente conseguenze che possono mettere a rischio non solo la nostra tenuta economica, ma anche la storia che noi rappresentiamo, in molti casi oramai più che trentennale.
Questa fase richiede di operare delle scelte e di ridisegnare i nostri assetti economici ed organizzativi in modo tale da risultare capaci di fronteggiare tali cambiamenti.
Per comprendere i cambiamenti in atto dobbiamo partire dal contesto politico istituzionale. Nel corso di una manciata di mesi il quadro economico globale e gli assetti geopolitici hanno subito cambiamenti profondi, ma non per questo imprevedibili. Covid-19 prima e guerra russo-ucraina poi stanno determinando profonde difficoltà di intervento dei governi e delle istituzioni internazionali e, a cascata, dei governi nazionali, regionali e locali.
Nel nostro Paese, il conseguente impatto economico generale (p.e. inflazione, aumenti del costo delle materie prime, ecc.), le modifiche relative alla struttura della spesa pubblica (p.e. aumento della spesa militare), nonché la frammentarietà e incongruenza delle politiche settoriali, rischiano di destabilizzare il già precario e contraddittorio sistema di welfare nazionale e locale.
In tale contesto, la prima sfida è con noi stessi, dobbiamo cambiare punto di vista.
Dobbiamo essere consapevoli che prima ancora di essere operatori sociali, siamo imprese cooperative, imprese che creano valore e valori grazie ad una governance specifica, fondata su un meccanismo decisionale di tipo democratico che mette i soci al centro e grazie alla capacità-volontà di fare rete.
La socialità che ci contraddistingue si caratterizza per la mutualità (interna ed esterna), per l’impegno all’esigibilità e personalizzazione dei diritti delle persone, per l’essere protagonisti di innovazioni sociali, per il valore della legalità, per il rispetto dei lavoratori e delle loro competenze professionali - in primis attraverso il rispetto dei contratti di lavoro – per la responsabilità nei confronti dei territori in cui operiamo e delle comunità da essi abitate, per la ricerca della sostenibilità ambientale, per la partecipazione effettiva dei soci.
I percorsi imprenditoriali hanno portato in alcuni casi ad una significativa crescita dimensionale; in questa evoluzione, che coinvolge anche alcune imprese della nostra rete, avvertiamo il rischio di trascurare l’importanza del fattore partecipazione a favore di soluzioni verticistiche ritenute più agili e rispondenti alla gestione operativa.
Ma anche a prescindere dalle dinamiche di crescita, per molte ragioni, a partire dal contesto generale in cui si è evoluta la società e si sono sviluppate le politiche di welfare nazionale e regionale, è indubbio che nell’ultimo decennio la partecipazione e il coinvolgimento dei soci lavoratori in cooperativa si siano mostrati più stanchi e meno efficaci rispetto al passato.
Nei nostri contesti c’è un’evidente percezione che non sia il valore sociale, unito alla qualità del lavoro svolto e degli investimenti fatti nel tempo, a determinare la collaborazione con il pubblico, bensì l’esclusiva componente economica strettamente legata al miraggio di ottimizzazione risorse pubbliche calanti. Ciò che guida i soggetti pubblici sembra non essere una valutazione dell’impatto sociale della nostra azione, ma la ricerca di soluzioni conservative ed economicamente vantaggiose. Tutto ciò porta inevitabilmente all’impoverimento delle prestazioni richieste, alla perdita di legami con il territorio e alla diminuzione della qualità del lavoro, in particolare per soggetti in condizione di difficoltà occupazionale. A fronte di questa situazione diventa quanto mai necessario ridefinire la nostra identità di imprese sociali cooperative e non semplici unità di erogazione di prestazioni di welfare.
D’altra parte, quello pubblico resta per noi il quasi-mercato privilegiato e questa situazione, già di per sé difficile, si riverbera anche nella difficoltà di fare investimenti – progettuali oltre che finanziari - rivolti ad una riconfigurazione dell’offerta, anche di servizi a domanda privata. È imprescindibile quindi cercare di comprendere in modo realistico la visione che sottostà alla implementazione delle politiche regionale e locali, in particolare quelle legate ai servizi e modelli di welfare.
La PPAA è sottoposta da anni ad un processo riformatore tutt’altro facile da comprendere, in ogni caso da noi poco o per nulla tematizzato quale elemento cardine per la vita delle imprese sociali. Non possiamo nasconderci che si tratta di una nostra grave miopia. Dopo una lunga stagione di esternalizzazioni, arrivata in alcuni settori anche al 70-80% di attività gestite attraverso appalti, i tagli finanziari e di personale a cui è stata sottoposta la PPAA, ovvero il gap tra risorse calanti e funzioni ed esigenze della popolazione crescenti, in molti casi ha fatto sì che fossero proprio le imprese sociali uno, non certo l’unico, degli strumenti a cui imputare la soluzione a tale impossibilità a cambiare. Un vero e proprio ammortizzatore economico del sistema pubblico.
Emblematico l’andamento degli appalti per i servizi alla persona che, se non si può dire che siano sempre e comunque “al ribasso”, si può certamente affermare che quantomeno siano sempre più “significativamente al risparmio…. “. Così come la sostituzione delle imprese sociali con altri ETS, di per sé non imprenditoriali e comunque con minori oneri economici, per l’affidamento della gestione dei servizi. Per non dire poi delle politiche per il personale a seguito dell’emergenza da Covid-19, per cui oggi, a fronte dell’incremento emergenziale di assunzioni nel sanitario pubblico, i servizi alla persona da noi gestiti si trovano nell’impossibilità di garantire gli standard stabiliti dagli accreditamenti, ovvero dalla stessa PPAA, con conseguenti inefficienze e incertezze nel dare risposte continuative e di qualità ai cittadini.
Il rilancio, grazie agli interventi della Corte costituzionale, degli istituti riconducibili alla cd “amministrazione condivisa” è da considerare una importante opportunità di ridefinizione delle relazioni tra PPAA e imprese sociali. La sua implementazione, lo ribadiamo, deve però confrontarsi con non pochi nodi: l’individuazione del campo di applicazione, in particolare rispetto a quanto oggi viene già programmato e appaltato in via ordinaria; la cultura amministrativa interna alla PPAA così come degli ETS; il rapporto con il Codice degli Appalti riformato; il completamento dei decreti previsti dal Codice del Terzo settore; solo per citarne alcuni. La soluzione di ognuno di essi può favorire o ostacolare l’effettiva condivisione.
A fronte della debolezza del settore pubblico (poca innovazione, poco ricambio generazionale, poca disponibilità all’ascolto e, spesso, approccio ai limiti dell’autoreferenzialità, ecc.) si corre il rischio di non trovare un interlocutore pronto a partecipare, e tantomeno a guidare, i necessari processi di cambiamento nel sociale. Quanto sta accadendo nella cosiddetta “messa a terra” del PNRR è di per sé emblematico. Lo scarso riconoscimento – quando va bene strumentale - dell’imprenditoria sociale da parte dello stesso Piano, sia in fase di determinazione delle scelte nazionali e comunitarie che di loro attuazione, rappresenta un segnale evidente della insufficiente considerazione di cui gode il nostro mondo e, quando il periodo di finanziamento straordinario finirà e si porrà il problema del mantenimento dei servizi introdotti-potenziati attualmente senza copertura certa, un’ipoteca per il futuro. Sempre, ovviamente, che gli scenari accennati sopra non impongano un eventuale ulteriore ripensamento delle priorità e revisione dei budget stanziati.
Crediamo che le opportunità collegate al PNRR, nell’interesse delle popolazioni che serviamo, impongano un dialogo maturo e competente con la Regione e le istituzioni pubbliche locali affinché si arrivi ad un Patto per lo sviluppo sociale e della sua imprenditoria sociale della Toscana, a cui ci candidiamo quali protagonisti al pari di altri. In questo Patto è necessario che siano chiari: la visione di cosa essa dovrà essere nei prossimi 10-15 anni; le realizzazioni-azioni prioritarie a partire sia dai bisogni che dalla domanda di welfare presente a livello regionale; i compiti che ogni attore, impresa sociale o pubblico, si impegna a realizzare; la regolazione delle modalità di realizzazione (concorsuali, condivise, partecipative, di governance, ecc.); le modalità di verifica dell’attuazione e dell’impatto; ecc. Crediamo altresì che tale Patto possa prendere spunto dalla ricerca di nuovi mercati di welfare, quali quelli, ad esempio, del turismo accessibile ed esperienziale.
È quanto mai evidente la trasformazione della composizione degli attori operanti nei mercati tradizionali dell’imprenditoria sociale (socioassistenziale, sociosanitario, socioeducativo, dell’inserimento lavorativo). Attori profit e grandi player non profit, grazie a competenze manageriali, finanza di investimento e alla possibilità di sviluppare importanti economie di scala, rappresentano competitors la cui capacità di iniziativa pregiudica la nostra presenza. Ciò mette in crisi cooperative di ogni dimensione, in particolare, quelle più piccole, che risentono pesantemente la progressiva perdita di servizi storicamente gestiti.
L’esperienza di chi tra noi sviluppa anche attività di inserimento lavorativo - quali la manutenzione del verde, la ristorazione o le pulizie industriali, ecc. -, dimostra che tale concorrenza costituisce un fenomeno già ampiamente diffuso i quei settori.
Il combinato disposto di queste dinamiche non solo rischia di relegarci in segmenti di mercato sempre più secondari ma, potenzialmente, di venire espulsi dagli stessi o, e come imprese è la stessa cosa, assorbiti in varie forme dai nuovi player operanti nei contesti regionale e locali.
Un tema molto delicato è quello della territorialità. Il radicamento territoriale è un nostro tratto distintivo, purtroppo anche da noi stessi a volte ridotto al solo perimetro amministrativo del quasi-mercato (pubblico) che col tempo ci siamo abituati a considerare come “protetto”.
Al contrario, va sostenuta una concezione di territorialità generatrice di servizi innovativi fondata sulla conoscenza dei bisogni e del contesto. Nei bandi di gara, all’opposto, si è arrivati al fatto che il radicamento territoriale viene considerato un’illegittima rendita di posizione, in contrasto con i principi di libera concorrenza. Anche se l’articolo 55 del Codice del Terzo settore costituisce un elemento decisivo di innovazione, non si può escludere che la committenza pubblica ripari in un atteggiamento difensivo già dimostrato con l’entrata in vigore del Codice e durato fino alla sentenza della Corte Costituzionale 131/2020.
L’arrivo di competitor, per gareggiare nei bandi pubblici o per fare investimenti privati, dimostra che la territorialità, intesa come radicamento operativo in un contesto che manifesta tratti specifici, è sempre meno considerata un dato acquisito. Non solo perché i nostri stakeholders tradizionali, in primis le istituzioni pubbliche locali, con sempre minore convinzione riconoscono questo nostro tratto distintivo. Da diversi anni, infatti, cooperative di rilevanza nazionale considerano il mercato toscano un riferimento. Senza generalizzare, ci troviamo di fronte ad attori “mordi e fuggi”, senza riferimenti stabili sul territorio, senza uffici adeguati a cui il personale possa fare riferimento per l’organizzazione del proprio lavoro. Ciò comporta una “smaterializzazione” crescente delle cooperative; rafforza l’idea dell’impresa cooperativa sempre meno autentica e “differente” in termini valoriali; affievolisce il rapporto tra lavoratore e impresa. E, di conseguenza, rende sempre meno credibile la cooperazione. Questo si riverbera anche nelle relazioni sindacali, con una interlocuzione che non riconosce, o fatica a farlo, il ruolo della cooperazione e che esprime aspettative, sostanzialmente ideologiche, di “ripubblicizzazione” dei servizi sociosanitari e socioeducativi. La cooperazione sociale che intende affermare una propria autenticità rischia di rimanerne stritolata.
D’altra parte, stanno crescendo movimenti e linee di pensiero che chiedono maggiore radicamento produttivo sul territorio; più democrazia economica; una nuova organizzazione della società e delle strutture economiche basata sui principi della mutualità, della cooperazione, dell’orizzontalità; un nuovo modello in grado di sostituirsi a quello liberista e in grado di rimettere al centro la persona, all’insegna del perseguimento del bene comune. L’esperienza, anche se non di tutte, delle banche di credito cooperativo può essere un esempio: il mantenimento di un solido rapporto coi territori ha prodotto significativi risultati economici durante le turbolenze dei mercati finanziari (ovvero meno danni rispetto ai grandi istituti) e valore sociale per gli stakeholder che li vi operano.
È necessario quindi pensare ad una nuova idea di territorialità, rinnovare e/o potenziare le alleanze sociali ed economiche costituite negli anni, finalizzandole ad una ricerca comune. E, di conseguenza, dare una nuova fisionomia al rapporto con gli enti pubblici e con i mondi del privato profit e non profit.
Soprattutto, va definito quale è il vero significato di territorio oggi. Le riflessioni sono aperte. Dobbiamo, in ogni caso, essere consapevoli che la portata del volume degli affari e, di conseguenza la “grandezza” della cooperativa, sarà vincolante la possibilità di presenza o meno nei mercati futuri. Dobbiamo pensare alla dimensione economica glocal, alla riconfigurazione del senso dell’abitare in atto oramai da alcuni anni, alle nuove forme di lavoro sempre più deterritorializzate, all’impatto delle tecnologie nei servizi alla persona con la possibilità che alcune funzioni un tempo proprie della prossimità siano garantite da attori altrove collocati, ecc.
Se da una parte riteniamo imprescindibile riferirci ad un modello di impresa cooperativa ancorata alla dimensione locale, che sia parte integrante della comunità in cui opera, che sappia interpretarne i bisogni e possa effettivamente contribuire alla crescita e all’integrazione del territorio per quello che esso rappresenta, assumendo nei confronti della comunità locale la responsabilità delle nostre scelte aziendali, dall’altra, lo ripetiamo, dobbiamo capire come questo possa declinarsi nelle dinamiche trasformative in atto.
Oggi viene riscontrato come un rilevante problema di frammentazione e sottodimensionamento; un tempo la piccola dimensione era considerata condizione per affermare il tratto distintivo del nostro radicamento territoriale. Cambiando le dinamiche territoriali non possono non cambiare anche le forme degli attori che li abitano, e noi tra questi. Ciò significa dover affrontare il tema della scalabilità delle imprese sociali, non tanto come un adattamento per sopravvivere ad una competitività sempre più aggressiva, quanto come orientamento organizzativo coerente con quel radicamento territoriale da rivisitare, sopra richiamato. In altri termini, l’adesione a/ la costruzione di gruppi imprenditoriali di dimensioni medie o grandi, se coerente con quanto appena detto, rappresenta un elemento qualificante il nuovo e necessario modo di stare nei nostri territori “ripensati”.
Crediamo fortemente che la dimensione aziendale sia una precondizione necessaria per determinare “dinamiche di cambiamento nelle relazioni interne ed esterne delle imprese”. Questo, d’altra parte, comporta l’assunzione di orientamenti organizzativi chiari quali l’individuazione e selezione di un management adeguato e di competenze professionali specialistiche, alcune delle quali oggi quasi completamente assenti, come possono essere quelle legate al marketing. Il non affrontare questi nodi significa subire una alternativa che, di per sé, è indicatore del fallimento della distintività delle imprese sociali: quella tra “stipendio e valori”. Meglio, quella tra una condizione di stipendi contenuti a fronte di una marcata dimensione valoriale, e quella dove rimangono solo gli stipendi contenuti, se non inadeguati, e null’altro. Arrivando, inevitabilmente, a non avere più margini di scelta e di rigenerazione della nostra specifica vocazione imprenditoriale.
Realizzare una strategia efficace necessita di guardare agli investimenti/investitori come asset e partner ordinari delle imprese sociali. Per raggiungere questo obiettivo vi sono ulteriori precondizioni da garantire.
Su cosa investire. La mancanza di dati e di competenze tecniche rende poco pregnanti le analisi dei bisogni e quindi la capacità di indirizzare le scelte di investimento, per cui, molto spesso l’individuazione di nuovi prodotti o servizi su cui investire è frutto di “intuizioni” o occasionalità. Le scelte sono così dimensionate a livello tattico, e quindi carenti di visione strategica. E in ogni caso, anche quando fosse realizzata una lettura adeguata del bisogno, le attività che storicamente rispondono alle nostre mission presentano margini di redditività progressivamente in calo, o addirittura negativi. Il rapporto con le PPAA, indissolubilmente legato alle nostre origini e al nostro sviluppo, ovvero al quasi-mercato pubblico locale che tuttora rappresenta per noi almeno il 90-95% del nostro bilancio, sembra entrato in una fase dai tratti problematici.
Altri soggetti investono. Al contempo, almeno per alcuni settori quale quello relativo al sociosanitario residenziale (es. RSA), sembra iniziata una nuova fase. Dopo avere “raschiato il fondo” delle esternalizzazioni, sono evidenti i segnali di ritiro e di conseguente cessione ai soggetti privati for profit di segmenti di mercato/coperture della domanda altrimenti non soddisfacibili dalla PPAA. La disponibilità che questi attori hanno di intercettare investitori e investimenti, ovvero di poter sostenere esposizioni finanziarie nel tempo, per noi attualmente impossibile, li rende attrattivi per una PPAA in cerca di risolutori di problemi più che di partner per lo sviluppo di una nuova stagione del welfare.
Cosa dobbiamo fare noi. Provocatoriamente, e con una certa dose di semplificazione, se non vogliamo continuare ad essere funzionali ad una fornitura di mano d’opera a basso costo, fino ad oggi per la PPAA e domani per questi nuovi player privati, dobbiamo anche noi diventare capaci di sviluppare competenze e strategie. Servono banche dati che raccolgano gli studi sui territori di riferimento, anche attraverso accordi con enti di ricerca per indagini mirate su target e/o ambiti specifici. Serve altresì una formazione adeguata sulla redazione di business plan, campagne di fundraising e di crowdfunding, ecc. Dobbiamo, in ogni caso, essere in grado di comprendere le dinamiche degli investitori e degli investimenti, individuare e selezionare gli attori a noi più affini, strutturare competenze interne che permettano alle nostre imprese di dialogare efficacemente con essi, gestire in modo adeguato le risorse investite sapendo che anche nel mondo della finanza, salvo esiti nefasti a livello globale e geopolitico, sta crescendo la consapevolezza che la sostenibilità non è un elemento aggiuntivo bensì un fattore orientativo e quindi strategico.
Per le imprese sociali l’assumere la prospettiva della sostenibilità comporta un salto di qualità imprenditoriale. Abbiamo scelto l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile come matrice di una valutazione del nostro operato e, quindi, come strumento di orientamento per la definizione di strategie di sviluppo di impresa altrettanto sostenibili. Riteniamo che la sostenibilità non possa essere ridotta ad una funzione di marketing presso stakeholder sensibili, una leva di valore tarata sulla base dei loro desiderata, finanza in primis. Il vero valore aggiunto è soprattutto in termini di approccio e di metodo. Essa comporta il ripensare le proprie attività considerando la molteplicità degli stakeholder interessati e inserendole in obiettivi strategici che si intende raggiungere.
Questo approccio, che ha stentato negli anni ad attivarsi spontaneamente in quanto inibito dalla relazione di dipendenza con il committente pubblico, costituisce un valore per il recupero della logica di impresa, elemento centrale in questa riflessione. Il vantaggio derivante dalla capacità di auto- posizionamento sta nella abilità di differenziarsi nei confronti dei competitor, che si riflette in ultima istanza nella relazione con l’acquirente, sia esso istituzionale o privato.
Uno degli impatti della pandemia da Covid-19 è l’accelerazione del processo di digitalizzazione. Si tratta di una lezione che gli erogatori di servizi socioassistenziali stanno imparando senza adeguata preparazione di base.
Non solo. Essa impone problemi non preventivati, primo fra tutti quello della creazione di nuove disuguaglianze. La pandemia insegna che esiste un “minimo vitale tecnologico” che può marcare il confine tra inclusione ed esclusione sociale. Ed i problemi strutturali legati alla connettività, così come la non disponibilità di strumentazione adatta, possono rappresentare la linea di confine tra mantenere o meno un livello professionale, o assistenziale, o comunque relazionale dignitoso.
La strada verso la digitalizzazione non richiede solo una strumentazione adeguata, ma anche e soprattutto la capacità di ripensare i servizi ed il conseguente rapporto tra operatori e utenti, nonché tra imprese sociali e territorio.
Ciò che distingue l’innovazione sociale dalla mera innovazione tecnologica non è solamente il fine sociale (cioè la capacità di intercettare bisogni sociali insoddisfatti), ma anche la modalità di risposta a tali bisogni (cioè attraverso la creazione di nuove relazioni e collaborazioni).
La digitalizzazione dei servizi richiede altresì che gli attori acquisiscano un livello base di competenze digitali. Per farlo deve crescere la fiducia nei confronti degli strumenti che vengono proposti. Per questo è indispensabile che le nostre imprese tematizzino i temi dell’usabilità e dell’accettabilità da parte degli operatori nel doppio ruolo di utilizzatori e mediatori.
L’esperienza maturata permette di comprendere l’importanza di promuovere servizi di digitalizzazione “gentile” attraverso le metodologie proprie dello sviluppo di comunità, azioni che favoriscano l’accesso ai servizi online e, soprattutto, sviluppare competenze (attraverso la formazione professionale) riguardanti i profili di facilitatore digitale variamente caratterizzati a seconda dei campi di intervento.
Il percorso di transizione digitale richiede inoltre un grande sforzo per le organizzazioni e i gruppi dirigenti. Affinché l’esperienza che si matura non resti marginale, occorre una politica strategica di crescita digitale dell’intero sistema aziendale.
Il passaggio alla digitalizzazione deve coinvolgere tutti gli asset strategici delle nostre imprese, prima attraverso un processo di sviluppo delle competenze e conoscenze manageriali e delle figure trasversali, poi degli operatori dei servizi. Senza tralasciare la necessità di instaurare flussi comunicativi stabili ed efficaci tra livello operativo ed il management aziendale, per far sì che quest’ultimo possa comprendere e cogliere gli aspetti che possono tradursi in leva strategica di cambiamento.
Su questa solida struttura di formazione, oltre alle innovazioni di servizio, devono innestarsi nuovi modelli aziendali, primi fra tutti quelli relativi ai processi gestionali, e poi anche quelli di vendita e intercettazione di nuovi mercati.
Due sfide, una propedeutica all’altra. Da un lato, quella di patrimonializzare e mettere a valore l’esperienza già fatta sul campo, non solo per far crescere internamente competenze e cultura digitali, ma anche per affinare progressivamente l’abilità di relazionarsi con il mondo dei fornitori di tecnologie.
Consequenzialmente, quella di riuscire ad invertire la logica dei rapporti tra fornitori di servizi alla persona e fornitori di soluzioni tecnologiche, passando dal binomio committente-fornitore a quello di partner di progetto. Tutto ciò presuppone:
Un ultimo fondamentale tema è quello della perdita di attrattività delle nostre organizzazioni da parte delle nuove generazioni. Negli anni la regolamentazione dei servizi sociali e sanitari ha via via richiesto un innalzamento delle qualifiche professionali e a questo non è corrisposto un proporzionale innalzamento/adeguamento dei livelli retributivi, ponendo quindi la cooperazione sociale nello stesso mercato del lavoro di enti pubblici e soggetti profit, ma con minor appeal dal punto di vista delle remunerazioni.
In questi ultimi tempi abbiamo dovuto far fronte ad una crisi che ha limitato, e talvolta azzerato completamente, il già risicato utile. Non avere margine impedisce di costruire percorsi di carriera, riconoscere premialità, ipotizzare dei piani di sviluppo a medio e lungo termine, compresi quelli formativi.
L’iniqua differenza di remunerazione a parità di mansioni svolte - tema a volte usato per sostenere ideologicamente un ritorno “al tutto pubblico” – fatica a trovare spazio nell’agenda politica. Tutto ciò richiede un impegno delle nostre associazioni di rappresentanza a pretendere dalla committenza pubblica almeno il riconoscimento nei contratti di lavoro per i livelli professionali richiesti alle prestazioni contrattualizzate. Ciò vale ancor di più nella prospettiva del rinnovo del CCNL.
Parallelamente alla giusta rivendicazione di condizioni salariali eque, è necessario capire se e come sia possibile colmare diversamente questo gap, ridiventando attrattivi sul fronte dei progetti, delle idee e degli aspetti di innovazione, delle funzioni manageriali, ecc.
Dobbiamo ripensare la nostra offerta di vita professionale in modo tale da intercettare la domanda di senso, ovvero di significatività del lavoro svolto nel quadro di una più complessiva qualità della vita vissuta, che proviene dalle giovani generazioni.
Dobbiamo riaprire un dialogo – e non solo un rapporto contrattuale – con le giovani generazioni: ripensando i processi di comunicazione dentro gli spazi tradizionali; garantendo reali forme di accesso ai ruoli decisionali; riconoscendo anche spazi/forme non tradizionali di partecipazione. Serve una strategia di sviluppo su/con/per i giovani imprenditori sociali. Ciò, nel concreto, significa affrontare le dimensioni di come si organizza il lavoro, si prendono le decisioni, si partecipa finanziariamente e, ovviamente, di come si retribuisce e richiede di stabilire rapporti più strutturati con il mondo della formazione delle professioni, università comprese.
Il complesso delle visioni, strategie e azioni sino a qui richiamate vogliono sottolineare l’urgenza indicata in premessa, quella della costruzione di una nuova politica industriale per lo sviluppo dell’impresa sociale.
Questo materiale è un punto di partenza per una discussione orientata alla definizione di una vera e propria “politica di industrializzazione” delle imprese sociali. Con questo termine intendiamo un insieme di scelte nostre e di interventi delle istituzioni pubbliche e degli organismi di rappresentanza riguardanti il capitale “plurale/poliedrico” che ci contraddistingue (umano, connettivo, territoriale-sociale, economico-finanziario, tecnologico).
Questo processo non potrà che portare ad un aggiornamento-trasformazione strutturale di ruoli, di funzioni, di regolazioni con il sistema pubblico come con quello privato, di infrastrutture di sistema e investimenti, ecc.
Sappiamo che ciò è tutt’altro che facile e siamo consapevoli di come i tentativi delle centrali cooperative di ampliare e farci riconoscere come attori dello sviluppo e non semplici soggetti complementari della PPAA costituisca un impegno arduo. Siamo convinti però che solo in questo modo, nella rivendicazione della cittadinanza di impresa che oggi di fatto non abbiamo, è possibile realizzare politiche di industrializzazione dell’impresa sociale adeguate.
La definizione di una nuova politica industriale dell’impresa sociale porta con sé alcune implicazioni.
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